milizia
Nel corso della vita di M. la storia dell’organizzazione militare e delle armi attraversò una stagione alla quale gli studi più recenti hanno riconosciuto evidenti caratteri di frattura rispetto al periodo tardomedievale. Piero Pieri, il maggiore storico militare italiano del Novecento, nella sua opera più significativa, dedicata alla crisi militare italiana nel Rinascimento, analizzò il «trapasso dell’arte militare medievale a quella del Rinascimento» alla luce di due sole variabili, una tattica – la fanteria di picchieri al posto della cavalleria feudale – e l’altra organica, «l’avviamento agli eserciti statali permanenti» (Pieri 1934, pp. 518 e 534-36). Superando i limiti di questa impostazione, Geoffrey Parker (1988) e parecchi altri storici prima e, soprattutto, dopo di lui si sono pronunciati a favore di formule più o meno articolate che, tuttavia, presentano di regola lo svantaggio di riferirsi ad altri periodi della storia moderna (lo stesso slogan della «rivoluzione militare», poi rilanciato da Parker e destinato a una notevole fortuna, fu coniato una sessantina di anni fa da Michael Roberts in relazione agli anni dal 1560 al 1660, al cosiddetto secolo olandese-svedese) oppure di abbracciare, come ha fatto lo stesso Parker con grande lucidità e competenza, tutti e tre i secoli dal Cinquecento all’Ottocento. Tutto ciò non impedisce, in ogni caso, di collocare nei decenni machiavelliani una serie di novità più o meno rivoluzionarie, cambiamenti che si possono cogliere su due piani: da una parte gli spazi, dall’altra i fattori militari, che contribuirono a ristrutturare, oltre agli spazi stessi, anche i rapporti politici e sociali che vigevano al loro interno, dando vita, in questo modo, a un tipo di milizia in larga misura inedito.
Per quanto riguarda gli spazi, è evidente che al centro della riflessione di Pieri – così come di quella dello stesso M. – si collocava il caso italiano, l’incubo del default militare di una penisola che si era dimostrata incapace di opporsi agli eserciti delle grandi potenze transalpine e transmediterranee (Francia, Spagna, Impero). Tuttavia, senza nulla togliere all’importanza della lotta tra le maggiori monarchie per conquistare il predominio in Italia (e, più in generale, nell’Europa mediterranea e centro-occidentale), non è possibile ignorare due altre aree, che nella fase aurorale della storia moderna chiusa dalla morte di M. conobbero o iniziarono a conoscere mutamenti di carattere strutturale: quella prevalentemente continentale dominata dai cosiddetti «imperi della polvere pirica» (McNeill 1982, trad. it. 1984, pp. 80-81) e, soprattutto, quella prevalentemente marittima investita dalle esplorazioni e dall’incipiente colonizzazione degli europei.
Mentre la formazione – così come la caduta – di grandi imperi tra Europa e Asia non costituiva certo una novità, l’espansione europea in direzione dei mari, degli oceani e – in una fase iniziale – delle coste di tutti i continenti extraeuropei rappresentava un fondamentale giro di boa rispetto al passato. Di conseguenza, nei decenni a cavallo tra il Quattro e il Cinquecento mosse i primi passi quella che può essere definita la guerra-mondo (Del Negro 2001, pp. 143-44), vale a dire la tendenza a ricondurre a un sistema di relazioni militari imperniato, in questo caso, sull’Europa atlantica, un insieme di territori dislocati in ogni parte del globo, che erano rimasti fino allora affatto estranei gli uni agli altri.
Anche se in questa fase il fenomeno ebbe un impatto economico e politico relativamente limitato perfino sulle aree europee, che ne costituirono le retrovie, si deve comunque tenere conto del fatto che in quei pochi decenni furono poste tutte le premesse dei clamorosi sviluppi coloniali dei secoli successivi tanto a ovest (la scoperta dell’America, la conquista spagnola del Messico, la presa di possesso portoghese del Brasile) quanto a sud e a est dell’Europa (l’inarrestabile espansione portoghese dal Marocco occidentale alla Costa d’Oro, dalla circumnavigazione del Capo di Buona Speranza alla creazione di una catena di avamposti commercial-militari sulla costa e nelle isole dell’Africa orientale, dalla nascita di un’India portoghese alla conquista delle chiavi del golfo Persico, Ormuz e Mascate, e all’occupazione di una serie di basi nell’attuale Indonesia).
Due gli «imperi della polvere pirica» saliti alla ribalta della storia in quei decenni: uno, quello ottomano, era da oltre un secolo in evidente ascesa nonostante la battuta d’arresto subita agli inizi del Quattrocento a opera di Tamerlano, mentre l’altro, quello moghul, debuttò proprio alla vigilia della scomparsa di Machiavelli. Nel 1526 Babur, un mongolo-turco discendente da Tamerlano e da Gengis Khan, che aveva ereditato dal padre e poi perso un emirato dell’Asia centrale, il Fargana, e che si era battuto con alterne fortune per impadronirsi di Samarcanda e di altre città e territori situati a oriente dei domini persiani e ottomani, riuscì a conquistare larga parte della valle del Gange mettendo in rotta a Panipat l’esercito del sultano di Delhi.
Il 1526 fu anche l’anno in cui gli ottomani sconfissero a Mohács il re d’Ungheria Luigi II, una vittoria che permise loro di annettere all’impero la parte centro-meridionale del regno magiaro: si trattò, in questo caso, di una tappa significativa di un’epopea bellica che, nell’arco di una dozzina d’anni, aveva visto i sultani Selim I e Solimano il Magnifico mettere in rotta, uno dopo l’altro, i nemici confinanti con l’impero, dallo scià di Persia al sultano mamelucco dell’Egitto, dai cavalieri ospitalieri di Rodi (poi di Malta) alla stessa Ungheria, arrivando, in un arco temporale così limitato, a più che raddoppiare l’estensione dell’impero.
Un ‘quarto’ impero (quarto, se si vuole, dopo quelli ottomano, portoghese e moghul, ma in effetti l’unico in grado di far coincidere il titolo con la sostanza, dal momento che il Portogallo continuò a fare riferimento a un re e i sovrani ottomano e moghul vollero che fosse loro riconosciuta la qualifica di padiscià, di ‘signore dei re’) si affermò nello stesso periodo. Infatti, nel 1525 la battaglia di Pavia, la più importante di questa stagione anche per la quantità delle forze messe in campo, non chiuse soltanto una delle fasi del confronto tra Francesco I e Carlo V, ma pose termine, di fatto, alla competizione tra Francia e Spagna per l’egemonia in Italia, iniziata nel 1494. Certo, le guerre d’Italia sarebbero ancora proseguite per oltre un terzo di secolo, ma è evidente che sotto il profilo militare il turning point era già stato superato.
«Non è più il mondo in reguli partito, come ne’ secoli passati, ma in potentati grandissimi, i quali aspirano alla monarchia», avrebbe constatato agli inizi del Seicento un patrizio veneziano (P.M. Contarini, Corso di guerra et partiti di guerreggiare, e combattere, 1601, p. non numerata). Tale affermazione, la cui validità può essere in larga misura retrodatata, come abbiamo visto, di circa un secolo, richiama l’attenzione anche su un altro aspetto del consolidamento dei «potentati grandissimi». In quei decenni non fu soltanto cancellata l’indipendenza – o comunque ridimensionata l’autonomia – di parecchi «reguli» (e, con poche eccezioni, delle città-Stato così importanti nel basso Medioevo), ma perse il suo peso politico, in dosi variabili a seconda dei contesti, anche la maggioranza di quei corpi intermedi, che in età medievale avevano temperato in un modo o nell’altro il potere dei sovrani.
Non stupisce che in quei decenni alcuni «potentati grandissimi» fossero messi in crisi non tanto dai loro rivali quanto dalle ribellioni interne alimentate per lo più da una crescente pressione fiscale resa necessaria dai continui impegni bellici. Mentre in Oriente furono soprattutto le faide domestiche (Selim fece ammazzare tutti i familiari salvo l’erede al trono Solimano; l’ascesa al potere di Babur fu inizialmente bloccata dagli zii), che insidiarono quello che era o stava per diventare un potere ‘imperiale’, in Europa si mobilitarono invece principalmente le ‘masse’, i comuneros in Castiglia, i cavalieri e poi i contadini in Germania, in parte anche in conseguenza dell’affermazione di un nuovo schema militare (i contadini trovarono un appoggio significativo nelle file dei veterani lanzichenecchi).
In quale misura gli sviluppi politici qui sommariamente richiamati possono essere addebitati all’affermazione di un insieme di fattori militari, taluni affatto inediti e altri resi comunque più incisivi dai progressi tecnologici e da una produzione su scala maggiore? Tra Quattro e Cinquecento gli Stati furono chiamati ad affrontare almeno sei sfide, alcune delle quali trovarono una risposta efficace, prima che altrove, in Europa. Vale a dire, seguendo un ordine cronologico di massima: la costituzione di ampi ed efficienti parchi d’artiglieria d’assedio e da campagna; l’impiego delle artiglierie a bordo delle navi; la creazione di masse critiche di soldati muniti di armi portatili da fuoco; la formazione di una fanteria pesante alla svizzera (queste due novità organiche richiesero la mobilitazione delle ‘masse’ necessarie a riempirne i ranghi); la gestione di un esercito interarmi che integrasse in modo funzionale sul piano tattico gli elementi tradizionali (la cavalleria sia pesante sia leggera, gli arcieri, i balestrieri) con quelli più o meno nuovi (la fanteria di picchieri, l’artiglieria e gli archibugieri); la trasformazione delle difese tradizionali secondo i moduli della cosiddetta trace italienne, vale a dire di un’architettura bastionata in grado di resistere il più possibile al fuoco delle batterie nemiche grazie a un assetto poligonale e a mura basse e profonde presidiate da cannoni.
Anche se pochi Stati dovettero fare i conti nello stesso tempo con tutti questi problemi, in ogni caso la loro pressione combinata sul sistema politico fece dipendere in misura sempre maggiore il successo in guerra dalle disponibilità finanziarie. Come doveva rispondere Gian Giacomo Trivulzio (→), uno degli ultimi grandi condottieri italiani, a Luigi XII di Francia che gli chiedeva cosa bisognasse avere per poter conquistare Milano, «tre sono le cose necessarie: denaro, denaro, e ancora denaro» (G.E. Rothenberg, Maurice of Nassau, Gustavus Adolphus..., in Makers of modern strategy, ed. P. Paret, 1986, p. 32). Va da sé che l’innalzamento della soglia finanziaria favorì, quanto meno in linea di principio, le grandi monarchie che potevano ricorrere più facilmente dei «reguli» ai prestiti dei banchieri. Non a caso l’artiglieria fu definita ultima ratio regum e le grandi fortezze bastionate furono battezzate reali. In altre parole in quei decenni la guerra divenne un gioco più esclusivo di quanto lo fosse stato in precedenza.
La diffusione e la maggiore efficacia dell’artiglieria furono il motore principale della guerra-mondo: le grandi armi da fuoco costituirono una risorsa tecnologica spesso destinata a fare la differenza in diversi contesti e circostanze. Dopo una lunga preistoria l’artiglieria si conquistò la ribalta intorno alla metà del Quattrocento, quando lo stesso termine, che in precedenza era stato impiegato per indicare l’insieme degli arnesi e delle macchine da getto di cui ci si serviva negli assedi, fu utilizzato sempre più esclusivamente per designare le bocche da fuoco.
Lo slittamento semantico fu favorito da due clamorosi avvenimenti del 1453: gli ottomani s’impadronirono di Costantinopoli, dopo averne abbattute le mura con proiettili scagliati da bombarde talmente massicce che era stato necessario fonderle sul posto; la guerra dei Cento anni terminò con la conquista francese degli ultimi castelli e città fortificate occupati dagli inglesi in Aquitania. In questa regione e in quell’anno fu anche combattuta una delle prime battaglie, quella di Castillon, che videro l’artiglieria campale recitare un ruolo di rilievo grazie a una particolare congiuntura tattica, la quale permise ai francesi di schierare per tempo le armi da fuoco – ben settecento i pezzi a disposizione – a difesa del loro campo fortificato (il limite principale delle pesanti artiglierie campali dell’epoca era evidentemente quello dell’estrema difficoltà di spostarle sul terreno nel corso delle battaglie).
I successi della Francia contro l’Inghilterra dipesero, in parte, da un nuovo tipo di cannone, un modello che doveva rimanere sostanzialmente invariato durante gran parte dell’età moderna: i pezzi d’artiglieria erano diventati assai più affidabili ed efficaci grazie alla loro fusione in un’unica colata, a una camera da scoppio perfezionata, all’uso della polvere pirica in granelli e all’impiego di proiettili, oltre che di pietra, anche di ferro. Le guerre d’Italia si aprirono nel 1494 con la calata di Carlo VIII di Francia in direzione del Regno di Napoli: l’impiego di un parco d’assedio di quaranta pezzi d’artiglieria permise ai transalpini di venire rapidamente a capo dei pochi conati di resistenza (non erano molte le fortezze medievali in grado di resistere all’ultima generazione di cannoni) e quindi di raggiungere il loro obiettivo, la conquista del Regno, senza essere costretti a impegnarsi in scontri campali. Ma l’anno successivo, quando Carlo VIII decise di ritornare in Francia, rischiò parecchio a Fornovo, dove una coalizione di Stati italiani tentò di bloccarlo.
Quanto agli «imperi della polvere pirica», l’etichetta stessa, che è stata loro affibbiata, sottolinea il ruolo centrale dell’artiglieria e delle armi da fuoco in genere nella loro affermazione. Lo Stato che prima e in misura maggiore degli altri seppe trarre profitto dall’adozione della nuova tecnologia militare fu senza dubbio l’impero ottomano. Ancora prima dell’espugnazione di Costantinopoli i turchi avevano impiegato con successo l’artiglieria nelle vittoriose battaglie campali dell’ultimo scorcio del Trecento, che avevano loro consentito di impadronirsi di vaste aree dei Balcani. La milizia ottomana era la sola che fin dal Quattrocento annoverasse una mezza dozzina di specialità tecniche, mentre la decisione, presa negli anni Ottanta del Quattrocento, di dotare di archibugi i giannizzeri, la fanteria dell’esercito regolare, aprì una strada che soltanto in seguito sarebbe stata percorsa dagli europei. La sequenza delle clamorose vittorie conseguite tra il 1514 e il 1526 fu in larga misura propiziata dalle armi da fuoco che permisero agli ottomani (in grado, in ogni caso, di fare assegnamento su un’evidente superiorità numerica) di sconfiggere le cavallerie messe in campo dai nemici, fossero essi persiani (cavalleria leggera), mamelucchi (cavalleria pesante) oppure ungheresi (cavalleria feudale).
Nei primi anni del Cinquecento gli ottomani fornirono a Babur le armi da fuoco, che gli avrebbero permesso di vincere a Panipat. In quella battaglia, nonostante che le truppe di Babur fossero largamente inferiori a quelle del nemico (si stima che il rapporto quantitativo delle forze in campo fosse, a suo svantaggio, di uno, al massimo due, a quattro), l’impiego degli archibugi e di un’artiglieria da campo resa meno statica dall’utilizzazione di carri per il suo trasporto permisero al fondatore dell’impero moghul di sconfiggere una cavalleria priva di armi da fuoco. Sempre i cannoni, in questo caso forniti dai portoghesi, contribuirono negli anni Venti del Cinquecento alle fortune della Persia e di alcuni Stati dell’India centro-meridionale.
Alle radici di quella che poi sarebbe stata battezzata come l’espansione coloniale europea fu principalmente la combinazione di due fattori tecnologici: l’utilizzazione dell’artiglieria a bordo delle navi e lo sviluppo delle tecniche di costruzione di bastimenti, che dovevano essere attrezzati in modo tale da poter affrontare, a un tempo, i pericoli della navigazione oceanica e i problemi posti dalla presenza a bordo di artiglierie sempre più numerose e pesanti. Nel secondo Quattrocento i progressi della cantieristica atlantica consentirono di trovare soluzioni soddisfacenti, tra l’altro grazie all’adozione di portelle sui ponti e sottocoperta e di affusti maggiormente funzionali, ai problemi posti dal rinculo e dal peso dei cannoni di nuovo modello.
In effetti, l’accoppiata vele e cannoni era già stata sperimentata con uno straordinario successo dalla Cina dei Ming: lo testimoniano i sette viaggi compiuti nell’Oceano Indiano dall’imponente flotta di giunche comandata dall’ammiraglio Zheng He tra il 1402 e il 1434. Tuttavia, questo clamoroso startup era stato interrotto da una decisione dell’imperatore, così come, più in generale, gli investimenti in quelle armi da fuoco, che pure proprio in Cina avevano debuttato (già i Mongoli avevano fondato, per un certo verso, un «impero della polvere pirica»), dovevano segnare il passo. Non stupisce che l’esercito dei Ming sarebbe stato sconfitto, nonostante il suo assetto ‘avanzato’, da una ‘primitiva’ cavalleria di arcieri, quella dei Manciù.
I cannoni di nuovo modello non solo garantirono alle flotte europee una notevole superiorità su quelle dei Paesi extraeuropei (vi fu anche qualche battuta d’arresto: nel 1508 a Chaul, un porto dell’India occidentale, una flotta egiziana, che era stata varata in tutta fretta grazie all’aiuto determinante di Venezia e che era stata inviata in soccorso dei principi locali, sconfisse i portoghesi), ma permisero anche di sviluppare una nuova tattica, quella di bombardare a distanza le navi nemiche con l’obiettivo di disalberarle, se non di affondarle. Nel 1502 Vasco da Gama ottenne una grande vittoria a Calicut, sulla costa del Malabar, schierando le sue navi in linea e cannoneggiando una flotta locale più numerosa, ma priva di artiglieria.
Come abbiamo visto, Pieri aveva individuato la grande novità tattica dell’età di M. nell’affermazione della fanteria di picchieri a spese dell’arma che era stata fino allora determinante sui campi di battaglia, la cavalleria feudale. In realtà, se è vero che quest’ultima era stata lungo gran parte del Medioevo al centro della scena militare in tutta – o quasi – l’Europa, va anche tenuto presente che nelle aree più sviluppate e più urbanizzate essa era stata da tempo più o meno drasticamente ridimensionata. In particolare in Italia fin dal Trecento le compagnie di ventura avevano conquistato una piena centralità, che aveva a sua volta contribuito in misura decisiva all’affermazione di una cultura militare europea postfeudale. Lo testimonia la lunga serie di termini chiave che dovevano emigrare dall’italiano nelle altre lingue romanze, da esercito (un recupero umanistico che si era affermato a spese dell’oste feudale), a compagnia, da banda a squadrone, da fanteria a cavalleria, da condottiero a soldato, un vocabolo particolarmente importante in quanto sottolineava il ruolo centrale dei professionisti della guerra a spese della nobiltà feudale. Non a caso nello scritto del tardo Quattrocento che meglio doveva illustrare il mondo dei condottieri italiani, l’Opera bellissima del’arte militar di Antonio Cornazzano, un ex segretario di Francesco Sforza e di Bartolomeo Colleoni, l’arte militare era chiamata «il mistier del soldo» (A. Cornazzano, De re militari, 1493, 15266, cc. 54v-55r).
Come si ricava anche da alcune di queste parole, la compagnia di ventura aveva introdotto assetti tattici e organici, quanto mai lontani da quelli feudali, per riflesso, in buona parte, del suo carattere interarmi – del fatto, cioè, che, pur essendo basata sulle ‘lance’, sulla cavalleria pesante ereditata dal Medioevo, essa prevedeva anche l’utilizzazione di balestrieri, di scoppiettieri (i predecessori degli archibugieri) e di altri fanti muniti di armi bianche. Anche questo modello militare era stato esportato al di là delle Alpi. Nel ducato di Borgogna Carlo il Temerario, un sofisticato esponente della cultura cavalleresca, ma nello stesso tempo un fautore della modernizzazione militare (fu l’autore del primo regolamento di disciplina), creò un esercito di tipo italiano basato su un incrocio fra la tradizione (la cavalleria pesante, gli arcieri e i balestrieri) e le novità tattiche più recenti (gli archibugieri, i picchieri, un poderoso parco d’artiglieria).
Questa milizia, apparentemente così ben bilanciata nelle sue varie componenti, si rivelò, alla prova dei fatti, incapace di far fronte alla milizia messa in campo dalla Confederazione svizzera e dalle leghe dei Grigioni, che era invece espressione di un’arcaica società rurale. Gli svizzeri avevano perfezionato, nel corso della lunga lotta per l’indipendenza dai loro signori, gli Asburgo, e nei conflitti con le potenze confinanti, una tattica basata su formazioni assai compatte, armate, nella versione più recente, di picche di diversa lunghezza e quindi in grado di opporre un’insuperabile barriera agli attacchi della cavalleria, e di attaccare a loro volta grazie a una forza d’urto impressionante corroborata da una notevole capacità di manovra e anche dall’impiego di armi da fuoco portatili.
Dopo i successi conseguiti dagli svizzeri nelle guerre burgundiche terminate nel 1477 il loro modello militare basato sulla fanteria di picchieri fu imitato ovunque, dalla Spagna alla Francia, dall’Italia (di particolare interesse il tentativo di Cesare Borgia) alla Germania. La ‘normalizzazione’ dell’esperienza ‘eversiva’ degli svizzeri – quando i montanari elvetici avevano battuto i nobili guerrieri borgognoni avevano capovolto la piramide sociomilitare medievale – avvenne tramite la loro fagocitazione da parte del mercato della guerra. Coloro che potevano permetterselo – i re di Francia, i duchi di Milano, gli stessi imperatori – reclutarono direttamente gli svizzeri quali mercenari, mentre in altri casi si preferì – o si fu costretti a – ricorrere a surrogati, che talvolta dovevano rivelarsi altrettanto validi, se non superiori agli elvetici, in quanto dotati di una maggiore flessibilità tattica.
Dovevano testimoniarlo sia i lanzichenecchi sia le fanterie spagnole, fino alla guerra dei Trent’anni le migliori unità di fanteria sui campi di battaglia europei. La Svizzera, la Germania meridionale, la Castiglia (la regione che più delle altre doveva alimentare i tercios), ma anche la Guascogna (la terra di molti fanti francesi tra Quattro e Cinquecento), la Scozia, l’Irlanda: collocandosi in controtendenza rispetto agli altri fenomeni della modernizzazione militare, la fanteria pesante fu espressione di aree più o meno arretrate rispetto all’asse della massima prosperità europea, che andava dalle Fiandre all’Italia settentrionale.
In questo modo si affermò un sistema militare europeo, che aveva le sue radici nel mercato della guerra e che era in grado di ricavare nello stesso tempo dei frutti tanto dai progressi della tecnologia, quanto dall’arretratezza di popoli, che la povertà spingeva ad arruolarsi nelle file dei mercenari. Non credo però che si possa seguire Pieri quando intravede in questa fase un «avviamento agli eserciti statali permanenti», anche perché non si era ancora affermata l’unità organica che sarebbe stata alla base degli eserciti permanenti: il reggimento. Il nuovo, ‘umile’, carattere del combattimento – l’eclissi dell’universo di convenzioni e di riti cavallereschi che fino allora aveva contraddistinto la guerra quanto meno sul piano del dover essere, assegnandole, tra le altre, la funzione di legittimare la società nobiliare e i suoi valori – fu favorito anche dalla diffusione delle armi da fuoco. Come sarebbe stato sottolineato nei secoli successivi, «non [era] quel tempo più da fare sfoggi, / in mostrar il valor, come l’antico», ma «sol basta[va] scaricare un moschettaccio». Di conseguenza «un vile» poteva tranquillamente e impunemente ammazzare un valorosissimo nobile. Il mestiere delle armi era diventato un mestiere ‘plebeo’ (G.B. Fagiuoli, “In biasimo della guerra”, in Id., Rime piacevoli, 3° vol., 1732, p. 199).
Che ci fosse, all’alba dell’età moderna, una forte spinta in una direzione ‘popolare’ è fuori discussione. Negli anni Venti del Cinquecento non solo la fanteria arrivò a costituire i nove decimi della nuova milizia (contro i due terzi registrati all’epoca della calata di Carlo VIII), ma anche la piccola nobiltà – la maggioranza del corpo ufficiali – che inquadrava i picchieri, scese da cavallo e decise di combattere a piedi. Nei decenni machiavelliani molti Stati europei cercarono di dotarsi di uno schema militare di ‘massa’, di affiancare cioè ai professionisti della guerra all’italiana le fanterie pesanti di tipo svizzero e soprattutto di integrare con milizie urbane e rurali un esercito ‘regolare’ composto per lo più da mercenari, o comunque da professionisti ‘nazionali’ che si comportavano come i mercenari (se «il mistier del soldo» non rispettava la sua ragion d’essere, la paga, anche i professionisti ‘nazionali’ indicevano scioperi militari o disertavano).
Nel caso di Venezia, una delle città-Stato maggiormente impegnate in una politica di questo tipo, la milizia urbana fu battezzata «bombardieri» – un’etichetta che la dice tutta sull’importanza acquisita dalle armi da fuoco – e quella rurale «cernide», anch’esse armate ben presto di archibugi. Alle milizie furono assegnate le armi ‘popolari’, che si erano affermate in quei decenni, vale a dire, tra le altre, le picche e gli archibugi, armi che consentivano una rapida militarizzazione del numero sempre più alto di uomini preteso dalla guerra ‘plebea’.
Il ricorso alle milizie, così come quello, in larga misura dettato dalla medesima logica, ai contadini-soldati chiamati a presidiare le aree di confine (nel 1522 fu creato dall’impero il confine militare in Croazia-Slavonia, la prima istituzione militare permanente degli Asburgo), ubbidiva principalmente a una strategia difensiva. Si cercava in questo modo di opporsi alla linea di tendenza che aveva prevalso lungo il mezzo secolo a cavallo tra il Quattro e il Cinquecento, quando nell’Europa occidentale le fanterie di picchieri e i parchi d’artiglieria d’assedio, e nell’Europa orientale e in Asia i giganteschi eserciti degli «imperi della polvere pirica», avevano garantito, come testimoniano anche le numerose grandi battaglie campali, un evidente vantaggio all’offensiva.
In quegli stessi decenni furono tuttavia poste, grazie all’adozione dell’architettura bastionata, le basi per un’inversione di tale tendenza. Fin dalla metà del Quattrocento si era diffusa in Italia, grazie a Leon Battista Alberti e ad Antonio Averlino, detto il Filarete, la convinzione che fosse necessario abbandonare gli schemi ‘in verticale’ e ortogonali della fortezza medievale a favore di una difesa poligonale in profondità. I fratelli Giuliano e Antonio da Sangallo e Francesco di Giorgio Martini furono, a partire dagli anni Settanta del Quattrocento, i protagonisti della prima ondata di ristrutturazioni delle fortezze medievali in base ai principi dell’architettura bastionata.
Il passaggio alla nuova architettura fu accelerato dagli assedi, come quelli di Pisa del 1499 e di Padova del 1509, che costrinsero a un rapido adattamento delle mura medievali secondo i nuovi criteri, operazioni che in entrambi i casi furono coronate da un inaspettato successo. Che, in ogni caso, la trace italienne assicurasse ai difensori un beneficio non indifferente lo avrebbero testimoniato nel 1511 l’assedio di Treviso (nonostante che gli assedianti franco-imperiali avessero un parco di settanta pezzi e, quanto al numero degli uomini, una superiorità di tre a uno sui veneziani, fallirono nel tentativo di impadronirsi della città); nel 1522, quello di Rodi (la città fu conquistata da Solimano soltanto dopo sei mesi di intensi bombardamenti e di assalti, che videro impegnato un esercito di centomila uomini contrastato da ottomila difensori); e nel 1529-30 quello di Firenze. Grazie alla diffusione dell’architettura bastionata nella stagione della guerra di movimento e delle grandi battaglie si ponevano le basi per un ritorno alla guerra difensiva, a quella guerra di posizione che avrebbe caratterizzato la seconda parte del Cinquecento.
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Per il pensiero militare di M., si vedano le voci: armi, Arte della guerra, artiglieria, capitano, cavalleria, fanteria, fortezze, guerra e pace, Ordinanza, Scritti sull’, Scritti militari minori.