Miniatura
Gli esordi della storiografia specialistica dedicata alla miniatura sveva sono concentrati sull'indagine delle opere eccelse ovvero, nello specifico, su quei due capolavori che sono la Bibbia di Manfredi (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 36) e il De arte venandi cum avibus (ivi, ms. Pal. Lat. 1071). La monografia dedicata al principio del secolo scorso da Erbach-Fürstenau (1910) alla Bibbia di Manfredi si pone come incunabolo per gli studi inerenti la miniatura federiciana. Riconoscendo l'autenticità della dedica a Manfredi, Erbach-Fürstenau asserì irrevocabilmente la pertinenza di questo prezioso codice alla committenza sveva. Sulla scorta di questo pionieristico studio, anni dopo, si innestarono contributi che perfezionarono la messa a fuoco delle figure degli artefici della Bibbia di Manfredi e ricostruirono un corpus di codici riferibili al medesimo atelier, consentendone così una più puntuale contestualizzazione anche in rapporto all'ambito non strettamente cortese (Bologna, 1969; Pettenati, 1976; Toubert, 1977, 1980, 1995). Analogamente, all'inizio del secolo scorso, il De arte venandi cum avibus sedusse gli studiosi per il vivace realismo e la straordinaria efficacia pittorica delle sue ricchissime illustrazioni. Gli studi conversero sulla valutazione della capacità dei suoi autori di rappresentare la natura con spirito precocemente 'scientifico', nel senso moderno della parola (Haskins, 1921; Volbach, 1939), fino all'edizione in facsimile del manoscritto, con relativo commento di Willemsen (Federico II di Svevia, 1969).
A partire dagli anni Cinquanta l'estensione degli interessi di studio della miniatura siciliana sia a un suo più generale censimento (Daneu Lattanzi, 1966), sia alla precedente età normanna così come alla seguente età angioina (Buchthal, 1955, 1956, 1965), ha permesso di conseguenza un migliore apprezzamento della miniatura di età federiciana, non senza l'avvertenza di eventuali sconfinamenti cronologici di quanto si era ritenuto normanno e si è invece proposto attinente all'età sveva (Pace, 1979).
Un ulteriore filone di ricerche si è concentrato sul complesso della produzione libraria di contenuto scientifico o narrativo (Mütherich, 1974; Grape Albers, 1977; Gousset-Verdet, 1989; Orofino, 1990, 1994, 1995). Ciascuno con una propria individualità artistica, i numerosi ed eccellenti manoscritti laici di plausibile esecuzione italo-meridionale negli anni federiciani sono stati tutti tradizionalmente giudicati dalla critica come prodotti per Federico II o, comunque, nel suo entourage. Di recente, tuttavia, sono state espresse delle riserve circa il supposto patrocinio federiciano su queste opere (Bräm, 1996).
Il diretto coinvolgimento di Federico II in relazione a manoscritti religiosi è raro e, talvolta, unicamente ipotetico. Solo all'epoca di Manfredi si assisterà all'elaborazione di Bibbie per diretto interessamento del sovrano. Quindi per i manoscritti religiosi di regola sarà più opportuno parlare genericamente di 'miniatura sveva', intendendo tale definizione in un'accezione meramente cronologica. La distinzione dei codici in base al contenuto e alle funzioni è ancora operativa negli studi più recenti.
Un diverso problema attiene l'esiguità dei codici superstiti originali riferibili di sicuro alla committenza federiciana (Mütherich, 1974, 1977). Molti dei manoscritti commissionati dallo stesso Federico, infatti, ci sono noti solo grazie a copie. È il caso del Liber Introductorius, scritto nel 1228 da Michele Scoto per esaudire la curiosità intellettuale del sovrano, ma pervenutoci solo in redazioni posteriori, la più antica delle quali è un codice realizzato a Padova circa alla metà del XIV sec. (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, ms. Clm 10268; cf. Orofino, 1995; Toubert, 1995). Lo stesso esemplare del De arte venandi cum avibus della Vaticana è una riproduzione del manoscritto paterno commissionata da Manfredi: l'originale infatti era stato trafugato dai parmigiani nel corso della battaglia di Vittoria del 1248 e qualche anno dopo fu offerto in dono dal milanese "Guillelmus Bottatius" a Carlo d'Angiò (Haskins, 1924), infine andò perduto. Sulla presunta fedeltà dell'esemplare manfrediano all'originale di Federico II sono stati recentemente sollevati dubbi (Bräm, 1996). Persino per questo celeberrimo manoscritto della Vaticana, quindi, la definizione di 'miniatura federiciana' non è appropriata e risulta preferibile quella di 'miniatura sveva'.
Sono ritenuti pertinenti alla produzione libraria di ambito federiciano, essendo tutti databili al secondo quarto del XIII sec. e tutti di argomento scientifico, i due erbari gemelli (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Plut. 73.16; Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, ms. Vindob. 93), il De chirurgia liber di Rolando da Parma (Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 1382) e il Liber Astrologiae di Georgius Zothorus Zaparus Fendulus (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 7330). Nell'apparato illustrativo di questo gruppo di codici è ancora vitale l'eredità del miniatore che in età tardonormanna approntò le immagini del Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli (Berna, Burgerbibliothek, ms. 120 II), copiato a Palermo negli anni 1195-1197 (Orofino, 1995). Le loro miniature, infatti, proseguono nel solco dell'eccezionale eclettismo del precedente autore, capace di assimilare e sintetizzare gli eterogenei apporti culturali dell'ecumene normanna, con peculiari ascendenze bizantine e islamiche, e nel contempo di aggiornare la tradizione classica con una vivace osservazione dal vero. I due erbari, gli unici di età sveva pervenutici, con il loro ricco apparato illustrativo costituito da centinaia di miniature a piena pagina o infracolonnari, si presentano conformi ai gusti di un pubblico raffinato ma non specialistico, da affascinare con rappresentazioni fantasiose e romanzesche (Orofino, 1990; sull'iconografia v. Grape Albers, 1977). Esemplati sulla base di un prototipo tardoantico, i due erbari devono le loro immagini a un gruppo di copisti pertinenti a uno stesso scriptorium, difficilmente localizzabile data l'unità artistica che accomuna le aree continentali e insulari del Regno svevo. Tuttavia l'argomento medico ne rende plausibile un'origine connessa a una università o a una scuola medica campana, dove peraltro era facile il reperimento di esemplari tardoantichi, con una opzione privilegiata per Salerno (Orofino, 1990). Analoga origine è stata suggerita per la Rolandina Casanatense (ibid.). Lo stesso sapiente connubio di intenti didattici e dilettevoli connota il Liber Astrologiae di Fendulus, arricchito dalle illustrazioni dei dodici segni zodiacali a piena pagina. L'iconografia è debitrice della tradizione classica, appresa probabilmente da un manoscritto del poema astrologico di Arato mediato da un esemplare del XII sec., forse italo-meridionale, ma integrata da fonti orientali (Orofino, 1995). L'esemplare manfrediano dell'Historia de preliis (Lipsia, Universitätsbibliothek, ms. Rep. II.4o 143) testimonia come una vigorosa capacità di aggiornamento del repertorio iconografico connoti parimenti la produzione miniata di testi narrativi: la committenza sveva si pone come punto di riferimento anche per l'elaborazione dell'immaginario cavalleresco. L'Historia de preliis contiene la versione latina del Romanzo di Alessandro dello Pseudo Callistene, in una recensione interpolata derivante dalla traduzione effettuata nel X sec. dall'arciprete Leone per il duca di Napoli Giovanni III (Kirsch, 1991). I miniatori manfrediani autori delle illustrazioni di questo esemplare di lusso hanno trasfigurato il modello bizantino, derivante da fonti tardoantiche, aggiornandolo sulla coeva iconografia cavalleresca romanza, probabilmente appresa tramite codici transalpini miniati dedicati ai cicli bretoni, arturiani e troiani, importati forse da Manfredi in seguito ai suoi studi parigini del 1254 (Orofino, 1995).
Ben diversa è la situazione relativa alla produzione di manoscritti di uso liturgico. Per quest'ambito la committenza imperiale è l'eccezione e sono ancora dominanti le officine scrittorie annesse a monasteri o sedi vescovili. Allo stato attuale degli studi, nell'ambito continentale del Regno è l'abbazia di Cava de' Tirreni che presenta il maggiore interesse per gli sviluppi della sua miniatura (Rotili, 1976). In questo gruppo i codici più interessanti, anche per il loro parallelismo cronologico con la produzione svevo-federiciana, sono: il ms. 18, contenente il De septem sigillis libri IV di "Benedictus Barensis"; il ms. 22, dedicato ai Salmi commentati da Pietro Lombardo, ma inclusivo anche del De oratione dominica di Innocenzo III; il ms. 23, con commenti di Pietro Lombardo alle Epistole paoline. Il ms. 18, databile con certezza agli anni 1208-1232 (forse del 1227, se si ammette la correttezza di un'annotazione cinquecentesca), ovvero al periodo di governo dell'abate Balsamo cui il codice è dedicato, contiene alla c. 304v una miniatura a piena pagina che nelle sue caratterizzazioni fisionomiche tradisce un significativo parallelo con le coeve pitture della cappella di S. Gregorio al Sacro Speco di Subiaco, datate al 1228. Tale affinità è indizio di una possibile koinè formale tra la Campania e il Lazio meridionale, nel cui ambito convivono sigle stilistiche di origine monrealese, ormai attardate, assieme a formule figurative di più aperta adesione al naturalismo d'immagine del nascente gotico d'Oltralpe. Sono invece databili attorno alla metà del XIII sec. il ms. 22, adorno di una sequenza di diciassette iniziali istoriate, e il ms. 23, illustrato con immagini di s. Paolo. I due codici sono accomunati da caratteristiche formali che ripropongono, secondo modalità più corsive, stilemi caratteristici dell'Exultet di Salerno. Quest'ultimo, tra i più importanti esemplari della miniatura italo-meridionale del primo Duecento, è conservato presso il Museo Diocesano di Salerno e verosimilmente fu realizzato proprio nello scriptorium della cattedrale (Cavallo-D'Aniello, 1993). Se la rete di relazioni stilistiche indicata per questo rotolo ne suffraga una datazione agli anni centrali della prima metà del Duecento, mancano però indizi cogenti per una sua più esatta collocazione crono-topografica, essendone andata perduta la dedica. A meno che non si accetti di riconoscere come una rappresentazione di Federico II l'immagine del monarca posta a conclusione della sequenza d'illustrazioni. L'identificazione con Federico II è suggerita dalla monumentalità e dall'evidenza dell'immagine di questo regnante, eccezionali rispetto al modello altrimenti seguito, un prototipo beneventano del X sec. trasmessoci dal rotolo Vat. Lat. 9820 della Biblioteca Apostolica Vaticana (Pace, 1995). Accettando tale ipotesi, sarebbe possibile riferire il rotolo a una committenza di o per Federico II, circoscrivendone così i termini dell'esecuzione quantomeno entro il 1227, data della scomunica dell'imperatore. Sia che si tratti di una committenza dell'allora arcivescovo di Salerno Nicola d'Ajello (m. 1222), sia, viceversa, che si tratti di un omaggio federiciano alla sede salernitana, il rotolo potrebbe costituire una rara testimonianza di accordo tra l'imperatore e le gerarchie ecclesiastiche. Si segnalano per l'eccellenza dell'apparato illustrativo altri due rotoli forse appartenenti al periodo federiciano incipiente, altrettanto problematici: l'Exultet di Velletri (Archivio Diocesano) e l'Exultet III di Troia (Archivio Capitolare, III). Sul primo regna ancora un'incertezza che non consente di precisarne il luogo di origine, genericamente localizzato nell'area tra Lazio e Campania (Exultet: rotoli liturgici, 1994). Il secondo, l'Exultet III di Troia, è invece riconosciuto come prodotto a Troia stessa, ma permangono delle divergenze circa la datazione, solitamente proposta al XII sec. exeunte (Cavallo, 1973; Exultet: rotoli liturgici, 1994), ma recentemente abbassata agli inizi del Duecento (Pace, 1995).
Ancora più aperta è la questione della miniatura siciliana. In primo luogo non esistono certezze assodate sull'ubicazione degli scriptoria, ferma restando la possibilità che fosse ancora attivo quello annesso alla cattedrale di Palermo. Inoltre rimane irrisolto il dibattito sulla collocazione cronotopografica di un gruppo di manoscritti siciliani custoditi nella Biblioteca Nacional di Madrid: la Bibbia ms. 6 e gli Omeliari mss. 9 e 10, convenzionalmente raggruppati attorno al celebre Sacramentario di Madrid, ms. 52, il solo del gruppo a presentare miniature a piena pagina. Inizialmente furono tutti riferiti a uno scriptorium messinese e al periodo tardonormanno (Buchthal, 1955). Successivamente fu proposto di spostare la datazione fino al terzo decennio del XIII sec., suggerendone anche una produzione in diversi scriptoria, fra i quali Palermo e/o Monreale (Pace, 1979). Ancora di recente si è tuttavia preferito mantenere i tradizionali riferimenti storiografici (Menna, 1995).
È invece databile al 1259 la Bibbia madrilena ms. 229, grazie al suo colophon che ne consente anche un ragionevole riferimento alla Sicilia (Buchthal, 1956). Tale testimonianza di continuità della produzione libraria in Sicilia in età tardosveva è stata addotta a sostegno della localizzazione nell'isola, per l'esattezza a Palermo, della bottega responsabile della Bibbia di Palermo (Palermo, Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, ms. I.C.13), caratterizzata dal piccolo formato (Daneu Lattanzi, 1966; Di Natale, 1995; Pace, 1996). La Bibbia di Palermo è stata altrimenti riferita all'Italia meridionale, possibilmente alla città di Napoli, dove era attivo il cosiddetto "Maestro delle bibbie manfrediane" (Spinosa, 1967; Rotili, 1968; Toubert, 1979).
Il "Maestro delle bibbie manfrediane" è, in primo luogo, il principale autore della Bibbia di Manfredi (ms. Vat. Lat. 36), connotata con i più evidenti caratteri di lusso giustificati dalla committenza esplicitata nel colophon. Lo stesso colophon ne permette anche la datazione agli anni 1250-1258, nonché riporta il nome del copista "Johensis". Nella scena dell'offerta alla c. 522v di questa Bibbia si rileva l'intervento concomitante del miniatore del De arte venandi. Forse lo stesso "Maestro delle bibbie manfrediane" (Daneu Lattanzi, 1962) o un suo allievo (Bologna, 1969) concorrono all'apparato illustrativo della copia manfrediana del De balneis Puteolanis (Roma, Biblioteca Angelica, ms. 1474), esemplata dallo scriba "Johensis" attorno alla metà del XIII sec. sul perduto codice presentato da Pietro da Eboli a Federico II verso il 1211-1220. Sono infine ascritte al gruppo delle Bibbie del Maestro la sfarzosa Bibbia di Parigi (Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 40), dove ricompare il nome di "Johensis", e quella di Torino (Biblioteca Nazionale, ms. E 4 14). Questi gli esemplari di inequivocabile destinazione aulica, legati tra di loro da una rete di relazioni che attesta l'omogeneità e la coerenza figurativa della produzione libraria in età manfrediana (Pace, 2000), la cui eccellenza è sostanziata dall'originale sintesi di echi monrealesi, risonanze nord-francesi e novità parigine (Toubert, 1980; Pace, 1996). Ma è stata ritenuta autografa del Maestro anche una seconda Bibbia parigina (Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 10428), contraddistinta invece dal piccolo formato, forse un esemplare di più agevole consultazione per lo stesso Manfredi (Toubert, 1995). Nella serie di Bibbie raggruppate attorno alla figura del "Maestro delle bibbie manfrediane" ben cinque sono caratterizzate dal 'formato tascabile', affermatosi a Parigi negli anni attorno al 1230 per la sua maggior adeguatezza alle necessità di un pubblico universitario (Toubert, 1980; 1995): le Bibbie di Bourges (Bibliothèque Municipale, ms. 5), di Londra (British Library, ms. Add. 31830), di Oxford (Bodleian Library, ms. Canon. Bibl. Lat. 77) e una seconda di Parigi (Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 217). Si tratta di codici di diversa ricchezza e di mani diverse, ma pur sempre nelle linee generali saldamente affini ai modi del "Maestro delle bibbie manfrediane". Ne è stata evinta la probabile partecipazione del Maestro a una bottega, se non a un vero e proprio scriptorium, dove, accanto alla produzione di esemplari di lusso destinati alla corte, erano realizzati codici di piccolo formato, finalizzati allo studio. Questo secondo gruppo ben si adattava al pubblico di studenti e di studiosi afferenti a un centro universitario quale, appunto, la Napoli sveva. Sarebbe stato il contestuale adempimento delle richieste di una clientela diversificata ad aver contribuito a una più capillare penetrazione di quelle "forme gotiche adattate alla tradizione italo meridionale" (Toubert, 1995, p. 103), elaborate per soddisfare i gusti della corte sveva ma diffuse anche al suo esterno (Id., 1980; 1995). Come epigone della produzione miniata sveva si pone, infine, la Bibbia di Corradino (Baltimora, Walters Art Gallery, ms. 152), connessa alla figura dell'ultimo sovrano della dinastia fin dallo scorso secolo, forse sulla scorta di dati oggi perduti. Tuttavia, benché ormai contestualizzata all'interno di un gruppo di manoscritti, la Bibbia di Corradino resta ancora senza un'esatta localizzazione, al più con un'opzione privilegiata per l'Italia centrale o nordorientale (Pace, 1996).
fonti e bibliografia
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