Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Celebrato come uno dei più grandi maestri di tutti i tempi, Michelangelo incarna la figura del genio universale e svolge un ruolo chiave nella definizione della Maniera moderna. Pochi altri hanno avuto una carriera altrettanto lunga e intensa, pochi altri hanno goduto di un prestigio equivalente presso i contemporanei e i posteri. Autore di alcuni dei testi capitali della cultura figurativa occidentale, domina il panorama artistico del XVI secolo fissando nuovi traguardi non solo nel campo della scultura, che sente intimamente proprio, ma anche in quelli della pittura e dell’architettura.
Michelangelo Buonarroti nasce a Caprese, in provincia di Arezzo, il 6 marzo del 1475. Cresciuto a Settignano, si dedica all’attività artistica abbandonando il percorso umanistico caldeggiato dal padre. Si forma nella Firenze di fine Quattrocento, dove frequenta la bottega dei Ghirlandaio ed è successivamente ammesso al Giardino del casino mediceo di San Marco. Lo studio della collezione di Lorenzo il Magnifico e la vicinanza alla cerchia di intellettuali che gravitavano intorno al signore della città costituiscono esperienze fondamentali per il giovane. Senza trascurare il rapporto con i grandi padri della tradizione toscana quali Giotto e Masaccio per la pittura, Nicola Pisano e Donatello per la scultura, approfondisce la lezione dell’antico ed entra in contatto con il neoplatonismo di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, basilare per lo sviluppo della sua poetica.
A questo periodo risale la scultura conservata presso la Casa Buonarroti di Firenze (1492 ca.) il cui soggetto è tradizionalmente identificato nella Centauromachia, lo scontro ingaggiato dalle mitologiche figure dal busto umano e gli arti inferiori equini – in verità non facilmente identificabili – contro i Lapiti, nella quale è stata letta l’affermazione della civiltà sulla barbarie, della componente spirituale su quella materiale. L’opera, forse suggerita da Angelo Poliziano e ispirata alle Metamorfosi di Ovidio, costituisce una moderna rivisitazione dei rilievi tre e quattrocenteschi alla luce della conoscenza dei sarcofagi classici. Michelangelo elimina i riferimenti di tipo spaziale ed elegge a protagonista assoluto il corpo umano in movimento che, supportato da studi anatomici, sarà d’ora in poi al centro della sua ricerca.
Negli stessi anni affronta un soggetto sacro, la Madonna della Scala, cosiddetta per la presenza di cinque alti gradini che simboleggiano la continuità fra dimensione terrena e divina (Firenze, Casa Buonarroti). In una sorta di confronto virtuosistico con la tecnica dello "stiacciato" donatelliano – nel quale è altrettanto evidente la ripresa di prototipi antichi – le figure sono appena rilevate sul piano di fondo proponendosi alla stregua di un’astrazione intellettuale da contemplare. Il tono generale è lontano dall’atteggiamento travagliato al quale l’artista approderà negli anni della piena maturità. Tuttavia i primi fermenti della sua accesa spiritualità maturano nel contesto fiorentino dell’epoca, quando la città è scossa dalle prediche del domenicano Girolamo Savonarola, che, morto sul rogo da eretico, denuncia la necessità di rinnovamento della società.
Il primo soggiorno romano (1496-1501), successivo ad alcuni viaggi attraverso il Nord Italia a seguito dell’allontanamento dei Medici da Firenze (con permanenze a Venezia e a Bologna), è occasione di una rinnovata riflessione sull’antico. Il tentativo di emularne lo spirito risulta talmente riuscito nel Cupido dormiente, di cui riferiscono le fonti, che l’opera è venduta come autentica; ciò gli garantisce l’interesse di un importante mecenate dell’Urbe, il cardinale Raffaele Riario. Su incarico del prelato realizza il Bacco del Museo Nazionale del Bargello di Firenze (1498), opera audace sotto più di un punto di vista e per questo rifiutata dal committente. Ispirata alla statuaria classica, non ha equivalenti per la capacità di restituire lo stato di ebbrezza della divinità nell’equilibrio instabile del corpo, retto dalla gamba sinistra, il cui busto, dal volto ammiccante nel mostrare la coppa di vino, è mollemente sbilanciato all’indietro.
Ma l’opera più nota di questo periodo è la Pietà di San Pietro in Vaticano (1499), commissionata dal cardinale Jean Bilhères de Lagraulas, ambasciatore del re di Francia presso il papa. Esempio di perfezione tecnica, il gruppo marmoreo è un caposaldo del Rinascimento italiano. Michelangelo si confronta con l’iconografia nordica del Cristo morto adagiato in grembo alla madre riorganizzandone lo schema in base ai principi figurativi del nuovo corso artistico. La composizione segue un andamento piramidale, con al vertice il capo della Vergine e alla base il ricco panneggio della sua veste, che accoglie il corpo esanime del figlio. All’armonia delle forme corrisponde la disciplina dei sentimenti il patetismo che contraddistingue le opere precedenti di analogo soggetto è ricomposto nei volti idealizzati dei protagonisti e nella loro gestualità pacata: il braccio destro abbandonato di Gesù a cui fa da contrappunto la mano sinistra aperta della Madonna, bellissima nella rassegnazione dello sguardo addolorato pudicamente rivolto verso il basso.
Alle soglie del nuovo secolo il Buonarroti è un artista in veloce ascesa; prescelto per alcuni importanti incarichi dalla nuova amministrazione repubblicana torna a Firenze nel 1501. Sotto la guida del gonfaloniere Pier Soderini la città intende ribadire la centralità del proprio ruolo illustrando i valori civili e morali della società coeva e delle sue origini.
L’opera che rappresenta questa particolare congiuntura storica è il David, scolpito fra il 1501 e il 1504 (Firenze, Galleria dell’Accademia). Inizialmente destinata al duomo di Santa Maria del Fiore, la colossale statua diviene il simbolo stesso delle aspirazioni di una comunità intera, e in quanto tale collocato in piazza della Signoria, davanti alla sede del potere civico. Pur colto in un momento di stasi, il corpo è percorso dalla tensione psicologica che traspare dal suo sguardo, concentrato senza ombra di timore sull’obiettivo. Il confronto con il tema dell’eroe biblico porta in sé la celebrazione di una umanità titanica, consapevole delle proprie capacità e della propria centralità nella storia.
Gli intenti sottesi al programma decorativo previsto per il salone del Gran Consiglio di Palazzo Vecchio sono altrettanto espliciti, imperniati sulla raffigurazione di due episodi che celebrano il valore militare di Firenze. Attivo a fianco di Leonardo, nel 1504 Michelangelo predispone i disegni per la rappresentazione della trecentesca battaglia di Cascina, interrompendo il lavoro alla partenza per Roma. Come quella leonardesca, l’opera è nota grazie a copie successive tratte dai cartoni preparatori, perduti perché usurati dall’attività di studio di cui furono oggetto da parte dei giovani artisti. Nella propria autobiografia Benvenuto Cellini li definisce "scuola del mondo", a sottolineare il ruolo centrale che ebbero nella definizione della maniera moderna. Con evidente richiamo alla giovanile Centauromachia , Michelangelo sviluppa le sue riflessioni sul tema del corpo umano e del rapporto che intrattiene con lo spazio: quasi bloccati in un’istantanea, i soldati fiorentini sorpresi da un improvviso attacco nemico propongono un ricco repertorio di gesti e torsioni su cui l’occhio dell’osservatore si sofferma incuriosito.
L’impegnativo incarico di Palazzo Vecchio lascia intendere che, a quelle date, il Buonarroti si fosse già distinto in campo pittorico. Tuttavia il problema dei suoi esordi non trova gli studiosi concordi. Anche la Sacra Famiglia con san Giovannino, meglio nota come Tondo Doni (Firenze, Uffizi) risalirebbe infatti a un periodo successivo, commissionata da Agnolo Doni in occasione della nascita della figlia Maria nel 1507 e non per le precedenti nozze con Maddalena Strozzi (1504).
Il dipinto anticipa gli sviluppi della pittura successiva, in particolare per l’artificiosità delle pose dei protagonisti – esemplificata nella serpentina disegnata dal corpo della Vergine – e dei colori prescelti, accesi e sgargianti, che Michelangelo adotterà a breve nella Sistina, facendone una cifra distintiva della propria pittura. Negli anni spesi al servizio della Repubblica l’attività prevalente è comunque quella scultorea. Il San Matteo della Galleria dell’Accademia è datato fra il 1503 il 1504. Commissionato per il duomo fiorentino e rimasto allo stato di abbozzo, rappresenta il primo esempio di "non finito" michelangiolesco. La superficie grezza che nelle opere precedenti agiva in senso chiaroscurale, mediando il passaggio alle forme definite delle figure, è qui la materia dalla quale la sagoma possente dell’evangelista si divincola quasi risvegliandosi da un torpore primitivo. Il portato filosofico del processo creativo michelangiolesco è stato messo in diretta relazione con la cultura neoplatonica: operando per via "di levare", lo scultore si limiterebbe a liberare l’idea imprigionata nella pietra.
Nel 1505 Michelangelo torna a Roma convocato da papa Giulio II della Rovere (1443-1513, papa dal 1503), il grande mecenate che avvia alcune fra le imprese di maggiore rilievo del Rinascimento maturo. Lusingando le sue ambizioni gli affida il progetto per la propria sepoltura. Secondo le intenzioni iniziali, quest’ultima avrebbe dovuto essere concepita alla stregua di un mausoleo antico popolato di statue, libero su tutti i lati perché collocato in corrispondenza della tomba dell’apostolo Pietro al centro della nuova basilica vaticana da erigere su disegno di Donato Bramante. I grandiosi intendimenti del pontefice cedono presto il passo a richieste via via più contenute; protrattasi ben oltre la morte di Giulio II, la vicenda che prometteva di tradursi nella più importante iniziativa scultorea del secolo si trascina per circa quattro decenni trasformandosi in una fonte di continue frustrazioni per l’artista.
A fronte dei dissapori, certo confidando in un ripensamento a proposito della sepoltura, nel 1508 Michelangelo accetta di affrescare la volta della cappella fatta costruire nel secolo precedente da Sisto IV nei palazzi vaticani, impresa che lo impegnerà fino al 1512. La decisione di sostituire il quattrocentesco cielo stellato di Piermatteo d’Amelia crea le premesse per quella che viene subito considerata una delle opere capitali della pittura occidentale.
Il progetto iconografico, di grande complessità, si pone in relazione con quanto realizzato fra il 1483 e il 1485 dai principali artisti toscani e umbri dell’epoca lungo la fascia mediana delle pareti della cappella, una sequenza regolare di episodi relativi alla vita Cristo e a quella del suo precursore Mosè. La scelta di Michelangelo, probabilmente coadiuvato da un teologo, è quella di illustrare protagonisti e avvenimenti biblici precedenti, con qualche riferimento al mondo pagano. Sfruttando la conformazione della volta organizza la rappresentazione in diversi registri: la volta vera e propria, le vele e i pennacchi, le lunette.
La volta è suddivisa in due parti principali, quella più interna e quella laterale. La scansione delle superfici è affidata a una partitura architettonica illusionistica alla quale gli interventi figurativi si rapportano secondo logiche diverse. Il cuore della rappresentazione è costituito dalla sequenza di nove scene tratte dal libro della Genesi, fondamento della rivelazione cristiana; ne illustrano i nodi salienti relativi alla creazione del mondo e dell’uomo, alla nascita del peccato. Queste, con qualche eccezione, sono inserite alla stregua di quadri riportati e rendono immediatamente evidente la potenza evocativa del racconto michelangiolesco. Insuperata rimane la sintesi formale di alcuni episodi quali la Separazione della luce delle tenebre e quella della terra dalle acque, la Creazione degli astri e soprattutto la Creazione dell’Uomo, al centro della quale è la scintilla della vita trasmessa da Dio ad Adamo tramite il contatto delle dita.
La fascia laterale, che corre intorno alla centrale come una banda continua, ospita la ricca galleria dei Veggenti, sette Profeti e cinque Sibille assisi su scranni monocromi e assorti negli atteggiamenti più vari. Nelle vele e nelle sottostanti lunette sono raffigurati gli antenati di Cristo, mentre i pennacchi raccontano le salvazioni di Israele (Giuditta e Oloferne; David e Golia; il Serpente di bronzo; la Punizione di Aman). Tutti i registri sono popolati di figure altere e orgogliose, ispirate a un ideale di bellezza androgina e ammantate di una dignitas classica che è diretta emanazione della loro levatura morale.
L’immane impresa, condotta in solitudine su una speciale impalcatura, consacra definitivamente il mito del divino Michelangelo e consegna alla storia una visione del mondo e dell’uomo che diverge da quella degli altri protagonisti del Rinascimento maturo. Basata su un artificioso equilibrio formale d’impronta antinaturalistica, che trova il suo corrispettivo nella tavolozza di tinte cangianti accese da improvvisi lampi di luce, la volta della Sistina costituisce non a caso il termine di riferimento privilegiato per la sperimentazione manierista.
La restaurazione della signoria nel 1512 e l’elezione dei cardinali Giovanni e Giulio de’ Medici al soglio pontificio, rispettivamente nel 1513 e nel 1523 con il nome di Leone X e Clemente VII, creano a Firenze le condizioni ideali per una fertile stagione di mecenatismo che vede Michelangelo attivo come architetto. Impegno prioritario è il complesso ecclesiastico mediceo di San Lorenzo, legato al nome di Filippo Brunelleschi.
Dopo essersi cimentato nella progettazione della facciata (1515-1520) con un disegno che, come scrisse lo stesso artista in una delle sue lettere, ambiva a essere "d’architettura e di scultura lo specchio di tutta Italia", nella Sacrestia Nuova (1520-1534) Michelangelo porta a ulteriore maturazione il problema del rapporto fra telaio architettonico e apparati decorativi. L’opera conserva memoria della tradizione locale nell’adozione della tipica bicromia fiorentina per la scansione delle superfici e nella replica della planimetria centralizzata della Sacrestia Vecchia; tuttavia la cappella funeraria di Giuliano duca di Nemours e di Lorenzo duca di Urbino si discosta dalla serena concezione quattrocentesca per il suo accentuato sviluppo verticale e, soprattutto, per la singolarità dei partiti architettonici che compromettono l’ortodossia della sintassi classicista. Contribuiscono all’effetto complessivo le rappresentazioni allegoriche delle fasi del giorno (il Crepuscolo e l’Aurora, il Giorno e la Notte), affascinanti figure adagiate in equilibrio precario sui sarcofagi dei defunti, nonché la Madonna con il Bambino, quest’ultimo atteggiato in una innaturale torsione.
Fin dal 1519 i Medici intendono finanziare la costruzione di una biblioteca che ospiti il ricco patrimonio librario appartenuto a Cosimo il Vecchio e incrementato da Lorenzo il Magnifico. Iniziati solo nel 1523, in concomitanza con la successione di Clemente VII sul soglio di Pietro, i lavori interessano una parte del complesso adiacente alla chiesa. Progettando l’architettura con la sensibilità dello scultore Michelangelo crea due ambienti di estremo fascino, pervasi dall’energia di forze in tensione. Emblematico il trattamento plastico riservato al ricetto, l’ambiente dal quale si accede alla sala di lettura, dove le pareti vedono impiegate colonne inalveolate, cioè ricavate entro lo spessore del muro perimetrale, e lo spazio è letteralmente invaso da una scalinata a tre rampe.
Le trattative per la decorazione della parete di fondo della Cappella Sistina, iniziate sotto Clemente VII, si concludono nel 1536 sotto Paolo III Farnese, quando Michelangelo è rientrato a Roma da circa due anni.
Il tema del Giudizio universale doveva apparire drammaticamente attuale in una città che era al centro delle polemiche protestanti e che portava ancora i segni del Sacco del 1527. L’intervento michelangiolesco risente del nuovo clima. Lontano dall’iconografia tradizionale che prevedeva una rappresentazione gerarchicamente ordinata delle schiere dei beati e dei dannati, l’affresco è popolato da una folla caotica di corpi possenti che appaiono in balia degli eventi. Alla solida e rassicurante impalcatura architettonica dipinta sulla volta si contrappone qui la generale assenza di riferimenti spaziali; l’organizzazione compositiva dell’ampia superficie dipinta, ottenuta grazie al sacrificio delle pitture di Pietro Perugino e delle lunette realizzate da Michelangelo stesso qualche decennio prima, è imperniata sul gesto imperioso del Cristo che con la destra resuscita i salvati chiamandoli a sé e con la sinistra condanna i peccatori a una inesorabile discesa agli inferi. L’opera fu inaugurata nello stupore generale nel 1541, suscitando lodi ma anche aspre critiche da parte di coloro che non vi ravvisavano il necessario decoro, critiche destinate a trovare una sponda negli interpreti più intransigenti delle norme controriformistiche.
Il Buonarroti era intimo amico della marchesa Vittoria Colonna, frequentava la cerchia di Viterbo e condivideva le posizioni del cattolicesimo riformista. Insofferente a qualsiasi restrizione della propria coscienza critica, egli vive la crisi del suo tempo nei termini di un lacerante conflitto interiore.
Gli affreschi realizzati per la cappella privata di Paolo III costituiscono l’ultimo impegno pittorico di grande respiro di Michelangelo e l’esito finale delle riflessioni iniziate nel Giudizio sulla presenza del divino nella vita dell’uomo. Se nella Conversione di san Paolo (1542-1545) Dio Padre è ancora protagonista della narrazione, irrompendo dai cieli nel terrore generale, nel Martirio di san Pietro (1546-1550) è invece drammaticamente assente: il sacrificio dell’apostolo si consuma in una dimensione desolatamente terrena.
L’inizio dei lavori della Cappella Paolina coincide con l’ultimo contratto per la sepoltura di Giulio II. Caduta definitivamente la possibilità di realizzare il dispendioso progetto d’inizio secolo, dalla morte del pontefice Michelangelo aveva intrattenuto infruttuosi rapporti con i suoi eredi tentando addirittura di sottrarsi all’impegno. Nella versione infine messa in opera nella chiesa di San Pietro in Vincoli (1545) fu utilizzata una piccola parte degli apparati scultorei predisposti; solo il monumentale Mosè, collocato al centro della composizione, testimonia la magnificenza dei primi disegni. Rimangono invece inutilizzati, fra gli altri, lo Schiavo morente e lo Schiavo ribelle del Louvre (anch’essi scolpiti dal 1513) nonché i Prigioni della Galleria dell’Accademia di Firenze, le quattro colossali figure abbozzate nel corso degli anni Venti che costituiscono gli esempi più noti e affascinanti del "non finito" michelangiolesco.
Nel corso degli anni Trenta e Quaranta Michelangelo si dedica con crescente intensità all’attività poetica, oramai pervasa dai toni cupi dell’età matura dovuti alle vicissitudini personali e alla consapevolezza del fallimento degli ideali umanistici. Non è un caso che a partire da questi anni il maestro abbandoni gradualmente la pittura e la scultura – le arti mimetiche per eccellenza – a favore dell’architettura, che vive nei termini di un servizio per la collettività.
Fra il 1537 e il 1538 Michelangelo è coinvolto nei lavori di sistemazione del Campidoglio promossi da papa Paolo III. Sede del potere politico romano, il complesso capitolino presentava un assetto disomogeneo poco consono al prestigio del luogo. In questo frangente la piazza viene dotata di un fulcro fisico e simbolico, la statua equestre di Marco Aurelio trasferita dal Laterano per volontà del papa. Intorno ad essa l’artista riorganizza lo spazio urbano disponendo una nuova veste per gli edifici preesistenti (il Palazzo dei Senatori e quello dei Conservatori) e la costruzione di una nuova struttura, il palazzo detto appunto Nuovo, collocato in posizione simmetrica rispetto a quello dei Conservatori e dotato delle medesime caratteristiche formali. Alle stregua di quinte teatrali, i prospetti delle architetture laterali incorniciano l’edificio centrale descrivendo uno spazio finalmente regolare che, recuperato il proprio decoro, si propone quale modello autorevole per analoghi interventi.
Nel 1546, alla morte di Antonio da Sangallo il Giovane, Michelangelo è chiamato alla direzione di alcuni importanti cantieri del collega. Se nell’ultimazione del palazzo di casa Farnese conferma le scelte del suo predecessore, in qualità di architetto della basilica vaticana egli assume una posizione di netta antitesi. Consapevole delle critiche mosse alla gestione dell’impresa, ridimensiona il costosissimo progetto del Sangallo per ricondurre la pianta al proprio disegno, una croce greca iscritta in un quadrato da cui emergono tre grandi absidi, su diretta ispirazione del progetto bramantesco d’inizio secolo. Il San Pietro di Michelangelo è stato profondamente modificato in epoca successiva, ma l’impronta del maestro è ancora leggibile nelle plastiche membra dell’esterno della testa dell’edificio dove, in un crescendo altamente espressivo, le forze che percorrono la struttura prorompono nel dinamismo della possente cupola di coronamento, terminata molto tempo dopo la scomparsa del suo autore.
L’assoluta dedizione riservata alla basilica di San Pietro nell’arco degli ultimi vent’anni di vita non impedisce a Michelangelo di assumere altri incarichi di rilievo, che rivelano la straordinaria vitalità intellettuale di un uomo afflitto da un criticismo radicale che compromette i presupposti stessi del suo fare artistico.
Le proposte elaborate a partire dal 1559 per San Giovanni dei Fiorentini (non realizzate) sviluppano una serie di interessanti riflessioni sullo spazio centralizzato. Spregiudicato sperimentatore, l’architetto abbandona definitivamente la statica concezione della geometria rinascimentale privilegiando una composizione per assi diagonali che anticipa l’età barocca. È il principio proposto nella cappella funeraria costruita per i cardinali Alessandro e Ascanio Sforza in Santa Maria Maggiore (1560 ca.), la quale, pur conclusa dopo la sua morte, conserva la forza dell’idea originaria nell’ardita planimetria e nelle colonne che si protendono dinamicamente verso il centro dello spazio. Mentre nella costruzione di Porta Pia (1561) segue un disegno la cui esuberanza linguistica alimenterà i repertori decorativi di tutta Europa, nella chiesa di Santa Maria degli Angeli opta per una soluzione inedita, di grande valore concettuale nella sua afasia. Chiamato da papa Pio IV a trasformare la parte centrale delle terme di Diocleziano in aula ecclesiale, egli limita il proprio intervento a pochi elementi che, tesi a modificare l’orientamento dell’edificio, non intaccano in alcun modo la struttura romana. Il nudo candore voluto per le pareti rimanda tanto a un estremo rispetto dell’antico quanto a una rinuncia alla possibilità di intervenire sulla realtà. Molto anziano, ossessionato dall’idea della morte e assorto in una dimensione spirituale sempre più interiorizzata, oramai "dilombato, crepato, infranto e rotto", come si era descritto anni prima nelle sue Rime (I’ sto rinchiuso come la midolla, composto fra il 1546 e il 1550), Michelangelo scultore sembra pervenire a conclusioni non troppo distanti. I gruppi degli ultimi anni rendono infatti tangibile l’intenso lavorio e l’incolmabile insoddisfazione del maestro. La Pietà Bandini (Firenze, Museo dell’Opera del Duomo) e la Pietà di Palestrina (Firenze, Galleria dell’Accademia) preludono allo sconvolgente esito della Pietà Rondanini (Milano, Castello Sforzesco): cominciate intorno al 1552 e rimaste incompiute al momento della morte di Michelangelo nel 1564, queste figure fragili, abbozzate e continuamente ritoccate, costituiscono l’epilogo di una carriera straordinariamente lunga e fortunata, ricchissima di spunti per gli autori successivi.