Microstoria e microstorie
La microstoria è forse l’esperienza storiografica italiana che ha avuto l’eco maggiore nella storiografia internazionale di fine Novecento, almeno a giudicare da come è entrata nella discussione tra gli storici, in Italia e, forse, soprattutto nel resto del mondo. Non esaminerò tuttavia il problema della ricezione di questa esperienza intellettuale, che pure è un aspetto rilevante per la storia della storiografia. Nelle pagine che seguono affronterò tre problemi: la genesi del nuovo paradigma nel contesto della storiografia italiana e internazionale, in particolare con riferimento al rapporto tra storia e scienze sociali; il carattere collettivo della nuova pratica storiografica all’interno della rivista «Quaderni storici»; le gemmazioni della proposta microstoria dalla metà degli anni Ottanta e le eredità della nuova pratica storiografica: forse un frammento importante della cultura italiana di fine secolo.
Per fare storia della storiografia conviene partire dalle fonti originali, testi teorici e ricerche; in questo caso i primi saggi nei quali compare il termine microstoria in Italia. L’idea era forse nell’aria, come ha tentato di dimostrare Carlo Ginzburg (1994); ma in Italia questa nuova tendenza storiografica è comparsa per la prima volta sotto la voce ‘microanalisi storica’ in alcuni lavori di Edoardo Grendi (L’antropologia economica, 1972) e di Giovanni Levi (Famiglie contadine nella Liguria del Settecento, 1973) all’inizio degli anni Settanta, con un riferimento esplicito all’antropologia economica e all’antropologia delle società complesse. A metà degli anni Settanta la parola compare in una raccolta di saggi del tutto sconosciuti curata da Grendi (Studi di micro-analisi storica, 1977) e in un saggio dello stesso Grendi (Micro-analisi e storia sociale, 1977) che è stato poi considerato una sorta di manifesto della microstoria. Un lavoro teorico dello stesso Grendi (Polanyi, 1978) su Karl Polanyi tentava di dare un respiro metodologico più ampio alla proposta storiografica. E il libro su Polanyi, che aveva come sottotitolo Dall’antropologia sociale alla microanalisi storica, aveva alle spalle la raccolta di saggi di antropologia economica curata da Grendi nel 1972. Possiamo ritrovare nell’introduzione a questa raccolta le prime tracce del paradigma microstorico definito dall’intreccio tra teoria sociale e lavoro concreto. La suggestione è quella di un rapporto stretto tra etnologia e storia, con l’idea di mettere «su uno stesso piano materiali etnografici e materiali storici» per costruire un programma di ricerca e per definire un «approccio micro-analitico che per gli storici comporta il massimo sforzo di immaginazione concreta». Il lavoro storico poteva trovare nell’antropologia temi, soggetti, categorie e teoria sociale.
Il rapporto tra consapevolezza teorica e lavoro concreto è, a mio giudizio, il carattere originale più significativo del nuovo paradigma. Nei lavori di Levi la vocazione sperimentale è del tutto esplicita nella discussione della demografia, nella polemica con le definizioni tipologiche delle strutture familiari, nella verifica sperimentale delle categorie interpretative ancorata alla ricerca archivistica e all’utilizzo del modello di Aleksandr V. Čajanov sul ciclo di vita delle famiglie (G. Levi, Famiglie contadine, cit.), o nella verifica dei modelli antropologici di scambio con riferimento concreto al mercato della terra (G. Levi, L’eredità immateriale, 1985 e cfr. «Quaderni storici», 1976, 33, e 1987, 65). L’idea condivisa era che i percorsi di ricerca e i risultati sono sempre legati all’impostazione storico-teorica e che la conoscenza storica è legata a una fondamentale vocazione analitica. La scelta microanalitica nasce da qui e, per analogia con l’antropologia, l’oggetto privilegiato di analisi è individuato nella ricostruzione delle relazioni interpersonali per una microarea. Anche la riduzione della scala di osservazione aveva un carattere sperimentale. In un saggio teorico-pratico pubblicato nel 1977 leggiamo questa annotazione di Grendi: «La microanalisi sociale si lega più al carattere di base dei dati presi in considerazione che non alla dimensione dell’area sociale in quanto tale» (Micro-analisi e storia sociale, cit., p. 519). E il carattere sperimentale è sottolineato da Levi (1991):
Il vero problema è la scelta sperimentale della dimensione della scala nell’osservazione. La possibilità che un’osservazione microscopica ci mostri cose che prima non erano state osservate è il carattere unificante della ricerca microscopica. Una procedura intensiva (p. 97).
La proposta era stata recepita con ostilità nel mondo accademico italiano, un mondo nel quale storia significava essenzialmente storia politica (etico-politica) e forse economica. La discussione sul «senso comune storiografico» e sulla storia sociale all’interno di «Quaderni storici» pochi anni dopo porta in luce anche i significati politici della proposta. La discussione sulla didattica e sulla divulgazione del sapere storico divide la redazione di «Quaderni storici», e dalla discussione emerge una denuncia verso la corporazione degli storici che ha sedimentato un distorto ‘senso comune storiografico’, un discorso storico unitario e gerarchico costruito su un’idea coerente di sviluppo diacronico (E. Grendi, Del senso comune storiografico, 1979).
L’interesse per l’antropologia e per le scienze sociali, o per temi fino ad allora ignorati, poteva essere giudicato stravagante da gran parte degli storici italiani. Eppure in un saggio di valutazione della storiografia internazionale del quindicennio 1961-76, Arnaldo Momigliano nel 1977 scriveva:
la caratteristica più pervasiva della storiografia degli ultimi quindici anni è forse l’attenzione ai gruppi oppressi e/o minoritari nell’interno delle civiltà più avanzate: donne, bambini, schiavi, uomini di colore, o più semplicemente eretici, contadini, operai. Con tale caratteristica si congiunge l’attenzione crescente alle forme intellettuali associate alle classi subalterne, quali la cultura di massa, la magia, il folklore e, fino a un certo punto, la tradizione orale […] l’attenzione agli aspetti simbolici della vita associata, la curiosità per i problemi di comunicazione, gli studi sulla famiglia, la concentrazione sui fattori dello sviluppo e della stagnazione in determinate economie, la crescente inserzione della storia della scienza e della tecnica in una totale visione della vita sociale – e più in generale ancora un desiderio, spesso più confessato che esattamente formulato, di raggiungere una comprensione integrale di una società entro uno spazio e un tempo definito (pp. 596-97).
L’ultimo punto ha una qualche consonanza con gli interessi microanalitici, e Momigliano registrava la dissolvenza dei confini tra storia, sociologia e antropologia.
Poiché il programma di definire una società nel suo complesso è da tempo proprio dell’antropologia, si comprende che gli antropologi (o etnografi) abbiano acquistato un prestigio senza precedenti tra gli storici e si discuta continuamente di rapporti tra antropologia e storia (p. 597).
Sullo sfondo c’erano i temi e i problemi della decolonizzazione e dello sviluppo, la fine in Europa della fase di crescita iniziata nel 1945, ma anche una nuova sensibilità politica, e nella biografia scientifica dei costruttori del nuovo paradigma, le letture antropologiche e la lettura di autori eretici come Polanyi, Čajanov, Ester Boserup. Nella biografia di Grendi l’esperienza della London School of economics, tra il 1958 e il 1960, e la scoperta delle scienze sociali (Raggio, Torre 2004). Un saggio di Ginzburg e Carlo Poni (Il nome e il come: scambio ineguale e mercato storiografico) pubblicato in «Quaderni storici» nel 1979 proponeva la storia dal basso e la ricostruzione del vissuto, ma indicava anche un percorso di ricerca attraverso archivi e serie documentarie diverse seguendo la traccia del nome proprio. Nella genesi della microstoria vi è anche il metodo interpretativo al quale Ginzburg ha dato il nome di paradigma indiziario (Ginzburg 1979) e forse l’eccezionale normale di Grendi (Micro-analisi e storia sociale, cit.).
Nel cantiere della microanalisi storica, la scala ridotta di osservazione era lo spazio che poteva consentire di ricostruire le relazioni interpersonali come soggetto storico, ma soprattutto di sperimentare procedure analitiche e mettere alla prova le categorie interpretative. Era anche lo spazio concreto per ricostruire le scelte possibili di individui e gruppi sociali in un contesto specifico, e insieme i meccanismi e le dinamiche del mutamento sociale. Questi, in particolare, sono i temi centrali, associati a una forte aspirazione alla formalizzazione, della biografia scientifica di Levi, dai primi saggi degli anni Settanta a L’eredità immateriale (1985), uno dei classici della microstoria. La prima esperienza microstorica ha un’indubbia enfasi sulla modellizzazione, ma la teoria sociale è associata al lavoro empirico. I temi e i problemi affrontati sono sempre di carattere generale e la generalizzazione riguarda le procedure analitiche e le domande alle fonti, con una peculiare attenzione alla produzione della documentazione che caratterizzerà più tardi e in forma più esplicita una parte della ricerca microstorica.
Il saggio teorico-pratico di Grendi si chiudeva su una domanda relativa alla scala di osservazione dei processi storici: se la storia sociale è storia delle relazioni tra persone e gruppi, perché lo spazio di studio delle trasformazioni sociali deve essere lo Stato o la nazione e non le comunità, la città, il mestiere? La scommessa era sul terreno della conoscenza, riproposta in modo più articolato qualche anno dopo, in un diverso clima storiografico e sulla base di un nuovo percorso di ricerca: «ricostruire i modi in cui gli uomini percepiscono, praticano ed esprimono la realtà» («Quaderni storici», 1987, 66). La polemica era con il modello delle sintesi teleologiche e selettive di matrice storicistica. Posso aggiungere che è molto più interessante studiare individui e gruppi sociali a una scala topografica e verificare sperimentalmente le categorie interpretative?
Le monografie di «Quaderni storici» sono la traccia più marcata di quello che Grendi (1994) una volta ha definito «il carattere collettivo della proposta storiografica della microanalisi in Italia». Le prefazioni ai fascicoli monografici documentano in modo discontinuo la sinergia tra la proposta microanalitica e la scelta di nuovi temi di ricerca; ma in ogni caso le monografie non erano una collezione di saggi. Una fonte per affinare l’indagine è costituita dalla corrispondenza redazionale e dei curatori con gli autori, le schede di lettura, i rifacimenti, le correzioni, che in qualche caso sono stati conservati; il confronto tra la proposta o il documento programmatico e i risultati concretati. Queste tecniche di lavoro sono, forse non a caso, esplicitate nella premessa al primo fascicolo microstorico nella storia della rivista («Quaderni storici», 1976, 33). Tra il 1976 e il 1987 furono pubblicati alcuni fascicoli progettualmente di microanalisi storica (Famiglia e comunità, 1976, 33; Villaggi: studi di antropologia storica, 1981, 46; Conflitti locali e idiomi politici, 1986, 63; Il mercato della terra, 1987, 65) e altri che rivelano l’interesse per nuovi temi di analisi. Storia della cultura materiale, del 1976, era costruito su temi radicalmente nuovi per una rivista di storia, specialmente perché tentava di sperimentare una metodologia innovativa all’incrocio di discipline diverse: archeologia, geografia, scienze sociali. Le ricerche imbastite avrebbero potuto suscitare l’interesse degli storici per le realtà materiali delle relazioni e dei comportamenti sociali, per gli oggetti e le cose, ma questo è avvenuto molto tempo dopo (R. Ago, Il gusto delle cose, 2006).
La parola microstoria compare per la prima volta in un fascicolo curato da Poni, Azienda agraria e microstoria (1978, 39; la prefazione faceva riferimento a nuovi strumenti di indagine mutuati dalla demografia e dall’antropologia), più o meno con lo stesso significato di microanalisi storica, legato al prefisso micro. Nella parola microstoria, però, l’enfasi sulla dimensione analitica e modellistica è forse meno evidente, e corrisponde a un allargamento dei temi e delle procedure di ricerca, e ovviamente delle fonti, tra storia sociale e storia culturale. Così la parola microstoria è al centro del già citato saggio Il nome e il come di Ginzburg e Poni del 1979. Un arricchimento ancora più evidente è nel plurale Microstorie della collana pubblicata pochi anni dopo dall’editore Einaudi, e curata da Simona Cerutti, Ginzburg e Levi.
«Quaderni storici» è lo spazio di discussione, il laboratorio all’interno del quale si è creata una forte sinergia tra la proposta di microanalisi e gli interessi, eterogenei, per nuovi temi di ricerca o per nuove domande a vecchi temi. Nel 1978, una nota redazionale collegava la nuova organizzazione della redazione, affiancata da un comitato scientifico, all’ampliamento degli interessi tematici e agli scambi tra storiografia e altre scienze umane.
Altri progetti concretizzati hanno in comune in forme diverse l’attenzione alle fonti e alle categorie interpretative, l’attenzione alle azioni concrete e/o alle credenze di individui e gruppi in sistemi sociali e culturali complessi, stratificati e incoerenti; un’idea antifunzionalistica di contestualizzazione. Nel fascicolo Religioni delle classi popolari (1979, 41), a cura di Ginzburg, il plurale religioni sottolinea «la fisionomia quanto mai varia dei rapporti che nelle società dell’Europa preindustriale coinvolgevano, sul terreno religioso, classi egemoni e classi subalterne». Il tema del fascicolo Parto e maternità: momenti della biografia femminile (1980, 44), curato da Luisa Accati, Vanessa Maher e Gianna Pomata, è la storia delle donne, ma con riferimento a momenti specifici delle biografie femminili: seduzione-iniziazione, gravidanza e parto, puerperio e allattamento; il fascicolo è il prodotto di un gruppo di storiche e antropologhe, in un dialogo aperto su categorie e strumenti interpretativi che mancavano agli storici. I vivi e i morti (1982, 50), curato da Adriano Prosperi, è anche il tentativo di «riconquistare alla storiografia» temi abbandonati ad altre discipline, e «sciogliere la ‘e’ in una serie di problematiche con cui investire le fonti del passato» (A. Prosperi, Premessa a I vivi e i morti, cit., p. 397). Il tema della carità è affrontato nel fascicolo Sistemi di carità: esposti e internati nella società di antico regime (1983, 53), curato da Grendi, per ricostruire i significati politici della carità istituzionale nelle relazioni tra i benefattori e coloro che ricevono i benefici.
Sono le tracce di una discussione densa (e anche conflittuale) nella redazione, e di una vasta curiosità intellettuale. I confini tra microanalisi sociale e microanalisi culturale mi paiono a distanza molto sfumati, porosi. E questo dato trova una conferma densa nella collana Microstorie, aperta nel 1981. Nei primi volumi, si legge sulla quarta:
«Microstorie» vuol essere un esperimento, una proposta, una verifica di materiali; un rimescolamento di dimensioni, di personaggi, di punti di vista. È anche, ma non necessariamente, la storia dei piccoli e degli esclusi. È la storia di momenti, situazioni, persone che, indagati con occhio analitico, in ambito circoscritto, recuperano peso e colore. L’esame di contesti concreti nella loro complessità fa emergere nuove categorie interpretative, nuovi intrecci causali, nuovi terreni di indagine.
Sono stati pubblicati una ventina di libri, di autori italiani e stranieri (in traduzione): monografie dense su temi circoscritti, costruite su fonti dirette, nelle quali il progetto di ricerca, la metodologia, le categorie interpretative, il confronto con la storiografia e le scienze sociali, la critica delle testimonianze, ovvero la consapevolezza teorica, insieme con la scala di osservazione circoscritta, sono pienamente esplicitati. Soltanto una parte dei volumi è costruita sull’idea di «contestualizzazione sociale» o è direttamente ispirata alla proposta originale della microanalisi; ma se consideriamo le scelte e le selezioni dei curatori, sia gli autori italiani sia i lavori in traduzione, la lezione sperimentale della microanalisi storica, nella ricerca e nel confronto storiografico, risulta essere il filo rosso dell’intera collana: da Natalie Zemon Davis (Il ritorno di Martin Guerre, 1984), con un’importante postfazione di Ginzburg, a Paul Boyer e Stephen Nissenbaum (La città indemoniata, 1986), al microstudio di Anton Blok della mafia rurale in Sicilia (La mafia di un villaggio siciliano, 1860-1960, 1986); ma anche Naven (1988) di Gregory Bateson, un libro straordinario per il metodo pubblicato in originale nel 1936, «una serie di esperimenti sui metodi di riflessione sui dati antropologici»; o il libro di Paolo Vineis, Modelli di rischio (1990), sui criteri di causalità in microbiologia e le «reti di causazione».
La discussione aperta dalla proposta microanalitica ha avuto un’influenza significativa in alcune monografie di storia sociale. L’interesse per l’esperienza sociale e per la dimensione spaziale delle strutture sociali, per la molteplicità dei contesti, dei percorsi e dei comportamenti e l’interesse per la complessità del reale (di cui le fonti sono una traccia frammentaria e discontinua) segnano la distanza della microstoria dalla storia sociale seriale e quantitativa che usa indicatori semplificati, modelli astratti, definizioni ideal-tipiche delle relazioni sociali ed economiche in una prospettiva macrostorica pensata come scala naturale di osservazione. La nuova prospettiva confronta criticamente una definizione predefinita degli oggetti (Stato, mercato, comunità, famiglia, classe operaia, mestieri, stratificazione sociale ecc.), la ricerca delle proprietà comuni delle entità sociali, l’immagine evolutiva dei processi sociali e la ricerca della verifica nel modello generale (già noto). Temi vecchi e nuovi temi sono analizzati all’interno di spazi sociali concreti con un’impostazione induttiva e ricostruttiva. In tal senso, i nuovi schemi teorici, legati al lavoro empirico, nascono dalla crisi del modello strutturale e funzionalista. I tre migliori esempi che conosco sono Franco Ramella (Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel Biellese dell’Ottocento, 1984), Maurizio Gribaudi (Mondo operaio e mito operaio. Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, 1987) e Simona Cerutti (La ville et les métiers. Naissance d’un langage corporatif (Turin, 17e-18e siècles), 1990), rispettivamente sulla trasformazione manifatturiera e industriale di una valle del Biellese, sulla definizione della classe operaia a Torino all’inizio del Novecento, sulla nascita delle corporazioni a Torino tra Seicento e Settecento. Nei tre casi solo lo sguardo ravvicinato e l’indagine intensiva consentono di ricostruire le configurazioni e le aggregazioni sociali, fluide e discontinue, come risultato dell’interazione di percorsi individuali diversi attraverso una pluralità di contesti.
Queste e altre ricerche hanno in comune un uso intensivo della documentazione. Angelo Torre (Il consumo di devozioni, 1995) attraverso una lettura topografica delle visite pastorali ha ricostruito le articolazioni delle unità territoriali, la conflittualità e le negoziazioni, ovvero la politica locale, in connessione con i materiali, le risorse e gli spazi del sacro, realizzando un esempio di storia sociale e culturale. Alla base del lavoro c’è l’idea che il contesto generale di antico regime è definito da una densa cultura giurisdizionale e dal pluralismo politico. In questo contesto, i consumi devozionali rivelano le pratiche di legittimazione negoziata e/o conflittuale di famiglie, parentele, élites locali, e la costruzione di solidarietà territoriali. È un percorso originale di ricerca, accompagnato da una riflessione teorica e storiografica (si veda l’articolo Percorsi della pratica, 1995), che recentemente ha avuto una nuova concretazione in una monografia sulla produzione storica dei luoghi (Luoghi, 2011). La possibilità di analisi storica e l’interpretazione dipendono dal riconoscimento della genesi locale delle fonti e del loro carattere dialogico.
Grendi (1994, p. 545) ha datato al 1976-83 l’età dell’oro della microstoria in «Quaderni storici», in un quadro di eterogeneità e informalità dei microstorici. L’evoluzione del paradigma dopo il 1983 è legata ai nuovi orientamenti della storiografia internazionale e delle scienze sociali, in particolare l’antropologia (dall’antropologia sociale all’antropologia interpretativa). È possibile seguirla anche in questo caso nelle pagine della rivista, nel rapporto con la New cultural history o storia interpretativa, in alcune discussioni che sono anche l’eco della vacanza sabbatica di Grendi e Levi nel 1983 a Princeton (si vedano gli articoli di Levi, I pericoli del geertzismo, e di Grendi, Storia sociale e storia interpretativa, in «Quaderni storici», rispettivamente 1985, 58, pp. 269-77 e 1986, 61, pp. 201-10). In parte, quello che era stato negli anni Settanta il tentativo riuscito di arricchire e complicare la conoscenza storica con l’associazione tra ricerca empirica e teoria sociale si trasforma in un confronto critico con le nuove tendenze della storiografia e delle scienze sociali. E questo confronto stimola nuovi percorsi di ricerca ancorati all’idea di difesa analitica della realtà.
La proposta di Grendi di «ricostruzione della cultura attraverso l’esplorazione delle pratiche sociali» è sperimentata sulla documentazione giurisdizionale e giudiziaria, la cronaca, le lettere anonime, le suppliche, il disegno locale (Raggio, Torre 2004). Questa proposta è legata anche a un denso dialogo da lontano con Edward Palmer Thompson iniziato alla fine degli anni Settanta, che aveva avuto una prima realizzazione nella pubblicazione nella collana Microstorie dei saggi di Thompson sul Settecento popolare inglese (Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, 1981). La documentazione giurisdizionale e giudiziaria, i testimoniali, le trascrizioni di azioni consentono una ricostruzione densa di pratiche sociali che sono sempre localizzate, e che rendono esplicite le categorie e le «forme di azione espressive» degli attori sociali, di tutti gli attori. Una thick description che può consentire la ricostruzione di diverse realtà sociali e forme culturali, le loro variazioni formali ed evolutive, sempre strettamente ancorate però alla realtà materiale, allo spazio, al territorio.
La dissoluzione istituzionale della microstoria è legata ai percorsi individuali dei microstorici, alle loro diverse biografie scientifiche, alla rarefazione del confronto e della discussione, alla crisi della vecchia direzione di «Quaderni storici», alla chiusura forse della collana Microstorie. La traduzione italiana del libro di S. Cerutti, La ville et les métiers, e il libro di Grendi su Cervo (Il Cervo e la repubblica. Il modello ligure di antico regime, 1993) sono gli ultimi volumi della collana Microstorie, già assorbita nella collana Paperbacks e poi soppressa. La gemmazione di interessi di ricerca e di interessi storiografici è però continuata, a mio parere, sui sentieri che erano stati tracciati dall’esperienza microanalitica.
C’è un’idea che ricorre nelle tracce di formulazione originale della pratica microstorica e nei primi esercizi concreti, ed è quella di verifica empirica. Quest’idea ha intersecato più tardi il concetto di prova e quello di genesi della documentazione. La traduzione ha riguardato in particolare il problema della costruzione sociale della documentazione, i contesti di produzione dei documenti storici intesi come trascrizioni e certificazioni di azioni e pratiche sociali, la ricostruzione dei fini pratici che stanno dietro la trascrizione: un esercizio sulle relazioni tra contestualizzazione sociale e contestualizzazione culturale, tra mondo materiale e forme culturali.
In una lettura dall’interno e da lontano della pratica microstorica fino all’inizio degli anni Novanta, Ginzburg (1994) ha osservato che:
L’atteggiamento sperimentale che ha coagulato, alla fine degli anni ’70, il gruppo degli studiosi italiani di microstoria era basato […] sull’acuta consapevolezza che tutte le fasi che scandiscono la ricerca sono costruite, e non date. Tutte: l’identificazione dell’oggetto e della sua rilevanza; l’elaborazione delle categorie attraverso cui viene analizzato; i criteri di prova; i moduli stilistici e narrativi attraverso cui i risultati vengono trasmessi al lettore (p. 531).
L’enfasi modellizzante degli anni Settanta è stata presto abbandonata; la cartografia delle relazioni sociali e dei rapporti interpersonali di scambio, con l’uso sistematico delle fonti notarili, demografiche e fiscali, ha lasciato il posto allo studio della cronaca e delle fonti narrative, giurisdizionali e giudiziarie. Forse ci sono state due microstorie, o due proposte di contestualizzazione, una sociale, l’altra culturale; ma la divaricazione è stata certamente enfatizzata dalla ricezione americana di questa pratica storiografica (Muir 1991). E guardando di nuovo a distanza penso che, con armi diverse, e su terreni diversi, Grendi, Levi e Ginzburg hanno combattuto la stessa battaglia, che (e forse per fortuna) resta aperta: «una contesa per la rappresentazione della realtà» (Ginzburg 2006). Per gli storici era ed è in gioco la possibilità di attingere, ricostruire, interpretare le realtà del passato, lontano o molto vicino, ovvero le possibilità della conoscenza.
L’eredità maggiore della microstoria è dunque la difesa analitica della realtà, l’associazione tra lavoro concreto e consapevolezza teorica, il confronto con le procedure di altre discipline. E forse questo è anche il terreno più fertile per l’affinamento delle procedure o per costruire nuovi percorsi di ricerca.
L’antropologia economica, a cura di E. Grendi, Torino 1972.
G. Levi, Famiglie contadine nella Liguria del Settecento, «Miscellanea storica ligure», 1973, pp. 207-90.
«Quaderni storici», 1976, 31, nr. monografico: Storia della cultura materiale, a cura di D. Moreno, M. Quaini.
«Quaderni storici», 1976, 33, nr. monografico: Famiglia e comunità, a cura di G. Delille, E. Grendi, G. Levi.
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Studi di micro-analisi storica (Piemonte-Liguria secoli XVI-XVIII), a cura di E. Grendi, «Miscellanea storica ligure», 1977, 1.
E. Grendi, Polanyi: dall’antropologia economica alla microanalisi storica, Milano 1978.
«Quaderni storici», 1978, 39, nr. monografico: Azienda agraria e microstoria, a cura di C. Poni.
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C. Ginzburg, C. Poni, Il nome e il come: scambio ineguale e mercato storiografico, «Quaderni storici», 1979, 40, pp. 181-90.
«Quaderni storici», 1979, 41, nr. monografico: Religioni delle classi popolari, a cura di C. Ginzburg.
«Quaderni storici», 1980, 44, nr. monografico: Parto e maternità: momenti della biografia femminile, a cura di L. Accati, V. Maher, G. Pomata.
«Quaderni storici», 1981, 46, nr. monografico: Villaggi: studi di antropologia storica, a cura di G. Levi.
E.P. Thompson, Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, Torino 1981.
«Quaderni storici», 1982, 50, nr. monografico: I vivi e i morti, a cura di A. Prosperi.
F. Ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel Biellese dell’Ottocento, Torino 1984.
G. Levi, L’eredità immateriale. Carriera di un esorcista nel Piemonte del Seicento, Torino 1985.
G. Levi, I pericoli del geertzismo, «Quaderni storici», 1985, 58, pp. 269-77.
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«Quaderni storici», 1986, 63, nr. monografico: Conflitti locali e idiomi politici, a cura di S. Lombardini, O. Raggio, A. Torre.
M. Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio. Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, Torino 1987.
«Quaderni storici», 1987, 65, nr. monografico: Il mercato della terra, a cura di G. Delille, G. Levi.
«Quaderni storici», 1987, 66, nr. monografico: Fonti criminali e storia sociale, a cura di E. Grendi.
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