Abstract
Viene esaminata la figura del Ministro come organo del Governo nell’ordinamento costituzionale italiano. Si descrive la genesi dell’organo e si mette in luce il problema dell’unità dell’azione dei Ministri in quanto plurimi organi dello stesso Governo. Si analizza la posizione del Ministro come componente del Consiglio dei Ministri e come titolare del Ministero. Si ricorre al rapporto di fiducia fra Governo e Parlamento come chiave di lettura dei caratteri dell’incarico ministeriale, dalla nomina sino ai modi della cessazione dall’incarico.
Ministri sono gli organi monocratici che compongono il Governo della Repubblica, essendo questo costituito, secondo la Costituzione, dai ministri, dal Presidente del Consiglio, dal Consiglio dei Ministri. I ministri «sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri», ma in effetti, per il principio della corrispondenza fra potere e responsabilità, ciò che l’art. 95, co. 2, Cost. vuole in tal modo indicare, è l’esistenza di un potere proprio dei Ministri nella formazione tanto degli atti del Governo intero, quanto degli atti dei rispettivi ministeri. La titolarità di questi poteri caratterizza la figura del Ministro nel governo parlamentare e lo distingue dal Ministro delle forme di governo presidenziale e della monarchia costituzionale o assoluta.
La trasformazione del Ministro, dalla risalente posizione di funzionario posto, prima al servizio della persona del Re (donde appunto il titolo onorifico di Ministro), e poi, quale suo diretto subordinato, alla guida dell’apparato per il disbrigo degli affari del regno (donde il titolo, solo di recente abbandonato, di Segretario di Stato), avviene con l’avvento della forma di governo parlamentare e la corrispondente emarginazione politica del Sovrano. Poiché il monarca mantiene la posizione di Capo dello Stato, ma perde quella di Capo del Governo, il compito di direzione dello Stato viene a trasferirsi naturalmente sugli uomini al vertice delle diverse branche operative del relativo apparato amministrativo. Ed è in tal modo che nasce il potere decisionale autonomo del Ministro, «organo monocratico al quale è istituzionalmente attribuita, nell’ambito del potere esecutivo, la cura di una determinata serie di interessi pubblici» (Ciaurro, G.F., Ministro, Enc. dir., XXVI, Milano, 1976, ad vocem, 513). La relativa funzione di cura e, al contempo, di rappresentanza di tali interessi si fa valere non solo nel Consiglio dei Ministri, ma anche in sedi istituzionali diverse, sia interne (ad es. nei comitati interministeriali) che esterne al Governo, dove il Ministro, quale portatore di interessi settoriali, può avvalersi contestualmente del concorrente valore di rappresentante del Governo inteso nella sua unità. Ciò avviene, in particolare, nei rapporti con l’Unione europea (ai sensi dell’art. 2, co. 4, del d. lgs. 30.7.1999, n. 300), nonché con le Camere, perché la posizione del Governo in Parlamento – con i connessi poteri, recepiti nei regolamenti parlamentari, fra i quali spicca la proposta di emendamento ai disegni di legge anche in assenza, di norma, di una specifica pronuncia del Consiglio dei Ministri – finisce naturalmente per fare capo al Ministro competente per materia, che li esercita personalmente ovvero per il tramite dei sottosegretari.
Per quanto poi attiene alla individuazione della sfera di interessi di cui ciascun Ministro si fa portatore in queste molteplici forme, l’art. 2, co. 2, d. lgs. n. 300/1999 rinvia espressamente (per i Ministri preposti ai ministeri) «alle funzioni di spettanza statale nelle materie e secondo le aree funzionali indicate per ciascuna amministrazione dal presente decreto».
Come titolare della funzione di direzione dello Stato, il Ministro, organo di vertice di una branca dell’amministrazione statale, incontra il problema dell’unità di azione con i titolari degli altri ministeri, non più assicurata dalla comune sottoposizione alle direttive del Sovrano.
Sul piano ideale, ne deriva il principio dell’omogeneità delle vedute politiche dei Ministri, il loro idem sentire de republica, che implica tanto la responsabilità di ciascuno di essi per le decisioni prese dal Governo intero, quanto la cd. “solidarietà ministeriale”, secondo cui i rilievi mossi al singolo Ministro valgono come questione che investe il Governo intero (Rescigno, G.U., La responsabilità politica, Milano, 1967, 225).
Sul piano organizzativo, ne deriva l’evoluzione del Consiglio dei Ministri, che diviene titolare delle decisioni più importanti del Governo, idonee a condizionare l’azione di ciascun Ministro nel proprio ramo di amministrazione. Mentre il collegio dei Ministri, di cui il monarca si avvale, ha funzioni prevalentemente consultive (Astuti, G., La formazione dello Stato moderno in Italia, Torino, s.d., 108), lo stesso organo consiliare, in regime parlamentare, assume appunto le funzioni decisionali già proprie del monarca. E poiché un organo collegiale, in quanto tale, nonostante l’ideale identità di vedute dei suoi componenti, non può impersonare l’unità dell’indirizzo, quale ulteriore conseguenza organizzativa si delinea con il tempo, all’interno della compagine ministeriale, un vero e proprio organo ulteriore e distinto, la cui denominazione (Presidente del Consiglio, primo Ministro, cancelliere), nelle varie esperienze, tradisce pur sempre l’origine per così dire “ministeriale” dell’organo medesimo (Rotelli, E., La presidenza del Consiglio dei ministri, Milano 1972, 19 ss.).
La preminenza del capo del Governo sui diversi Ministri non può però tradursi, per la definizione stessa della forma parlamentare, in una supremazia analoga a quella che era propria del Re. I Ministri, infatti, già responsabili di fronte al Sovrano, a causa del rapporto fiduciario rispondono ora non tanto al primo dei ministri, quanto piuttosto alle Camere rappresentative, con tutta una serie di implicazioni, che connotano stabilmente la loro posizione nel sistema. Potere di nomina e di revoca dall’incarico, incidenza sulle decisioni collegiali, grado di autonomia nella definizione delle questioni di pertinenza ministeriale, nonché, in ultima analisi, l’unità dell’indirizzo politico del Governo, sono tutti fattori che si rivelano dipendenti dalle dinamiche proprie del rapporto fiduciario; il collegio dei Ministri è investito del potere esecutivo costituendo una sorta di “prodotto naturale e costante” del collegio maggiore costituito dalla maggioranza parlamentare, e cioè dallo stabile gruppo di deputati incaricatisi di dare sostegno continuo al Governo.
Secondo l’art. 92, co. 2, Cost., «il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i Ministri». A dispetto della formulazione letterale, la norma vale a codificare un esito del sistema già conosciuto dal regime statutario, secondo cui la scelta dei Ministri risulta dalla volontà di tre soggetti distinti: il Capo dello Stato che compie la nomina; il Presidente incaricato di formare il Governo che formula la proposta; la maggioranza parlamentare che lo sostiene. Ne costituisce sintomo il fatto che, nonostante la lettera dell’art. 92, il Presidente del Consiglio formula la proposta concernente i Ministri (la cd. lista dei Ministri) prima e non dopo essere a sua volta nominato: nomina e giuramento del Presidente del Consiglio e dei Ministri avvengono, infatti, per prassi consolidata, contestualmente. Se ne è tratta la pregnante conclusione che per le «proposte concernenti le nomine dei Ministri, la competenza…va riconosciuta…al Presidente del Consiglio incaricato … organo costituzionale transitorio» (Paladin, L., Governo italiano, Enc. dir., Vol. XIX, Milano, 1970, ad vocem, 689). A ben vedere, peraltro, poiché la proposta dei Ministri viene formulata solo se il Presidente incaricato si sente posto a capo di una coalizione parlamentare, poco importa se formatasi a seguito delle consultazioni ovvero di un successo elettorale, il proponente la nomina dei Ministri, se ancora non è a capo del Governo, è comunque già a capo della maggioranza parlamentare. Ancora una volta, dunque, il rapporto fiduciario si dimostra la cifra determinante per la comprensione della disciplina del Governo, per la dipendenza costante che ne deriva nei confronti delle Camere. Per il fatto di provenire dal capo della maggioranza parlamentare, la proposta di nomina dei Ministri finisce per valere come volontà delle Camere stesse, l’influenza decisiva dei partiti sulla scelta dei Ministri, ben lungi dal costituire violazione delle attribuzioni del Capo dello Stato e del Presidente del Consiglio, dimostrandosi così pienamente conforme alla logica del sistema (Capotosti, P. A., Accordi di Governo e Presidente del Consiglio dei ministri, Milano, 1975, 157 ss.).
Per quanto poi attiene al concorso del Capo dello Stato nella scelta delle personalità proposte a Ministro, valgono le concrete condizioni di fatto e, in particolare, il grado di consolidamento politico della posizione in cui opera il Presidente incaricato, al diminuire del quale tende ad attribuirsi «un maggior peso specifico agli stessi consigli e suggerimenti del Capo dello Stato» (Bartole, S., Governo italiano, in Dig. pubbl., vol. VII, Torino, 1991, sub voce, 644).
La disciplina sui requisiti per l’accesso alla carica di Ministro risulta costituita dalle poche previsioni sul regime delle incompatibilità – per di più sfornite di sanzioni – di cui alla l. 13.2.1953, n. 60; dalle norme sulla risoluzione dei conflitti di interessi ‒ peraltro sostanzialmente orientate, secondo una lettura, a porre il problema «nell’area delle dinamiche proprie del rapporto di fiducia» (Colavitti, G., Conflitto di interessi, esito debole di una storia travagliata, in Dir. giust., 2004, 30, 14 ss.) – di cui alla l. 15.7.2004, n. 215; ed infine, dalle assai più rilevanti disposizioni in materia di “incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo”, recate dal d. lgs. 31.12.2012, n. 235. Queste ultime misure, introdotte come cause ostative alla candidatura in dipendenza di sentenza definitiva per una serie di reati indicati dal legislatore, sono espressamente estese, quando previste per i parlamentari (art. 1 del d.lgs.), anche ai “titolari di cariche di governo” (art. 6). Le relative cause di incandidabilità si convertono in tal modo in cause ostative all’assunzione, o al mantenimento, dell’incarico ministeriale.
La misura dell’indennità ministeriale, infine, è disciplinata dalla legge 9.11.1999, n. 418 nonché dall’art. 3 del d. l. 21.5.2013, n. 54.
La disciplina legislativa che determina, ai sensi dell’art. 95, co. 3, Cost., «il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri», non ha mai potuto operare come un limite assolutamente condizionante il numero e le attribuzioni dei Ministri.
Secondo prassi risalenti dall’ordinamento statutario e recepite in quello costituzionale, una composizione del Governo diversa da quella presupposta dalla disciplina sui Ministeri può derivare tanto dall’istituto della reggenza ad interim, quanto dalla figura del Ministro senza portafoglio.
Si ha reggenza ad interim di un Ministero – prassi ora recepita nell’art. 9, co. 4 della l. 23.8.1988, n. 400 – quando l’incarico ministeriale è temporaneamente conferito al Presidente del Consiglio ovvero al titolare di un Ministero diverso (donde la differenza dal cd. cumulo di portafogli, lasciato cadere in era repubblicana, consistente nella istituzionale preposizione di Ministro a più di un ministero: cfr Mancini, M.-Galeotti, U., Norme ed usi del Parlamento italiano, Roma, 1887, 698 ss).
La figura del Ministro senza portafoglio, invece, indica il Ministro nominato componente del Governo ma non preposto a capo di un ministero, secondo una prassi, anche in questo caso, sostanzialmente incontrastata sin dall’era liberale (Romanelli Grimaldi, C., I Ministri senza portafoglio nell’ordinamento giuridico italiano, Padova, 1984, 13 ss.). Il Ministro senza portafoglio non è, peraltro, assimilabile al Ministro nominato dal sovrano al mero fine di farlo partecipare al Consilium regis, in quanto al Ministro senza portafoglio viene pur sempre attribuita la cura di una cerchia determinata di interessi, anche se appunto disgiunta da un apparato stabilmente preposto all’esecuzione delle relative decisioni. Recependo questo sistema convenzionale, l’art. 9, l. n. 400/1988 stabilisce il Ministro senza portafoglio come affidatario di «funzioni … delegate dal Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio dei Ministri, con provvedimento da pubblicarsi sulla Gazzetta Ufficiale».
Senza distinzioni di sorta, ciascuno dei Ministri compone in quanto tale il Consiglio dei Ministri, nell’ambito del quale tutti «hanno identica posizione giuridica…onde il voto di ciascuno di essi ha la stessa rilevanza». In nome della solidarietà ministeriale, inoltre, «nessun Ministro ha un potere di veto sulle deliberazioni consiliari, anche nel caso si tratti di argomenti di sua particolare competenza», le dimissioni presentandosi come il solo strumento «per manifestare il proprio dissenso e per scindere le proprie responsabilità, da quelle collegiali» (Cuocolo, F., Il Governo nel vigente ordinamento italiano, Milano, 1959, 193, 194). In tale veste di uguali componenti del Consiglio dei MInistri, i Ministri concorrono dunque all’adozione delle decisioni più importanti del Governo, che l’art. 2, co. 1, della l. n. 400/1988, definisce come espressione del potere di determinare «la politica generale del governo e, ai fini dell’attuazione di essa, l’indirizzo generale dell’azione amministrativa». L’elencazione della legge, che riguarda appunto gli atti del Governo da sottoporre al Consiglio dei Ministri, comprende in primo luogo le forme di esercizio delle competenze normative, primarie e secondarie, del Governo, quali strumenti primi per la realizzazione dell’indirizzo politico governativo.
Quale titolare di un Ministero, o, comunque, di una cerchia determinata di attribuzioni, ciascun Ministro è preposto alla concreta attuazione delle stesse decisioni di governo, che ha concorso ad adottare come componente del Consiglio. In particolare, tocca a ciascun Ministro, com’è naturale, il compito di dar corso alle deliberazioni consiliari «concernenti schemi di provvedimento da lui stesso approntati» (Cuocolo, F., Il Governo, cit., 193, 194).
Viene così evidenziato il carattere proprio e specifico dell’azione del potere esecutivo, che elabora l’indirizzo politico della Nazione muovendo dal riscontro della realtà concreta assicurato dal possesso di una amministrazione capillare, e torna poi, tramite la medesima organizzazione, a dare esecuzione concreta a tale indirizzo. E risulta propriamente affidata alla figura dei Ministri, organi di vertice dell’amministrazione statale e componenti del Consiglio dei Ministri, quest’opera di ideazione, proposizione, deliberazione ed infine attuazione delle relative decisioni.
La Costituzione conferma la relazione di stretta continuità fra posizione del Ministro nel Consiglio dei Ministri e posizione del Ministro nel Ministero, non distinguendo affatto fra attività di governo ed attività di amministrazione, bensì ricorrendo alla nozione della “politica generale di governo”, la quale, secondo le interpretazioni più convincenti, «non è soltanto l’attività politica in senso stretto … bensì abbraccia … tutta l’attività governativa comunque rivolta alla gestione della cosa pubblica, e cioè l’operato complessivo del Governo e dei singoli elementi che lo compongono» (Sandulli, A.M., Governo e amministrazione, in Riv. trim dir. pubbl., 1966, 739).
A questi fini, il Ministro è tradizionalmente dotato di un potere regolamentare proprio, che esercita nella forma del decreto, per il quale l’art. 17, co. 3 e 4, della l. n. 400/1988 stabilisce il previo parere del Consiglio di Stato, il visto e la registrazione della Corte dei Conti, ed infine la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Il regolamento ministeriale è subordinato alle leggi come ai regolamenti dell’intero Governo (cd. regolamenti governativi) e la sua emanazione è consentita «quando la legge espressamente conferisca tale potere» (non coincidendo quindi l’ambito di competenza regolamentare del Ministro con la competenza del suo dicastero).
Per quanto attiene invece ai veri e propri poteri di amministrazione attiva, tipici dell’attività di esecuzione delle leggi e delle decisioni generali di Governo, l’analisi deve registrare la soluzione di continuità, rispetto alla tradizione dell’ordinamento unitario, introdotta dal d. lgs. 3.2.1993, n. 29 ed oggi riportata dal d.lsg. 3.3.2001, n. 165, specie artt. 4 e 14, che imputano al Ministro – quale “organo di governo” del Ministero – il solo indirizzo politico-amministrativo (e cioè la definizione degli obiettivi e dei programmi da attuare) nonché le funzioni di controllo (e cioè la verifica della rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti), mentre affida alla competenza esclusiva di una classe di funzionari appositamente creata – i dirigenti – l’attività amministrativa in senso stretto (adozione degli atti e provvedimenti) nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa del Ministero.
Come è attestato, in particolare, dal venir meno (ex art. 14, co. 3) del potere di «revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti», il Ministro perde così la posizione consolidata di capo gerarchico del suo Ministero, già apparsa come intimamente connessa alle ragioni ideali dell’ordinamento liberale. E difatti, all’atto della fondazione dell’ordinamento statutario, dal nuovo principio della responsabilità ministeriale (ex art. 67 Statuto), si era dedotto che proprio al Ministro dovesse direttamente spettare il potere di esecuzione della legge, e ciò appunto al fine di far corrispondere il potere politico con la connessa responsabilità del suo esercizio. Un «principio costituzionale connesso all’impianto teorico del liberalismo … agiva così indirettamente da principio di organizzazione amministrativa» e le conseguenze consistettero nell’ordine rigidamente piramidale dell’apparato ministeriale, con il Ministro al vertice; nell’uniformità dell’organizzazione amministrativa e l’incorporazione di ogni ufficio negli apparati ministeriali; nella riconduzione ad un’unica carriera dell’impiego pubblico, reputandosi inconcepibile distinguere, nell’attività di esecuzione della legge, fra impiegati “d’ordine” e “di concetto” (Melis, G. Storia dell’amministrazione italiana, Bologna 1996, 23 ss.).
Allo stesso tempo, però, proprio lo svolgimento in senso parlamentare della forma di governo, se realizzava il principio liberale della responsabilità del Ministro verso la rappresentanza nazionale, evidenziava anche il carattere intrinsecamente problematico della sua posizione. Il punto era connesso alla dipendenza specifica da una parte sola dei deputati in Parlamento, che si andava realizzando nel Governo come esito tipico del rapporto fiduciario, donde la percezione dell’antitesi fra responsabilità del Ministro e imparzialità dell’amministrazione, conseguente alla «tendenziale disposizione degli uomini del Governo a trattare in modo diverso i problemi amministrativi di loro competenza in correlazione con gli interessi politici della loro parte» (Sandulli, A.M., Governo, cit., 755; su questi aspetti, nell’ordinamento costituzionale, C. cost., 23.3.2007, n. 103).
Sin dall’era liberale, dunque, si fa strada l’ipotesi di distinguere, nel potere esecutivo, il Governo in senso stretto dalla pubblica amministrazione, soluzione concettuale ed organizzativa vista come necessaria per restituire al sistema la sua congruenza, non potendo «sussistere un vero potere esecutivo» senza la distinzione fra il Ministro che «dà l’impulso e ordina» e l’amministrazione che «esegue ed ha una sua garanzia nella legge»: è al contrario la confusione fra i due fattori, a riprodurre “in forme rappresentative il dispotismo monarchico” (Arcoleo, G., Diritto costituzionale, Napoli, 1907, 517).
L’avvento della Costituzione repubblicana avrebbe acuito il carattere critico della questione, per l’accoglimento espresso (artt. 95 e 97) di entrambi i principi organizzativi – la responsabilità ministeriale e l’imparzialità dell’amministrazione – in conflitto fra loro, donde la successiva imputazione ad organi distinti, Ministro e dirigenti, dell’attività di indirizzo e dell’attività di gestione, quale substrato reale per distinguere sensatamente Governo e amministrazione.
Ne risultano peraltro toccate le fondamenta ideali del governo parlamentare, poiché la responsabilità dei Ministri di fronte alle Camere origina proprio dalla titolarità del potere esecutivo, imputata ad essi quali organi al vertice delle rispettive amministrazioni, cosicché se al Ministro residua soltanto il potere di direttiva, ad esserne colpita è proprio la previsione costituzionale che «i Ministri sono responsabili … individualmente degli atti dei loro dicasteri», (Catelani, E. Contributo allo studio delle direttive interorganiche, Torino, 1999, 134 ss). Neppure sembra che il problema sarebbe risolvibile limitandosi la responsabilità politica del Ministri ai contenuti delle direttive ministeriali, posto che, per propria natura, la responsabilità politica non sembra sottoponibile a queste forme di limitazione, data l’impossibilità di sindacare in alcun modo il contenuto della censura della Camera nei confronti del Governo.
Sembra quindi necessario concludere – a pena di minare la stessa legittimazione del collegio dei Ministri a costituire il titolare del potere esecutivo – che l’art. 95 Cost., nell’imputare a ciascuno dei Ministri la responsabilità individuale per gli atti del proprio dicastero, esprime un principio tuttora connaturato al governo parlamentare, sul quale non può incidere in via dirimente neppure la scelta dell’ordinamento italiano di privare il Ministro del concreto potere di gestione degli affari corrispondenti, la tensione fra responsabilità politica ministeriale e imparzialità dell’amministrazione confermandosi un profilo problematico posto al cuore del governo parlamentare.
Diversa deve essere la conclusione per la responsabilità giuridica del Ministro. Valendo qui necessariamente il carattere personale della responsabilità, non si può chiedere al Ministro di rispondere di una gestione amministrativa le cui decisioni sono riservate ai dirigenti. Ne deriva peraltro che, ad integrare la nozione degli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni di Ministro (atti cd. “ministeriali”), ricadenti, in quanto tali, nell’area della sua responsabilità giuridica, restano i soli atti di indirizzo e di controllo, nonché gli atti adottati dal Consiglio dei Ministri, in particolare se emanati con decreto del Presidente della Repubblica, per i quali l’apposizione della controfirma implica per ciò solo, ai sensi dell’art. 89 Cost., assunzione della relativa responsabilità.
Per tali atti sussiste, secondo le tradizionali partizioni, sia responsabilità civile ed amministrativa, per le quali l’ordinamento non pone per il Ministro regole diverse da quelle valevoli per ogni amministratore della cosa pubblica; sia responsabilità penale, per la quale invece residua – sulla scorta della tradizione – una disciplina speciale, che ha mantenuto integro sul piano costituzionale l’istituto del “reato ministeriale”.
E difatti, per i reati «commessi nell’esercizio delle funzioni», l’art. 96 Cost. – come novellato e sviluppato dalla legge costituzionale 16.1.1989, n. 1 e dalla legge ordinaria 5.6.1989, n. 219 – prevede a favore del Ministro un’immunità collegata allo status, da cui discendono una serie di regole derogatorie del procedimento comune di perseguimento del fatto.
In forza di tale disciplina, la fase delle indagini è sottratta al pubblico ministero ed affidata ad uno speciale collegio (cd. Tribunale dei Ministri), appositamente costituito presso il tribunale del capoluogo di ogni distretto di Corte d’Appello e composto da tre magistrati estratti fra quelli in servizio come giudicanti nei tribunali del distretto stesso. Secondo la disciplina della l. cost. n. 1/1989, il collegio, se, all’esito delle indagini, ritiene che si debba procedere contro il Ministro, chiede, tramite il procuratore della Repubblica, la relativa autorizzazione da parte delle Camere: della Camera di appartenenza del Ministro, ovvero del Senato della Repubblica se il Ministro non appartiene alle Camere ovvero se si procede verso persone appartenenti a Camere diverse. La Camera, con valutazione definita dalla norma come “insindacabile”, può concedere l’autorizzazione, ovvero negarla a maggioranza assoluta dei componenti se ritiene che «l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo» (art. 9, co. 3, l. cost. n. 1/1989).
Se l’autorizzazione è concessa, il giudizio appartiene al tribunale – in composizione collegiale – del capoluogo del distretto di Corte d’Appello competente per territorio (art. 11, co. 1, l. cost. n. 1/1989), mentre, per quanto riguarda la disciplina della pena, è previsto l’aumento fino ad un terzo «in presenza di circostanze che rivelino la eccezionale gravità del reato» (art. 4).
Autorizzazione della Camera è altresì richiesta nel caso che, nel corso del relativo procedimento, si voglia sottoporre il Ministro «a misure limitative della libertà personale, a intercettazioni telefoniche o sequestro o violazione di corrispondenza ovvero a perquisizioni personali o domiciliari» (art. 10, co. 1). In tal caso, se il Ministro è altresì parlamentare, è esclusa la contestuale applicazione della relativa immunità (art. 10, co. 2).
Consegue da tale disciplina, che l’istituto dell’autorizzazione a procedere, abrogato per i parlamentari a seguito della revisione dell’art. 68 Cost., risulta invece tuttora previsto per i reati “ministeriali”. La qualificazione del reato come ministeriale segna quindi la linea di demarcazione fra l’ordinaria sottoposizione del Ministro all’esercizio della funzione giurisdizionale e la prerogativa – che finisce per essere avvertita come prevista a suo favore – dell’autorizzazione a procedere da parte delle Camere. Non stupisce dunque che sul punto sia insorta controversia fra Camere ed autorità giudiziaria, risolta dalla Corte Costituzionale nel senso della spettanza, secondo le regole comuni, di tale qualificazione agli organi giudiziari, inquirenti e giudicanti, salvo sempre il controllo della Corte costituzionale, in sede di conflitto di attribuzioni, sul corretto esercizio del relativo potere (sentenze nn. 88 e 87 del 2012; 241 del 2009).
L’ipotesi ordinaria di cessazione dei ministri dal loro incarico è costituita dalle dimissioni del Presidente del Consiglio, le quali, secondo la prassi consolidata del governo parlamentare, siano o meno provocate da un voto di sfiducia delle Camere, comportano le dimissioni dell’intero Governo.
L’ipotesi inversa delle dimissioni di un ministro, o di più ministri, non determina invece, di per sè sola, soluzione di continuità del Governo in carica, potendosi puramente risolvere nella sostituzione dei dimissionari.
Né la Costituzione né la legge prevedono l’ipotesi della revoca del Ministro, e cioè di una rimozione dall’incarico a dispetto della volontà dell’interessato.
Il problema dell’ammissibilità della revoca, però, non discende tanto dall’omessa previsione normativa, quanto piuttosto, ancora una volta, dal rapporto fiduciario fra il Governo e le Camere, da cui consegue una nuova dipendenza dell’intero Governo rispetto alle Camere in luogo dell’antica dipendenza di ciascuno dei Ministri rispetto al Re. Rimettendo la permanenza in carica del Governo sia al Presidente del Consiglio, le cui dimissioni comportano il venir meno del Ministero, sia alla maggioranza parlamentare, che dispone del voto di sfiducia, il regime parlamentare mina concettualmente il potere di revoca. Né l’uno né l’altro dei due soggetti, da cui dipende la vita del Governo, ponendo la questione che riguarda il Ministro può infatti impedire alla controparte di convertirla in questione che riguarda invece il Governo intero.
È per questo motivo – preliminare perché agente sul piano logico e concettuale ancor prima che del diritto positivo – che non sembra produttivo interrogarsi sull’ammissibilità della revoca del Ministro – secondo il procedimento, uguale e contrario a quello di nomina, del decreto del Capo dello Stato su proposta dal Presidente del Consiglio – appunto perché si tratterebbe comunque di un potere dimidiato, in quanto condizionato dal necessario concorso della volontà parlamentare (cfr. Cherchi, R., Il governo di coalizione in ambiente maggioritario, Napoli, 2006, 415).
E, del resto, sul versante delle Camere, neppure le previsioni dei regolamenti parlamentari e la prassi invalsa di lasciar votare la mozione di sfiducia individuale (cosiddetta appunto perché rivolta ad un singolo ministro: regolamento della Camera dei Deputati, art. 115) si sono rivelate sufficienti ad attribuire al parlamento un reale potere di modifica della composizione ministeriale in assenza di una convergente volontà del Capo del Governo.
Si comprende allora perché, in fatto, la modifica della compagine ministeriale non si avvalga, nell’ordinamento, né della revoca del Ministro né della mozione individuale di sfiducia, ma passi invece attraverso l’istituto delle dimissioni dei ministri interessati. La necessità di una espressa misura di revoca nei confronti del Ministro che si trovi privo dell’appoggio sia della maggioranza parlamentare sia del capo del Governo sembra infatti il frutto di una situazione patologica. Come ha puntualizzato la Corte costituzionale (sent. 18.1.1996, n. 7), l’ipotesi è del tutto assimilabile a quella del Presidente del Consiglio che rifiuta le dimissioni a seguito della sfiducia da parte delle Camere, cosicché si può concludere, in ultima analisi, che l’istituto della revoca del singolo Ministro trova, nell’ordinamento, lo stesso ambito di applicazione dell’istituto della revoca del Presidente del Consiglio.
Art. 92, 93, 94, 95 e 96 Cost.; l. cost. 16.1.1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all'articolo 96 della Costituzione); d.lgs. 31.12.2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190); l. 20.7.2004, n. 215 (Norme in materia di risoluzione di conflitti di interessi); d.lgs. 30.3.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche); l. 9.11.1999, n. 418 (Disposizioni in materia di indennità dei Ministri e dei Sottosegretari di Stato non parlamentari); d.lgs. 30.7.1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’art. 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59); l. 23.8.1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri); l. 15.2.1953, n. 60 (Incompatibilità parlamentari); d.P.C.m. 10.11.1993, (Regolamento interno del Consiglio dei Ministri).
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