Buonarroti, Michelangelo
, Sin dal Cinquecento i primi biografi dell'artista (Caprese 1475 - Roma 1564) misero in evidenza le affinità che si potevano riscontrare tra il B. e Dante. A spingerli su questa via fu, con ogni probabilità, il noto grande interesse del B. per D. e soprattutto per la Commedia. Ciò indusse scrittori come il Varchi, il Giannotti, il Condivi e altri ad andar oltre la ricerca d'indubbie affinità spirituali, per individuare nelle opere dell'artista un chiaro riflesso, se non un preciso riferimento, alle opere di D., massime alla Commedia.
Nei secoli che seguirono si continuò sulla via tracciata dai primi biografi e critici e si andò, così, ingrossando la schiera di coloro che, con particolare riferimento al Giudizio Universale della Sistina, videro una precisa derivazione dantesca nell'opera michelangiolesca. Il rapporto D.-Michelangelo fu visto così stretto che si parlò anche di un'illustrazione della Commedia di mano del B., e che sarebbe andata perduta in un naufragio al largo di Civitavecchia. La notizia è risultata poi priva di fondamento, ma è significativo il fatto che abbia potuto sorgere e propagarsi. E noto, poi, che il B. ha dato prova tangibile del suo ossequio e interesse per l'illustre concittadino offrendo di eseguirne gratuitamente il monumento funebre allorché Firenze chiese la restituzione dei resti dell'Alighieri. Che questo interesse si sia anche concretato in una rappresentazione, naturalmente ideale, della figura del poeta sarebbe stato dimostrato da B. Nogara, il quale avrebbe individuato un ritratto di D. in una figura - che richiama il presunto ritratto del Bargello, un tempo attribuito a Giotto e ora ascritto alla sua scuola - posta in un gruppo di beati collocati sul lato destro della parte centrale del Giudizio.
Nessun serio fondamento critico e scientifico ha, invece, lo scritto di J. Díaz Gonzales che, studiando le linee di composizione dell'affresco, ha creduto di individuarvi un cripto-ritratto del poeta e, al centro, una cripto-rappresentazione di Cristo. Tornando, comunque, al rapporto letterario-figurativo tra i due artisti, dall'esame dei vari scritti, sia di quelli dei già citati autori del Cinquecento, sia di quelli più tardi quali il Werner, il Foscolo, lo Hardford, il Symonds, il Kallato, lo Steimann, fino al Barmski, Spahr, Thode, Toesca, e altri, risulta evidente che questo rapporto è piuttosto generico e non regge a un approfondimento critico. Possiamo quindi concludere con i critici più recenti, tra cui il De Campos, che il B., per il suo Giudizio, si è ispirato soprattutto alla tradizione iconografica, anche se, come in ogni altra sua opera, l'ha profondamente rinnovata.
Come soli riferimenti precisi alla Commedia possono essere accettate la rappresentazione dei demoni con i dannati sulle spalle (If XXI 34-36) e le figure di Minosse e di Caronte. Ma anche se nel dipingere Michelangelo aveva presenti alla mente i versi dell'Inferno, egli vi mantenne fede solo nella descrizione di Caronte (" Il nocchiero d'Acheronte, strumento della giustizia divina, è trasformato in un tremendo partecipe della vendetta ", Ulivi); mentre per quanto riguarda l'episodio in sé vi ha dato una propria interpretazione spostando la scena dal momento dell'imbarco delle anime (If III 109-111) al momento dello sbarco. Mostrandoci Caronte in atto di battere con il remo le anime per spingerle fuori della barca, dopo il tragico traghetto, il B. arriva a sconfessare il concetto dantesco del desiderio di punizione (If III 124-126). In conclusione, è valido il giudizio dell'Ulivi, che il B. è " un eccezionale interprete più che della pagina, della coscienza stessa " di Dante.
Nel campo più propriamente letterario, fu il Foscolo a formulare per primo il paragone critico tra i due grandi scrittori, che è poi diventato luogo comune. Nelle Rime del B. non mancano certo ricordi danteschi, ed è anzi significativa la vicinanza di lui anche a D. petroso; ci sono poi due sonetti, Dal ciel discese e Quante dirne si de' (248 e 250 dell'edizione Girardi), nei quali l'accento del B. batte sulla forza del carattere con cui D. aveva saputo affrontare la sventura; sull'ingratitudine di Firenze; sulla grandezza della gloria dell'Alighieri, per raggiungere la quale egli, il B., accetterebbe anche l'ingiusto esilio, reso sopportabile dalla " virtute " di D.; sull'utilità, infine, per lui e per tutti, dell'insegnamento religioso della Commedia. Ma piuttosto che su questi sonetti e sugli echi in singoli passi, si è in genere preferito puntare su somiglianze certe ma generiche: la serietà profonda con cui i due guardano alla vita, la coscienza che essi ebbero del loro valore artistico e umano; l'indole sdegnosa; la religiosità, che costituisce il fondamento spirituale dell'uno e dell'altro.
Ma, se si guarda più da vicino, risultano invece essenziali le diversità: D. impregnato di politica, il B. tiepido partigiano; D. assetato di cultura in ogni campo, il B. contento di pochi libri; D. giudice di moralità, di poesia, di scienza, il B. chiuso nei problemi della propria personalità e della propria arte. Manca nell'intellettualismo acuminato del B. la ferma razionalità di D., che approda a una pace sconosciuta all'altro; paradossalmente, è assente nell'opera poetica dello scultore e pittore proprio la plasticità (e persino la figuratività) che è così potente nell'Alighieri. Nelle sue Rime, il B. volle fare quello che non poteva col pennello e con lo scalpello: prendere cognizione intellettuale-sentimentale della propria inquietudine, del proprio oscuro senso di peccato. È proprio ciò che distingue radicalmente i due: il B., in tempo di Riforma cattolica e protestante, sa che la debole volontà umana non basta a vincere non solo il peccato originale, ma anche gli attuali peccati del singolo; la speranza di salvazione risiede nella Grazia. C'è in lui, assiduo, un timore di dannazione, che in D. è ovviamente inconcepibile. Semmai, quel che avvicina il B. all'Alighieri è la loro costituzionale tendenza al simbolo: ma il simbolo di D., così robustamente nutrito di dottrina filosofica e teologica, così bisognoso di assumere forme corpose, è ben altra cosa del simbolo del B., che diventa spesso parola-simbolo, ed è soprattutto espressione di una tendenza - che è il proprio della poesia di lui - alla concentrazione del pensiero e dello stile; di un bisogno di stringere in un solo segno verbale la complessità del suo sentire. Umberto Bosco
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Le Rime di Michelangelo nell'edizione E.N. Girardi, Bari 1960. Il paragone con D. è, più o meno sviluppate, in quanti si sono occupati del B. poeta. Cfr. in particolare: U, Foscolo, Scritti del 1822 e del 1826, in Opere, X 447-459, 469-491; T. Parodi, in Poesia e letteratura, Bari 1916, 165-197; A. Farinelli, cit.; E.G. Parodi, Michelangelo e D., (1918: severo accenno al volume di K. Borinski, Die Rätsel Michelangelos. M. und Dante, Monaco 1908), rist. in Poeti antichi e moderni, Firenze 1923, 185-191; F. Rizzo, M. poeta, Milano 1924, 121-124 e 228; B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1933, 391-400; N. Façon, Michelangelo poet, Bucarest 1939; G. Di Pino, Le " Rime " di Michelangelo, in Stile e umanità, Messina-Firenze [1957], 101-119; E.N. Girardi, Studi sulle Rime di Michelangelo, Milano 1964; A. Friedrich, Epochen der ital. Lyrik, Francoforte sul Meno 1964, 329-412; Atti del Convegno di studi michelangioleschi (Firenze-Roma 1964), Roma 1966; W. Binni, Michelangelo scrittore, Roma 1965; L. Magnani, Michelangelo poeta, in " Terzo programma " 1965, fasc. 1, 182-224.