Moderno e postmoderno
Modernità, di Valerio Verra
Postmoderno, di Paolo Portoghesi
Modernità di Valerio Verra
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. La rivoluzione scientifica. 3. Razionalizzazione e disincantamento del mondo. 4. Secolarizzazione, politica, storia. 5. La soggettività e il compimento della metafisica. 6. Dialettica dell'illuminismo e razionalità comunicativa. 7. Modernità e vita metropolitana. 8. L'episteme moderna: dalle scienze umane alla ‛morte dell'uomo'. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il dibattito sulla modernità, nato col sorgere stesso di tale concetto, trova ampio spazio anche nel nostro secolo, che a esso è per tanti aspetti profondamente collegato. Ma orientarsi in tale dibattito è impresa tutt'altro che agevole, per un insieme di fattori tra i quali va anzitutto evidenziata la polisemia del termine, così come quella dell'aggettivo ‛moderno' a esso corrispondente. Per un verso, infatti, entrambi indicano la qualità, la natura di qualcosa (un'istituzione, uno stile, una concezione o anche un'intera civiltà), mentre per l'altro vengono utilizzati (specialmente l'aggettivo) per la delimitazione cronologica di una fase più o meno ampia dello sviluppo storico o culturale, come, ad esempio, quando si parla di ‛età moderna', ‛arte moderna' e così via (v. Koselleck, 1979). Ma anche della prima accezione non mancano usi diversi o, addirittura, opposti. Moderno, infatti, può essere definito - in un senso fortemente positivo - ciò che viene a sostituirsi a un passato ormai inesorabilmente consunto e condannato a scomparire, ma può anche indicare ciò che viene apprezzato soltanto perché è nuovo e nel momento in cui è nuovo, e presenta quindi un carattere effimero analogo a quello delle mode o, nel migliore dei casi, delle avanguardie. Moderno poi viene spesso usato nel senso di ‛mondano', per indicare un distacco radicale dalla trascendenza, una svolta irreversibile che ha rappresentato una conquista decisiva di nuovi valori. A tale proposito rimangono esemplari le pagine di Benedetto Croce, là dove egli sottolinea l'importanza dell'avvento delle due scienze mondane, tipiche dell'età moderna, ossia l'economia e l'estetica, o ancora le sue considerazioni sul mutamento della filosofia attraverso il rifiuto della metafisica e di ogni forma sistematica o definitiva, caratteristiche - queste ultime - che invece contraddistinguevano la filosofia concepita come teologia. Alla figura del ‛filosofo puro', derivata da quella del teologo delle scuole medievali, viene dunque contrapposta quella dello studioso dell'esperienza storica che partecipa pure al travaglio del suo tempo, alla politica e alla morale, che esercita insomma, come tutti, qualche mestiere e prima di tutto il ‟mestiere di uomo" (v. Croce, 1935).
Venendo all'accezione della modernità quale categoria storica, anche qui non mancano innumerevoli difficoltà, o, quanto meno, divergenze. Anche ammesso che si sia concordi nell'individuare un termine a quo per la sua collocazione cronologica, ad esempio il Medioevo, si pone pur sempre il problema se la successione delle due epoche rappresenti una vera e propria frattura, un totale rovesciamento di prospettive e di valori, o se sussistano elementi di continuità più o meno espliciti tali da incidere fortemente sulla definizione stessa della modernità. Va poi sottolineata la grande disparità di scelte (e dei relativi criteri!) per quanto riguarda l'individuazione del suo ‛inizio', a seconda dell'ambito cui si fa riferimento. Così, ad esempio, per quanto riguarda la politica è abbastanza consueto risalire a Machiavelli, mentre per la filosofia è molto discusso se si debba muovere dall'Umanesimo e dal Rinascimento oppure dal XVII secolo, e, per l'arte, dal XIX o, addirittura, dalle avanguardie del XX.
Notevolmente complesso anche il problema degli esiti - o, perfino, di una eventuale ‛fine' - della modernità (e di quale modernità). Una tale ipotesi, tra l'altro, comporta la contestazione o finanche lo smantellamento di quello che è stato per secoli considerato come il nucleo essenziale e irrinunciabile della modernità, ossia la convinzione di aver acquisito principî e criteri razionali, la cui scoperta e definizione è avvenuta sì in un determinato momento storico, ma la cui validità non può essere limitata a un'epoca storica più o meno ampia. Per una prima messa a fuoco del problema, è indispensabile un accenno a uno dei testi considerati ormai classici sull'argomento, La condition postmoderne di Jean François Lyotard. La tesi di fondo è che il sapere cambia di statuto quando le società entrano nell'età detta ‛postindustriale' e le culture nell'età detta ‛postmoderna', un processo che inizia verso la fine degli anni cinquanta. Carattere qualificante del postmoderno è il rifiuto definitivo dei ‛grandi racconti' invalsi nell'età moderna come principio di legittimazione del sapere (ad esempio quello soprattutto politico, che collega tale legittimazione all'esigenza di emancipazione, e quello filosofico, che cerca di fondarla sull'inserimento delle diverse forme del sapere nel quadro speculativo della vita dello spirito, ecc.). Questo non significa per Lyotard il passaggio a un'epoca, per così dire, scientista in senso positivistico o deterministico - o comunque tale da escludere il ricorso a ‛piccoli racconti' frutto dell'immaginazione inventiva per la scienza stessa -, ma piuttosto un mutamento radicale del senso della parola ‛sapere'. ‟La scienza postmoderna - afferma Lyotard - costruisce la teoria della propria evoluzione come discontinua, catastrofica, non rettificabile, paradossale [...] e suggerisce un modello di legittimazione che non è affatto quello della migliore prestazione, ma quello della differenza compresa come paralogia" (v. Lyotard, 1979, p. 97). Da ricordare ancora un punto essenziale per la delimitazione o, meglio, le varie delimitazioni concettuali e cronologiche della modernità e, di conseguenza, della postmodernità. Secondo Lyotard, infatti, i germi della delegittimazione operano già all'interno dei grandi racconti del XIX secolo e il processo di erosione interna della legittimità del sapere si trova già alla base della ‛crisi' del sapere scientifico della fine del XIX secolo.
Ma il rapporto storico e concettuale tra moderno e postmoderno appare in una luce diversa se per ‛modernità' si intende quella specifica del nostro secolo, per cui non si ha la fine della ‛modernità', ma soltanto di alcune sue accezioni dominanti nel passato. È la tesi, ad esempio, di Wolfgang Welsch, secondo cui nel nostro secolo nella stessa coscienza scientifica si è affermata la discontinuità, la particolarità, così come in quella morale il pluralismo, nell'arte il polimorfismo, ecc., per cui si può anche sostenere che il postmoderno non rappresenti affatto la negazione o la rottura rispetto alla nostra attuale modernità, ma piuttosto la sua più completa realizzazione (v. Welsch, 1987; v. anche Wellmer, 1985).
Già da questi pochi cenni alla polisemia del termine e ad alcuni problemi fondamentali che ne risultano, appare evidente che la presenza della modernità nel Novecento non può certo essere interpretata o inquadrata mediante criteri o schemi troppo rigidi. Converrà piuttosto cercare di metterne in luce alcuni aspetti e momenti nodali particolarmente significativi, per attestarne l'importanza e insieme per evidenziare la ricchezza e complessità del dibattito cui ha dato luogo.
2. La rivoluzione scientifica
Una delle prime e principali caratteristiche considerate essenziali della ‛modernità', intesa soprattutto come ‛età moderna', è la profonda modifica verificatasi nella concezione della scienza, dei suoi metodi e delle sue conseguenze per l'intera vita dell'uomo. Certo, la nozione di ‛rivoluzione scientifica', in senso stretto, indica la svolta avvenuta nel periodo che va da Copernico a Newton, ma le sue conseguenze hanno finito con l'estendersi ai secoli successivi, condizionando profondamente l'avvento di una concezione tipicamente ‛moderna' non solo della scienza, ma della professione stessa dello scienziato, così come della struttura e dello sviluppo delle istituzioni scientifiche (v. Rossi, 1988). E forse sarebbe più esatto parlare di rivoluzioni scientifiche o, quanto meno, di diverse fasi della rivoluzione scientifica, giacché l'adozione sistematica del metodo sperimentale e del calcolo matematico è avvenuta in epoche e contesti diversi nelle varie scienze. L'essenziale, comunque, è che con la rivoluzione scientifica si è avuto il tramonto considerato definitivo e irrevocabile non solo della cosmologia geocentrica, ma anche di tutta una serie di implicanze filosofiche, religiose e perfino esistenziali a essa connesse.
Eppure, nonostante la grandiosa serie di conquiste avviate e realizzate dalla rivoluzione scientifica e tradottesi in risultati anche più appariscenti e pervasivi sul piano della tecnica, questo aspetto così rilevante della modernità è stato messo in questione sui piani più diversi. Non pensiamo tanto alle polemiche contro lo ‛scientismo', mirate soprattutto agli esiti positivistici dell'applicazione del metodo scientifico a tutti i campi del sapere; un'importanza assai maggiore hanno avuto infatti le critiche o comunque le revisioni che corrispondono a quelli che si potrebbero chiamare, con il titolo di un ben noto libro di Werner Heisenberg (v. 1935), i ‟mutamenti nelle basi della scienza". Tanto per fare qualche esempio, si può ricordare la teoria della relatività o il principio di indeterminazione, ma per un'adeguata informazione non resta che rinviare agli specifici articoli sui vari settori scientifici pubblicati in quest'opera (v. anche scienza, vol. VI).
Due punti devono comunque ancora essere richiamati. Anzitutto l'affermarsi di nuove scienze, le cosiddette scienze umane - dalla psicanalisi all'etnologia - o di nuove correnti filosofiche - dalla fenomenologia allo strutturalismo e all'ermeneutica - che hanno inciso, sia pur in diversa misura, sulla nozione di ‛scientificità' risalente alla rivoluzione scientifica. In secondo luogo, i profondi mutamenti intervenuti nel modo di concepire la storia della scienza relativamente alla formazione, crescita e trasformazione del sapere. Anche qui dovremo limitarci ad accennare a un'opera divenuta ormai classica, quella di Thomas Kuhn (v., 1962) sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche, nella quale viene elaborata la teoria dei ‛paradigmi' in polemica con l'idea di uno sviluppo lineare e continuo del sapere scientifico. Tale sviluppo, in realtà, non è spiegabile soltanto mediante forme interne di accumulazione di risultati e raffinamento di metodi, ma richiede mutamenti di prospettiva di un'intera comunità scientifica, per cui, al limite, esiste una vera e propria incommensurabilità delle diverse dottrine afferenti a diversi paradigmi (ad esempio, la concezione aristotelica o quella newtoniana del movimento).
Un insieme di critiche e di mutamenti di prospettiva, dunque, che sono stati spesso utilizzati per mettere in questione quella nozione di razionalità di fondo che per secoli era stata considerata uno dei maggiori apporti della rivoluzione scientifica alla modernità. Contro questa tendenza ha preso posizione Paolo Rossi, criticando l'uso di ‛diagnosi epocali', giudicate in gran parte frutto di una serie di idola (in senso baconiano), tra i quali appunto la convinzione che la modernità sarebbe l'età della piena autolegittimazione del sapere scientifico e della totale coincidenza tra verità ed emancipazione (v. Rossi, 1989).
Nel quadro del dibattito sul nesso modernità-rivoluzione scientifica, un'importanza del tutto particolare va riconosciuta alla posizione espressa da Edmund Husserl soprattutto con l'opera Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, comparsa per la prima volta (parzialmente) nel 1936 e poi, ampliata, nel 1954. Husserl fa risalire al mondo greco il principio della scienza, quale si configura nella cultura occidentale, come ‛teoria', come sapere non immediatamente subordinato alla pratica. All'interno di questo processo complessivo si inquadra l'interpretazione della cesura o, se si vuole, della rivoluzione rappresentata dalla scienza moderna a partire da Galilei e dal suo progetto di una ‛matematizzazione' della natura. Tale progetto, infatti, per quanto grandioso e foriero di successi, portava in sé i germi di una ‛crisi' destinata a manifestarsi nei secoli successivi con il contrasto tra l'obiettivismo fisicalistico e il soggettivismo trascendentale. Una metodologia che aspira alla completa matematizzazione della realtà, alla sua quantificazione e traduzione in formule, non può che sfociare in un naturalismo che ha come contropartita il tentativo, condannato al fallimento, di costruire delle ‛scienze dello spirito' analoghe a quelle della natura. Occorre piuttosto riconoscere la non originarietà della natura matematicamente intesa, quale si configura nei processi scientifici, rispetto al mondo della vita cui rinvia la fenomenologia. Non è possibile certo richiamare qui l'intera complessa architettura del pensiero husserliano che sta alla base di questa impostazione, ma è essenziale sottolineare il fatto che la diagnosi di questa crisi non comporta affatto una prognosi di tipo irrazionalistico; al contrario, è dettata, pur in quegli anni densi di minacce alla razionalità europea, dalla fiducia in questa razionalità e nella sua ‛teleologia', a patto di prendere coscienza dei motivi da cui trae origine la crisi stessa.
3. Razionalizzazione e disincantamento del mondo
Il nesso tra razionalità e modernità è stato poi considerato in un orizzonte più vasto di quello scientifico da Max Weber, attraverso un complesso lavoro di scavo nell'ambito dell'economia, della sociologia, del diritto, della storia e delle loro implicanze o condizioni etico-religiose. La questione non è stata però impostata in termini astratti, bensì rispetto a un fatto storico ben determinato, e cioè il formarsi soltanto in Occidente di un tipo di scienza, di economia, di politica che rappresentano la razionalizzazione più sistematica e completa della realtà sinora avutasi nel mondo. Molto specifica è anche la prospettiva di tale ricerca, condotta attraverso un'attenta considerazione dei fattori religiosi che in misura cospicua hanno portato a tale sviluppo. Tale prospettiva non intende minimamente - come sottolinea lo stesso Weber - sostituire un'impostazione spiritualistica a quella materialistica, bensì escludere qualsiasi unilateralità. La tesi di fondo, del resto ben nota, è che il mondo moderno, dall'economia capitalistica alla società borghese sino alle sue stesse istituzioni giuridiche e politiche, sia stato reso possibile soltanto dal progresso delle scienze e precisamente della razionalità formale come calcolo, condizione del sorgere di qualsiasi processo di accumulazione e di profitto programmati. All'interno di questo processo ha operato però, con un ruolo determinante, lo spirito dell'etica protestante, e in particolare calvinista, per cui la religione della redenzione viene intesa come principio di una ‟ascesi intramondana" e il lavoro si configura come ‟professione" (Beruf).
Nel destino della modernità come crescente burocratizzazione e razionalizzazione ha svolto poi un ruolo determinante il fatto che l'ethos religioso, da cui era originariamente permeata, è venuto gradualmente attenuandosi sino a scomparire. Come osserva incisivamente Weber (v., 1920; tr. it., vol. II, p. 191), ‟il Puritano ‛voleva' essere l'uomo di una professione - noi ‛dobbiamo' esserlo"; oppure - come è detto con una bella immagine, divenuta giustamente celebre - il destino ha trasformato in una ‟gabbia d'acciaio" quella cura per i beni esteriori, promossa dall'ascesi intramondana, che doveva invece ‟avvolgere le spalle dei suoi santi come un sottile mantello che si poteva gettar via in ogni momento" (ibid., p. 192). Chi in futuro abiterà in quella gabbia, o, ancora, se alla fine di questo enorme sviluppo vi saranno profeti interamente nuovi o una potente rinascita di principî e di ideali antichi, oppure una ‟pietrificazione meccanizzata", non è possibile sapere; se prevalesse però quest'ultima ipotesi si avrebbe a che fare con ‟ultimi uomini" per i quali potrebbe valere la qualifica di ‟specialisti senza spirito" e di ‟gaudenti senza cuore" (ibid., p. 192).
Per tornare comunque al carattere attuale della modernità, esso è il risultato di una progressiva intellettualizzazione e razionalizzazione che ha portato al completo disincantamento del mondo, ossia alla convinzione che ogni cosa, purché lo si voglia, può essere dominata mediante la ragione e la tecnica. Inoltre, lo sviluppo delle scienze ha distrutto qualsiasi illusione di trovare un ‛senso' etico come principio del cosmo. Pertanto, la scomparsa di qualsiasi fondazione ontologica di senso non ha fatto altro che ridestare l'assoluto politeismo dei valori, spogliati della loro antica veste mitologica, ma fonte di rinnovate contese, alle quali non è possibile mettere termine con una scelta ‛razionale', essendo la razionalità competente sul rapporto tra fini e mezzi, ma non sui fini stessi. Sempre per quanto riguarda la modernità, e in particolare per gli ulteriori sviluppi del dibattito nel nostro secolo, è di notevole importanza la ricostruzione del processo per cui la razionalizzazione e sublimazione portavano le singole sfere (economica, politica, estetica, erotica, intellettuale) alla consapevolezza e affermazione della loro ‟interna legalità autonoma". Cresceva così una tensione che sfociava nella completa distruzione della fiducia nell'unità e inscindibilità tra il vero, il bello, il buono e il giusto. Dovendo dunque vivere in un'epoca senza Dio e senza profeti, se non si vuole compiere il ‟sacrificio dell'intelletto" e gettarsi nelle braccia delle chiese o dei falsi profeti della cattedra, non resta che adempiere al compito quotidiano nella nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale, un cammino semplice e facile ‟quando ognuno abbia trovato e segua il demone che tiene i fili della ‛sua' vita" (v. Weber, 1919).
4. Secolarizzazione, politica, storia
Se già nel capitolo precedente è stato in parte toccato il rapporto tra modernità e religione, e in particolare tra modernità e cristianesimo, occorre ora soffermarsi su un suo aspetto di particolare importanza, quello della secolarizzazione (v. Lübbe, 1965; v. Marramao, 1983 e 1994). Un aspetto che indubbiamente rientra nell'orizzonte di un confronto estremamente vasto e complesso sviluppatosi non solo sul terreno religioso, ma anche su quello politico e culturale. Di tale confronto, spesso aspramente polemico, non è certo possibile ricordare qui la storia neppure per sommi capi e pertanto, per quanto riguarda il nostro secolo, ci limiteremo a due momenti particolarmente indicativi.
Pensiamo anzitutto all'ostilità e alla condanna della Chiesa nei riguardi del ‛modernismo', un movimento inteso a promuovere un incontro positivo tra il cristianesimo e i risultati della modernità, diffusosi soprattutto in Francia e in Italia già a partire dal secolo scorso (v. Poulat, 1962; v. Colin e altri, 1980). Per quanto riguarda poi specificamente la critica della modernità stessa, si è avuta una polemica molto vasta e articolata da parte del neotomismo, polemica che ha trovato forse l'espressione di maggior portata e risonanza nello sviluppo del pensiero di Jacques Maritain. Maritain muove infatti da un atteggiamento estremamente severo, negativo, nei confronti della modernità e del processo avviato dai ‛tre riformatori' - Lutero, Cartesio e Rousseau -, giacché questo ha portato all'affermarsi di una mentalità immanentistica da cui è scaturita una crisi profonda, giunta al culmine nel nostro secolo (v. Maritain, 1937). Tuttavia, nella costruzione del suo ‟umanesimo integrale" egli riconosce che la concezione ‟sacrale cristiana" del temporale propria del Medioevo è definitivamente tramontata e irrecuperabile. Occorre dunque affermare e sviluppare una nuova concezione ‟profana cristiana" del temporale che sappia dare risposta alle esigenze avanzate, ma non risolte, dalla modernità, mediante, appunto, un ‟umanesimo integrale" dove l'umano e il divino non possono prevaricare l'uno sull'altro o escludersi, ma devono collaborare per costruire una ‟nuova cristianità" (v. Maritain, 1936).
Non essendo però possibile indugiare ulteriormente sulle varie forme di polemica o sui tentativi di conciliazione tra la teologia delle diverse confessioni e la modernità (v., in proposito, Kamper e van Reijen, 1987, cap. V), passiamo al tema che ci siamo proposti, ossia alla secolarizzazione. Un tema di particolare interesse, poiché la secolarizzazione non si può risolvere in termini di semplice opposizione o di collaborazione tra modernità e cristianesimo, ma concerne il fatto che all'interno della modernità sopravvivono o, addirittura, esercitano una funzione determinante motivi derivanti dalla teologia e dal cristianesimo, operanti però in una forma nuova, spesso difficilmente riconoscibile e talora inconsapevole.
Poiché questo tema è stato già ampiamente trattato (v. secolarizzazione, vol. VI), sul piano generale ci limitiamo a sottolineare che esso è stato oggetto di una vasta gamma di interpretazioni; si va infatti dall'accentuazione dell'importanza avuta dal cristianesimo - e soprattutto dal protestantesimo (v. Troeltsch, 1906 e 1977) - nella formazione del mondo moderno, alla distinzione, sempre in rapporto al cristianesimo, tra forme positive di secolarizzazione - come impulso a occuparsi del mondo in modo cristiano e fondandosi sulla fede - e il ‛secolarismo' come forma di distacco dell'uomo e del mondo da Dio con pretese indebite di autonomia e di autosufficienza (v. Gogarten, 1953). Una tematica, quest'ultima, che ha avuto grandi sviluppi nella teologia contemporanea sino alle più recenti e sconvolgenti affermazioni della ‛morte di Dio' (v. anche protestantesimo, vol. V).
Venendo poi in particolare al rapporto tra secolarizzazione e politica da un lato e secolarizzazione e storia dall'altro, può essere utile prendere come termine di riferimento due autori particolarmente significativi per la radicalità con cui l'hanno tematizzato rispettivamente nel campo della politica e della storia. Il primo è Carl Schmitt, al quale si deve la ben nota affermazione secondo cui ‟tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati" (v. Schmitt, 1972, p. 61). Questo non significa che per Schmitt si debba considerare lo sviluppo della modernità in senso negativo e con nostalgie restauratrici e teologizzanti, ma neppure che si possano utilizzare i concetti teologici secolarizzati come supporto per una concezione escatologica della storia come progresso. Si tratta invece di un'impostazione che vuole avere una funzione fortemente metodologica e diagnostica, come sottolinea Schmitt stesso, quando, dopo aver rilevato che ‟lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia", aggiunge: ‟solo con la consapevolezza di questa situazione di analogia si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli" (ibid.). I termini di quest'analogia si configurano però molto diversamente nelle diverse epoche, tracciando una sorta di traiettoria che porta la modernità sino al suo odierno esito nichilistico. Se ancora nel XVII secolo il monarca viene identificato con Dio e occupa nello Stato la posizione analoga a quella di Dio nel sistema del mondo, dopo l'illuminismo cade il presupposto di un creatore del mondo, come autorità legittimante in quanto nel tempo stesso causa originaria e legislatore, e la validità di una norma giuridica viene identificata con la validità delle leggi naturali: ‟ora la macchina si muove da sé". Con Rousseau, poi, il popolo diventa sovrano e in tal modo va perduto l'elemento decisionistico e personalistico che il concetto di sovrano aveva sino allora posseduto. Si giunge così, con il XIX secolo, al dominio completo delle concezioni immanentistiche a carattere panteistico, oppure all'indifferenza positivistica nei confronti di ogni metafisica. In tal modo il concetto tradizionale di legittimità perde ogni evidenza e al posto dell'idea monarchica di legittimità subentra quella democratica.
Di particolare importanza in questa ricostruzione storica il posto riconosciuto alla tecnica, in base alla convinzione che nell'epoca moderna sia fondamentale la tendenza alla neutralizzazione e alla spoliticizzazione (v., in particolare, Galli, 1996, cap. IX). Una tendenza che si può ricostruire attraverso l'enucleazione dei quattro grandi centri di riferimento (dal teologico al metafisico, da questo al morale umanitario e infine all'economico) attraverso i quali si sviluppa l'età moderna, anche se questa successione non va intesa in modo rigido come se in ciascuno dei quattro secoli (dal XVI al XIX) ci fosse stato soltanto un centro di riferimento e non una coesistenza pluralistica di diversi processi. La fede oggi così diffusa nella tecnica dipende unicamente dal fatto che si crede di avervi trovato il terreno assolutamente e definitivamente neutrale, quale non era stato acquisito neppure con la dottrina liberale ottocentesca dello Stato neutrale. In realtà, secondo Schmitt, bisogna distinguere dalla tecnica vera e propria quello ‛spirito del tecnicismo' che ha portato alla fede di massa in un attivismo antireligioso, che non può essere in alcun modo ascritto alla tecnica. È illusorio però pensare che questa situazione nichilistica, questa sorta di abisso del nulla culturale e sociale, costituisca la conquista della ‛spoliticizzazione assoluta' inseguita da secoli e che dovrebbe mettere fine alla guerra e dar inizio alla pace universale. La tecnica, infatti, proprio per la sua neutralità non può far nulla per facilitare la pace o la guerra, poiché è utilizzabile per entrambi gli scopi. Pertanto, che l'epoca contemporanea sia considerata come epoca della tecnica indica soltanto un fatto provvisorio, di cui si può cogliere il significato finale soltanto quando risulti quale tipo di politica sia abbastanza forte da impadronirsi della nuova tecnica e quali siano i reali raggruppamenti amico-nemico che crescono su questo terreno.
Per il rapporto tra modernità, storia e secolarizzazione ha avuto particolare importanza l'opera di Karl Löwith e soprattutto il volume Meaning in history (v. Löwith, 1949), che ha per sottotitolo: ‟implicanze teologiche della filosofia della storia". A prima vista tale scritto appare solo in parte pertinente al nostro tema, poiché abbraccia un ambito di gran lunga più ampio della modernità. Va pure rilevato il carattere per certi aspetti sorprendente del suo disegno, poiché procede a ritroso da Burckhardt, attraverso Marx, Hegel, Proudhon, Comte, Condorcet, Turgot, Voltaire, Vico, Bossuet, Gioacchino da Fiore, Agostino, Orosio, fino alla Bibbia. Ma in realtà Löwith precisa subito che oggetto centrale del suo discorso è la moderna filosofia della storia, considerata con l'intento di mostrare come tragga origine dalla fede biblica in un compimento futuro e si spieghi solo come secolarizzazione del suo modello escatologico. In altri termini, se è vero che per Löwith la filosofia della storia è la secolarizzazione dell'escatologia biblica, per altro verso è altrettanto vero che si tratta di un processo tipicamente moderno che risale sostanzialmente al XVIII secolo e all'affermarsi dell'idea di progresso di cui non vi è traccia nella teologia cristiana, tutta incentrata sull'avvento del Redentore e sulla successiva lotta tra il bene e il male, e non certo rivolta a una costruzione cristiana della storia in senso progressista. In questo senso, per quanto siano diverse tra loro, la concezione greca della circolarità della storia e quella originariamente cristiana del suo significato teologico ed escatologico, si trovano agli antipodi rispetto alla modernità e alle sue illusioni di progresso, poiché, a differenza della modernità, rimangono entrambe sostanzialmente ‛religiose', ossia fondate su una fede, quella greca nel destino, quella cristiana nella provvidenza. Siccome poi la coscienza storica moderna si è liberata della fede cristiana, ma tiene fermi i suoi presupposti, la sua nozione di progresso ne rispecchia tutta la contraddittorietà e porta al suo fallimento o, quanto meno, alla sua dissoluzione in forme di storicismo o di relativismo.
La tendenza a scorgere nella secolarizzazione un elemento fondamentale per la comprensione della modernità è stata però contestata nel suo complesso, anche al di là della sua applicazione a campi specifici come la politica e la storia. Come ha sostenuto Hans Blumenberg (v., 1966), in polemica anche con Schmitt e Löwith, nella prima parte dell'opera Die Legitimität der Neuzeit, tale impostazione muove da una concezione continuistica di una presunta ‛sostanza storica' e impedisce di cogliere gli elementi di autentica originalità delle singole epoche, come appunto, nel caso della modernità, l'autoaffermazione dell'uomo contro l'‛assolutismo teologico'. Il processo interpretato come secolarizzazione non è affatto una trasposizione (Umsetzung) di contenuti autenticamente teologici in una forma di autoestraniazione secolare, ma piuttosto una rioccupazione (Umbesetzung) di posizioni - divenute vacanti - una riproposizione di domande ineliminabili o rispetto alle quali mancavano le premesse per una elaborazione critica. La modernità pertanto non è un processo di ‛mondanizzazione' di categorie e schemi teologici, ma una vera e propria forma di ‛mondanità', come Blumenberg cerca di mostrare dando particolare rilievo alla riabilitazione della curiositas e al confronto di figure come Cusano e Bruno.
5. La soggettività e il compimento della metafisica
Una particolare radicalizzazione del problema della modernità si è avuta poi con Heidegger, che ha affermato l'esigenza di metterne in luce il fondamento e il carattere ontologico. In questa chiave Heidegger affronta tutta una serie di motivi di grande rilievo nel dibattito sulla modernità: dal suo incardinamento nella soggettività a partire da Cartesio, alla sua identificazione con l'impulso alla diffusione e affermazione della tecnica, dall'esaltazione della funzione progressista della modernità quale realizzazione di un nuovo ‛umanismo', alle critiche più aspre di stampo pessimistico e nichilistico.
Il riferimento a Cartesio, del resto già largamente diffuso anche nel passato, è essenziale anche nella definizione heideggeriana della modernità, ma va inteso appunto nel quadro della convinzione che l'essenza delle diverse epoche, e quindi il carattere di tutte le loro manifestazioni, si fondi nella metafisica, ossia in una determinata interpretazione dell'ente e in una determinata concezione della verità. Tra le diverse manifestazioni dell'epoca moderna, Heidegger si sofferma sulla scienza e sulla tecnica, considerandole condizionate dalla concezione della verità come esattezza e come calcolo. Solo in tal modo la scienza ha potuto divenire ricerca, con tutte le modifiche anche istituzionali, accademiche e operative che ne sono seguite. Ma perché questo potesse accadere occorreva che l'oggettivazione dell'ente si compisse in un rappresentare (vorstellen) che mira a portare davanti a sé (vor-stellen) qualsiasi ente in modo che l'‟uomo calcolante" se ne possa rendere certo. Ora, questo è avvenuto precisamente con Cartesio e con l'affermarsi della correlatività dell'oggettivazione al soggetto, ossia a una nuova concezione dell'essenza dell'uomo e del suo rapporto con l'ente. In questo senso Heidegger definisce l'età moderna come l'età dell'‟immagine del mondo", per indicare che soltanto con l'avvento della soggettività è stato possibile concepire il mondo nella sua totalità e sistematicità come ‟immagine". E così, nello sviluppo della modernità, quanto più il mondo si presta, come immagine, alla conquista dell'uomo, tanto più lo studio del mondo si trasforma in antropologia. La ‟posizione" dell'uomo nel mondo si esplicita dunque in una serie di ‟visioni del mondo" (Weltanschauungen) tra loro necessariamente coinvolte in una lotta nella quale l'uomo mette in gioco l'illimitato potere del calcolo, della pianificazione e della coltivazione di tutto (v. Heidegger, 1950).
Per quanto riguarda il problema della tecnica (v. anche tecnica, vol. VII) e i suoi rapporti con la modernità, Heidegger insiste sulla dimensione ontologica e veritativa della differenza tra la tecnica moderna e quella antica, ancora strettamente connessa a una concezione di poiesis concernente non soltanto il lavoro, l'arte, la poesia, ma anche la natura come autoproduzione. La tecnica moderna corrisponde invece a un concetto metafisico di disvelamento della verità come provocazione e manipolazione pianificata della realtà a cui l'uomo viene a sua volta provocato ‟destinalmente" (geschicklich) dai caratteri metafisici fondamentali dell'epoca moderna. È un discorso molto complesso, poiché Heidegger mette in luce in questo processo la presenza tanto di pericoli, quanto di barlumi di salvezza, ma in ogni caso escludendo che il processo illimitato di tecnicizzazione planetaria sia qualcosa di puramente tecnico, nel senso di strumentale. Al contrario, si tratta della più piena realizzazione della metafisica, del suo compimento, in quanto la soggettività oggettivante da cui deriva e che si è espressa nell'idealismo tedesco quale ‛volontà di sistema' non è altro che la volontà di potenza di cui Nietzsche solo in parte ha saputo esprimere il carattere nichilistico, poiché non ne ha colto il fondamento ontologico (v. nichilismo, vol. IV). Di qui, ancora, la polemica contro l'umanismo come forma di soggettivismo che attribuisce indebitamente all'uomo la funzione di ‟padrone dell'ente" (v. Heidegger, 1976; tr. it., p. 295). Del resto, se la parola ‛umanismo', come in un certo senso riconosce anche Sartre, ha perduto il suo senso è perché si è capito che ‟l'essenza dell'umanismo è la metafisica, e ciò significa ora che la metafisica non solo non pone la questione della verità dell'essere, ma se la preclude in quanto persiste nell'oblio dell'essere" (ibid., p. 297). Il nesso fondamentale tra modernità e soggettività, i caratteri specifici assunti nell'età moderna dalla tecnica, dal nichilismo, dall'umanismo rinviano dunque tutti al fatto che viviamo nell'epoca in cui la metafisica è giunta al suo compimento, un compimento che non è, tuttavia, affatto un superamento in senso dialettico o storicistico, poiché un qualsiasi processo del genere rimarrebbe ancora all'interno della metafisica stessa.
È proprio su questo aspetto del pensiero heideggeriano che Gianni Vattimo ha fatto leva per scorgervi la diagnosi più profonda della ‛fine della modernità' e, al tempo stesso, la presenza di spunti che possono avviare a una comprensione più adeguata della ‛postmodernità'. Questo termine infatti non deve essere inteso nel senso di semplice successione e di novità, categorie ancora del tutto tipiche della modernità, ma, al contrario, proprio mettendo a frutto il distacco radicale di Nietzsche e di Heidegger da qualsiasi concezione storicistica di tipo metafisico o, più esattamente, la loro affermazione dell'impossibilità di un ‛superamento' della metafisica che avvenga ancora in termini di un (sia pur nuovo) ‛fondamento'. L'accesso alle chances positive, insite nelle condizioni postmoderne di esistenza, è quindi possibile soltanto muovendosi nella linea indicata dalla ‛distruzione dell'ontologia' operata da Heidegger e prima da Nietzsche; questo significa rinunciare veramente alla concezione metafisica dell'uomo e dell'essere come strutture stabili che impongono al pensiero di ‛fondarsi', di stabilirsi (con la logica, con l'etica) nel dominio del non diveniente, riflettendosi così nella mitizzazione delle strutture ‛forti' in ogni campo dell'esperienza (v. Vattimo, 1985).
6. Dialettica dell'illuminismo e razionalità comunicativa
Non può meravigliare poi che nel dibattito sulla modernità occupi uno spazio notevolissimo il confronto con l'illuminismo. Già alcuni dei temi accennati, come la funzione progressiva della scienza nella conquista della natura e nella liberazione da schemi concettuali tradizionali, si prestavano a quella radicalizzazione che in effetti hanno poi avuto nell'illuminismo. Se infatti molte forme della filosofia e della scienza moderne potevano ancora coesistere con una concezione più o meno tradizionale della divinità, con l'illuminismo si veniva sempre più concentrando l'attenzione sull'uomo, sul primato della sua coscienza teoretica e morale, ridimensionando fortemente la divinità in schemi deistici e relegando il cristianesimo e la religione nell'ambito dell'etica. Del resto, questo non era affatto un atteggiamento marginale o settoriale, poiché come caratteristica dell'illuminismo rispetto alla modernità si è visto proprio l'impulso a estendere la nuova mentalità scientifica a tutti i campi della vita e dell'azione, sino a sfociare nei grandi movimenti rivoluzionari. Scontata dunque la convinzione di un nesso intrinseco tra modernità e illuminismo - e il fatto che tale nesso sia stato a lungo oggetto di una valutazione positiva da parte delle correnti progressiste -, resta da chiarire come questa valutazione nel nostro secolo abbia potuto capovolgersi radicalmente a opera di forme di pensiero di ispirazione marxista. Questo mutamento di prospettiva è avvenuto con la Scuola di Francoforte (v. Bedeschi, 1985) e se ne può considerare come il manifesto l'opera intitolata Dialektik der Aufklärung di Max Horkheimer e Theodor Wiesengrund Adorno (v., 1947). L'opera contiene una critica aspra e serrata della razionalità illuministica, non certo per ostilità a un autentico progresso, ma per mettere in luce come quest'ultimo non possa essere conseguito proseguendo sulla strada sinora battuta dall'illuminismo, che, anzi, ha avuto esiti opposti. Sorto infatti con intenti di emancipazione, ha finito con l'identificarsi con le tendenze più oppressive del razionalismo moderno, in quanto affermazione di forme di sapere e di agire subordinate alla razionalità strumentale che celebra i suoi fasti nella società industriale avanzata. In questa situazione la ragione presenta ancora potenzialità liberatrici soltanto se intesa come razionalità critica, come dialettica puramente negativa. Qualsiasi altra forma di dialettica finisce infatti con il farsi assorbire e integrare nel sistema socioeconomico dominante, come del resto è avvenuto sul piano storico-politico, dove quel proletariato al quale veniva affidata la funzione rivoluzionaria del superamento definitivo e totale delle classi è stato gradualmente coinvolto all'interno del sistema capitalistico e del suo sviluppo. Di qui, per Adorno, il ‟divieto delle immagini", ossia la consapevolezza del carattere illusorio di qualsiasi prospettiva riformatrice o rivoluzionaria determinata, e come tale facilmente integrabile nel ‛sistema', mentre l'unico supporto efficace alla ‛ragione critica' viene proprio da quelle correnti dell'arte moderna e di avanguardia che con il loro carattere provocatorio, esoterico e perfino assurdo, rappresentano un contromovimento rispetto all'assurdità e insensatezza totale e totalizzante della razionalità tecnologica, divenuta fine a se stessa. Soltanto quest'arte, e non certo quella ispirata a criteri di rispecchiamento o di realismo in senso marxista tradizionale, può avere un carattere progressista. In questo quadro si inserisce la difesa dell'arte moderna, da Baudelaire a Beckett, dalle accuse di decadenza avanzate in particolare da György Lukács (di Adorno si veda in generale la Ästhetische Theorie del 1970, ma anche il saggio oltremodo efficace e denso del 1958, intitolato Erpresste Versöhnung). La rivendicazione dell'autonomia dell'arte moderna, del suo costituirsi grazie a una logica e dialettica interna, non va intesa però come una descrizione di caratteri astratti o intemporali dell'arte, ma come affermazione della sua funzione critica rispetto al nesso soggettività, tecnica e reificazione dominante nel mondo odierno. Mediante la contraddizione tra l'oggetto conciliato nell'immagine, nell'apparenza, e quello non conciliato nella realtà, al di fuori dell'opera d'arte, l'arte moderna autonoma è la critica della realtà, la sua conoscenza negativa. Perfino in Beckett, sottolinea Adorno, dove apparentemente sono eliminate tutte le componenti storiche concrete e tollerate soltanto situazioni e forme di comportamento primitive, la facciata a-storica ha una funzione provocatoria, come opposto rispetto all'essere idolatrato dalla filosofia reazionaria. L'arte moderna dunque non deve esprimere la realtà, fotografandola o riproducendola in modo realistico o prospettivistico, ma portare alla luce quello che è velato nella e dalla realtà empirica. Certo, la logicità dell'arte moderna come critica non si esprime affatto in termini di giudizi predicativi, ma, proprio perché non formula alcun giudizio, l'opera d'arte come intero, come totalità, diventa giudizio e questo è il suo modo di realizzare la ‛dialettica dell'illuminismo'.
Un ulteriore e diverso sviluppo della dialettica tra modernità e illuminismo è stato poi perseguito da Jürgen Habermas, di cui ricordiamo anzitutto l'importante discorso tenuto a Francoforte nel 1980, Die Moderne. Ein unvollendetes Projekt. Per sviluppare la sua tesi Habermas si richiama alle osservazioni weberiane circa il distinguersi delle sfere della scienza, della morale e dell'arte con l'avvento e lo sviluppo della modernità. Ora il progetto della modernità è condannato a non giungere a compimento sino a quando ci si fermi alla distinzione tra le diverse sfere e non si ponga il problema della loro conciliazione e integrazione. Questo è il problema principale della modernità che l'illuminismo ci ha lasciato in eredità, ma di cui sembra però esserci scarsa consapevolezza nel nostro secolo, nel quale invece si registrano tendenze a utilizzare in senso conservatore la mancata realizzazione del progetto della modernità. Così, i ‛giovani conservatori', fondandosi soprattutto sull'esperienza della modernità artistica, rompono con il mondo moderno in nome di una soggettività decentrata, liberatasi da ogni limitazione della conoscenza e dell'agire finalistico, da ogni imperativo del lavoro e dell'utilità. Alla ragione strumentale vengono contrapposti in modo manicheo principî suscettibili soltanto di ‛evocazione' e, come principale manifestazione di questa tendenza, Habermas indica la linea che in Francia va da Bataille attraverso Foucault sino a Derrida e si ispira alla riscoperta di Nietzsche avvenuta negli anni settanta. I ‛vecchi conservatori', da Leo Strauss a Hans Jonas e Robert Spaemann, respingono sostanzialmente la modernità e raccomandano un ritorno a posizioni anteriori a essa. I ‛nuovi conservatori', infine, accettano le conquiste della modernità, ma per accentuarne il potenziale esplosivo. La specificazione delle tre sfere (cognitiva, etica ed estetica) viene quindi intesa in modo che la scienza perda qualsiasi importanza per l'orientamento nella vita, la politica prescinda da qualsiasi esigenza di legittimazione etico-pratica e la pura immanenza dell'arte venga accentuata sino a incapsulare l'esperienza estetica nel privato. Come rappresentanti di questa tendenza si possono considerare rispettivamente Ludwig Wittgenstein, Carl Schmitt e Gottfried Benn. L'unico risultato di queste tendenze è che del progetto del moderno si conserva ciò che è stato possibile ottenerne rinunciando alla sua forza progettuale.
La difesa critica e propositiva della modernità trova poi uno sviluppo ampio e molto articolato nel volume Der philosophische Diskurs der Moderne (v. Habermas, 1985), dove sono presi in esame anche molti altri protagonisti del dibattito oltre a quelli sopracitati e che, al di là del suo valore e impianto teoretico, costituisce indubbiamente uno dei panorami critici tra i più ricchi e significativi della polemica sulla modernità a partire da Hegel. Proprio il confronto con Hegel è infatti la chiave dell'intero discorso, nel senso che, per Habermas, Hegel è il primo filosofo che ha sviluppato un chiaro concetto di modernità ed è a Hegel che si deve tornare se si vuole comprendere la relazione interna tra modernità e razionalità che fino a Weber è rimasta qualcosa di ovvio e che invece oggi viene messa in questione. Merito di Hegel è aver scoperto nella soggettività il principio della ‛nuova epoca' e aver messo in luce tanto la superiorità della modernità, quanto la crisi a essa immanente, come insieme di progresso e di spirito alienato. A differenza di Kant, che ha teorizzato la distinzione delle sfere (cognitiva, morale ed estetica) all'interno della razionalità, ma non l'ha ‛sentita' come una scissione, Hegel si pone il problema di come si possa superarla muovendo dalla modernità e all'interno di essa. Tuttavia, nel perseguire questo compito, lascia cadere le aperture degli anni giovanili in direzione di una totalità etica come ragione comunicativa, incorporata in nessi intersoggettivi di vita, per adottare una concezione dell'assoluto e della soggettività che non gli consente più un'autentica critica della modernità e un adeguato sviluppo della sua dialettica. Saranno poi i giovani hegeliani a tenere in vita il progetto hegeliano cercando un'altra dialettica dell'illuminismo capace di comprendere e criticare la modernità come scissione. In ogni caso, per venire ai tempi nostri, il problema non può certo essere affrontato o risolto con strumenti spesso inconsistenti, contraddittori e ideologici come quelli del postmoderno, ma soltanto attraverso una decisa svolta che segni il passaggio dal paradigma della razionalità ‛centrata nel soggetto' a quello della razionalità come ‛intesa', come relazione intersoggettiva tra individui socializzati in modo comunicativo e in un rapporto di reciproco riconoscimento. Solo in tal modo è possibile evitare di schiacciare, soffocare la modernità e riprendere invece il contro-discorso a essa interno, traendolo fuori dalla contrapposizione frontale e senza sbocco tra Hegel e Nietzsche.
7. Modernità e vita metropolitana
Un filone assai rilevante di letture novecentesche della modernità è poi quello che risale al nesso tra la svolta avvenuta in campo estetico a metà Ottocento e lo sviluppo della civiltà capitalistica quale si configura soprattutto nei grandi complessi urbanistici e nel formarsi di una mentalità metropolitana. Per inquadrare questa tematica è essenziale almeno un accenno all'opera di Baudelaire e, in particolare, a uno scritto che ha avuto grande risonanza, Le peintre de la vie moderne, pubblicato per la prima volta nel 1863 e composto tra il 1859 e il 1860 (v. Baudelaire, 1973, pp. 929-978). Vi si trovano infatti alcune tesi divenute classiche, a cominciare da quella secondo la quale per scoprire che cosa sia la modernità occorre ‟liberare dalla moda ciò che essa può contenere di poetico nello storico, cavare l'eterno dal transitorio". La modernità, infatti, è ‟il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell'arte, di cui l'altra metà è l'eterno e l'immutabile". Per coglierla bisogna avere il gusto di immergersi nella ‟folla", come ciò che è ‟ondeggiante, il movimento, il fuggitivo, l'infinito, [...] ammirare l'eterna bellezza e la meravigliosa armonia della vita nelle capitali [...] contemplare i paesaggi della grande città, paesaggi di pietra accarezzati dalla nebbia o illuminati dai raggi del sole". La Parigi di Baudelaire diventa così una sorta di fantasmagoria rispetto alla quale la prospettiva estetica e quella politico-sociologica convergono e si intrecciano per comprendere attraverso lo sviluppo architettonico e urbanistico, industriale e commerciale (si pensi alle grandi esposizioni universali!), morale e comportamentale non solo la storia dell'epoca, ma anche la nostra storia e forse qualcosa di ancora più originario (v. Frisby, 1985; v. Berman, 1982).
Anche da questi pochi cenni è facile intuire come questa definizione di modernità implichi un profondo sconvolgimento metodologico rispetto alle tradizionali tendenze a connetterla con una natura umana razionale in generale, dotata di criteri obiettivi e avviata alla conquista di un sempre maggiore progresso o, ancora, a considerarla in rapporto a una possibile conciliazione storico-dialettica.
Con Simmel, in particolare, nel confronto con la modernità e i suoi sviluppi, assume un ruolo di primaria importanza l'analisi di quello che è il motore e lo stampo della nuova forma di vita (la vita metropolitana), ossia il denaro. Necessaria premessa è la considerazione della base psicologica del tipo metropolitano di personalità quale risultato dell'intensificazione dell'agitazione nevrotica, del rapido e ininterrotto mutare degli stimoli esterni e interni. A questo corrisponde la sempre maggiore importanza assunta dalla moda o, meglio, dalla sua dialettica tra l'irrefrenabile dominio del presente e il destino altrettanto inesorabile di essere condannata a un rapido tramonto. Per reggere a questa accelerazione sempre crescente si è sviluppata la figura del blasé, ossia dell'uomo che assume un atteggiamento di sostanziale indifferenza rispetto alla diversità delle cose, atteggiamento che corrisponde esattamente al prevalere dell'economia monetaria, ne è la completa interiorizzazione; il denaro, infatti, offrendo un solo e identico equivalente per tutti i molteplici oggetti, diventa il più spaventoso strumento livellatore, il denominatore comune di tutti i valori, e causa un continuo processo di autoestraniazione. Per questo il denaro costituisce il polo opposto, la negazione rispetto a ogni essere per sé e, come tale, è il vero e proprio ‛simbolo' della dinamica della modernità nella vita metropolitana, come prevalere assoluto del valore di scambio rispetto a qualsiasi altro. Accelerazione, relativismo, sono dunque i tratti della modernità metropolitana che porta all'ipertrofia della cultura oggettiva con la conseguente atrofia della cultura individuale, interiore. La divisione del lavoro richiede infatti all'individuo prestazioni e risultati sempre più unilaterali, operando così una devastazione della personalità che si manifesta più nella prassi e negli stati mentali più oscuri, che non a livello di coscienza. In breve, l'individuo è divenuto un semplice ingranaggio in un'enorme organizzazione di cose e di poteri che strappano dalle sue mani ogni progresso, ogni spiritualità, ogni valore. Questo spiega anche il paradosso per cui nelle metropoli sono amati appassionatamente i predicatori dell'individualismo che nutrono un odio feroce proprio nei confronti delle metropoli; all'uomo della metropoli appaiono infatti come dei profeti e come i redentori dei suoi desideri più insoddisfatti.
L'indagine della vita sociale va dunque oltre i grandi schemi generali e si addentra nella vita della massa (così sottilmente analizzata da Kracauer: v., 1963), alla ricerca di figure e casi esemplari delle forme sempre nuove e sempre più marcate di alienazione a cui ha dato luogo la modernità dell'epoca (non a caso ancora Kracauer, nel 1930, ha dedicato un'opera alla figura dell'impiegato).
La vita metropolitana, e in particolare quella della Parigi del XIX secolo, occupa poi un posto centrale nella ricostruzione della modernità sviluppata da Benjamin in tutta una serie di riflessioni e di stesure ora accessibili nella raccolta Das Passagen-Werk (1982). Con espliciti e foltissimi richiami a Baudelaire e alla sua concezione della modernità, Benjamin ritrova in particolare nei Passages parigini, ma anche, più in generale, nel sorgere e diffondersi delle esposizioni e perfino dei musei, la testimonianza della feticizzazione della merce che caratterizza quel momento storico e trova espressione nell'intera cultura e vita dell'epoca. Tuttavia, questo rapporto viene interpretato secondo uno schema molto più complesso o, quanto meno, diverso rispetto a quello tradizionale del marxismo, giacché fa ricorso a categorie come quella del sogno, dell'inconscio collettivo e della fantasmagoria; tra la modernità del nostro secolo e quella del XIX secolo non si ha quindi una continuità ‛progressistica', ma piuttosto un passaggio dialettico analogo al ‛risveglio' da un sogno; un risveglio che consente di comprendere quei significati che nel sogno erano già presenti, sia pur inconsapevolmente. Questo si spiega perché alla forma del nuovo mezzo di produzione, che, come afferma Marx, all'inizio è ancora dominata da quella del vecchio, corrispondono nella coscienza collettiva immagini che esprimono desideri, aspirazioni in cui si compenetrano vecchio e nuovo. In queste immagini il collettivo cerca sia di superare che di trasfigurare l'incompiutezza del prodotto sociale come pure i difetti dell'ordinamento sociale della produzione. Nel sogno in cui ogni epoca vede in immagini la successiva, quest'ultima appare coniugata con elementi della storia originaria (Urgeschichte), ossia di una società senza classi. Si ha così un'utopia che ha lasciato la sua traccia in mille configurazioni della vita, dalle costruzioni durevoli fino alla moda effimera. Per questo la ricerca del significato della nostra modernità nella storia del XIX secolo ha un carattere del tutto diverso dalla semplice ricostruzione della successione o della sopravvivenza di certe forme storiche. Una Urgeschichte della modernità nel XIX secolo ha veramente senso soltanto se tale secolo viene esposto come forma originaria della Urgeschichte, ossia in una forma in cui si rinnova l'intera Urgeschichte, in modo che alcuni dei suoi tratti più antichi vengano riconosciuti soltanto come un precorrimento di quelli più recenti. Uno schema per la cui comprensione, una volta ancora, è utile, se non addirittura indispensabile, rifarsi alla lettura di Baudelaire. Proprio commentando il carattere unico della poesia di Baudelaire, in quanto in essa le immagini della donna e della morte si compenetrano in quella di Parigi, Benjamin afferma che nell'idillio cadaverico della città è decisivo, in Baudelaire, un sostrato sociale, moderno. Ma il moderno ‛cita' sempre la Urgeschichte e questo avviene qui nell'equivocità pertinente ai rapporti sociali e ai prodotti di quest'epoca. Tale equivocità è la manifestazione emblematica della dialettica, la legge della dialettica in quiete. Tale quiete a sua volta è utopia e l'immagine dialettica è un'immagine onirica. Un'immagine che è rappresentata dalla merce in quanto feticcio, dai Passages che sono tanto case che strade, dalla prostituta che è al tempo stesso venditrice e merce (v. Benjamin, 1982, p. 55). Attraverso questo tipo di analisi, Benjamin fa risaltare il carattere ‛infernale' della modernità, divenuto sempre più evidente e predominante. Il lavoro salariato, con la sua ripetitività e meccanicità, è la piena coincidenza del sempre nuovo e del sempre identico, ossia di un processo di cui già gli antichi avevano intuito la vanità (Tantalo, Sisifo, le Danaidi) e che nella modernità realizza ‟l'eternità delle pene infernali".
Per quel che riguarda la comprensione della storia politica e sociale dell'età moderna, va ancora sottolineato il ruolo essenziale che vi occupano la tematica del tempo e la critica delle concezioni moderne del tempo storico. La feticizzazione della merce, la reificazione, l'alienazione sono tutt'altro che fattori di una dinamica dialettica e teleologica volta al loro superamento attraverso una soluzione rivoluzionaria e definitiva. A qualsiasi concezione totalizzante della storia Benjamin oppone infatti la ricerca della frammentarietà, della discontinuità, poiché l'unica speranza di progresso è affidata alla presenza di frammenti di temporalità profetica che interrompano e frantumino il corso della storia.
Di particolare importanza, infine, il confronto con gli sviluppi e le modifiche dell'arte nel contesto storico degli ultimi due secoli. Il XIX secolo vede infatti le Gestaltungsformen emanciparsi dall'arte come nel XVI secolo le scienze si erano liberate dalla filosofia. Prima l'architettura come costruzione ingegneristica, poi la riproduzione della natura come fotografia. La creazione fantastica si prepara a diventare ‛pratica' come grafica pubblicitaria e la poesia si assoggetta al montaggio nel feuilleton. L'epoca in cui questi prodotti esitano ancora a mettersi sul mercato come merce è precisamente quella da cui derivano i Passages, gli interni delle abitazioni, i capannoni delle esposizioni, i panorami, tutti resti di un mondo onirico su cui si eserciterà il pensiero dialettico come organo del risveglio storico per guardare ai monumenti della borghesia come a rovine, prima ancora che siano caduti. In questo processo una svolta decisiva è segnata dall'avvento della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte con la fotografia e il cinema (v. Benjamin, 1963). In tal modo, infatti, ciò che viene riprodotto è sottratto all'ambito della tradizione e questa è l'altra faccia della crisi attuale e dell'attuale rinnovamento dell'umanità, processi e sviluppi legati tutti ai movimenti di massa dei nostri giorni. Se poi con la riproducibilità tecnica l'opera d'arte viene sciolta dall'‛aura', dal contesto tradizionale e rituale nel quale per secoli era vissuta e viene così emancipata dalla sua esistenza parassitaria, si pongono però nuovi problemi derivanti dal fatto che l'arte deve fondarsi su una nuova prassi, ossia la politica. Sono problemi divenuti particolarmente scottanti nel nostro secolo che ha visto, secondo Benjamin, svilupparsi questo rapporto in due direzioni tra loro opposte e conflittuali: quella dell'estetizzazione (di tipo fascista) della vita politica, in ultima analisi in funzione della guerra, e quella della politicizzazione dell'arte in funzione rivoluzionaria (di tipo comunista).
8. L'episteme moderna: dalle scienze umane alla ‛morte dell'uomo'
Un ulteriore diverso inquadramento storico e teorico della modernità - che fa riferimento al succedersi di diverse forme di ‛episteme' - è quello offerto da Michel Foucault. Un termine che non indica un particolare tipo di sapere, quanto piuttosto una sorta di reticolo, di tessuto, un ‛campo' di condizioni di possibilità delle diverse forme di razionalità, di idee, di scienze che si sono via via succedute. Nel nostro contesto interessa soprattutto la distinzione tra le due ‛grandi discontinuità' nell'episteme occidentale che si hanno con il sorgere - rispettivamente - dell'età classica, verso la metà del XVII secolo, e della modernità con la svolta avvenuta tra la fine del Settecento e i primi dell'Ottocento. Del resto, anche rispetto a un campo più specifico e limitato come quello della ‛storia della follia' (v. Foucault, 1961) vale una distinzione analoga. Epoca classica è quella che risale a Cartesio e allo sforzo di escludere radicalmente dalla ragione tutti gli elementi della follia che pure avevano trovato ampio spazio nella cultura medievale e rinascimentale. Tra Settecento e Ottocento si ha invece una svolta radicale con la nascita delle prime istituzioni psichiatriche nella quali la follia viene controllata in modo medico, per così dire razionalizzata, e quindi considerata in un'ottica completamente nuova, ‛moderna'. Ma, per tornare all'‛archeologia delle scienze umane' (v. Foucault, 1966), l'inizio della modernità si ha quando al principio dell'Ottocento scompare la teoria della rappresentazione quale fondamento generale di tutti gli ordini possibili; a sua volta il linguaggio perde la funzione di quadro spontaneo e quadrettatura iniziale delle cose e di tappa indispensabile fra la rappresentazione e gli esseri. È proprio all'interno di questa svolta che nasce e compie la sua vita la nozione di uomo e che va colta la peculiarità delle scienze umane (psicologia, sociologia e studio della letteratura, dei miti, delle testimonianze scritte e orali lasciate dall'uomo). Per un verso, infatti, le scienze umane non hanno cessato di avvicinarsi alla regione dell'inconscio dove l'istanza della rappresentazione viene tenuta sospesa, ma per l'altro non hanno saputo aggirare la priorità della rappresentazione, sono rimaste situate in essa come il sapere classico; non per questo però ne sono le eredi, poiché sono condizionate da una diversa episteme, quella moderna, che ha visto comparire al suo interno un essere che prima non esisteva, ossia l'uomo. Di qui l'importanza della psicanalisi, dell'etnologia e della linguistica, come vere e proprie ‛controscienze' rispetto alle scienze umane. Occorre dunque chiarire brevemente come si configuri questa opposizione che costituisce pure la chiave per comprendere l'esito tendenziale della modernità, ossia la morte dell'uomo. La psicanalisi è vicinissima alla funzione critica interna a tutte le scienze umane e, assumendosi il compito di far sentire il discorso dell'inconscio attraverso la coscienza, procede nella direzione fondamentale in cui agiscono i rapporti tra la rappresentazione e la finitudine. Ma, a differenza delle scienze umane, che pur tornando indietro verso l'inconscio rimangono sempre nello spazio del rappresentabile, la psicanalisi avanza per scavalcare la rappresentazione.
Come la psicanalisi si pone nella dimensione dell'inconscio, così l'etnologia si pone in quella della storicità, ossia dell'oscillazione perpetua in virtù della quale le scienze umane vengono incessantemente contestate nella loro storia; a prima vista questo sembra strano, perché l'etnologia studia strutture sincroniche, ma questo dipende dalla storia della nostra cultura e dal suo rapporto fondamentale con ogni storia, che le consente di legarsi alle altre culture nella forma della pura teoria. L'etnologia non cade nelle circolarità dello storicismo perché inverte il movimento che le fa nascere e cioè, invece di mettere in rapporto i contenuti empirici con la positività storica del soggetto, pone le forme individuanti ogni cultura in rapporto con ognuna delle tre grandi positività a cui ogni forma di sapere fa riferimento (la vita, il bisogno e il lavoro, il linguaggio). Anche l'etnologia, pertanto, come la psicanalisi, non indaga l'uomo in sé, ma la regione che rende possibile un sapere sull'uomo, situandosi all'interno del rapporto singolare che la ratio occidentale istituisce con tutte le altre culture. Entrambe sono dunque scienze dell'inconscio, non tanto perché raggiungano nell'uomo ciò che è al di sotto della sua coscienza, quanto perché si indirizzano verso ciò che fuori dell'uomo consente di sapere quello che si dà o si sottrae alla sua coscienza; così tutte le scienze umane sono loro in qualche modo debitrici o subordinate, ma senza che ci si possa illudere di giungere a una ‛antropologia psicanalitica' o di cogliere mediante l'etnologia una ‛natura umana'. Non soltanto psicanalisi ed etnologia possono fare a meno del concetto di uomo, ma non possono nemmeno incontrarlo, poiché sono costantemente volte a ciò che ne costituisce i limiti estremi. Per entrambe vale quanto Lévi-Strauss diceva dell'etnologia: esse ‟dissolvono" l'uomo. Rispetto alle scienze umane sono quindi ‛controscienze', poiché le considerano dentro una prospettiva rovesciata e non cessano di disfare l'uomo che nelle scienze umane fa e rifà la propria positività.
Psicanalisi ed etnologia non si articolano poi l'una sull'altra a livello dei rapporti tra individuo e società, come spesso si è creduto, ma si tagliano ad angolo retto; di qui sorge il tema di una teoria pura del linguaggio in condizione di fornire all'etnologia e alla psicanalisi il loro modello formale, ossia di coprire nel suo percorso ‟tanto la dimensione dell'etnologia, che riferisce le scienze umane alle positività che le orlano, quanto la dimensione della psicanalisi, che riferisce il sapere dell'uomo alla finitudine che lo fonda" (v. Foucault, 1966; tr. it., p. 407). Si profila così un ritorno del linguaggio che segna la fine della modernità, la cui nascita e vita erano strettamente legate alla scomparsa del discorso. Tale ritorno segnerà quella morte dell'uomo che Nietzsche aveva annunciato con la morte di Dio o, se si preferisce, farà sì che l'uomo ritorni all'inesistenza serena in cui l'unità imperiosa del discorso l'aveva un tempo trattenuto.
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Postmoderno di Paolo Portoghesi
SOMMARIO: 1. Origine del termine e suoi diversi significati. 2. L'accezione letteraria in I. H. Hassan. 3. L'accezione architettonica in P. Blake e C. Jencks. 4. Gli sviluppi degli anni ottanta. 5. Il dibattito attuale. □ Bibliografia.
1. Origine del termine e suoi diversi significati
La parola ‛postmoderno' è entrata in uso all'inizio del secolo nell'ambito della cultura storico-letteraria, come conseguenza dei tentativi di periodizzazione che si proponevano di dividere in modo rigoroso le fasi di sviluppo della civiltà occidentale. Poiché dell'età moderna era stato definito convenzionalmente l'inizio - la scoperta dell'America -, ma non la fine, il prefisso ‛post' venne usato da coloro i quali ritenevano che troppe cose fossero cambiate dall'epoca di Cristoforo Colombo perché si potesse continuare a considerarsi all'interno di un medesimo periodo storico.
In questo senso, il termine fu usato per la prima volta da esponenti della cultura spagnola e sudamericana, i quali peraltro se ne servirono anche per distinguere dal ‟modernismo", fiorito a cavaliere tra Ottocento e Novecento, le successive correnti letterarie e artistiche. Federico de Onís (v., 1934) ad esempio, utilizzò la parola ‛postmodernismo' nella sua Antología de la poesía española y hispanoamericana volendo esprimere in modo sintetico la reazione verso gli aspetti più radicali del modernismo, manifestatasi già nei primi anni del Novecento. Al postmodernismo, secondo Onís, sarebbe succeduto l'ultramodernismo nel periodo 1914-1932.
Un uso meno contingente e specialistico del termine venne introdotto nel 1947 dallo storico Arnold Toynbee nel saggio A study of history, in cui esso veniva usato per designare l'ultima fase, ancora in corso di svolgimento, della cultura occidentale iniziata intorno al 1875 con il diffondersi, in contrapposizione all'idea ristretta di Stato nazionale, di una prospettiva di carattere internazionale e universale.
Nel 1945 il vocabolo venne adottato anche nel campo dell'architettura da Joseph Hudnut in un articolo dal titolo La casa postmoderna (pubblicato sulla rivista ‟Metron" nel 1946), per esprimere in forma clamorosa il bisogno, particolarmente sentito nel mondo anglosassone, di abbandonare il rigorismo funzionalista a vantaggio di una rinnovata attenzione verso gli aspetti psicologici dell'architettura.
Negli anni cinquanta e sessanta la parola apparve spesso anche nel campo della critica letteraria, in modo particolare negli Stati Uniti. La adoperarono Irving Howe e Harry Levin, per individuare i caratteri che differenziavano la produzione letteraria di quegli anni rispetto a quella dell'anteguerra. John Preault la introdusse invece nella critica d'arte per individuare non tanto una tendenza, quanto il distacco da una tendenza: ‟Fui costretto a usare il termine ‛postmodern' a metà degli anni sessanta poiché desideravo discutere di opere d'arte di ogni genere che parevano non adattarsi alle regole del modernismo in arte [...]. Postmodernismo non è uno stile particolare, ma un insieme di tentativi di andare oltre il modernismo. In alcuni casi ciò significa un revival di stili artistici che erano stati ‛spazzati via' dal modernismo. In altri casi significa arte dell'antioggetto o qualsiasi altra cosa. Una sintesi è certamente vicina".
2. L'accezione letteraria in I. H. Hassan
È però soltanto alla fine degli anni sessanta, e nel decennio successivo, che la parola acquista tutto il suo valore esplosivo per merito di Ihab Habib Hassan nel campo letterario e di Peter Blake e Charles Jencks in quello architettonico. Nel 1959 Hassan pubblica sulla ‟Virginia review" Frontiers of criticism, nel 1971 The dismemberment of Orpheus e POSTmodernISM. Da allora la sua produzione saggistica ha analizzato, con grande finezza e ironia, la nuova sensibilità emersa nella seconda metà del secolo, le sue prospettive di sviluppo e le sue interne contraddizioni. Hassan non si nascondeva il carattere paradossale e ambiguo del termine; anzi lo esaminava criticamente in ogni dettaglio: ‟Il termine postmodernismo - egli affermava - non è soltanto goffo e rozzo; esso evoca quello che vorrebbe sorpassare e sopprimere, cioè lo stesso modernismo. Il termine ospita dunque il suo nemico dentro le proprie mura, al contrario di termini quali romanticismo e classicismo, barocco e rococò. In più, esso denota una linearità temporale e implica ritardo, persino decadenza, aspetti che nessun postmodernista sottoscriverebbe. Ma quale migliore denominazione dobbiamo dare a questa curiosa età?".
Per l'identificazione del postmoderno Hassan suggerisce una bipolarità costruita su coppie di concetti dei quali il primo descrive la condizione moderna, il secondo la condizione ‛post'. Alcune di queste coppie identificano caratteri comuni alle diverse accezioni del termine, così come viene usato nelle varie discipline, altre sembrano piuttosto tipiche di un postmodernismo letterario. Tra le prime si possono citare le seguenti: distanza/partecipazione; scopo/gioco; metafisica/ironia; oggetto d'arte, opera finita/processo, performance, happening; tra le seconde: narrativo/antinarrativo; presenza/assenza; sintomo/desiderio, maestria; logos/esaurimento, silenzio; metafora/metonimia. Più persuasiva la definizione che Hassan propone attraverso cinque ‛proposizioni paratattiche':
‟1. Il postmodernismo dipende dalla violenta ‛transumanizzazione' della terra, in cui terrore e totalitarismo, frazioni e insiemi, povertà e potere, si richiamano a vicenda. La fine potrebbe essere un cataclisma e/o l'inizio di una genuina planetarizzazione, una nuova era per l'Uno e i Molti, come usavano dire i presocratici.
2. Il postmodernismo deriva dall'estensione tecnologica della coscienza, un tipo di gnosi del XX secolo, cui contribuiscono il computer e tutti i nostri vari media (compreso quel medium mongoloide che chiamiamo televisione). Il risultato è una visione paradossale della coscienza come informazione e della storia come happening.
3. Il postmodernismo si rivela, allo stesso tempo, nella dispersione dell'umano (cioè del linguaggio), nell'immanenza del discorso e della mente. ‛Indietro' fino al momento originario della creazione (il big bang), ‛lontano' verso lo sfuggente confine dell'universo (quasars), ‛dentro' i buchi neri dello spazio o dell'inconscio letterario (Lacan) - dovunque linguaggio. Qui, forse, potremmo sperare di imbatterci in aspetti più propizi del nuovo gnosticismo.
4. Il postmodernismo, quale modalità di cambiamento letterario, potrebbe distinguersi dalle avanguardie più vecchie (cubismo, futurismo, dadaismo, surrealismo, ecc.), come pure dal modernismo. Né olimpico e distaccato come quest'ultimo, ma neanche bohémien e indisciplinato come i primi, il postmodernismo ispira un diverso tipo di adeguamento tra arte e società. E con ciò vengo all'ultimo punto.
5. In quanto fenomeno artistico e filosofico, erotico e sociale, il postmodernismo si rivolge verso forme giocose, desiderative, disgiuntive, dislocate o indeterminate, verso un discorso di frammenti, un'ideologia della frattura, una volontà di disfacimento, un'invocazione dei silenzi - va verso tutto ciò, pur implicando inoltre i loro contrari, e le relative realtà antitetiche. (È come se Aspettando Godot trovasse un'eco, se non una risposta, in Superman)".
Nella critica letteraria, specialmente negli Stati Uniti, il termine incontrò una notevole fortuna, mentre una rivista specializzata - ‟Boundary 2" - veniva pubblicata con il sottotitolo ‟A journal of postmodern literature", sotto l'egida della New York State University (1972); ma il dibattito non debordò al di fuori di una élite di intellettuali. Nell'architettura, invece, il termine, dopo i contributi di Blake e soprattutto di Charles Jencks, si dimostrò particolarmente adatto a veicolare il denominatore comune delle ricerche di tutta una generazione di architetti che - in paesi e situazioni culturali diversissime e per ragioni teoriche le più varie - aveva abbandonato più o meno esplicitamente l'ortodossia del movimento moderno, così come essa era stata definita a partire dagli anni trenta dai suoi storici più acclamati.
3. L'accezione architettonica in P. Blake e C. Jencks
In una serie di articoli, pubblicati a partire dal 1974 sulla rivista ‟Atlantic", Blake aveva affrontato i temi della obsolescenza delle idee architettoniche correnti ma, soltanto quando furono riuniti in un libro (1977), questi saggi acquistarono l'effetto dirompente annunciato dal titolo ironico con cui vennero presentati: Form follows fiasco, ‛La forma segue il fiasco', ironica riedizione del principio ‛la forma segue la funzione' attribuito a Louis Henri Sullivan e considerato universalmente come il primo comandamento del Movimento moderno.
Il libro, scritto anch'esso in forma semplice e piana e rivolto quindi anche ai ‛non addetti ai lavori', era accreditato dal fatto, sottolineato nella conclusione, che Blake era stato uno dei propagandisti del vecchio credo e per di più possedeva l'esperienza pratica del costruttore e quella non meno importante dell'utente di ‛architettura moderna', avendo abitato e lavorato in spazi progettati da celebri architetti. La struttura del libro possiede la chiarezza incisiva del pamphlet; dei dodici capitoli in cui è diviso, undici sono dedicati ad altrettante ‛fantasie' tipiche dell'architettura moderna; intendendo per ‛fantasie' le idee guida o meglio i miti che hanno animato il dibattito architettonico per cinquant'anni.
Il primo mito analizzato è quello della funzione. Dopo tanti anni di pratica funzionalista, si chiedeva Blake, è possibile stabilire se questa applicazione dogmatica di un principio abbia avuto buon esito o no? In altri termini, disporre di spazi programmati per determinate funzioni migliora la vivibilità di questi spazi e il loro rapporto con il fruitore? E cosa succede invece quando le stesse funzioni si svolgono in edifici pensati per una destinazione diversa da quella attuale? Molto spesso, rispondeva Blake, il riciclaggio di vecchi edifici per usi del tutto diversi da quelli originari dà luogo a spazi in cui il processo di adattamento non solo non produce una caduta di livello estetico, ma ne determina un potenziamento.
La ‛fantasia' della pianta aperta, o ‛pianta libera', - messa in rapporto con i prototipi giapponesi da cui deriva - veniva criticata da Blake per la sua astrattezza: essa infatti indicava quale soluzione universale dei problemi spaziali un modello sorto per rispondere a esigenze di tipo rappresentativo e contemplativo. Le stupende sequenze di spazi comunicanti, fluenti uno nell'altro, separati solo da diaframmi mobili, tipiche delle residenze giapponesi, presupponevano, infatti, un ordine sociale basato sulla disuguaglianza, in cui era possibile avvalersi di una numerosa servitù e in cui la donna, completamente asservita, aveva il compito di conservare l'ordine immacolato di questi spazi privi di mobili, in cui ogni elemento fuori posto costituisce un insopportabile disturbo visivo.
Terzo dei miti riesaminati è quello della purezza, suprema aspirazione non solo dell'architettura ma di gran parte dell'arte moderna. Questo mito ha avuto la sua espressione più evidente nelle cartilagini bianche che racchiudevano i volumi delle fabbriche razionaliste degli anni venti. Queste superfici, intonacate con sistemi del tutto tradizionali, rispondevano alla intellettualistica aspirazione verso un nuovo materiale da costruzione completamente omogeneo ed elastico, resistente alle intemperie e ai movimenti di assestamento delle strutture. Purtroppo, questo materiale universale non venne mai scoperto né inventato e l'abolizione di tutti quegli elementi architettonici tradizionali (cornici, tetti sporgenti, gocciolatoi) che erano nati proprio dal bisogno di contrapporre sperimentate difese alle aggressioni dell'atmosfera ha reso la maggior parte degli edifici moderni rapidamente fatiscenti o difendibili solo attraverso costosissime finiture e continui lavori di manutenzione. Se la fragilità e il rapido consumo costituiscono il prezzo di una purezza subito contaminata dall'aggressiva realtà, non meno grave era, secondo Blake, il tributo pagato dall'architettura moderna al mito della tecnologia e dell'industrializzazione che l'ha spinta da più di un secolo a perseguire un'innaturale assimilazione dell'edilizia alla produzione industriale, la quale, più che da esigenze razionali, è guidata da una alleanza tra la logica del profitto e la religione della tecnica.
Anche il prodotto più prestigioso del mito tecnologico, il grattacielo, veniva messo da Blake sotto accusa con sottile ironia, per gli effetti indotti sulla vita urbana e la carica di irrazionalità che esso avrebbe manifestato nelle sue continue trasformazioni, passando dal travestimento della cattedrale gotica a quello del pacchetto di cellofan. Il risultato? Gli alienanti viaggi in ascensore, le fiumane di gente incolonnate nelle ore stabilite e il deserto della sera, le strade senza luce e le piazze battute dal vento che scivola sulle pareti verticali (e soffia dal basso mettendo in imbarazzo le signore); e poi la follia delle pareti di vetro che producono un esagerato flusso di luce di cui godono i benefici solo i costruttori delle tende alla veneziana necessarie per schermarlo e dei costosi cristalli atermici che tentano di ridurre la inutile permeabilità al calore di queste torri.
Quattro delle ‛fantasie' enumerate da Blake per stigmatizzare la obsolescenza delle teorie moderne sono quindi dedicate alla città, così come è cresciuta sotto i nostri occhi negli ultimi cinquant'anni, in obbedienza a quei principî per i quali la cultura urbanistica - nell'illusione di creare un habitat più umano - si è battuta con ogni energia.
Per dimostrare le sue tesi, Blake è ricorso all'esempio di Zagabria, una città divisa in due parti inconciliabili: la vecchia città, brulicante di vita, in cui la scena urbana è animata dalla presenza umana ed è in scala con essa; e la città nuova, fatta di grandissime case isolate nel verde, dove le strade sono quasi deserte e la gente non trova spazi che invitino a sostare, che stimolino l'incontro e lo scambio. La città radiosa è diventata nei fatti la città geometrica, la città dei casermoni, la città in cui la gente non si riconosce e non si identifica. La ragione di questo rifiuto è semplice: l'uomo desidera non grandi spazi deserti, ma l'incontro con i suoi simili, vuole sentirsi insieme agli altri, e il modo migliore per riuscirci è quello di essere dentro qualcosa, racchiusi come in uno spazio interno. La via-corridoio, stretta tra due mura, contro cui Le Corbusier si scagliava ravvisandovi il simbolo del male urbanistico, si è invece rivelata il fattore primario e insostituibile dell'effetto città, la ragione del fascino e dell'influenza stimolante sui rapporti sociali che le antiche città quasi sempre possiedono. Trasformata la strada in una ‛autostrada' o in una semplice via di comunicazione, trasformata la piazza in uno slargo indefinito, la città ha perso il suo valore, e la continuità della sua immagine si è salvata solo attraverso i centri storici, anche dove, come in America, si trattava molto spesso di strutture ottocentesche.
L'ultimo dei miti preso in esame è quello del design e delle sue conseguenze nell'arredamento degli ambienti. Blake intitola il suo capitolo La fantasia della forma e, con molta ironia, passa in rassegna le conquiste fatte in questo campo dalla cultura d'avanguardia: dalle poltrone, come quella ‛rossoblù' di Rietveld - ‟che non possono essere abbandonate senza l'aiuto di un chirurgo ortopedico" -, alle sedie, come la ‛Berlin-chair' dello stesso Rietveld, che presupporrebbero, per giustificare la loro forma asimmetrica, profonde mutazioni genetiche della razza umana, sino ai pezzi di arredamento (come quelli disegnati da Le Corbusier, da Mies van der Rohe, da Breuer), che certo corrispondono perfettamente all'esigenza di rendere fluido e trasparente lo spazio abitato, ma che di solito con i loro materiali scostanti, le loro forme squadrate e la corrispondenza del tutto teorica alle esigenze di movimento del corpo mal si adattano a svolgere la loro funzione primaria e rimangono anzitutto magnifiche sculture da ammirare. ‟Noi rigettiamo la tirannia della forma", usavano dire i maestri moderni, e Blake conclude: ‟Accomodare o ‛risolvere i problemi' era il nome del loro gioco. È abbastanza vero. Ma il problema che il Movimento moderno voleva risolvere realmente, a giudicare dalle sue performances fino a ora, è la fastidiosa anatomia della razza umana: nulla infatti è in grado di funzionare alla maniera del Bauhaus fino a che gli uomini non saranno riprogettati in forma di cubi e le donne in forma di sfere; fino ad allora, ogni altra cosa andrà al suo posto con un profondo e udibile ‛click' e la soluzione diventerà poi essa stessa il problema" (v. Blake, 1977).
Le conclusioni del libro di Blake acquistano il carattere solenne di una richiesta - rivolta soprattutto agli architetti - di una ‛moratoria' attraverso cui i loro prodotti smettano di voler fornire lezioni e accettino di ‛servire' gli uomini. ‟Il mondo postmoderno è davanti a noi, che ci piaccia o no. Non è stato inventato dai critici revisionisti. Esso è stato generato dagli stessi maestri moderni e da molti dei loro fallimenti. Ed ora quali sono le alternative?" (v. Blake, 1977).
Charles Jencks (v., 1977), con lucida ironia, fissa persino la data esatta di morte della ‛architettura moderna': la fa coincidere - alle ore 15,32 del 15 luglio 1972 - con la distruzione, a opera della dinamite, del complesso residenziale Pruitt-Igoe, costruito nel 1951 secondo i più progressivi ideali del CIAM (Congrès Internationaux d'Architecture Moderne, l'organizzazione internazionale degli architetti moderni creata da Le Corbusier nel 1928 al castello di La Sarraz) e premiato allora dall'Istituto degli architetti americani. Questo quartiere - nonostante il verde pubblico, le vie pedonali, i servizi collettivi, il rispetto cioè degli standard prescritti dalla moderna scienza urbana, in virtù dei suoi palazzoni-alveare di undici piani, con interminabili file di finestre tutte uguali, e corridoi senza fine, e a causa della sua struttura spaziale smisurata e ripetitiva - era diventato per i suoi abitanti una sorta di prigione e nello stesso tempo il simbolo vivente della loro condizione di sfruttati. Questa identificazione tra architettura e qualità della vita urbana aveva sviluppato negli abitanti, in maggioranza gente di colore, una reazione conflittuale espressa in una serie di violenze e vandalismi. L'ipotesi del restauro o del riadattamento fu respinta per il giudizio negativo di psicologi e sociologi, che imputarono alle scelte architettoniche buona parte della responsabilità di questo fenomeno patologico. La cosa non può meravigliare ove si pensi che già da tempo si usa catalogare tra le malattie sociali in rapido sviluppo la ‛sindrome da ballatoio': conseguenza morbosa dell'eccesso di controllo sociale, determinato da certi tipi edilizi che gli architetti moderni continuano a considerare ottimali.
L'addebito maggiore che Jencks rivolgeva all'‛architettura moderna' - e che, a suo parere, ne ha prodotto la rapida obsolescenza - è il suo carattere intellettualistico e astratto, il suo poggiare su assiomi mai verificati e mai confrontati con le reali esigenze degli uomini. Essa è nata come un abito su misura per un ‛mitico uomo moderno', che è esistito soltanto nella mente degli architetti e che coincide sempre meno con l'identità degli individui in carne e ossa. L'approccio quantitativo ed esageratamente analitico verso i problemi dell'habitat, ad esempio, ha portato a sottovalutare i fenomeni di disfunzione prodotti dallo smisurato aumento del numero delle cose e delle persone riunite insieme; si è persa completamente la capacità di giudicare how big is too big e le conseguenze sono le metropoli, ma anche le case e i palazzi per uffici divenuti giganteschi come piramidi (a Roma, ad esempio, è nato ‛Corviale', una ‛casa popolare' lunga un chilometro).
Altro appunto fondamentale avanzato da Jencks è l'‛univalenza' dell'architettura moderna, vale a dire il suo riferirsi costantemente a pochi contenuti diventati sempre più sterili: la razionalità della macchina e della produzione industriale, l'igiene ambientale, la purezza eretta a valore supremo. Tutto ciò ha prodotto qualcosa di simile a ciò che Pasolini chiamava ‛omologazione': la trasparenza e la ripetitività del palazzo per uffici, il candore ubiquo dell'ospedale, l'organizzazione ferrea della fabbrica, sono caratteri dominanti nella riproduzione della città che è diventata insieme e soltanto città-fabbrica, città burocratica, città-ospedale, producendo una monotona equivalenza tra ambiente di lavoro e residenza, tra spazi pubblici e privati.
L'elemento vitale che in origine giustificava e tingeva di luce eroica l'univalenza del linguaggio architettonico moderno era il mito della riforma sociale, la speranza di cambiare la società attraverso l'architettura ed evitare così - secondo la teoria di Le Corbusier - la rivoluzione politica. Caduto il mito e la speranza, l'univalenza che senso può avere? Secondo Jencks è ora di prendere atto che gli architetti all'avanguardia delle nuove ricerche, quelli che hanno saputo prima e meglio comprendere le esigenze del nostro tempo, hanno cambiato strada ormai da quasi vent'anni e che la loro battaglia di minoranza prefigura già le linee fondamentali di un'architettura diversa, tornata nel grembo della storia.
Le caratteristiche di questa architettura postmoderna sono colte soprattutto per differenza rispetto alla tradizione del Movimento moderno, ma anche per analogia con la produzione culturale di periodi storicamente simili al nostro, come il manierismo e il barocco. Il postmoderno, afferma Jencks, è evoluzionistico più che rivoluzionario; non nega la tradizione moderna, ma la interpreta liberamente, la integra, ne ripercorre criticamente le glorie e gli errori. Contro i dogmi della univalenza, della coerenza stilistica personale, dell'equilibrio statico o dinamico, contro la purezza e l'assenza di ogni elemento ‛volgare', l'architettura postmoderna rivaluta l'ambiguità e l'ironia, la pluralità degli stili, il doppio codice che le permette di rivolgersi da una parte al gusto popolare, attraverso la citazione storica o vernacolare, e dall'altra agli addetti ai lavori, attraverso l'esplicitazione del metodo compositivo e quello che viene definito il ‛giuoco degli scacchi' applicato alla composizione e scomposizione dell'oggetto architettonico. All'atteggiamento profetico, severo e prescrittivo dei maestri, e soprattutto degli epigoni del Movimento moderno, si è sostituito un atteggiamento ironico, tollerante e di inesauribile curiosità nei confronti dell'esistente. Robert Venturi, l'autore di quello che Jencks ha definito il primo ‟antimonumento del postmoderno", ha studiato l'ambiente urbano di Las Vegas con il rigore filologico con cui Paul-Marie Le Tarouilly fece l'inventario del Rinascimento romano. Dopo di lui moltissimi architetti hanno dedicato le proprie analisi alla scoperta dei ‛vernacoli' ancora esistenti e soprattutto di quelli nati negli ultimi cinquant'anni, hanno guardato con interesse le trasformazioni operate sulle proprie case da proprietari e inquilini, hanno insomma studiato i fenomeni nei quali era possibile individuare un rapporto attivo e concreto tra i fruitori dell'architettura e i prodotti architettonici.
Da questa rinnovata attenzione per l'architettura come prodotto collettivo è nata una comprensione assai più profonda del fenomeno città e un indirizzo di ricerca che, dopo un lunghissimo intervallo di silenzio, restituisce all'architettura la ‛parola' attraverso la riappropriazione della metafora, del simbolo, della capacità di plasmarsi non solo sulle idee astratte, ma sul gusto e sulla sensibilità della gente, e non solo ovviamente per accettare, ma anche per criticare e dissentire, sempre però partendo dalla conoscenza e dalla comprensione dei codici più diffusi.
Gli esponenti del postmoderno sono stati individuati da Jencks non per una loro eventuale appartenenza intenzionale a un movimento organizzato, ma in quanto creatori di un nuovo clima e partecipi - anche se con diversi orientamenti personali - della nuova ondata emergente. Accanto a Robert Venturi e Charles Moore, a Robert Stern, a Stanley Tigerman, a Thomas Gordon Smith, Jencks ha collocato architetti come Lucien Kroll, Ralph Erskine, Peter Eisenman, Lluis Clotet e Oscar Tusquets, Andrew Derbyshire, Aldo van Eyck e Theo Bosch: un insieme di architetti che testimoniano un'apertura di orizzonti tutt'altro che angusta e le cui opere possono essere lette come sintomi, avvisaglie di una trasformazione che avrebbe avuto come terreno di azione gli anni ottanta. ‟Possiamo aspettarci - scriveva Jencks - di vedere la futura generazione di architetti usare il nuovo linguaggio eclettico con maggiore confidenza. Esso apparirà più simile all'art nouveau che all'international style, incorporando l'intelaiatura ricca di riferimenti eterogenei del primo, la sua ampia disponibilità alla metafora, i suoi segni scritti, la sua ‛volgarità', i suoi segni simbolici e i suoi clichés, l'intera gamma dell'espressione architettonica. Gli architetti attuali sono i primitivi di una nuova sensibilità."
4. Gli sviluppi degli anni ottanta
Se le critiche rivolte da Blake al modernismo architettonico si limitavano a presentare una diagnosi dei mali prodotti, il libro di Jencks prescriveva una cura; anzi la considerava già intrapresa e con risultati positivi, tanto da poter essere esemplificata attraverso le opere di un gruppo di architetti destinati a svolgere un ruolo di protagonisti nel decennio successivo. Se gli anni settanta, infatti, possono essere considerati il periodo di incubazione della tendenza postmoderna in architettura, gli anni ottanta segnano la sua diffusione endemica e il suo manifestarsi come una vera e propria ‛moda' internazionale, anche se destinata piuttosto ad ampliare che a soppiantare il confuso panorama del decennio precedente.
Proprio nel 1980 il postmoderno ricevette una consacrazione ufficiale nella prima mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia. Alla fine del 1979 un edificio-simbolo, il Teatro del mondo di Aldo Rossi, costruito per iniziativa delle sezioni architettura e teatro della Biennale, era apparso nel bacino di San Marco, a fianco della Punta della Dogana, a pochi metri dalla chiesa di Santa Maria della Salute, dalla Biblioteca Marciana e dal Palazzo Ducale. L'impatto di questo piccolo edificio galleggiante (poi trasportato fino a Dubrovnik) fu immenso e contribuì al successo della mostra internazionale, intitolata in modo inequivoco ‛La presenza del passato' allestita nelle Corderie dell'Arsenale e consistente non solo nella documentazione grafica e fotografica degli aspetti emergenti della nuova tendenza, ma anche nella creazione, con mezzi effimeri, di una vera e propria strada, composta di facciate allineate e di spazi interni dedicati all'illustrazione delle opere di ciascun architetto. Nella mostra, programmata da un comitato di critici, coesistevano le due anime del postmoderno architettonico: quella in cui prevaleva l'interesse per un ritorno alla tradizione e quella rivolta a uno sperimentalismo linguistico basato sul doppio codice e sulla rielaborazione del repertorio di forme astratte ereditate dal movimento moderno (Costantino Dardi, Rem Koolhaas, Frank Gehry). Nel primo gruppo, tutt'altro che compatto, era possibile distinguere diversi indirizzi di ricerca: la riattualizzazione, più o meno rigorosa, del linguaggio classico (Ricardo Bofill, Allan Greenberg, Robert Krier); la propensione per un eclettismo critico in cui tradizione moderna e linguaggi storici trovassero un punto di incontro e di sintesi (Robert Venturi, Charles W. Moore, Robert Stern, Michael Graves, Arata Isozaki, GRAU - Gruppo Romano Architetti Urbanisti -, Franco Purini, Oswald M. Ungers, Josef P. Kleihues).
Gli omaggi a Philip C. Johnson, Ignazio Gardella e Mario Ridolfi, che precedevano la Strada Novissima, avevano lo scopo di richiamare due esperienze di riavvicinamento alla tradizione risalenti agli anni cinquanta: quella americana (Philip C. Johnson, Eero Saarinen, Victor A. Lundy, Minoru Yamasaki) e quella italiana (Ignazio Gardella, Franco Albini, Mario Ridolfi, Saverio Muratori, Mario De Renzi). Pur avendo preso parte alla regia della mostra, Charles Jencks ne avrebbe preso in seguito le distanze considerando l'interpretazione ‛storicista' del postmoderno come una sorta di ‛controriforma' rispetto all'interpretazione puramente linguistica che egli aveva proposto nel suo libro. A prescindere, infatti, dal linguaggio delle opere e dei loro autori, un'altra divaricazione emerse chiaramente a Venezia: quella tra chi interpretava la nuova condizione postmoderna in senso ludico e anarchico - come presa d'atto del crollo delle ideologie e dei sistemi centralizzati - e chi, pur associandosi a questa presa d'atto, vedeva nella ‛fine del proibizionismo' l'aprirsi di una nuova frontiera per l'architettura, consistente nella possibilità di offrire un contributo costruttivo - interpretando bisogni e desideri dei cittadini - al salvataggio della terra, minacciata dalla violenza dell'uomo sull'ambiente, dalla cancellazione delle identità locali, dal consumo incontrollato dell'energia e delle risorse naturali. Rispetto a uno schieramento propenso a interpretare l'architettura come una disciplina fiera della sua autonomia e a esaltare disimpegno e ironia giustificando il solipsismo e il cinismo, la tendenza basata sull'ascolto, sulla rivalutazione della nozione di luogo e sul recupero della tradizione come valore positivo, ebbe molto meno spazio nell'esplosione acritica degli anni ottanta e rimane ancora una delle alternative in campo alle soglie del terzo millennio.
5. Il dibattito attuale
Così come si presenta, ormai vicini all'inizio del terzo millennio, la disputa sul postmoderno ha perso il carattere polemico che caratterizzò nei primi anni ottanta la contrapposizione tra chi considerava il ‛progetto moderno' un progetto incompiuto (J. Habermas, ad esempio) e chi riteneva irreversibile il processo di deregulation messo in moto dalla ‛fine del proibizionismo', giudicando positivamente il quadro pluralistico che quest'ultima aveva aperto. Perduto il clamore polemico prodotto dalla volgarizzazione giornalistica, il termine ‛postmoderno' ha addirittura intensificato la sua presenza nelle trattazioni specialistiche delle varie discipline, sino a rappresentare uno dei concetti più efficaci della futurologia, poiché consente di accentuare gli elementi di novità della produzione culturale connessi con gli sviluppi della tecnologia - come l'avvento del ‛virtuale' e l'impatto del computer sulla ricerca e la rappresentazione - e al tempo stesso contribuisce a sottolineare un altro aspetto emergente della ‛condizione postmoderna', ossia quella ‛responsabilità verso il futuro' identificata come dato epocale dalla speculazione filosofica e sociologica. È da notare tuttavia come il campo in cui più forte è l'inerzia che impedisce di individuare strumenti adeguati per intervenire su una situazione così complessa e contraddittoria come quella postmoderna è il campo della politica. Nonostante l'eclissi delle ideologie, la parola ‛modernizzazione' è ancora l'insegna di una cultura politica che non sembra disposta ad accettare le lezioni della storia, né a prendere seriamente coscienza di una serie di problemi che non ammettono approcci riduttivi o semplificanti. E come potrebbe essere efficace una tecnica di intervento basata sulla univocità moderna in un mondo in cui la contaminazione, il rimescolamento, il bricolage hanno investito la nostra vita quotidiana, bombardando ogni giorno i nostri recinti culturali, le nostre gelose separazioni, facendo a pezzi tutti quei ‛concetti-barriera' che ci eravamo abituati a considerare come gli strumenti più efficaci di interpretazione storica?
Il dibattito sulla natura socioeconomica della civiltà postindustriale porta sì al dilemma registrato da Marcel Mariën tra tecnocrazia e decentramento, tra tecnocrazia e fisiocrazia (perché dopotutto potremmo giustamente rispolverare questo vecchio termine per riassumere il senso dei movimenti ‛verdi' e dei nuovi apocalittici); ma nella misura in cui questo dilemma rimane enunciato e non risolto, attraverso un tentativo di conciliazione o di mediazione, le ipotesi emergenti si collocano ancora in una prospettiva propedeutica, senza riuscire a cogliere il nucleo centrale della novità e specificità del tempo in cui viviamo. O, infatti, il nuovo spirito consiste nella capacità di comprendere la complementarità delle due ipotesi estreme, oppure saremmo, ancora una volta, in presenza della semplice rielaborazione di vecchi temi superficialmente aggiornati. In realtà la crisi di strumenti validi - in relazione all'esigenza di governare i nuovi processi produttivi e sociopolitici - è una crisi di semplificazione, di immotivata fiducia in vecchie categorie, mentre la soluzione dei problemi passa attraverso la capacità di affrontare la complessità senza ricorrere ai trucchi della decimazione e dell'univalenza.
Il tema riguarda anche i rapporti tra il mondo dello sviluppo, del progresso tecnologico fulmineo, e il mondo del sottosviluppo e della stasi. La società postindustriale potrà esserci solo a patto che i suoi modelli tengano conto della contemporaneità dei due mondi e della necessità di diminuire la loro differenza e la loro conflittualità.
Altrimenti, se lo sviluppo riguarderà, nei suoi ritmi e nelle sue compatibilità, soltanto il mondo privilegiato, inteso nella sua autonomia egemonica, vorrà dire che la crisi della società industriale non sarà servita a nulla, che la caduta delle ideologie, il crollo dei sistemi centralizzati, non avrà avuto alcun effetto benefico, che le possibilità di controllo offerte dai nuovi mezzi tecnologici non saranno state utilizzate in nessun modo, in altre parole che il nuovo spirito del tempo non è che il vecchio spirito delle illusioni progressiste rimesso a nuovo con qualche superficiale ornamento... postmoderno.
Nella descrizione dei sociologi, il futuro della società appare dominato dalla crescita smisurata dei colletti bianchi e dalla diminuzione progressiva delle tute; ma non è chiaro se il ruolo della ‛teoria', se il prodotto conoscitivo dei teams di ricerca, dei centri studi e delle università, sia destinato o meno a confrontarsi con le scelte dei cittadini, se vi sarà cioè una nuova politica o una sostituzione della politica con una scienza delle previsioni esercitata direttamente dai tecnici, di cui i politici diventerebbero una sorta di braccio secolare. La scienza a questo punto potrebbe divenire ciò che è stata per certi aspetti la religione nell'Occidente medievale, un ‛soprapotere' capace di generare una classe sociale privilegiata. D'altra parte, non è tanto il rapporto tra i colletti bianchi e le tute che può caratterizzare una società in cui i blue jeans hanno in qualche modo già unificato colletti e tute. L'elemento caratterizzante della società che si sta sviluppando sotto i nostri occhi sembra essere - oltre che l'appiattimento delle differenze di classe - la presenza di fattori unificanti dello scenario sociale che attraversano vecchie e nuove barriere e che, insieme ad aspetti negativi sempre enfatizzati, possiedono un potenziale di mutamento che non può essere ipotecato da una astratta negatività. La diffusione dei messaggi culturali, l'accesso sempre più aperto ai mezzi di comunicazione di massa, l'aumentata mobilità - insieme all'aumento dell'età media e alla diminuzione degli orari lavorativi - costituiscono una miscela di fattori esplosivi che i teorici e i tecnologi possono aiutarci a capire, ma che per essere interpretati nella direzione giusta hanno bisogno di una classe politica affrancata dai vecchi schemi e dalle vecchie illusioni oligarchiche, pronta a utilizzare tutti gli infiniti mezzi di conoscenza attuali per interpretare bisogni e desideri individuali in una sintesi umanistica, continuamente verificabile.
La ‛nuova politica' dovrebbe proporre alleanze stabili tra sapere e fare, tra il controllo degli strumenti analitici e la capacità di scegliere e di rischiare, assunta in proprio per evitare lo stallo, lo scacco mortale che comporterebbe una macchina politica dominata dalla burocrazia.
La macchina per governare, vaticinata dai teorici della ‛terza' rivoluzione industriale, solo superficialmente infatti può sembrare idonea a risolvere i problemi della società postindustriale, perché i nuovi mezzi di conoscenza, derivati dall'elaborazione dei dati, hanno messo sempre più in rilievo che tra le ‛simulazioni' dei calcolatori e le realtà più complesse permane uno scarto irriducibile. Ed è in questo varco di imprevedibilità che si colloca il bisogno di scelta, l'indelebile residuo dell'opzione umanistica, motore immobile di un meccanismo altrimenti pronto a incepparsi o a procedere impazzito verso esiti improponibili, contro l'uomo o, nel migliore dei casi, sordo ai richiami e ai desideri dell'uomo.
L'identikit dell'animale politico necessario per questo nuovo tipo di mediazione tra sapere e fare è ancora assai parziale e impreciso. Certamente l'ingrediente indispensabile diventa l'immaginazione politica, intesa come capacità di intuire e disegnare nuove possibili relazioni tra i fenomeni sociali messi a fuoco dagli strumenti analitici. La conoscenza dei dati, il pieno possesso dei linguaggi che lo rendono capace di accedere alle riserve di informazione fornite dagli apparati, è un altro ingrediente complementare al primo; ma a esso deve accompagnarsi un giusto grado di diffidenza nei confronti delle teorie parziali, elaborate dai tecnici volta per volta, una forte capacità storica di vedere il presente sullo sfondo del passato, non secondo le gerarchie fisse e il disegno ordinato della filosofia della storia, ma secondo l'ottica delle infinite storie sovrapposte e intrecciate, che forniscono indicazioni sempre parziali e provvisorie. Il tema della governabilità delle istituzioni dopo la caduta dei diversi simboli di autorità e la svalutazione dell'obbedienza è un tema tipico della nuova politica, che può essere risolto solo da chi non si illude che siano efficaci le politiche repressive o quelle lassiste, e ha il coraggio di tentare strade nuove in cui il momento della decisione rapida e accentrata in poche mani si alterni al momento del coinvolgimento e della consultazione democratica allargata.
Alla figura del nuovo politico è affidata indubbiamente anche la speranza di comporre e superare l'antinomia e l'incomunicabilità tra apocalittici e integrati, tra i profeti della nuova società postindustriale come società dei servizi e della tecnologia fine a se stessa e i profeti di una nuova fisiocrazia alla ricerca di nuovi equilibri tra uomo e natura, fisiocrazia disegnata con slancio e amore, ma senza gambe su cui possa sostenersi.
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