BUONARROTI, Michelangelo
Nacque il 6 marzo 1475 a Caprese (od. Caprese Michelangelo) da Ludovico di Leonardo Buonarroti Simoni e da Francesca di Neri di Miniato del Sera.
Il padre era di modeste condizioni, ma di carattere fiero; della madre, morta precocemente nel 1481, non si hanno altre notizie. Il principale biografo di Michelangelo, il Condivi, faceva risalire le origini della famiglia ai conti di Canossa: discendenza fittizia, questa, che del resto dovette suscitare scetticismo già ai tempi del B., se il Vasari ne parla con un prudenziale "si dice", mentre le altre fonti addirittura ne tacciono.
Dopo un breve apprendistato presso Francesco di Urbino, il B. entrò, nonostante l'opposizione del padre, nella bottega del pittore allora più in vista a Firenze, Domenico Ghirlandaio, dove venne introdotto alla pratica della pittura murale e di quella a olio (Vasari, a cura di P. Barocchi, I, p. 6; II, pp. 68-70). Dopo un anno, assieme all'amico e condiscepolo F. Granacci, passò alla scuola del giardino di S. Marco, fondata da Lorenzo de' Medici e guidata dal vecchio Bertoldo di Giovanni. Questa sorta di accademia fu assai stimolante per il B., poiché vi erano raccolti in gran numero antichità, modelli e gessi, e nello stesso tempo gli offrì un ambiente di giovani che condividevano le sue aspirazioni. È perciò assai probabile che proprio nel giardino mediceo il B. abbia compiuto la sua formazione di scultore. Grave di conseguenze fu l'incidente occorsogli nella scuola stessa, quando, durante una lite, P. Torrigiani gli ruppe l'osso del naso procurandogli una deformazione per la quale Michelangelo ebbe a patire tutta la sua vita (Vasari, I, p. 12; II, pp. 114 s.).
Sempre al tempo in cui frequentava il "giardino", il B. venne attratto nella prestigiosa cerchia di Lorenzo il Magnifico, nella quale ebbe modo di conoscere il mondo degli umanisti fiorentini e in particolare il Poliziano, che gli rese familiari i temi figurativi dell'antichità. I rapporti con i Medici si mantennero anche dopo la morte di Lorenzo (1492): non solo, infatti, il figlio di questo, Piero, proteggeva il giovane B., ma questi, nel 1496, poté anche avvalersi a Roma delle raccomandazioni di Lorenzo di Piero (lettera del B. da Roma del 2 luglio 1496, in Carteggio, I, pp. 1 s.).
Della produzione del B. in questo periodo giovanile restano tre opere conservate nella casa Buonarroti a Firenze: il piccolo rilievo a "stiacciato" della Madonna della scala; il rilievo della Lotta dei centauri con i Lapiti, geniale sia per tecnica sia per movimento ed espressione; il nobile Crocefisso in legno di S. Spirito, nel cui ospedale fu consentito al B. di intraprendere i suoi primi studi di anatomia (Condivi, p. 30; Vasari, I, p. 13; II, pp. 118-120; M. Lisner, Il Crocifisso di S. Spirito, in Atti..., 1966, pp. 295-316). Nello stesso periodo (1493) suscitò profonda impressione su di lui la predicazione del Savonarola; impressione così duratura che sarà ancora percepibile, nel pensiero e nelle forme, negli anni maturi (M. Cali, La Madonna della Scala di Michelangelo, il Savonarola e la crisi dell'Umanesimo, in Boll. d'arte, LII [1967], pp. 152-166).
Nell'autunno del 1494, poco prima della cacciata dei Medici, il B. fuggì da Firenze recandosi prima a Venezia, per trascorrere infine un intero anno a Bologna, dove trovò ospitalità in casa di G. F. Aldrovandi, uomo di grande cultura (Barocchi, in Vasari, II, pp. 135 s.). Questo soggiorno ebbe un duplice risultato: il B. creò per l'Arca di s. Domenico le statuette, ancora mancanti, di S. Petronio e di un Angelo portacandelabro (per il S. Procolo, vedi Barocchi, in Vasari, II, pp. 137-139); inoltre rimase così profondamente colpito dalle grandiose figurazioni scolpite sulla facciata di S. Petronio da Iacopo della Quercia - gotico, ma a lui idealmente affine - da richiamarsi ad esse ancora nella Sistina. Forte di questa preparazione, nel 1495 fece ritorno a Firenze, dove eseguì, per incarico di Pierfrancesco de' Medici, una statuetta di S. Giovannino che è da considerare perduta. Non è, infatti, possibile identificare con l'originale né la scultura del Museo di Berlino-Dahlem, né quella della Pierpont Morgan Library di New York (per altri tentativi di attribuzione, vedi Barocchi, in Vasari, II, pp. 142 ss.). A Firenze peraltro trascorse solo un anno, poiché dal giugno 1495 trasferì il campo della sua attività a Roma, dove si trattenne fino al 1500.
Seppure in quel momento la "città eterna" non era ancora il centro e il punto cruciale di quella fase culturale che si suole definire come Rinascimento maturo, per il B. ventenne il mutamento di ambiente ebbe importanza determinante sotto più di un profilo. Si presentarono nuovi aspetti, nuovi rapporti si intrecciarono; davanti agli occhi aveva il mondo dell'antichità con i suoi monumenti, nuovi autorevoli mecenati presero a proteggerlo e gli impegni che gli si prospettavano erano per lui incitamento a rivelarsi nel campo della scultura.
All'inizio il B. trovò ospitale accoglienza presso il cardinale Raffaello Riario, che aveva raccolto nel suo nuovo palazzo (della Cancelleria) una collezione eccellente di statue antiche; non sappiamo con certezza se dal Riario egli abbia avuto un particolare incarico. Al cardinale il B. era certamente già noto per un Cupido dormiente che gli era stato venduto, come scultura antica, da un mercante.
Questa statua era stata scolpita a Firenze, come informano sia Condivi (pp. 33 s.) sia Vasari (I, pp. 13, 115). Non sono apparsi convincenti i tentativi di identificarla con il Cupido del Museo di Torino (K. Lange, Der Cupido des Michelangelo in Turin, in Zeitschrift für bildende Kunst, XVIII [1883], pp. 233 ss., 274 ss.). Su una versione venuta recentemente in luce in una collezione privata di Bologna riferisce esaurientemente A. Parronchi, Il Cupido dormiente di Michelangelo, Firenze 1971.
Rapporti positivi si stabilirono fra il B. e un altro romano assai illustre, Iacopo Galli, ricco e appassionato mercante d'arte che nel giardino del suo palazzo, nei pressi della Cancelleria, custodiva un considerevole numero di opere d'arte antica: fu proprio lui il committente del Bacco (Firenze, Museo nazionale) eseguito dal B. nel 1497 (Condivi, pp. 34 s.; Vasari, I, p. 16; II, pp. 161 s.). Il B., senza seguire l'antica tipologia che dava del dio una rappresentazione gioiosa, volle piuttosto, nella posizione, renderne lo stato di ebbrezza; quest'opera ha comunque importanza in quanto è la prima statua a tutto tondo completamente condotta a termine, che esige quindi di esser guardata da ogni parte. Un'altra scultura celebre, la Pietà di S. Pietro, fu commissionata al giovane artista dal cardinale francese Jean Bilheres de Lagraulas (ora nella prima cappella della navata laterale destra, ma in origine collocata nella chiesa di S. Petronilla adiacente all'antica basilica). In quest'occasione il B., con lettera commendatizia del 18 nov. 1497 indirizzata dal cardinale agli Anziani di Lucca, si recò alle cave di marmo di Carrara; vi si trattenne sino ai primi di marzo 1498 (v. G. Poggi, in M. B., IV centenario del Giudizio Univ., Firenze 1942, p. 120); e di nuovo, poco dopo, si trovava alle cave, come risulta da una lettera del cardinale al marchese A. Malaspina (perduta; ma v. Barocchi, in Vasari, II, p. 171 n. 145; K. Frey, Michelagniolo B. ..., 1907, p. 140). Concluso il contratto il 27 agosto del 1498, si pose immediatamente al lavoro: questo fu condotto a termine nella seconda metà del 1499, poco tempo dopo la morte del cardinale (Condivi, pp. 35 s.; Vasari, I, p. 17; II, pp. 170-190).
Nella stupenda composizione sono certamente da riconoscere suggestioni leonardesche, sia per l'espressione pacata e gli atteggiamenti composti, sia per la bellezza della testa del Cristo: essa suscitò immediatamente grandissima ammirazione, e il B. dovette avere piena coscienza, in quest'occasione, della propria grandezza, dal momento che, per la prima e ultima volta, appose all'opera la sua firma, sul nastro che attraversa il busto della Madonna: "Michael Agelus Bonarotus Florent. Faciebat".
L'eco di questo successo raggiunse ben presto la sua città, come dimostra l'imponente serie di commissioni che egli ricevette al suo ritorno a Firenze nella primavera del 1501; a venticinque anni era ormai consacrato come il primo scultore del suo tempo. Non si trattava più, ora, di committenti privati, ma di istituzioni religiose e laiche, come le corporazioni, che facevano di tutto per averlo al loro servizio. Venne infatti, tra l'altro, incaricato di condurre a termine l'altare Piccolomini nel duomo di Siena (ma non tutte le statuette sono autografe: v. E. Carli, Michelangelo a Siena, Roma 1964, Mancusi-Ungaro, 1971). Il 16 ag. 1501 l'Opera del duomo lo incaricò di eseguire una colossale statua di David: lavoro questo estremamente complesso perché il B., dovendo creare la statua da un blocco di marmo già affrontato, e poi abbandonato, da Agostino di Duccio nel 1464, era in ogni senso vincolato a dimensioni obbligate.
Quando l'opera venne consegnata nel 1504, restava solo il problema della collocazione del "gigante" (alto tre metri e mezzo). Fu nominata una apposita commissione, della quale fece parte, tra gi artisti fiorentini, anche Leonardo da Vinci (G. Gaye, Carteggio ined. d'artisti, II, Firenze 1840, p. 355, e, in particolare, C. Neumann, Die Wahl des Platzes für Michelangelos David in Florenz im Jahr 1504, in Repertorium für Kunstwissenschaft, XXXVIII [1916], pp. 1-27). La commissione e il Gran consiglio deliberarono di collocare la statua dinanzi a Palazzo Vecchio, e già in questa decisione era evidente il significato di simbolo politico annesso al giovane eroe del Vecchio Testamento (Vasari, I, p. 20: "sì come egli aveva difeso il suo popolo e governatolo con giustizia, così chi governava quella città dovesse animosamente difenderla e giustamente governarla"). E in effetti la statua, così come si presentava, si adattava perfettamente a questa interpretazione: il suo aspetto reso imponente dall'assoluta nudità e dalle dimensioni colossali, la vigile compostezza della posa e della testa non lasciavano dubbi sul suo significato di personificazione della Fortitudo che doveva ricordare gli ideali di libertà della Repubblica. Rispetto alle interpretazioni dello stesso tema, date da un Donatello o da un Verrocchio, questa del B. rappresenta una totale novità di concezione nei confronti del Quattrocento: con la monumentale figura, caratterizzata da un vigoroso tratto romano e animata da un accentuato spirito dell'antico, si opponeva un definitivo rifiuto al primo Rinascimento fiorentino. Non v'è dubbio che il ricordo dei Dioscuri di Monte Cavallo a Roma è stato determinante per il B.; già in Vasari, del resto, lo si avverte, quando paragona il "gigante" con varie sculture romane, tra le quali appunto "i giganti di Montecavallo" (I, p. 22).
Oltre al grande David in marmo, il B. aveva fatto anche una figura più piccola, in bronzo, dell'eroe biblico; era stata richiesta dal maresciallo francese Pierre de Rohan alla Signoria che lo aveva proposto come esecutore. L'opera, scomparsa, fu collocata nel castello di Bury e, dopo il 1650, nel castello di Villeroy (Mennecy).
Dopo il David, motivi di novità in senso cinquecentesco si riconoscono anche in una scultura di soggetto religioso, la cosiddetta Madonna di Bruges (Bruges, St.-Sauveur), che, commissionatagli dal mercante fiammingo Alexander Mosaren immediatamente dopo il suo ritorno, fu tuttavia terminata solo nel 1506 L'opera si differenzia dai tipi aggraziati del Quattrocento (per es. la Madonna del duomo di Prato di Benedetto da Maiano) non solo per la nobiltà e dignità della Vergine, ma anche per la figura del Bambino, in piedi, con lo sguardo abbassato in una espressione di gravità. Anche in questa scultura, come nella Pietà di S. Pietro, l'artista ha rielaborato suggerimenti di Leonardo (specie nel volto della Madonna), ma per il resto l'ha concepita secondo il suo proprio ideale figurativo.
Un eguale mutamento si avverte nei due bei tondi con Madonna, il Bambino e s. Giovannino, eseguiti attorno al 1503-04 rispettivamente per Bartolomeo Pitti (Firenze, Museo naz.) e per Taddeo Taddei (Londra, Royal Academy). Ambedue sono già menzionati nell'edizione del 1550 del Vasari (I, p. 23), ma non in Condivi. Benché non manchino, in questi due rilievi, motivi di genere, l'impressione determinante è data dall'atteggiamento maestoso della Madonna, che nel tondo Pitti prelude sensibilmente ai tratti sibillini delle figure femminili del soffitto della Sistina.
Di grandissimo onore fu per il B. l'incarico di eseguire, nella sala del Consiglio di Palazzo Vecchio, un affresco monumentale con la Battaglia di Cascina, a fianco del più anziano conterraneo e rivale Leonardo, che doveva dipingere la Battaglia d'Anghiari. I preparativi dell'impresa si protrassero dalla fine del 1504 sino al 1506, ma né Leonardo né il B. passarono all'esecuzione dell'opera (Condivi, p. 44; Vasari, I, pp. 24 s.; II, pp. 248-271; Gaye, Carteggio, II, pp. 88 s.: molto importante per la questione della collocazione, H. Grohn, Die Schule der Welt. Zu Michelangelos Karton der Schlacht bei Cascina, in Il Vasari, XXIV [1963], pp. 63 ss.; e, più recente: R. Salvini, La battaglia di Cascina, in Studi di storia dell'arte in onore di Valerio Mariani, Napoli 1971, pp. 131 ss.). Solamente una copia ridotta del cartone (proprietà Earl of Leicester, Holkham Hall) e incisioni frammentarie possono darci una idea della grandiosa composizione concepita dal B. come pura accademia di nudi nelle posizioni e nei movimenti più disparati. Il cartone ebbe un'eccezionale funzione didattica per i giovani artisti fiorentini: ne troviamo un'eloquente testimonianza nel Vasari (I, pp. 26 s.).
Come l'affresco per Palazzo Vecchio, anche una serie di Apostoli, commissionata al B. nel 1503 dall'arte della lana e dall'Opera del duomo per S. Maria del Fiore, era destinata a non essere compiuta; infatti egli iniziò solo la statua di S. Matteo (Firenze, Accademia), rimasta appena abbozzata nel blocco marmoreo. A giudicare da essa è lecito supporre che, se la serie fosse stata condotta a termine, avrebbe costituito per Firenze un ciclo di figure eroiche nel quale, in ricca varietà di aspetti, avrebbero trovato espressione, forse più che lo spirito religioso, la virtus, l'energia, il forte volere degli apostoli cristiani. L'unico dipinto su tavola del B., il grande tondo con la Sacra Famiglia (Uffizi), fu commissionato nel 1503-04, in occasione delle nozze di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi; ma è probabile che il compimento dell'opera si sia protratto sino al 1505 (Vasari, I, pp. 13-15, 23 s.: per la datazione del quadro vedi Barocchi, ibid., II, p. 240).
Nel 1505 si verificò nella vita del B. una svolta decisiva, quando, nel marzo, Giulio II gli propose di eseguire la propria tomba monumentale. Egli fece il progetto e gli venne fissato un compenso di 10.000 ducati pagabili in cinque anni. Già in aprile si recava alle cave di Carrara, dove rimase per scegliere i marmi sino alla fine dell'anno; nel gennaio 1506 ne attendeva l'arrivo nella sua bottega a Roma presso S. Caterina, non lontano da piazza S. Pietro. Indubbiamente il papa intendeva porre il monumento nel nuovo S. Pietro, in fase di progettazione, ma non sappiamo esattamente dove. All'inizio del 1506 si accordava con il Bramante, per dare inizio alla costruzione. Poco dopo avveniva il primo scontro tra il B. e il pontefice, che dichiarò di rinunciare al progetto; l'artista attribuì a un intrigo del Bramante la causa di questo malevolo atteggiamento, e il 17 aprile fuggì a Firenze dove si trattenne sette o otto mesi (Condivi, pp. 38 ss., e Vasari, I, pp. 31-33; II, pp. 370-380).
In questo periodo molti tentativi furono fatti, da parte della corte pontificia, per indurlo a tornare a Roma, ma tutti gli interventi fallirono, compreso quello del podestà Soderini. In novembre, infine, Giulio II lo convocò a Bologna e gli ordinò la propria statua in bronzo alta quattro metri, che fu posta nel febbraio del 1508 sulla facciata di S. Petronio (Condivi, p. 46, e Vasari, I, pp. 33-35; II, pp. 389-395, 398-401). L'importante opera, preludio ai Profeti della Sistina, venne distrutta nel dicembre 1511 dai partigiani dei Bentivoglio. La commissione bolognese era prova, da parte del papa, di un desiderio di riconciliazione con l'artista, sicché questi, nel marzo 1508, fece ritorno a Roma, con animo placato, per mettere in atto la proposta di Giulio II di dipingere il soffitto della cappella Sistina. L'idea del pontefice di rappresentarvi i dodici apostoli parve al B. "chosa povera" (Maurenbrecher, 1938, p. 69) e quando egli fece presente al papa questa obiezione, gli venne lasciata carta bianca per la stesura tematica.
Non è ora il caso di addentrarsi nell'esposizione, sia pure solo approssimativa, dell'ordine strutturale tanto perspicuo quanto, per altro verso, raffinato che presiede alla intelaiatura architettonica del soffitto: dei riquadri rettangolari al centro e della loro differente misura, della loro prosecuzione su ambedue i fianchi, del sistema di pennacchi, lunette e archi di scarico sui quattro lati. Di tutto questo complesso organismo quel che più conta è il raggiunto carattere unitario della superficie pittorica, e l'affermazione, ovunque dominante, dell'elemento figura: due aspetti, questi, che non erano propri della pittura del Quattrocento. Entro questo sistema il B. ha inserito il suo grandioso programma iconografico: nei nove riquadri rettangolari (procedendo dall'entrata fino alla parete del coro ad ovest), sono le Scene della creazione e la Storia dei primi uomini fino al Diluvio universale; negli adiacenti scomparti verticali, sette Profeti e cinque Sibille, e, nei quattro grandi pennacchi d'angolo, altrettanti drammatici episodi biblici (David e Golia, Giuditta e Oloferne, il Serpente di bronzo, Punizione di Aman). Ma non si limitò a questo programma che si presentava già di per sé tanto complesso: il B., infatti, estese la superficie del soffitto, fino a invadere parte delle pareti, come si vede nelle otto vele e nelle sottostanti quattordici lunette. Nelle pitture di questi ultimi riquadri, la tensione degli avvenimenti narrati nel soffitto si allenta in un mondo di quiete ove l'esistenza nomade degli antichi israeliti (i Predecessori e gli Antenati di Cristo) viene descritta in scene domestiche e idilliache anche con qualche concessione di tono gradevolmente descrittivo.
Denso di significati appare, in tutta la sua audacia, il motivo dei cosiddetti Ignudi: venti figure di giovani seduti, che coronano, a due a due, i pilastri dei troni dei Veggenti e reggono festoni di foglie di quercia (allusione a Giulio II e alla famiglia Della Rovere). Le tante e svariate interpretazioni proposte per questi Ignudi, specialmente come riferimenti a Eros, non sembrano plausibili; assai più illuminante appare la supposizione secondo la quale il B. doveva ritenere indispensabile questa presenza della figura umana, perché la trama decorativa non accusasse discordanze. Certo fu un ardimento inaudito il fatto, assolutamente senza precedenti, di servirsi, a questo scopo, esclusivamente del tema del nudo in movimento, tanto più in un luogo sacro. In ciò l'artista deve dunque aver dato libero corso alla propria fantasia, e tuttavia è improbabile che, seppure dobbiamo riconoscere in lui un attento e illuminato lettore della Bibbia, l'intero programma iconografico sia stato concepito senza un consulente ecclesiastico (proveniente quasi certamente dall'ambiente che circondava il papa). Alcune fra le più recenti indagini si sono addentrate in un ordine di interpretazioni estremamente complesso e troppo sottile, fondato sul pensiero neoplatonico. A una verifica spassionata, non v'è uno solo, di questi tentativi di lettura, che convinca e, giustamente, gli studiosi italiani li hanno evitati (V. Mariani, 1964, pp. 45 ss.; E. Camesasca, in La cappella Sistina in Vaticano, Milano 1965, pp. 174 ss.: anche K. Clark, 1964, ha rifiutato questo orientamento interpretativo).
Il B. venne a capo della gigantesca impresa, senza aiuti, in appena quattro anni, con qualche rara e breve interruzione: nel gennaio 1509 egli iniziò a dipingere il soffitto, a mezzo agosto del 1511 venne scoperta la prima parte e nel settembre 1512 l'intera opera era compiuta. Alla vigilia della festa di Ognissanti, la cappella Sistina fu aperta al pubblico (P. de Grassis, Diario, in E. Steinmann, Die Sixtinische Kapelle, II, München 1905, Regesta, n. 108, pp. 735 s.: "Vesperae in vigilia omnium sanctorum... Hodie primum capella nostra, pingi finita, aperta est. ...". Per la cronologia vedi R. Salvini, in La Capp. Sistina, cit., pp. 95-97).
Il B. non aveva mai abbandonato con il pensiero, nemmeno mentre lavorava al soffitto, quella prima commissione del papa, relativa alla sua tomba, alla quale Giulio II aveva soprasseduto in favore della decorazione della Sistina; in realtà Michelangelo, che sempre si sentì scultore e non pittore, avrebbe tenuto assai di più a intraprendere questo lavoro. Esso assunse un carattere di urgenza subito dopo la morte del papa (avvenuta nella notte tra il 20 e il 21 febbr. 1513), quando gli esecutori testamentari di Giulio II, il cardinale Aginense, Leonardo Grosso Della Rovere e il cardinale Lorenzo Pucci, presero contatto con l'artista per concludere, il 6 maggio 1511 il nuovo contratto per il monumento (per il tenore del contratto, vedi S. Prete, The original written contract with Michelangelo for the tomb of Pope Julius II..., New York 1963, pp. 19-22).
La struttura di monumento isolato, prevista nel primitivo progetto, dovette essere ridotta a quella di tomba murale, sicché la facciata posteriore veniva a essere annullata; ciò nonostante, l'opera era ancora piuttosto costosa, perché veniva mantenuta, anche nella nuova versione per la fronte e per i due fianchi, la zona inferiore decorata, su ciascun lato, con due Vittorie entro nicchie, fiancheggiate rispettivamente da due Schiavi incatenati, più grandi del naturale; e lo stesso si dica per il registro superiore con sei figure sedute in luogo delle otto previste in precedenza. Dei sei rilievi in bronzo "dove si poteva vedere i fatti di tanto pontefice" di cui parla il Condivi (p. 41) non appaiono sul progetto che i relativi campi vuoti rettangolari sopra le nicchie delle Vittorie.
Solo il sarcofago con il papa defunto subiva un cambiamento rispetto al progetto originario, dal momento che veniva a cadere l'idea del mausoleo in posizione centrale. La trasformazione del monumento in sepolcro murale rendeva necessaria una adeguata articolazione della parete: il B. ideò una nicchia gigantesca (la "capelletta") contenente, al centro, sospesa, la figura della Madonna col Bambino, mentre su ciascun lato dovevano apparire rispettivamente due figure in piedi (vedi il secondo contratto in Milanesi, 1875, p. 637). Perciò sul piano quantitativo - se si considera la parte superiore della facciata di cui si è detto - in nessun modo il nuovo progetto si rivelava riduttivo. Fatto, questo, che peraltro risulta chiaro dal testo del contratto: il compenso veniva infatti elevato, dai 10.000 ducati di un tempo, a 16.500 e il compimento fissato alla scadenza di sette anni (De Tolnay, IV, 1954, passim, e Pope Hennessy, 1966, pp. 316 ss.; sono inoltre utili le osservazioni e le ricostruzioni di E. Panofski, 1964, pp. 88-90, ill. 417-422).
Concluso il contratto, il B. si pose immediatamente al lavoro. Trasferì allora la casa e la bottega presso il Macello dei Corvi, nelle vicinanze di S. Maria di Loreto (vedi F. M. Apollonj Ghetti, Le case di Michelangelo, in L'Urbe, XXXI [1968], pp. 17 ss.) e là fece trasportare, da piazza S. Pietro, i blocchi di marmo fino allora lasciati in deposito. In primo luogo si dedicò con lena alla statua di Mosé, che doveva essere collocata, come nel primo progetto, nel registro superiore all'angolo destro; contemporaneamente vennero eseguiti i celebri Schiavi: il cosiddetto "dormiente" e il "ribelle" (Parigi, Louvre). Se si considera che queste tre figure colossali impegnarono l'artista per tre anni - salvo brevi interruzioni - è da ritenere che fin da allora il B. dovette rendersi conto che non gli sarebbe stato possibile mantenere il contratto. E infatti un accordo stabilito con gli eredi Della Rovere l'8 luglio 1516 (Milanesi, 1875, pp. 644-648) riduce il monumento al puro e semplice sepolcro murale, eliminando tutto il complesso di statue delle fiancate e restringendo a due il numero delle figure sedute nella zona superiore.
A questo cambiamento si aggiunse anche una circostanza esterna: il successore di Giulio II, Leone X (Medici), venuto in conflitto con il principale esponente della famiglia Della Rovere, il duca Francesco Maria di Urbino, cercò, dal 1516, di assicurarsi i servigi del B. (contatti in questo senso iniziarono sin dai primi di ottobre di quell'anno: v. lettera di Baccio d'Agnolo al B. alla quale è allegato uno scritto di D. Boninsegni del 7 ottobre, riguardante i progetti di facciata per S. Lorenzo del cardinale Giulio de' Medici, in Carteggio, I, pp. 204 s.). Era desiderio del papa far erigere una facciata monumentale per S. Lorenzo - la chiesa della famiglia Medici a Firenze - e il B., fiorentino autentico qual era, non poteva certamente sottrarsi a un incarico così prestigioso. Di nuovo - come già ai tempi del sepolcro di Giulio II - fu invaso da fervore creativo e, in una vera e propria esaltazione della fantasia, progettò un'opera che presentava caratteri di assoluta, sovvertitrice novità dal punto di vista della struttura architettonica e nello stesso tempo risultava senza precedenti per la ricchezza della decorazione plastica. Che questa fosse sua precisa intenzione ci è confermato dalle sue stesse parole: "farò la più bella opera che si sia mai facta in Italia" (Carteggio, I, p. 83); e in un'altra lettera: "d'architectura e di schultura, lo spechio di tucta Italia" (ibid., I, p. 277). Non è possibile in questa sede, tranne che per brevi cenni, rendere conto dell'intensa attività che assorbì il B. in questi anni 1516-1520, nei quali, a un continuo avvicendarsi di soggiorni a Roma e a Firenze, alternò numerose soste presso le cave di Carrara, Pietrasanta e Serravezza, anche per assoldare operai. Nel contratto gli erano stati concessi otto anni, a partire dal 1518, per condurre a termine l'impresa, che gli sarebbe stata pagata 40.000 ducati (per le uscite, le entrate e per tutta l'attività del B. relativa alla facciata di S. Lorenzo, vedi Maurenbrecher, 1938, pp. 38-66, e I ricordi; pp. 14 ss.). Erano ancora in pieno corso tutti i preparativi, quando Leone X annullò il contratto e si dovettero smettere i lavori (vedi la lettera indirizzata da Roma al B. dal cardinale Giulio de' Medici il 28 nov. 1520, in Frey, 1899, pp. 161 s.). Al B. la revoca del contratto e lo spreco di fatica parvero "vitupero grandissimo" (Carteggio, II, p. 270). Ma benché l'accantonamento del progetto architettonico fosse giustificato con difficoltà economiche, fin dal 1519 il cardinale Giulio de' Medici (dal 1523 papa Clemente VII) aveva intrapreso trattative per erigere un mausoleo (la Sagrestia Nuova) a gloria della famiglia, da costruire sul lato destro della crociera di S. Lorenzo, come pendant alla Sagrestia Vecchia.
Come per la tomba di Giulio II, anche per il nuovo monumento vari progetti si sovrapposero, come risulta evidente dai disegni dello stesso B., e in parte dalla corrispondenza. Se il committente pensò in un primo momento a un sepolcro strutturalmente autonomo da collocarsi al centro della cappella, quest'idea dovette essere abbandonata per mancanza di spazio; in suo luogo vennero progettate due tombe, addossate rispettivamente alle due pareti laterali, l'una per Lorenzo de' Medici duca di Urbino(mortonel 1519) e l'altra per Giuliano de' Medici duca di Nemours (morto nel 1516), le cui statue sono in una nicchia al di sopra di ciascuno dei due sarcofagi; su questi sono collocate le figure allegoriche del Crepuscolo e dell'Aurora (Lorenzo), della Notte e del Giorno (Giuliano). Non fu mai realizzato il monumento ai Magnifici (Lorenzo e Giuliano), che era stato previsto, in connessione con la Madonna in trono e con i patroni dei Medici, S. Cosma e S. Damiano, di fronte all'altare: furono eseguite soltanto le tre statue, fra le quali la grandiosa Madonna occupa un posto di primo piano. Allo stato attuale, la cappella medicea può darci soltanto un'idea frammentaria, poiché del progetto non furono compiuti, fra l'altro, né i Fiumi ai piedi delle tombe né le pitture delle lunette (il Serpente di bronzo, la Resurrezione di Cristo). Ciò nonostante, anche in queste condizioni, l'opera è una testimonianza della visione formale del B. nel decennio 1520-1530: qui per la prima volta assistiamo a quella indissolubile compenetrazione della scultura con la struttura architettonica; nello stesso tempo, nella forma e nelle proporzioni di questo insieme si esprime un abbandono totale dell'osservanza dei principî di euritmia del Rinascimento, con il sopravvento di un tono aspro di oppressione e di inquietudine.
Gli stessi elementi, ma ancor più accentuati e addirittura agganciati al manierismo, sono presenti nella sala della Biblioteca Laurenziana (per la quale il B. aveva fornito progetti già dal 1524, su richiesta di Clemente VII) e nel connesso vestibolo. Questo complesso e la cappella Medicea impegnarono l'artista per tutto il terzo decennio e per qualche anno anche del quarto, se si eccettua il 1529, anno di crisi politica, che fu anche per il B. un anno drammatico. Di sentimenti repubblicani, l'artista salutò con favore il rovesciamento della situazione politica nella sua città e la nomina del gonfaloniere Niccolò Capponi (21 maggio 1527). All'inizio dell'anno venne eletto nel collegio dei Nove di milizia per le opere di fortificazione e, dopo che il 6 apr. 1529 fu nominato governatore generale e procuratore delle fortificazioni, si impegnò con dedizione in questa incombenza, eseguendo i geniali disegni di fortificazioni conservati nella casa Buonarroti. In relazione a questo incarico, egli si recò, all'inizio di agosto, alla corte di Ferrara, per avere consigli dal duca Alfonso, famoso esperto nell'arte delle fortificazioni. Il duca lo accolse con la massima cortesia, ma non si fece sfuggire l'occasione di chiedergli un lavoro; il B. acconsentì, ma il dipinto con la Leda, terminato nel 1530, non entrò mai nella collezione ducale (l'artista lo regalò ad Antonio Mini che se lo portò l'anno dopo in Francia: per l'originale scomparso e per le copie che ne furono fatte, vedi Vasari, I, p. 68; III, pp. 1101-1122). Verso il 9 settembre il B. era di nuovo a Firenze, ma il 21 settembre, avvertendo il tradimento incombente di Malatesta Baglioni, fuggì a Venezia, dove arrivò prima del 25 sett. (sua lettera a G. B. della Palla a Firenze, in Frey, 1907, pp. 134 s.). Benché a quel tempo avesse intenzione di andare in Francia, convinto dalle autorità di Firenze che gli fecero ponti d'oro, rientrò in patria poco dopo il 19 novembre per riprendere l'antico ufficio. Il 12 ag. 1530 la città capitolò e il B., di nuovo preso dalla paura, si nascose in casa di un amico finché non ottenne, il perdono di Clemente VII. Subito dopo (settembre-ottobre) diede esecuzione all'ordine del papa di proseguire i lavori per le tombe medicee.
Non gli dava requie intanto, nonostante la dispensa di Clemente VII, l'antico impegno di portare avanti la tomba di Giulio II, per la quale premevano gli eredi Della Rovere. Il maestrointendeva ridurre ulteriormente l'opera, e nel contratto del 29 apr. 1532 (Milanesi, 1875, pp. 702-707, e Barocchi, in Vasari, III, pp. 1179-1182) gli eredi e l'artista si accordarono per erigere il monumento in S. Pietro in Vincoli e per limitare a sei il numero delle figure nell'ambito del sepolcro. Si vedrà in seguito come anche questo accordo doveva subire un ulteriore cambiamento nel 1542.
Non appare molto convincente la supposizione secondo la quale doveva far parte di questa sistemazione il grandioso gruppo del Vincitore, oggi in Palazzo Vecchio a Firenze, poiché allora stavano ancora nella bottega del maestro le due statue del Morente e del Ribelle; potrebbe anche non essere errato datare quella scultura ai primi anni dopo il 1520, mentre la splendida statua del cosiddetto David-Apollo (Firenze, Museo nazionale), destinata a Baccio Valori, deve essere del 1530-31 circa.
Negli anni 1532-33, in cui fu da una parte occupato nella prosecuzione della cappella Medicea e della Biblioteca Laurenziana e dall'altra fu impegnato nella ripresa del monumento di Giulio II, il B. fu costretto a frequenti viaggi fra Firenze e Roma.
Tutto l'inverno 1532-33 lo trascorse a Roma e, in questa occasione, ebbe luogo l'incontro memorabile con il giovane nobile romano Tommaso de' Cavalieri, incontro che, alla stessa maniera dell'amicizia - seguita a distanza di pochi anni - con Vittoria Colonna, rappresenta, per così dire, una pietra miliare nella vita del B. (è di pochi anni prima, invece, l'altra amicizia con Antonio Mini, l'aiuto che ebbe in regalo fra le altre opere sue il dipinto della Leda commissionato da Alfonso d'Este).
Per la sua intensità di esperienza, l'incontro con Cavalieri rappresenta un fenomeno unico nella vita del Buonarroti. Non soltanto per il fatto che il maestro fece dono al giovane di una serie di incantevoli disegni di argomento mitologico, appositamente eseguiti (Fetonte, Tizio, Ganimede), che avevano tutti un valore di quadro compiuto e furono molto ammirati dagli amatori d'arte romani (tutti i fogli, citati dal Vasari come in possesso del Cavalieri [I, p. 118; IV, pp. 1898-1906], passarono poi nella collezione del cardinale Alessandro Farnese; gli originali si trovano attualmente nel British Museum di Londra e nella Royal Library di Windsor: Dussler, 1959, pp. 144 s., 146 s., 199 s. e ad Indicem), né per lo spontaneo riflesso di questa amicizia presente nella poesia del B., quanto piuttosto per l'entusiasmo quasi esaltato dell'artista che - come testimoniano le prime lettere al Cavalieri -, al culmine della sua fama, si annulla letteralmente nella dedizione al giovane. Non sono mancati tentativi di dare a questa dedizione un significato sensuale e, anche ultimamente, si è voluto interpretare questo rapporto come omosessuale (Clements, 1963, pp. 92 ss.). Non v'è tuttavia alcun indizio a favore di tale ipotesi: come in altri casi, queste professioni d'amore erano del tutto platoniche. Il Cavalieri rimase fedele al maestro fino alla morte.
Senza dubbio il legame con il Cavalieri fu anche uno dei motivi che spinse il B. ad abbandonare la residenza fiorentina e a trasferirsi definitivamente a Roma (dal settembre 1534: lettera a Febo di Poggio che giustamente Ramsden, 1963, I, p. 187 n. 198, e pp. 302 ss., data alla metà di settembre del 1534), ma è pur vero che questa decisione fu accompagnata da una serie di circostanze. Già i sentimenti di libertà del B. lo rendevano insofferente del tirannico regime mediceo, e ancor più lo teneva legato a Roma la prosecuzione della tomba di Giulio II, ma più di ogni altra cosa fu determinante il progetto del papa di far affrescare la parete del coro nella cappella Sistina con il Giudizio universale. È vero che Clemente VII morì poco dopo che il B. si stabilisse a Roma, ma ancor meno questi poté sottrarsi al servizio del nuovo pontefice Paolo III (Farnese) che, nel suo sentimento di ardente entusiasmo per il maestro e nel suo spirito autoritario, accampava diritti esclusivi su tutta la sua attività. E infatti le commissioni farnesiane durante il pontificato di Paolo III furono decisive per la definizione dello stile tardo dell'artista e per la celebrità da lui raggiunta in vecchiaia: il Giudizio universale a cui lavorò dal 1536 al 1541, anno in cui l'affresco fu scoperto, le grandiose pitture murali con la Conversione di s. Paolo e il Martirio di s. Pietro nella cappella Paolina (1542-1550), quell'imponente monumento di famiglia che è il palazzo Farnese (già iniziato nel 1517 sotto la direzione di Antonio da Sangallo il Giovane) e - di particolare importanza - il riassetto urbanistico della piazza del Campidoglio; e infine l'opera più cara, in assoluto, all'artista, la prosecuzione e il compimento del nuovo S. Pietro, della cui Fabbrica egli era stato nominato primo architetto dal gennaio 1547, dopo che Paolo III, già nel 1535, gli aveva assegnato la sovrintendenza dei palazzi apostolici (breve di Paolo III, in Gotti, 1875, 113 pp. 123 s., 133 s.).
Nonostante questa enorme mole di lavoro - si consideri che anche in questa età più avanzata il maestro portò a termine senza aiuti i faticosi affreschi - il B. nel quarto e quinto decennio del secolo visse, come mai prima di allora, in relazione con una cerchia di amici, e anzi egli stesso ebbe a dichiarare di ritenere questi anni romani i più felici della sua esistenza (Steinmann, 1930, pp. 17 ss.).
Poco dopo che egli ebbe iniziato il Giudizio universale - all'incirca nel 1537 - comparve sul suo orizzonte Vittoria Colonna, la cui amicizia, al pari di quella con il Cavalieri, doveva rappresentare l'esperienza più significativa della sua vecchiaia. Vittoria Colonna, vedova di Ferrante d'Avalos marchese di Pescara, animata da quello spirito severamente religioso che si esprime nelle sue rime, mise il B. in contatto con quell'ambiente romano che aspirava vivamente a una riforma del cattolicesimo, non però nel senso di un avvicinamento al luteranesimo del quale più volte si è cercato di accusare la marchesa e la sua cerchia di amici, bensì piuttosto nel senso di una decisa trasformazione di forme di culto ormai svuotate di contenuto in un sincero modo di vita interiore. È sufficiente ricordare nomi come quelli di Juan de Valdés e dei cardinali G. Contarini, Giovanni Morone e Reginald Pole, che fu il consigliere spirituale di Vittoria, per esser certi delle linearità e schiettezza di questi intenti; cosa che del resto fu certamente chiara allo stesso B., il quale, nonostante le riserve mentali su certi aspetti negativi della Chiesa - espresse in molte delle sue composizioni poetiche -, non ha mai rinnegato la sua adesione alla dottrina ortodossa. La relazione dell'artista con l'amica si svolse in parte attraverso lettere e poesie, ma anche attraverso gli incontri domenicali nell'oratorio di S. Silvestro al Quirinale, ai quali, oltre a frate Ambrogio da Siena (Lancillotto Politi), in qualità di esegeta biblico, probabilmente prendeva parte anche il senese Claudio Tolomei. Di queste conversazioni spirituali ci ha lasciato un efficace ricordo il portoghese Francisco de Holanda nei suoi Diálogos de Roma, pubblicati a Lisbona nel 1548 (Dialoghi romani, a cura di E. Spina Barelli, Milano 1964), anche se l'attendibilità delle espressioni del B. in essi citate sia da considerare con estremo scetticismo (C. Aru, I dialoghi romani di Francisco de Hollanda, in L'Arte, XXXI [1928], pp. 117-128). I disegni offerti in dono all'amica venerata - Crocifissione (Londra, British Museum), Pietà (Boston, museo Gardner) e Cristo e la Samaritana (conosciuto solo attraverso copie) - sono la testimonianza evidente di quelli che per Vittoria e il B. erano i pensieri fondamentali: la speranza nella grazia derivata dal sacrificio della Croce, che in misura sempre crescente ha ispirato Michelangelo sia nella sue ultime creazioni artistiche sia nelle sue poesie.
Con il Cavalieri, e con Vittoria Colonna, il B. frequentava romani di nascita, ma il resto del gruppo, non tanto ristretto, di amici, comprendeva quasi esclusivamente fuorusciti fiorentini, fra i quali Luigi del Riccio, procuratore della banca di Ruberto Strozzi, e Donato Giannotti, segretario del cardinale Niccolò Ridolfi, anch'egli antimediceo. I rapporti con Luigi del Riccio, che erano già stabiliti attorno al 1535 e durarono fino alla morte di questo (1546), sono una toccante testimonianza del sentimento affettuoso che lo legava all'illustre conterraneo (cfr. E. Steinmann, Michelangelo e L. del Riccio, in Rivista storica degli archivi toscani, III [1931], n. 4 [vedi l'estratto], pubblicato a Firenze nel 1932). Quando il B. fu gravemente ammalato nel 1544 e ancora alla fine del 1545 (lettere al nipote Leonardo, del luglio 1544 e del 6 febbraio successivo, in Milanesi, 18753 pp. 174, 187), egli ricevette ogni cura da parte del Riccio che lo aveva fatto alloggiare nel palazzo del suo padrone Ruberto Strozzi. L'artista fu così commosso da queste attenzioni che per gratitudine fece dono allo Strozzi, che trascorreva l'esilio in Francia, dei due straordinari Prigioni (Parigi, Louvre), un tempo destinati alla tomba di Giulio II. Né poté negare al Riccio, quando questi nel 1544 perse il nipote quindicenne Cecchino Bracci, di scriverne epitaffi poetici e di fare un progetto per la sua tomba in Aracoeli (E. Steinmann, Das Grabmal des Cecchino Bracci, in Monatshefte für Künstwissenschaft, I [1908], pp. 963-974). Il Riccio, assieme al Giannotti, preparò un'edizione delle poesie del B. (Firenze, Archivio Buonarroti, cod. XIV 1 e cod. XIV 2; cod. Vat. lat. 3211), che non fu stampata; e il Giannotti, che era un erudito e storico di spirito universale quanto perspicace, acquista anche un particolare interesse, all'interno della cerchia del B., per i suoi Dialogi nei quali l'artista è celebrato come "gran dantista" e viene messa in evidenza, nel suo ruolo di conduttore del dialogo, la sua considerevole conoscenza del poeta. E fu il Giannotti, ancor prima della redazione dei Dialogi (vedi D. Redig de Campos, in Dialogi di D. Giannotti..., Firenze 1939, pp. 3-34 per la datazione, le edizioni e l'esame critico), a chiedere al B., probabilmente nel 1539-40, di scolpire quel busto di Bruto (Firenze, Museo nazionale), che è sempre stato interpretato come simbolo della libertà, e al quale certamente lo spunto era stato dato dall'uccisione, nel 1537, del tiranno Alessandro de' Medici da parte di Lorenzino. La testa, così incisiva e piena di espressione, la cui "terribilità" riceve una particolare impronta proprio dal procedimento tecnico del "non finito", era destinata dal Giannotti al cardinale Niccolò Ridolfi che, come il suo segretario e come il B., aveva salutato, in Lorenzino, il "Bruto nuovo".
Il B. era quindi d'accordo con gli espatriati fiorentini nell'avversare il tirannico regime mediceo: tuttavia, preoccupato per i parenti rimasti a Firenze, era abbastanza prudente da non apparire nemico dichiarato di quel governo; e più volte infatti Cosimo de' Medici tentò, attraverso intermediari, di riavere il B. a Firenze. Tra questi incaricati furono, nel 1552, Benvenuto Cellini e, nel 1554 e nel 1557, il Vasari; e infine, alle insistenze dirette del duca (8 maggio 1557), l'artista rispose chiedendo una dilazione perché i lavori in corso a S. Pietro lo obbligavano a restare a Roma. Tra gli impegni presi in precedenza con i Medici, manteneva ancora quello del vestibolo (ricetto), non terminato, della Bibl. Laurenziana, per il quale si dichiarò disposto a inviare a Bartolomeo Ammannati un modello in terracotta della scala, che fu spedito a Firenze il 13 genn. 1559 (vedi, per tutta la storia della scala, Barocchi, in Vasari, III, pp. 883-887; IV, pp. 1598-1604; la sala di lettura, non ancora cominciata prima che il B. si stabilisse a Roma, nel 1534, fu eseguita fedelmente sui suoi disegni).
La disponibilità del B. nei confronti, dei suoi compatrioti si rivela tra l'altro nell'impegno a eseguire dei progetti per S. Giovanni dei Fiorentini a Roma.
Gli inizi di questa fabbrica risalgono a Leone X, ma dopo la morte di questo la costruzione venne interrotta, e quando nel 1550, su suggerimento di Bindo Altoviti, si pensò di riprendere i lavori, anche allora l'impresa andò a monte. Solo nel 1559 si poté pensare di mettere l'opera in esecuzione, e a questo punto i procuratori richiesero il consiglio del Buonarroti. Questi subordinava la sua collaborazione al consenso del duca Cosimo e, una volta avutolo, preparò un certo numero di disegni (Firenze, casa Buonarroti): purtroppo non venne realizzato nessuno di questi progetti che prevedevano, tutti, un edificio a pianta centrale, e la chiesa ebbe in seguito un impianto basilicale (H. Siebenhüner, S. Giov. dei Fiorentini..., in Kunstgeschichtliche Studien für Hans Kauffmann, Berlin 1956, pp. 172-191; D. Gioseffi, S. Giov. dei Fior., in Michel. arch., 1964, pp. 653-680; H. Gottschalk, Michelangelo's Entwürfe für die Kirche..., Den Haag 1968).
Nel gruppo di amici ben presto - cioè almeno dal 1516 - occupò un posto importante Sebastiano del Piombo, divenuto ormai completamente romano. Tra il pittore veneziano ed il B. intercorse una corrispondenza abbastanza frequente e se a questo doveva riuscire gradito ricevere assidui rapporti (G. Milanesi, Les correspondants de Michel-Ange, I, Sebastiano del Piombo, Paris 1890) e poter dare disposizioni per lo più sull'andamento dei suoi affari romani, altrettanto desiderabile dovette d'altra parte apparire a Sebastiano avere protezione, pareri e - non ultimi - eventuali disegni per i suoi dipinti. Ma le deboli raccomandazioni del B. al cardinal Bernardo Dovizi (giugno 1520: Carteggio, II, p. 232), quando Sebastiano doveva subentrare a Raffaello in Vaticano, mostrano il punto limite di questa amicizia, il punto cioè in cui Michelangelo ha sostenuto, sì, l'amico, ma solo, per così dire, sottovoce. Egli apprezzava veramente gli eccellenti ritratti di Sebastiano del Piombo, mentre non sembra avere avuto un'opinione troppo alta delle altre sue composizioni. Dopo che il B. ebbe iniziato l'affresco del Giudizio universale (1536), il veneziano giunse a proporre di eseguire l'opera ad olio, ma il maestro respinse indignato questa richiesta, osservando "che colorire a olio era arte da donna e da persone agiate e infingarde come fra' Bastiano" (Vasari, III, pp. 1384-1386).
Benché da questo momento in poi non si abbia più notizia sui rapporti fra i due, l'ardente e sincera ammirazione di Sebastiano per il genio del B. restò inalterata fino alla morte.
Oscure esperienze - forse le più sconcertanti della sua vita - derivarono al B. dall'incontro con Pietro Aretino. Lo scrittore, geniale quanto indiscreto e temuto, tentò più volte di approfittare di lui, riuscì ad averne dei disegni, ma senza essere soddisfatto dei doni, ed ebbe persino l'ardire di sottoporre al B. proposte per la composizione del Giudizio universale. Quando il maestro non aderì ad altre richieste contenute nelle sue lettere, l'Aretino volle bassamente vendicarsi, come testimonia una lettera oltraggiosa del novembre 1545 nella quale Michelangelo viene denigrato nel modo più infame non solo come pittore, ma anche come uomo. Naturalmente, sotto la pressione sempre crescente della Controriforma, non mancarono, in seguito, critiche al programma iconologico del B., e infatti già dal 1558, per ordine di Paolo IV, tutti i nudi furono rivestiti per opera di un amico del B., Daniele da Volterra (B. Biagetti, in D. Redig de Campos-B. Biagetti, Il Giudizio universale di Michelangelo, Milano 1944, pp. 143-147).
La tomba di Giulio II, la "tragedia della sepoltura", secondo l'espressione spesso usata dal maestro, ebbe termine dopo l'ultimo contratto del 1542. Quella che oggi vediamo, in S. Pietro in Vincoli, è il risultato di un'ulteriore riduzione dei progetti precedenti (1532). Al posto dei due Prigioni, ai lati del Mosè vennero collocate nelle nicchie le nobili figure di Rachele e Lia, allegorie della vita contemplativa e della vita attiva (Dante, Purgat., XXVII). Solo questa parte inferiore, compresa la struttura architettonica, è opera del B.: tutto il resto - la Madonna, le due Figure sedute e il Papa giacente nel registro superiore - fu fatto eseguire da allievi. Dopo questa soluzione di compromesso di un'impresa che era stata progettata in proporzioni gigantesche, il vecchio artista non accettò più alcun incarico pubblico nel campo, che gli era più congeniale, della scultura; fece ancora soltanto opere che sono traduzioni plastiche di un suo personale pensiero e che hanno a soggetto quasi esclusivamente il tema sepolcrale.
La più antica di queste opere tarde è il gruppo della Pietà, dal 1722 nel duomo fiorentino, che in origine il B. aveva destinato alla propria tomba da collocarsi in S. Maria Maggiore a Roma: il Cristo in grembo alla madre, dinanzi alla quale è inginocchiata la Maddalena, mentre al culmine è la suggestiva figura, pacatamente assorta, di Giuseppe di Arimatea, il cui volto riflette i tratti del maestro. Siccome nel corso della lavorazione durata parecchi anni (dal 1548 circa al, 1555), il marmo subì dei danni e la gamba del Cristo si era staccata, il B. fece a pezzi l'opera e l'abbandonò nelle mani del suo aiuto T. Calcagni, il quale la ricompose (la Maddalena è in gran parte una sua aggiunta: vedi anche, per le successive collocazioni, Barocchi, in Vasari, IV, pp. 1670-1676). Le cose andarono diversamente per la Pietà Rondanini (dal 1952 a Milano, Museo del Castello Sforzesco) alla quale il B. lavorava contemporaneamente alla Pietà del duomo di Firenze e della quale possiamo seguire il processo creativo attraverso disegni conservati a Oxford (Ashmolean Museum). A questo gruppo statuario il B. lavorò sino ai suoi ultimi giorni: se in esso riconosciamo, nelle tracce di frammentarismo e nell'applicazione del più vigoroso "non finito", motivi di accentuazione espressionistica come anche di riecheggiamenti medioevali per la struttura colonnare, nella ricostruzione del concetto disegnativo troviamo i segni dell'originaria ideazione che non manifestava affatto - né nella composizione né nell'espressione - tendenze eversive nei confronti degli ideali del Rinascimento. Eppure proprio questo rifiuto di quelle norme - come proporzione, armonia, concretezza fisica e bellezza ideale - che ancora vengono osservate nella Pietà del duomo fiorentino divenne visibilmente predominante nell'arte del B. nell'ultimo decennio di attività. Estremamente chiarificatore, a questo proposito, è il confronto del disegno con il Crocifisso per Vittoria Colonna (Londra, British Museum) con quei singolari "concetti" disegnati a gessetto o a penna, che raffigurano il Cristo morto con Maria e Giovanni, dove niente altro importa al vecchio artista se non esprimere il fondamentale mistero della redenzione e dove il B., come nella sua tarda poesia, conduce una preghiera-monologo, distaccato da ogni rapporto con l'esterno (i fogli si trovano a Londra, British Museum; Oxford, Ashmolean Museum; Parigi, Louvre; Roma, Bibl. Vaticana; Windsor, Royal Library). Anche dal punto di vista tecnico, questi preziosi disegni recano la sigla dell'irreale: il contorno perde la sua solidità e il modellato la sua definitezza e vi subentra una sorta di fluttuazione che conferisce alle immagini un carattere di trascendenza e di spiritualità (il più bell'esempio è nel disegno di una Madre con bambino, nel British Museum di Londra, eseguito certamente negli ultimi anni), e ciò in perfetta coincidenza con tutta la concezione di vita del B. e soprattutto con le sue poesie tarde.
Da quando, nel 1547, si assunse, per desiderio di Paolo III, l'incarico di altissima responsabilità, di sovrintendere alla fabbrica di S. Pietro, il B. non fu in grado di sottrarsi al ritmo fervido di avvenimenti che caratterizzava l'ambiente romano e che gli arrecò non poche angustie, dispiaceri, noie. L'impresa che, ormai vecchio, ha affrontato e diretto ha del sovrumano, e solo il suo elevato idealismo, nutrito del più autentico sentimento religioso e sostenuto da un non meno forte senso di responsabilità, gli permise di far fronte a questo gravoso impegno.
Già l'opposizione - aperta o nascosta - che gli venne mossa dalle maestranze della "setta sangallesca" e dell'astioso e mediocre architetto fiorentino Nanni di Baccio Bigio procurò al maestro gravi crucci; a ciò si aggiunse la necessità di porre rimedio a errori e negligenze della costruzione e infine quella che era per il B. la massima preoccupazione, cioè di riuscire a mettere a punto tutti i piani preliminari per la gigantesca opera, in modo da garantire, anche dopo la sua morte, l'unitarietà del progetto. Basta considerare la posizione del B. nei confronti del suo geniale predecessore, il Bramante, per rendersi conto della molteplice complessità di tali compiti. Egli ammirava senza riserve il progetto bramantesco e fin dall'inizio della costruzione si considerò impegnato a portarlo avanti e a perfezionarlo, ma i mutamenti di gusto e la sua stessa personale concezione comportavano, di necessità, radicali innovazioni sia nella pianta e nell'alzato sia nella copertura dell'edificio. Il problema più bruciante restava sempre quello della cupola, per la quale dalla morte del Bramante (1514) erano in discussione diversi progetti, oltre a un modello in legno dell'ultimo capomastro della fabbrica di S. Pietro, Antonio da Sangallo. Quanto il B. sia andato al di là di questi antichi progetti, pervenendo a originali soluzioni definitive, è attestato da alcuni disegni (Haarlem, Teylers Museum) e soprattutto, nella maniera più evidente, dal grande modello in legno (Città del Vaticano, già Museo Petriano, ora Musei Vaticani, sala del dogma dell'Immacolata), che venne eseguito con la sua supervisione tra il 1558 e il 1561 e che fu normativo per la costruzione (la calotta esterna fu aggiunta da Giacomo della Porta [1586 c.]).
"Por devotión sola" (lettera di s. Ignazio a Didaco Hurtado de Mendoza del 21 luglio 1554: vedi P. Pirri, La topografia del Gesù..., in Arch. Soc. Jesu, X [1941], p. 201 nota 88) il B. si occupò anche del progetto per la chiesa del Gesù (per l'attribuzione o meno del disegno Arch. 1819 D.518 degli Uffizi, vedi Dussler, 1959, p. 240 n. 518, ma anche Ackermann, 1968, pp. 281 s.). Nel 1561 forniva progetti per la trasformazione del tepidarium delle terme di Diocleziano in chiesa (S. Maria degli Angeli: Ackermann, 1968, pp. 105-109, 272-277). Allo stesso anno è datato il progetto per la cappella Sforza nella basilica di S. Maria Maggiore (realizzata da Tiberio Calcagni). L'età ormai avanzata non gli impedì di presentare, su richiesta del papa, proposte per porta Pia, mirabilmente documentate dagli straordinari "concetti" conservati in casa Buonarroti, a Haarlem (Teylers Museum) e a Windsor (Royal Library). In questo periodo tardo gli venne ancora, di lontano, una commissione di grandissimo prestigio: Caterina de' Medici, poco dopo la morte di Enrico II re di Francia (luglio 1559), chiese a Ruberto Strozzi di fare da intermediario presso il B. perché facesse una statua equestre del marito.
Il maestro dovette proporre per il monumento il suo allievo e amico Daniele da Volterra, ma s'impegnò a dirigere il lavoro (disegno nel Rijksmuseum di Amsterdam: Dussler, 1959, n. 244, ill. 146). Poiché Daniele morì nel 1566, fu eseguito solo il cavallo (distrutto nel 1793: Barocchi, in Vasari, IV, pp. 1946-1952, e A. Gotti, I, pp. 349 s.; II, pp. 144-148).
Non bisogna trascurare, tra gli aspetti della personalità del B., il suo atteggiamento verso il mondo che lo circondava e, in particolare, verso la gente semplice.
Nonostante, infatti, le sue esigenze spirituali e la sua amicizia con persone di grandissima cultura, egli amava anche circondarsi di artisti modesti come A. Mini, Bugiardini, Condivi, ecc., ai quali prestava il suo aiuto; e aveva inoltre forti legami affettivi con i domestici e con i parenti. Quando, alla fine del 1555, morì Francesco Amadori detto l'Urbino, che era stato per lunghi anni suo servitore, il B. rimase profondamente sconvolto, come prova la lettera al nipote Leonardo (4 dic. 1555: Milanesi, 1875, pp. 314 s.); anche la corrispondenza con la vedova Cornelia che era ritornata a Casteldurante, sua patria, con i due figli è testimonianza di un caldo sentimento di umanità (Milanesi, 1875, pp. 542, 556 s.; Frey, pp. 351-354, 360-70).
La morte di Michelangelo, lungamente attesa, avvenne, dopo una breve malattia, il 18 febbr. 1564, verso sera; assieme ai due medici erano presenti Tommaso de' Cavalieri e Daniele da Volterra: proprio due giorni prima aveva espresso il desiderio di essere sepolto a Firenze. Il 10 marzo le sue spoglie giunsero nella sua città e vennero portate alla compagnia dell'Assunta e quindi a S. Croce (la tomba è del Vasari, ed altri, 1570). Le esequie solenni, organizzate dagli artisti fiorentini, ebbero luogo in S. Lorenzo il 14 luglio e B. Varchi pronunciò l'orazione funebre; una minuziosa descrizione fu pubblicata nello stesso anno presso Iacopo Giunti (Esequie del divino Michelagnolo Buonarroti..., Firenze 1564; edizione in facsimile, con traduz. ingl. a fronte, in R. e M. Wittkower, The divine Michelangelo..., London 1964, pp. 49-133-9 cui si rimanda anche per la ricostruzione della morte del B. nonché delle decorazioni in S. Lorenzo).
Già dal quarto decennio del Cinquecento la fama del genio fiorentino aveva travalicato i confini d'Italia e non c'è forse altro artista che sia stato, in vita, glorificato in uguale misura. A livello locale, un contributo rilevante a questa glorificazione, era stato già portato da Benedetto Varchi con le Due lezioni tenute nel 1547 nell'Accademia fiorentina nelle quali celebrava il poeta e affrontava il paragone tra pittura e scultura. Ma l'opera dei due biografi, Giorgio Vasari ed Ascanio Condivi, ebbe una risonanza che oltrepassò i limiti del territorio fiorentino: essi misero ogni cura nel fissare per iscritto la vita e le opere del maestro e nel renderle note prima ancora della sua morte. La Vita del Condivi apparve nel 1553, frutto dello stretto contatto personale con il maestro: è legittima anzi l'ipotesi che essa sia stata compilata sotto gli occhi stessi del B. e abbia il carattere di relazione ufficiale. La Vita del Vasari invece, pubblicata nel 1550 nell'ambito della sua monumentale serie di Vite, non ha questo colore di immediatezza.
Ma se nella biografia dello scrittore aretino si fa sentire questa mancanza, è importante tuttavia che nella sua opera - la prima storia dell'arte italiana da Cimabue in poi - il B. sia l'amico artista vivente, del quale, in questo panorama, non solo si parla diffusamente, ma che viene celebrato come il culmine di uno sviluppo secolare; sicché si fanno avvertiti i contemporanei che nel genio del B. l'arte ha raggiunto la perfezione. Nella seconda edizione delle Vite (1568) il Vasari ha rielaborato lo scritto del Condivi e registra un buon numero di notizie che nel 1550 gli erano sfuggite.
Non pare che il B. si sia occupato di poesia prima del 1503-04, allorché, come attesta il Condivi, "se ne stette alquanto tempo senza far niuna cosa [nell'arte scultoria]... essendosi dato alla lezione de' poeti ed oratori volgari; ed a far sonetti per suo diletto". Quali siano stati quei poeti e oratori volgari si può ricavare abbastanza facilmente dalle prime poesie che di lui ci sono pervenute, ove motivi stilnovistici, danteschi e petrarcheschi si alternano a motivi e temi realistici o religiosi o platonici che rivelano una certa familiarità con la letteratura fiorentina dell'età del Magnifico e del Savonarola. Tra esse sono particolarmente notevoli, dal punto di vista biografico, i sonetti Signor, se è vero, del 1506, ove si lamenta che il papa (Giulio II) abbia prestato orecchio alle calunnie degli invidiosi, rendendo vano il suo lavoro e le sue speranze; Quanto si gode (1507), ispirato all'amore per una donna bolognese; I' ho già fatto un gozzo, in cui rappresenta se stesso in atto di dipingere la Sistina, penosamente rovesciato all'indietro; Qua si fa elmi, ove denuncia il bellicismo e l'affarismo dominante nella Roma di papa Giulio nei primi mesi del 1512; mentre altri, meno legati a riconoscibili momenti di vita, indicano già la presenza di alcuni dei più caratteristici temi della meditazione esistenziale del B.: il rapporto tra amore, arte e bellezza, il potere alienante dell'amore, la solitudine, il tema del peccato, e infine lo stesso tema, precocissimo, della vecchiaia.
Con il terzo e quarto decennio del secolo, il numero delle poesie si fa via via più nutrito, rivelando nel B. un sempre più vivo interesse a questa attività. Sono di questo periodo le canzoni Che fie di me e Oilmé, oilmé, i concetti poetici sulla fama e sul "dì e la notte" ispirati ai sepolcri medicei, le terzine sulla morte del fratello Buonarroto (1528) e le stanze in lode della vita rustica Novo piacere; ma è solo con il suo trasferimento a Roma che la poesia del B. perde ogni carattere occasionale e dilettantesco per divenire strumento di una ricerca assidua e relativamente sistematica.
Appartengono a questo secondo periodo, che va dal 1532-34 alla morte di Vittoria Colonna (1547), circa duecento delle trecento liriche di cui si compone l'intero canzoniere buonarrotiano: quasi tutte composizioni brevi, per lo più sonetti e madrigali, riconducibili da un lato alla esperienza erotico-artistica del platonismo e dall'altro al dramma cristiano del peccato e della grazia, tradotto in termini di esperienza autobiografica. Nate in parte anche come modo di corrispondenza o piuttosto come rapporto di sentimenti e di pensieri con gli amici (V. Colonna, il Cavalieri, Luigi del Riccio, Donato Giannotti), esse si possono distinguere in gruppi relativamente omogenei.
Un primo gruppo, comprendente le poesie ispirate all'amicizia per Tommaso de' Cavalieri, costituisce anche cronologicamente l'anello di congiunzione tra l'immediatezza, il realismo e quella certa effusività patetica che sono propri delle poesie del periodo precedente e il linguaggio più intellettuale, più contenuto e sobrio di questo secondo. La più evidente caratteristica di questi sonetti è infatti una singolare intensità affettiva, che s'esprime non soltanto mediante le più comuni nozioni del fuoco, dell'ardore, del consumarsi per amore o del nutrirsi di lacrime (vedi i sonetti I' piango, i' ardo; Sento d'un foco; Al cor di zolfo; ecc.), ma anche col motivo del desiderio di contatto fisico e di una perfetta identificazione con la persona amata (sonetti Se nel volto; Veggio co' be' vostr'occhi; D'altrui pietoso; ecc.), dando luogo a un linguaggio spesso vivacemente realistico, se pure di chiaro significato spirituale. Poco meno rilevante, in queste poesie per il Cavalieri, la nota moralistica, che nasce dal bisogno di sottolineare il carattere casto della relazione con il gentiluomo romano, sia con espressioni come "casta voglia", "casto amor", "foco onesto" sia toccando esplicitamente l'argomento (sonetti Tu sa' ch'i' so; Non vider gli occhi miei), o contrapponendo all'opinione del "vulgo malvagio", che vede negli altri la propria bassezza, la dottrina platonica dell'amore, che è propria delle "persone accorte".
Un secondo gruppo comprende i sonetti e i madrigali dedicati o variamente ispirati a Vittoria Colonna. Essi si distinguono da quelli del gruppo precedente non tanto per i temi, spesso analoghi, quanto per l'affettività più contenuta, che in alcune poesie, forse le prime della serie, sa di compassata galanteria, per il linguaggio e il tono più elevati, e per l'afflato di vita interiore che è proprio delle ultime poesie, documento di un vero colloquio spirituale tra il B. e la nobile signora. Così Vittoria è chiamata per lo più con gli appellativi variamente solenni di "donna alta e degna", "divina donna", "alta signora"; i suoi occhi sono "santi" e la sua beltà "superna"; al poeta appare come cinta da un diadema di luce (A l'alta tuo lucente diadema), la sua parola è come quella di un dio (Un uomo in una donna), onde per lei il B. si sente come elevato "sopra se stesso" (Tanto sopra me stesso). È insomma l'antico tema stilnovistico dell'esperienza del divino fatta per tramite della donna, mediato attraverso la conoscenza della letteratura sull'amor platonico, e svolto con un linguaggio in gran parte dantesco. Frequenti vi sono anche il paragone con l'esperienza dell'arte scultoria e pittorica, intesa anch'essa come attuazione di cose "divine", "eterne", nella materia o con la materia (Non ha l'ottimo artista; Sì come per levar; ecc.), e, nei componimenti più tardi, la meditazione religiosa della morte.
In vivace contrasto con le poesie per la Colonna si pone invece il terzo gruppo di componimenti, ispirati all'amore di una giovane "donna bella e crudele", "aspra e fera", "indomita e selvaggia", apostrofata spesso con uno spiccio "costei": tratti che, con la nota della giovinezza, non sembra possano adattarsi alla stessa Colonna. Essi costituiscono la parte, in un certo senso, più frivola del canzoniere: il platonismo vi è del tutto assente e vi dominano invece motivi d'amore contrastato e un gioco di antitesi sia tra la bellezza e la crudeltà della donna, sia tra la bellezza e la giovinezza di lei e la bruttezza e la vecchiezza del poeta, secondo un gusto drammatico in cui è facilmente riconoscibile l'influsso delle "petrose" di Dante.
Artificiosità più accentuata e ispirazione tanto meno viva si riconoscono poi nel quarto gruppo, comprendente i componimenti scritti per Luigi del Riccio, tra cui si distinguono i cinquanta epitaffi per il sepolcro di Cecchino Bracci, nipote dello stesso Ricci, morto quindicenne nel 1544. Essi costituiscono l'aspetto più bizzarramente concettistico dell'esperienza poetica buonarrotiana, ove intorno al tema centrale della morte sono adunati, in una serie infinita di variazioni, tutti i motivi tipici del poeta: il sentimento pessimistico del mondo, la meditazione su gioventù e vecchiaia, il rapporto cielo-terra, il desiderio di eternità della bellezza, il corpo come carcere, il corpo come veste gloriosa al dì del giudizio, il reciproco scambio di personalità nell'amore, l'immortalità dell'anima, la morte come vera vita, il concetto che è meglio non esser nati, o che è meglio morir giovani, la bellezza celeste come modello alla natura. Né mancano, tra questi epitaffi, come in quello scritto per la morte di Faustina Mancini Attavanti, "motti ambigui", cioè veri e propri giochi di parole.
Ad un quinto ed ultimo gruppo possiamo infine ascrivere le rimanenti poesie di questa età, dai due sonetti su Dante esule, vittima dell'ingratitudine dei Fiorentini, ai quattro sonetti sul motivo del dì e della notte, a tutte le altre composizioni, ove diversi temi di meditazione e di confessione sono svolti senza particolare riferimento ad altra persona, o quanto meno in modo che i riferimenti sono del tutto secondari rispetto all'argomento stesso. Tra essi meritano particolare menzione le non molte poesie che svolgono alcuni fondamentali pensieri del B. sulla bellezza e sull'arte: sulla essenza spirituale e trascendente della bellezza (Per fido esemplo), sulla caducità dell'opera scultoria, ma non della bellezza che ne è l'oggetto (Molto diletta), sull'arte come espressione di maturità conquistata attraverso lunghe prove e ricerche (Negli anni molti).
La forte impronta personale che il B. mostra soprattutto in queste poesie del secondo periodo, e che non trova paragone nella lirica del suo secolo, non impedisce di riconoscere che il Petrarca resta tuttavia anche per lui il primo e principale maestro. Si tratta però non del Petrarca morbido e musicale, naturalista ed edonista delle più note composizioni; ma del Petrarca più riflessivo e concettoso, spirituale e simbolico, che elabora i motivi di un essenziale dualismo imperniandoli su espressioni come "mezzo rimango", "duo contrari", "un'anima in due corpi", che identifica, i termini della sua inquietudine e delle sue aspirazioni morali nei simboli del "poggio faticoso e alto", dei "contrari venti", delle "crudeli stelle", di Medusa e della Fenice; per il quale si continua e sviluppa la linea intellettualistica ed ermetica della più antica lirica italiana. Così il petrarchismo buonarrotiano è altra cosa da quello della linea bembesca e dellacasiana. Per costoro, l'imitazione del Petrarca è imitazione d'anima, cioè psicologica, di contegno, di "voce"; essi sono imitatori non solo della poesia, ma della persona del Petrarca. Il B. invece non è attratto dalla persona, ma solo dall'opera, dalla poesia del Petrarca, che utilizza scorporandola della sua soggettività, in ciò ch'è più essenziale e universale, in ciò che più conviene al suo gusto riflessivo e costruttivo; e ad essa riconosce non già una funzione esclusiva o limitativa rispetto ai poeti della tradizione, ma una semplice preminenza organizzativa, una funzione di raccordo e di mediazione. Così il B. riesce originale anche in quei componimenti che, all'analisi, risultano costruiti quasi per intero con materiale petrarchesco, perché il modo di costruire è soltanto suo, ovvero perché la sua personalità poetica consiste tutta nella costruzione e strutturazione simbolica dei dati della propria esperienza e della propria cultura.
Solo quando, con la morte di Vittoria Colonna e con la vecchiaia, vengono meno nel B. il gusto e l'impegno per questo difficile e chiuso "trobar", solo allora le sue rime perdono in parte ciò che più hanno di caratteristico, e vi si torna a sentire distinta, come nelle prime canzoni, anche la "voce" del Petrarca: il tono patetico, musicalmente disteso. È appunto questo il tono dell'ultima fase poetica buonarrotiana: dal 1547 alla morte. Aperta dal famoso capitolo "burchiellesco" I' sto rinchiuso, dove il poeta definisce bambocci le sue sculture e fa carico all'arte di averlo ridotto in quello stato di desolazione morale e fisica su cui indugia con amaro gusto d'autocaricatura per quasi tutto il componimento, questa fase comprende una trentina di sonetti, tra cui alcuni di corrispondenza (al Vasari, nel '55; al Beccadelli, nel '56), nei quali ritornano con particolare insistenza, accompagnati al pensiero della morte, quei motivi di pentimento e di preghiera che compaiono qua e là anche tra le prime poesie, e che per essere spesso incentrati sul motivo della meditazione del Crocifisso come fondamento di salvezza (Giunto è già 'l corso; Scarco d'un'importuna; Non fur men lieti) hanno indotto alcuni a supporre, senza molto fondamento, un'adesione del B. alla dottrina protestante della giustificazione per sola fede. Documento, in ogni caso, di una religiosità severa e profonda, che anela ad esprimersi in cospetto della morte non più per la terrestre mediazione della bellezza e dell'arte compiuta, ma direttamente, come nelle scabre forme della Pietà Rondanini, queste ultime poesie convogliano nella più consueta e distesa sintassi del petrarchismo religioso la nota, pur sempre nettamente rilevata, di una energia intensa e rude, anche nella preghiera, di una intelligenza presente e chiara, anche nell'abbandono. Non c'è più la ricerca dell'arte, ce n'è anzi il rifiuto, ma l'arte vive ormai in lui, perfettamente posseduta, e presiede alla stessa espressione del rifiuto.
Se le Rime sono testimonianza di un interesse letterario relativamente autonomo rispetto alle ragioni umane di uno sfogo ed a quelle professionali di una riflessione sui temi dell'arte, le lettere del B. non rivelano generalmente alcuna preoccupazione che vada oltre le esigenze pratiche dell'uomo e dell'artista. Ciò peraltro non significa che egli non scriva volentieri, con amore e cura di efficacia (certe affermazioni in contrario: "Lo scrivere m'è di grande affanno, perché non è mia, arte... Lo scrivere m'è di gran noia e fastidio", si trovano soltanto nelle lettere degli ultimi anni, al nipote Leonardo, e si riferiscono evidentemente solo a fatica e noia fisica), o che rinunci all'occasione che il rapporto epistolare gli offre di innalzare il tono e allargare l'orizzonte oltre i limiti dell'immediato e del quotidiano, manifestando così una magnanimità di pensieri, una forza intrinseca di accenti, una consapevolezza del proprio valore e della propria posizione sociale che in pratica assicurano all'epistolario una fisionomia unitaria, come specchio di una personalità di eccezionale rilievo, analoga a quella delle Rime.
Quale a tutt'oggi si presenta nella ristampa papiniana della vecchia edizione del Milanesi (di una nuova, monumentale edizione del carteggio buonarrotiano, a cura di Paola Barocchi, sotto gli auspici dell'Ist. naz. di studi sul Rinascimento, sono usciti finora i primi tre volumi, comprendenti le lettere fino al 1523 [Firenze 1965-67], l'epistolario comprende poco meno di cinquecento lettere, scritte tra il 1486 e il 1563.
Di esse il numero più cospicuo è costituito dalle lettere ai familiari: il padre Ludovico (32), i fratelli Buonarroto (56), Giovansimone (9), Gismondo (3), e il nipote Leonardo (130). Meglio che "familiari" si possono definire "di governo familiare": il B. vi appare infatti in linea con quella ideologia e letteratura fiorentina di famiglia che ispira i Dialoghi dell'Alberti come i Ricordi guicciardiniani, come il capo indiscusso di una casa, responsabile della sua fortuna sociale ed economica, e al tempo stesso del bene spirituale e materiale dei singoli membri. Le lettere sono così il mezzo normale con il quale da Bologna, da Carrara o da Roma egli governa la famiglia fiorentina, facendosi presente ai parenti con l'esempio della propria vita e con l'autorità del proprio giudizio: assiduo nel consiglio, si tratti di comperare una casa o di scegliere una moglie; perentorio nel comando, severo nel rimbrotto, veemente nello sdegno e nella minaccia; sempre, nel fondo, affettuoso; e sempre preoccupato che essi ispirino la loro condotta non al gretto tornaconto o al timore di perdere l'eredità ch'egli ha loro riserbato (è il caso di Leonardo), ma al buon nome e all'interesse della casa. In questa luce si spiega uno dei temi più insistenti e curiosi di queste lettere: la rivendicazione della nobiltà della famiglia: "Noi siam pure cittadini discesi di nobilissima stirpe... Un dì ch'io abbi tempo, v'aviserò dell'origine nostra, e donde venimo e quando a Firenze, che forse nol sapete voi: però non si vuol torsi quello che Dio ci ha dato" (a Leonardo, 1546). Per questo è pronto a rimproverare il padre e i fratelli quando trattino troppo familiarmente con persone di rango inferiore, e la nobiltà è tra le condizioni cui deve rispondere la futura sposa di Leonardo: "A te sta il torla o non la torre... purché sia nobile e ben allevata... Hai aver l'occhio a la nobiltà, a la sanità, e più a la bontà, che a altro... Perché si sa che noi siamo antichi cittadini fiorentini". Una nobiltà che, del resto, s'accompagna con la semplicità della vita (tra le doti della sposa di Leonardo dovrebb'essere anche quella di saper rigovernare), con lo spirito di povertà ("gli uomini vagliono più che e' denari", "della roba non facciate stima, perché è cosa fallace"), con l'umiltà che riferisce a Dio ogni bene anche materiale ("Però fà di riconoscer da Dio il grado in che tu se'"). Con gli insegnamenti di religione, una religione schietta e semplice, fedele alla pratica e alle opere di carità, ma senza pietismi e complicazioni, sono anche frequenti i consigli di saggezza economica o genericamente pratica, che fanno pensare, appunto, al Guicciardini: "Non far mai cosa a stanza di nessuno, che interamente non ti contenti"... "Quello che voi fate, fatelo senza passione, perché non è sì gran faccenda che facendola senza passione non paia piccola"... "E' non si trova chi voglia meglio a altri che a sé"... "Nell'andare adagio si fa manco errori". Pronto anche al sarcasmo amaro, allo sdegno iroso, alla minaccia, egli riesce in tali casi a toccare il segno di un'alta e commossa eloquenza: "Io son ito da dodici anni in qua - scrive allo scapestrato Giovansimone - tapinando per tutta Italia; sopportato ogni vergognia, patito ogni stento, lacerato il corpo mio in ogni fatica; messa la vita propria a mille pericoli, solo per aiutar la casa mia e ora che io ho cominciato a rilevarla un poco, tu solo voglia esser quello che scompigli e rovini in una ora quel ch'i' ho fatto in tanti anni e con tante fatiche; al corpo di Cristo che non sarà vero! che sio sono per iscompigliare diecimila tuoi pari, quando e' bisognierà".
A questa magnanimità posseduta, senza pose, ci riconduce anche il gruppo delle lettere "di lavoro". Inviate a familiari, specialmente al prediletto Buonarroto, a committenti come il cardinal Giulio de' Medici e Paolo III, ad amici come Sebastiano del Piombo, e più spesso a maestri d'arte, garzoni, scalpellini, procuratori, esse non contengono che raramente riferimenti di teorie o di pratica d'arte ad alto livello. Si tratti di riferire sulla fusione della statua di Giulio II a Bologna, o di rievocare le interminabili vicende della lite con gli eredi del papa, di esporre i contrattempi che lo trattengono nel territorio apuano per la cava e il trasporto dei marmi, o di lamentare l'infedeltà di garzoni, l'infingardaggine di operai, le ruberie di capimastri; si direbbe che, indipendentemente dalla necessità dello scriverne, egli ami rappresentarsi proprio in questi aspetti minori, quasi a ricavare anche da questo suo quotidiano combattere con l'insufficienza degli uomini e con la dura materialità delle cose un significato universale: l'idea stessa dell'attività umana, colta non già nel momento vittorioso, quale s'esprime nella bellezza dell'opera compiuta, ma nella umana e religiosa dimensione del suo limite, nella sua essenziale insufficienza e irrimediabile incompiutezza e connaturata fallibilità. Il B. talora scherza su questo suo destino di Sisifo: "Del fare o del non fare le cose che s'hanno a fare che voi dite che hanno a soprastare, è meglio lasciarle fare a chi l'ha' fare, ch'i' arò tanto da fare ch'i' non mi curo più di fare" (a F. Fattucci, 1525); ma tal altra vi si ribella: "La pittura e la scultura, la fatica e la fede m'han rovinato, e va tuttavia di male in peggio. Meglio m'era ne' primi anni che io mi fussi messo a fare zolfanelli, ch'i' non sarei in tanta passione!"; "Io mi truovo aver perduta tutta la mia giovinezza, legato a questa sepoltura... Così vuole la mia fortuna! Io veggo molti con dumila e tremila scudi d'entrata starsi nel letto, et io con grandissima fatica m'ingegnio d'impoverire". Pur tra il lamento della fatica si riaffaccia di tanto in tanto la consapevolezza del proprio valore: "A me basta l'animo far questa opera della facciata di San Lorenzo, che sia d'architettura e di scultura lo specchio di tutta Italia...", senza che mai tra le righe si celi pur l'ombra del compiacimento e dell'enfasi.
A un terzo gruppo che potremmo chiamare "di convenienza" si possono aggiudicare sia le lettere al re di Francia, al duca Cosimo, all'Aretino, al Varchi, che furono scritte dal B. per lo più per disimpegnarsi da richieste o proposte di vario genere (il Varchi gli proponeva il quesito della superiorità della scultura o della pittura, "dispute", risponde il B., che è meglio "lasciare", perché "vi va più tempo che a far le figure"), ove il rango o la fama letteraria dei destinatari suggeriscono al mittente un "decoro" che tuttavia non altera la naturale semplicità dello stile; sia le poche al Cavalieri e alla Colonna che invece appaiono quanto mai complimentose e lambiccate; sia infine le lettere degli ultimi anni, a Luca Martini, al Cellini e soprattutto al Vasari, che svolgono, talora con le stesse parole, i temi della vecchiaia e dell'approssimarsi della morte che troviamo nelle poesie dello stesso periodo. E in realtà tutte queste lettere di convenienza rappresentano nel complesso una fase intermedia tra l'immediatezza tutta cose che è propria della maggior parte dell'epistolario e la nobile letterarietà delle rime.
E. N. Girardi
Fonti e Bibl.: Oltre alla prima rassegna bibl. michelangiolesca, L. Passerini, La bibliografia di M. B. e gli incisori delle sue opere, Firenze 1875, si veda, per una dettagliata bibl. fino al 1930: E. Steinmann-R. Wittkower, Michelangelo. Bibliographie 1510-1926, Leipzig 1927, e Nachtrag und Fortsetzung der Michelangelo Bibliographie von Steinmann-Wittkower bis 1930, a cura di H. W. Schmidt, pubbl. in appendice a E. Steinmann, Michelangelo im Spiegel seiner Zeit, Leipzig 1930.
Meno particolareggiato il Supplemento alla bibliografia michelangiolesca (1931-1942), a cura di P. Cherubelli, in M. B. nel IV centenario del Giudizio Universale, Firenze 1942, pp. 270-304, dal quale prende esplicitamente le mosse, per integrarlo e continuarlo, P. Barocchi, in G. Vasari, Vita di Michelangelo, I, Milano-Napoli 1962, pp. 341-376; ulteriori integrazioni si trovano nella recens. di H. von Einem, in Zeitschrift für Kunstgeschichte, XXVIII (1965), pp. 362 s.; nella stessa rivista, alle pp. 307-352 si veda Ch. A. Isermeyer, Das Michelangelo - Jahr 1964 und die Forschungen zu Michelangelo als Maler und Bildhauer von 1959 bis 1965 (bibliogr. purtroppo non completata dalla parte riguardante l'architettura che pure era annunciata). Un ulteriore aggiornamento della bibl. michelangiolesca sino al 1970 è affidato alle cure di L. Dussler (in corso di stampa).
Ma inoltre e in particolare, si veda: G. Milanesi. Le lettere di M. B. ... coi ricordi ed i contratti artistici, Firenze 1875; K. Frey, Sammlung ausgewälter Briefe an Michelagniolo B., Berlin 1899; Id., Die Briefe des Michelagniolo, Berlin 1907 (nuova ediz., 1961); Il Carteggio di Michelangelo, ediz. postuma di G. Poggi, a cura di P. Barocchi e R. Ristori, I, Firenze 1965; II, ibid. 1967; I ricordi di Michelangelo, a cura di L. Bardeschi Ciulich e P. Barocchi, Firenze 1970; G. Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, a cura di P. Barocchi, I (testo, bibl.), II-IV (commento), V (indici), Milano-Napoli 1962 (che è l'edizione citata nel corso della voce; nell'ediz. delle Vite del Vasari, a cura di G. Milanesi, la vita di Michelangelo è nel volume VII, Firenze 1881, pp. 135-317); A. Condivi, Vita di M. B. ... (1553), a cura di E. Spina Barelli, Milano 1964; R. Duppa, The life of M. B., London 1806; A. Chr. Quatremère de Quincy, Histoire de la vie et des ouvrages de Michel-Ange B., Paris 1835; H. Grimm, Leben Michelangelos, Hannover 1860-63 (nuova ediz., Leipzig 1940; trad. ital. di A. di Cossilla, Milano 1875); A. Gotti, Vita di M. B., Firenze 1875; J. A. Symonds, The life of M. B., London 1893; K. Frey, Michelagnolo B. Sein Leben und seine Werke, I, Michelagniolos Jugendjare, Berlin 1907; R. Rolland, La vie de Michel-Ange, Paris 1907 (trad. ital. di B. Enriques, Firenze 1921); H. Mackowsky, Michelangelo, Berlin 1909 (8 ediz., Stuttgart 1947); E. Steinmann, Michelangelo im Spiegel seiner Zeit, Leipzig 1930; P. Toesca, in Encicl. Ital., XXIII, Milano-Roma 1934, pp. 165-191; W. Maurenbrecher, Die Aufzeichnungen des M. B., Leipzig 1938; G. Papini, Vita di Michelangiolo nella vita del suo tempo, Milano 1949; L. Dussler, Die Zeichnungen des Michelangelo, Berlin 1959; P. Barocchi, Michelangelo e la sua scuola, Firenze 1962-64, I-II, I disegni di casa Buonarroti e degli Uffizi; III, I disegni dell'archivio Buonarroti; Ch. De Tolnay, in Encicl. univ. dell'arte, IX, Venezia-Roma 1963, coll. 263-306; E. H. Ranisden, The letters of Michelangelo, London 1963; R. J. Clements, Michelangelo, a self portrait, New York 1963; Michelangelo architetto, Torino 1964 (con catal. delle opere e bibl. a cura di F. Barbieri e L. Puppo); V. Mariani, Michelangelo pittore, Milano 1964; K. Clark, Michelangelo pittore, in Apollo, LXXX (1964), pp. 436-445 (testo del discorso di chiusura delle celebrazioni del centenario dell'Accademia Fiorentina); E. Panofsky, Tomb sculpture, London 1964, ad Indicem; Atti del Convegno di studi michelangioleschi, Firenze-Roma 1964, Roma 1966 (particolarmente interessante per la ricostruzione della personalità del B. il contributo di G. Spini, Politicità di Michelangelo, a pp. 110-170); J. Pove Hennessy, La scultura ital., Il Cinquecento e il Barocco, I-II, Milano 1966, pp. 11-45, 303-344; J. Ackermann, L'architettura di Michelangelo, Torino 1968; L. Steinberg, Michelangelo's Madonna Medici and related works, in The Burlington Magazine, XCIII (1971), pp. 145 ss.; P. Joannides, A note on the Julius tomb…, ibid., pp. 149 s.; M. Brusantin, La cupola di S. Pietro..., in Controspazio, III (1971), n. 3, pp. 20-32; N. Vian, Una casa nella vita di Michelangelo, in Strenna dei Romanisti, 1971, pp. 380-386; P. Fehl, Michelangelo's Crucifixion of st. Peter…, in The Art Bulletin, LIII (1971), pp. 327 ss.; H. R. Mancusi-Ungaro, Michelangelo: The Bruges Madonna and the Piccolomini Altar, London 1971. Si tengano presenti inoltre i cinque volumi di Ch. De Tolnay, Michelangelo, Princeton 1945-1960, I, The Youth..., II, The Sistine Ceiling; III, The Medici Chapel; IV, The Tomb of Julius II; V, The Final Period.
I manoscritti buonarrotiani permettono di supporre che il B. verso il 1546 intendesse procurare una edizione delle sue poesie; progetto sfumato forse a causa della morte (avvenuta alla fine di quell'anno) di colui che lo aiutava a preparare e a ordinare le belle copie da mandare alla stampa, Luigi del Riccio. L' "editio princeps" comparve nel 1623 in Firenze, presso i Giunti, Per cura del pronipote Michelangelo Buonarroti il Giovane; incompleta e assai infedele, fu più volte ristampata e servì di base ad altre edizioni finché C. Guasti nel 1863 non ne diede la prima edizione completa e ricavata dai manoscritti: Le rime di M. B., Firenze 1863. Altre edizioni critiche: Die Dichtungen des M. B. …, a cura di K. Frey, Berlin 1897; M. B., Rime, a cura di E. N. Girardi, Bari 1960. Per le lettere, oltre alle edizioni citate, si vedano i due volumi: Lettere, a cura di G. Papini, Lanciano 1910. Sulla produzione letteraria del B. si veda poi U. Foscolo, Michel Angelo (1822), e Poems of M.A.B., (1826), in Opere, Ediz. naz., X, pp. 447-59, 469-91; W. Pater, The poetry of Michelangelo, in Fortnightly Review, ott. 1571, poi in Studies on the history of the Renaissance, London 1873 (trad. it. Il Rinascimento, Napoli 1925); J. A. Symonds, The sonnets of M. B. and Campanella, London 1878; G. Klaczko, Causeries florentines, Paris 1880 (trad. it., Bari 1925); C. Boito, Leonardo, Michelangelo, A. Palladio. Studi artistici, Milano 1883, pp. 119 ss.; A. Farinelli, Michelangelo poeta, in Raccolta di studi dedicata ad Alessandro D'Ancona, Firenze 1901 (ultima edizione in Michelangelo e Dante. Michelangelo poeta, Torino 1943); T. Parodi, M. B., in Poesia e letteratura, Bari 1916; G. Bertoni, La prosa di Michelangelo, in Lingua e pensiero, Firenze 1932; G. C. Ferrero, Il petrarchismo del Bembo e le rime di Michelangelo, Torino 1935; G. Contini, Il senso delle cose nella poesia di Michelangelo, in Rivista rosminiana, XXXI (1937), poi in Esercizi di lettura, Firenze 1947; V. Mariani, Poesia di Michelangelo, Roma 1941; H. Sckommodau, Die Dichtungen Michelangiolos, in Romanische Forschungen, LVI (1942), pp. 49-104; T. Mann, La concezione dell'amore nella poesia di Michelangelo, in Letterature moderne, I (1959), pp. 427 ss. (ora in Scritti minori, Milano 1958); L. Baldacci, Lineamenti della poesia di Michelangelo, in Paragone, VI (1955), n. 72, pp. 27-45; G. Di Pino, Le rime di Michelangelo, in Umanità e stile, Firenze 1957; E. N. Girardi, Studi sulle Rime di Michelangiolo, Milano 1964; Id., Michelangelo scrittore: le lettere e le rime, in Michelangelo artista, pensatore, scrittore, II, Novara 1965, pp. 543-568; Id., Introduzione all'ediz. delle Rime, Bari 1967, pp. VII-XXVII; Id., La critica letteraria su Michelangiolo, in Atti del Convegno di studi michelangioleschi, cit., pp. 81-109. F. Figurelli, Sulla poesia di Michelangelo, in Pubblic. d. Univ. di Bari, Annali d. Facoltà di lettere e filosofia, (1965), pp. 81-105; U. Bosco, Michelangelo Poeta, in Saggi sul Rinasc. ital., Roma 1970, pp. 52-76; W. Binni, Michelangelo scrittore, Roma 1965; U. Bosco, Non ha l'ottimo artista, in Studi in onore di A. Schiaffini, in Riv. di cultura classica e medievale, VII (1965), pp. 181 ss.; R. J. Clements, The poetry of Michelangelo, New York 1965 (trad. ital., Milano 1966).
L. Dussler-E. N. Girardi