MONACHESIMO
di Vito Fumagalli
1. Lo spirito del monachesimo
Il fenomeno monastico appartiene, sotto forme diverse, all'intera storia della civiltà, costituendo un atteggiamento mentale mai tramontato e una corrispondente attitudine pratica volti alla scelta del vivere appartati, al rifiuto delle regole comuni della vita sociale ponendosi al di sopra delle medesime, e in generale alla lotta contro gli istinti e gli impulsi della carne, le sue debolezze e prevaricazioni. Non vi è religione positiva che non ne sia stata segnata, e spesso in profondità, così come lo sono stati i contenuti e la prassi dei culti cosiddetti popolari o folklorici. Nessun'altra storia, tuttavia, ne è stata altrettanto marcata quanto quella del Tibet, che arriva a configurarsi come un mondo quasi interamente monastico nella cultura, nella società, nelle istituzioni. Tuttavia, le differenti attuazioni del monachesimo (dalla parola greca μόνοϚ, solo), esplicatesi in molteplici regioni e in numerosi periodi storici, non hanno mai ignorato la sostanziale identità del contenuto cardine: la vita solitaria, di élite, potremmo anche aggiungere, che lo ha sempre contrassegnato.
Alle origini, nel territorio dell'Asia dove nacque il monachesimo occidentale, in quel Medio Oriente in cui vissero i suoi Padri, esso si caratterizzò come eremitismo largamente solitario, esprimentesi nel completo isolamento, nell'abbandono totale di qualsiasi forma associativa. L'uomo eremita (da ἔϱημοϚ, deserto) della Tebaide, la regione fra Tebe e il delta del Nilo, affrontava, nei lontani III e IV secolo dopo Cristo, la lotta con le proprie passioni e con il demonio, in un'eroica solitudine aggravata da un rigore penitenziale assai duro.
Dopo quegli inizi - di Paolo, Malco, Antonio - certo l'eremitismo non venne meno, pur traducendosi in forme aggregative magari limitate nel numero dei partecipanti, spesso costituite da piccoli nuclei di persone che non vivevano lontane le une dalle altre, anche se separate. Il lavoro non fu certo il loro scopo e nemmeno, quasi sempre, una pratica di vita, restando la penitenza e la preghiera le quasi uniche componenti di una condotta di vita rigorosamente osservata, che aveva influssi solo o quasi indiretti nei confronti della società e del mondo più vicino. Ma con il trascorrere del tempo nel territorio dell'Asia Minore emersero, ad opera di uomini come Pacomio, Basilio e Atanasio, altre modalità di concretizzazione della spiritualità monastica, e si ebbe l'ingresso, attraverso l'ultimo di essi, di tali nuovi orientamenti nell'Europa occidentale. Il mutamento più incisivo fu l'imporsi della vita comunitaria (cenobiti, da coenobium, comunità, appunto) nel senso pieno della parola, oltre che di una regola a cui tutti i monaci dovevano attenersi: il principio saldo della sedentarietà (l'obbligo di risiedere insieme e di non derogarne se non per motivi speciali), l'obbedienza all'abate, la partecipazione corale agli obblighi liturgici e alla mensa, il lavoro manuale e quello, privilegiato, della mente. Tutto questo è il frutto dell'impostazione che alla vita monastica conferì Basilio, venuto alla luce intorno al 330 in Cappadocia, a Cesarea. Atanasio di Alessandria, che passò alcuni anni in Occidente, a Treviri, nella prima metà di quel secolo, vi diffuse tali esperienze e ideali. Al di là, comunque, della volontà di osservare una regola, questa non fu certo unica, e perdurarono forme di vita monastica disancorate da saldi comportamenti, quando non addirittura devianti da principî e attitudini chiaramente monacali. È questa la caratteristica della lunghissima vicenda del monachesimo che ancor oggi dura e dà vita a continue sperimentazioni, novità o recuperi della tradizione.
La prassi che meglio concretizzò lo spirito del monachesimo cristiano orientale fu indubbiamente quella degli stiliti, anacoreti che trascorrevano l'intera vita su di una colonna. In condizioni fisiche e psicologiche di grave disagio, essi davano la forma più alta all'ideale di esistenza eroica che costituiva la sostanza più caratteristica di quel monachesimo. Uno stile, un modo, un'esperienza monastici che però davano talvolta adito a fenomeni di esibizionismo e, più spesso, di clamorosa, disumana superbia. Nei primi secoli di vita monastica tale pratica ebbe particolare vigore e diffusione, e i suoi adepti furono circondati da profondo rispetto e da sentimenti di timore. Il cenobitismo, che andava affermandosi sempre più con il passare del tempo, iniziò naturalmente a considerare con un senso di diffidenza, se non di estraneità, l'esperienza degli stiliti, come in genere le esperienze penitenziali più rigide. Le Vite dei Padri del deserto rappresentarono, però, per tutto il Medioevo una delle letture preferite dei monaci, e non solo di questi, proprio per lo spirito eroico che le contraddistingueva: Malco, Paolo, Antonio lottano da soli contro le grandi difficoltà di un ambiente ai limiti della vivibilità e nello stesso tempo contro il demonio. Famose le tentazioni di sant'Antonio, quell'Antonio abate che la cultura popolare occidentale ha trasformato in protettore degli animali, mentre in realtà le bestie che lo circondavano erano nella sua biografia le diverse forme che il demonio assumeva per spaventarlo e indurlo ai suoi voleri. Sibili di serpenti, ruggiti e grugniti di leoni e porci agitarono le sue notti insonni, superate solo grazie alla forza spirituale dell'uomo di Dio. In Oriente tentazioni e penitenze rappresentarono sempre, per il giovane monaco, i futuri strumenti di prova della sua capacità di vivere monasticamente, e tutto sommato colorirono, seppur non marcatamente, anche il monachesimo non orientale.
Lo spirito eroico portò anche a un altro modo di intendere la condotta degli eletti, cioè alla scelta di vagare solitari, affrontando pericoli di ogni genere e affidandosi unicamente alle proprie forze e all'aiuto divino. I sarabaiti, i famosi monaci vaganti, furono un grave problema sia per la salvaguardia di un certo modo d'intendere correttamente la vita monastica evitando esibizioni individualistiche e anarchiche, sia per i riflessi negativi che queste ingeneravano nei laici. La stabilità nel monastero, uno dei punti che maggiormente caratterizzarono le regole di Pacomio, Basilio e Atanasio, era diretta proprio contro i monaci girovaghi, restii a precetti e a regole, e nemici per eccellenza del cenobitismo. Eppure l'attrazione per il viaggio e la vita errabonda, lo sradicamento, restò nel profondo a sollecitare, di tanto in tanto, gli animi dei fratelli, soprattutto quando la vita comunitaria entrava in crisi perché contaminata con la vita del mondo, intrecciata con il potere o troppo presa dalle ambizioni della cultura. Insomma le grandi riforme, in Occidente e in Oriente, ebbero come precedenti fenomeni di ritorno sia dello stile di vita monastico individuale ed eroico, sia di quello, spesso legato al primo, che portava a scegliere un'esperienza fuori dalle mura del chiostro, alla ricerca di se stessi e di altri compagni, lontano da ogni comunità, religiosa o civile che fosse.
Dopo inizi ancora timidi nella loro configurazione, l'obbligo del lavoro fisico andò enucleandosi progressivamente come specifico impegno e severa, scientifica competenza, dovuta alla preparazione scolastica dei monaci, molti dei quali erano persone colte. Di qui nacque un intreccio profondo tra l'attività e la sapienza monacali: i grandi orti alimentari e farmaceutici ebbero origine dalla fusione tra detta attività e la conoscenza dei principî teorici dell'agricoltura. Non è, dunque, un caso se per tutto il Medioevo (ed entro certi limiti anche dopo) molti dei maggiori agronomi furono monaci. Il viridarium (verziere) divenne laboratorio di un'agricoltura sempre più sofisticata, come ci testimoniano in numero progressivamente crescente fonti scritte e iconografiche. Il legame con la società si poneva quindi, ormai quasi d'obbligo, nella proposizione di modelli agronomici monastici che non tardarono molto a entrare nella vita dei laici attraverso, o meno, il mondo dei chierici secolari. All'impulso al lavoro della terra, non dei soli orti, che veniva dall'ingiunzione della regola monastica s'univa la necessità di provvedere a se stessi con le proprie mani in ambienti dove l'agricoltura non esisteva o era praticata in modo sparso e contenuto. I codici manoscritti vennero via via arricchendosi di miniature legate a scene di vita agreste, e affreschi e mosaici subirono lo stesso destino sotto lo stimolo, anche, di una forte simbologia che contrassegnava il mondo vegetale. Certe erbe e piante furono privilegiate, e quando il simbolo già non esisteva, veniva cercato e individuato per conferire sacralità alla pianta. L'agricoltura deve molto a quei remoti monaci-contadini, e ancor più sarà loro debitrice quando, tra il IV e il VI secolo, le invasioni barbariche, con il loro corredo di guerre, carestie e pestilenze, ridussero a deserto vastissimi territori dell'Occidente. Qui soprattutto la città decadde e assunse nuove forme, nelle quali una rozza agricoltura si affermava all'interno e attorno alle cinte murarie, che spesso ospitavano alberi selvatici, prati naturali, stagni. Di più, l'economia prediletta dei Germani e degli Asiatici delle steppe, giunti nel cuore dell'Impero romano d'Occidente e rimastivi dopo la sua fine, era quella che noi chiamiamo silvopastorale, legata cioè all'uso del bosco con la caccia, il pascolo brado, la raccolta dei frutti selvatici. I monaci, molti dei quali erano d'origine non mediterranea o comunque non 'romana', condividevano tale predilezione e ne applicarono concretamente i contenuti, anche perché tale economia si andava ormai imponendo ovunque, superando quella agricola o bilanciandola validamente a seconda delle zone e dei tempi. Tuttavia i monaci restarono agricoltori; anzi, riportarono queste pratiche, insieme alla sedentarietà a esse necessariamente legata, là dove erano venute meno. I Dialoghi di papa Gregorio Magno, scritti a cavallo dell'anno 600, ci fanno comparire dinnanzi una folla di religiosi, monaci in larghissima misura, che coltivano la terra, non di rado in condizioni proibitive, spesso in lande abbandonate. L'abate Equizio si fa incontro al messo del pontefice con una falce in spalla e ai piedi scarpe chiodate per affrontare meglio la ripidità dei fondi che coltivava. Un secolo prima il vescovo di Nola, san Paolino, datosi come ostaggio in Africa al re dei Vandali per riscattare un prigioniero, aveva dichiarato che a corte non avrebbe potuto essere di alcuna utilità, a meno che non gli affidassero un orto. Vescovi, preti, diaconi e, soprattutto, monaci coltivatori ci sfilano davanti componendo una folla variopinta di uomini di Dio e nello stesso tempo contadini, ostinati riconquistatori di terre altrimenti votate all'abbandono. Dopo l'interminabile guerra tra Goti e Bizantini (532-553), le carestie, la peste detta di Paolo Diacono - che la descrisse verso la fine dell'VIII secolo, e della quale ci ha illustrato, tra gli altri, le devastanti conseguenze il contemporaneo Gregorio di Tours -, la calata dei Longobardi in Italia nel 568 o 569 e un'altra lunga guerra con i Bizantini, quando il re longobardo Agilulfo giunse alle porte stesse di Roma e Gregorio Magno lo convinse ad arretrare, toccarono il fondo, in Italia più che altrove, una società, un'economia, un paese provati fino al limite della sopravvivenza. Fu allora che il pontefice sentì il bisogno di guardarsi attorno per raccogliere segnali di speranza, e questi gli vennero in particolare da quei monaci laboriosi.
Rievangelizzare, ricolonizzare o colonizzare per la prima volta vasti territori dell'Europa furono esiti di incisivo rilievo nella storia monastica dei primi secoli del Medioevo e già del periodo tardo-antico. Tuttavia anche dopo, pur senza lo slancio e le dimensioni di allora, il monachesimo non dimenticò tale sua funzione. Soprattutto nell'Europa centrosettentrionale e orientale molte diocesi e archidiocesi nacquero o rinacquero da insediamenti monastici, si trattasse di abbazie, priorati o semplici, piccole dipendenze (cellae). Nella Francia settentrionale e nell'attiguo territorio germanico oltre trecento monaci ed eremiti, uomini e donne, diedero vita a un centinaio di monasteri e città solo nell'area compresa tra la Senna e il Reno. Da quelle sedi, che generarono centri urbani dotati di notevole vitalità, lungo le strade e il corso dei fiumi, essi sollecitarono in pieno IX secolo un'attività commerciale di ragguardevole portata, identificata attraverso reperti archeologici oltre che testimoniata nei documenti scritti. Ne ebbero vita centri urbani e preurbani (non tutti destinati a evolversi ulteriormente) di natura fortemente artigianale e commerciale: piccoli insediamenti, agli inizi, destinati poi a divenire grandi piazze di mercato. Le fiere della Champagne, famose nel Medioevo inoltrato e dopo, hanno le loro origini in quei secoli, anche se c'è da dire che non poche località avevano conservato qualcosa del loro carattere urbano anche dopo le ripetute scorrerie dei popoli orientali, particolarmente devastatrici nel territorio franco-tedesco del nord.Se tutto questo fu reso possibile, lo si deve, oltre che all'impulso spirituale del monachesimo, anche a una organizzazione sapiente nel campo amministrativo e nello stesso campo edilizio. La famosa pianta dell'abbazia di San Gallo, d'età carolingia, forse mai realizzata in pieno, ci fa conoscere le intenzioni di un grande progetto organizzativo, l'edificazione di una vera e propria città monastica, grandiosa anche nelle sue dimensioni. Lo spazio è occupato da edifici dotati ognuno della propria funzione e collegati strettamente tra loro. Il monastero, ormai, aveva raggiunto il culmine della fisionomia legata alla sua vocazione, con organi di governo, luoghi di preghiera e di culto, case per i monaci, i contadini e i numerosi artigiani, stalle e magazzini, in una cornice di autosufficienza. I due grandi inventari dell'abbazia di San Colombano di Bobbio, dell'862 e dell'883, dimostrano come si tendesse ad avere sul posto, lì prodotti, anche quei generi di prima necessità, come il sale, che un'epoca di difficili e disagiati commerci non poteva sempre assicurare: accanto alla sede principale, a Bobbio, nelle vicinanze immediate, erano le saline, acque ricche di sale dalle quali veniva ottenuto con l'evaporazione questo prodotto, che poteva integrare o sostituire, quando ve ne fosse bisogno, il sale marino che i mercanti di Comacchio erano tenuti a corrispondere al monastero risalendo il corso del Po.
Ogni monaco aveva la sua funzione nell'espletamento di tutti i compiti che una cittadella autosufficiente o quasi richiedeva: la stabilitas monastica aveva avuto la sua sanzione anche economica, definitiva nella volontà degli organizzatori. Al vertice della comunità l'abate, non solo nel grande ordine benedettino, sovrintendeva all'intero complesso delle esigenze dei suoi confratelli, anche se per molte di queste non agiva direttamente ma attraverso l'operato dei monaci a lui soggetti. Tra questi i compiti erano rigorosamente distribuiti, dal bibliotecario all'ortolano, dotato di una funzione primaria perché i monaci dovevano attenersi a una dieta che imponeva loro un alto consumo di erbaggi, e al cellerario, sovrintendente ai magazzini e custode del vino e dell'olio, ingredienti ambedue preziosissimi per l'alimentazione e il culto. L'olio era destinato, oltre che al condimento delle vivande (si pensi all'alto consumo dei prodotti dell'orto), a illuminare la chiesa e il resto degli edifici e dimore. Sarebbe troppo lungo elencare compiti e responsabili nella complessa organizzazione di un monastero: basti ribadire che questo assomigliò sempre di più, con il passar del tempo, a una cittadella, dove la popolazione subí un aumento per noi oggi quasi incredibile, dall'VIII secolo in poi, quando in una sola sede potevano esservi alcune centinaia di monaci e altrettanti o più servi domestici (o praebendari) con le loro famiglie. Gli atti pubblici (rapporti con altre sedi monastiche, dipendenti o meno, grandi e piccole; con chiese, capellae o plebes; con le autorità civili ed ecclesiastiche) erano stipulati dall'abate in persona. Anche quelli di natura privata (acquisti e affitti di immobili, terre e case, permute, donazioni e altro) erano contratti dallo stesso abate, a dimostrare l'organicità e l'unità di conduzione della grande, non di rado sterminata, azienda monastica. Sino al XII secolo i più grandi monasteri avevano proprietà su scala regionale e spesso interregionale, quando non addirittura internazionale, come l'abbazia di Tours che a cavallo dell'anno 800 aveva possedimenti sul lago di Garda. Anche questo esigeva l'unitarietà amministrativa, che crediamo sia stata la norma. L'intervento dei priori o preposti, in essa, si verificava solo in assenza o morte dell'abate o riguardava problemi e impegni di ordine inferiore. Nei confronti della nobiltà, spesso invadente, del re e dell'imperatore, di altri monasteri, di chiese, episcopali e minori, l'abate si tutelava, a iniziare soprattutto dal X secolo, servendosi di un advocatus che svolgeva funzioni giudiziarie. Con il tempo si formavano vere e proprie dinastie di avvocati, come del resto accadeva anche agli episcopi, soprattutto quando iniziarono i conflitti di proprietà e di giurisdizione con i centri cittadini, particolarmente vivaci e intraprendenti nell'Italia dei Comuni.
Ma già prima era necessario disporre di un personaggio potente ed esperto, che tutelasse una proprietà molto vasta e dislocata in regioni anche molto lontane. San Colombano di Bobbio nella seconda metà del IX secolo possedeva celle, luoghi di accoglienza (ξενοδοχεῖα, hospitalia), terre coltivate, boschi, foreste e paludi in molti luoghi dell'Italia settentrionale, dal Piemonte alla Liguria, alla Lombardia, all'Emilia, al Veneto, e altrove. San Silvestro di Nonantola ne aveva ovunque, da Torino a Firenze, all'Umbria, oltre che, naturalmente, nel cuore della pianura padana e sull'Appennino a essa prospiciente. Il monastero femminile di Santa Giulia di Brescia era proprietario di un insieme di terre e chiese e ospizi dalle Alpi allo spartiacque montano tra l'Emilia e la Toscana. Santa Maria di Farfa, nella Sabina, San Vincenzo al Volturno, Cava dei Tirreni e molti altri monasteri si trovavano in analoghe condizioni. Ancora più potenti non pochi monasteri d'Oltralpe, se non per la vastità dei possessi (che pure non raramente era eccezionale), per l'assenza totale o quasi, in molte zone, di potenti città che potessero contrastarli. Nessun monastero ha raggiunto in Europa la somma delle proprietà, delle giurisdizioni e del prestigio dell'abbazia borgognona di Cluny, fondata da Bernone attorno all'anno 910 e potenziata soprattutto dal primo vero grande abate, il suo successore Oddone, al punto che a cavallo del Mille Odilone venne detto rex Cluniacensis, a indicarne il potere e la fama. Le dipendenze di Cluny, dopo tale data, crebbero al punto da essere disseminate dall'Inghilterra alla Francia, alla Germania, all'Italia, alla Spagna, alla Polonia: un vero regno, al cui vertice stava l'abate della casa madre, che controllava, con vincoli di diversa natura, altri abati, priori, prevosti. Quasi un sogno monastico, Cluny, contrapposto all'ordine laicale, a qualsiasi altro regno, nella sua aspirazione a trasformare un numero sempre maggiore di uomini in monaci, sino a toccare punte di conversione monastica clamorose. Ciò avvenne quando, nella seconda metà del XII secolo, l'abate Ugo accolse il potente duca di Borgogna nel suo monastero come monaco e ne fu severamente rampognato dal papa, Gregorio VII, che pure era stato monaco a Cluny. Il papa gli rimproverò di aver privato la cristianità di un principe buono, uno dei pochi - mentre molti erano i buoni monaci - in un momento difficile per la Chiesa, quando era in corso la lotta per le investiture. Pochi anni prima, a Canossa, all'incontro tra il papa, sempre Gregorio VII, con l'imperatore Enrico IV, presente Matilde di Canossa, aveva partecipato come mediatore fra il pontefice e il sovrano quello stesso abate Ugo che poi avrebbe accettato in monastero il duca borgognone. La potenza di Cluny e del suo abate è ben riscontrabile in questo episodio, allorché il re e imperatore Enrico stentò a ottenere l'assoluzione papale, che ebbe soprattutto per la presenza mediatrice di Matilde e di Ugo.
Al di là delle Alpi, particolarmente in Francia e nei territori germanici (si pensi a Fulda, Reichenau, San Gallo, Paderborn, e altri), i monasteri, come si è già osservato, furono di norma più potenti che in Italia e nel Mezzogiorno d'Europa. Ma lo furono anche in quei territori in cui l'assenza di vescovi e di città all'altezza dei grandi metropoliti italiani e delle città nostrane e una nobiltà meno legata dall'intreccio di numerose famiglie permisero loro di affermarsi, se non nella grandissima proprietà, nell'influenza religiosa, ecclesiastica e politica. Questo avvenne anche nel Mezzogiorno d'Italia, dove l'abbazia di San Vincenzo al Volturno, nel Molise, ai limiti tra il Regno franco e il ducato-principato beneventano, non ebbe di fronte come vicini rivali né città né grandi famiglie nobiliari comparabili a quelle del nord. Così accadde anche all'abbazia di Santa Maria di Farfa, nella Sabina, per la quale si scrisse, a cavallo del XII secolo, che era difficile stabilire se fosse o no più ricca di quella di Nonantola. Ma la terra dei monasteri, in Occidente, fu quella al di là delle Alpi, quasi dovunque, anche se furono più potenti e prestigiosi i monasteri del centro e del nord. Un'abbazia come Cluny non ebbe eguali in tutta Europa e costituì la punta più alta nell'affermazione del monachesimo. Tuttavia molti altri centri (di alcuni abbiamo già detto) concorsero a formare un assetto ecclesiastico dilatato su spazi assai ampi, in forte competizione con gli episcopi, di cui frequentemente bilanciavano e più spesso superavano il significato. Lérins, fondata dall'orientale Cassiano nel V secolo, divenne la capitale aquitana di un numero considerevole di sedi dal sud al nord della Francia, sino ai suoi margini normanni. Non fu da meno Luxeuil, in Borgogna, edificata da san Colombano, centro del monachesimo celtico nel continente. Ambedue non tardarono ad accogliere - agli inizi solo parzialmente - la regola benedettina, che da Subiaco a Montecassino, eretti da San Benedetto e dai suoi discepoli, diffuse in ogni angolo d'Europa lo spirito realistico, umano ed elastico della propria cultura. Il lavoro è parte notevole della regola e dell'attività dei benedettini, ed essi ne dispiegarono la forza soprattutto nell'epoca della maggiore colonizzazione agricola, tra VIII e XII secolo, e anche in seguito, se pur con interventi di più limitata estensione (i tempi e le esigenze erano mutati). Nel Kent e in numerose altre parti dell'Inghilterra i benedettini, oltre alla fede cristiana, riportarono o introdussero l'agricoltura, superando in questo, nel primo Medioevo, l'incisività di altre istituzioni monastiche locali o vicine, come quella irlandese: Canterbury fu edificata dal monaco Agostino, inviato da Gregorio Magno, ma anche Westminster e Londra risentirono dell'operato suo e dei confratelli, spesso in conflitto con un potere ostile e una presenza ecclesiastica locale non amica; altre volte, invece, le culture si incrociarono non ostilmente e ne vennero risultati di particolare rilevanza, appunto per l'incontrarsi nel vivere cristiano di idee e forme diverse.Sostanziale differenza tra il monachesimo occidentale e quello del Medio Oriente (e dell'Oriente cristiano tutto) è ancor oggi una forma di vita ancorata, nel secondo, alla caratterizzazione originaria data dalla separazione dal mondo (basti pensare ai famosi monaci del monte Athos), oltre che dalla intensa preghiera e dalla penitenza. L'iconografia stessa ci rivela per i due mondi, ché tali sono anche nel nostro caso, nei volti dei confratelli, nella foggia dei vestiti, nelle attività cui sono dediti, forme di vita sostanzialmente diverse (anche se, nel fondo, l'appartarsi e il riflettere pregando costituiscono gli elementi forti comuni ad ambedue, pur variati e complicati, e non di rado mutati, a seconda dei tempi e dei luoghi). Le miniature medievali, in particolare dall'XI secolo in poi, e soprattutto in territorio francese, fanno sfilare davanti ai nostri occhi le figure dei monaci intenti al lavoro dei campi, arrampicati sugli alberi a sfrondarli e potarli, vestiti come i contadini del tempo; quando invece le icone contemporanee dell'Oriente esprimono negli occhi fissi e assorti la vocazione alla preghiera e alla contemplazione, più forte di qualsiasi altra attitudine. Miniature, affreschi, mosaici ci mostrano uomini diversi, in due società che si sono via via distinte, spesso radicalmente, con il trascorrere del tempo. La chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli venne imitata dall'omonima basilica beneventana, in quell'area del sud dove l'Oriente si faceva sentire, nell'VIII secolo, anche in zone di dominio longobardo. Così ci avviene di scorgere apertamente lo spirito monastico orientale a San Nilo di Grottaferrata, nella struttura degli edifici e nella ornamentazione della famosa abbazia. Per non dire delle chiese e dei monasteri di Roma. Ma sono stati gli scavi degli ultimi quindici anni, condotti sulle rovine del monastero di San Vincenzo al Volturno, nel Molise, a rivelarci - oltre alla presenza (e ben più che la presenza) dell'Oriente - un confluire estremamente variegato di culture nelle varie forme espressive artistiche. Grande abbazia del ducato beneventano, esso apparteneva, insieme al territorio in cui fu edificato, all'Impero dei Franchi dalla notte dell'anno 800. Porta fulgida di fronte all'Oriente greco e musulmano, San Vincenzo toccò l'apice della sua fioritura negli anni venti e trenta del IX secolo, in pieno periodo carolingio, seconda - pare - per la grandiosità della sua chiesa solo a quella del cenobio di Fulda in Germania, che a quel tempo era la maggior chiesa abbaziale d'Occidente. La lunghezza delle navate parzialmente riportate alla luce è eloquente. Ebbene, a San Vincenzo - nel cuore di quel Mezzogiorno interno che ancora poco conosciamo - i Carolingi vollero trasferire i loro migliori maestri, il massimo, forse, della loro cultura, come a mostrare al mondo orientale la propria faccia più splendida. Di più, la posizione del monastero, tra Arabi, Greci, Romani e Longobardi, portò quasi naturalmente alla ricchezza artistica composita e raffinata dell'abbazia, frutto dell'incrocio e della sovrapposizione di così vari e alti livelli culturali.
Se a San Vincenzo possiamo ammirare l'incontro delle diverse esperienze artistiche (e anche, ovviamente, sociali e istituzionali), è a Ravenna, e poi a Venezia, che l'Oriente e il suo monachesimo rifulgono nel massimo splendore; e, nell'estremo sudovest dell'Occidente, è nella Spagna musulmana, soprattutto nell'Andalusia, che ancora l'Oriente si ripropone, pur con altre forme e culture, in tanti notissimi edifici sacri: li possiamo ammirare ancor oggi tutti, da Venezia a Siviglia, a riprova che la sublimità dell'arte tende a travalicare il tempo e il suo potere.L'influenza che ebbe sulla società il monachesimo di ispirazione orientale fu diversa, ma non meno incisiva, di quella del monachesimo sorto e maturato in Occidente. Indubbiamente si trattò (e si tratta), come abbiamo visto, di una forma di vita sotto certi aspetti ispirata ad altre regole comportamentali. Però, pur essendo meno proiettata all'esterno, non si esauriva in una quotidianità solitaria già per il fatto stesso di proporsi come modello e, quindi, come punto di riferimento. La trasmissione della cultura antica, inoltre, ebbe nel monachesimo d'Oriente uno strumento non di rado superiore a quello che aveva trovato nel monachesimo occidentale, se non altro perché il primo si collocava come continuatore più diretto della tradizione greco-romana.
Meno conflittuale rispetto alla gerarchia ecclesiastica e al potere civile, il monachesimo orientale ebbe anche modo di svilupparsi in un'autonomia superiore e di realizzare all'interno del chiostro una maggiore perfezione, un maggiore distacco dal mondo. Ciò non significa affatto che questo distacco fosse totale, ma soltanto che i monaci orientali, o comunque i monaci ispirati alle loro esperienze religiose, svilupparono nei confronti della società una riflessione critica innegabilmente più forte, non di rado più efficace, di sicuro molto meno contaminata. Un'interiorità più profonda volle dire la difesa salda dei principî del monachesimo - quando non dell'eremitismo, più diffuso e sentito che nell'Occidente - ed ebbe come contropartita una presenza sociale e materiale meno incisiva, non dandosi esempi di cenobi dotati delle sterminate proprietà fondiarie di quelli d'Occidente. Nel contempo il monachesimo di stampo orientale subì un coinvolgimento politico e sociale più morbido, si mantenne più puro, nei limiti concessi dalle vicende, spesso turbinose, del Medioevo e delle epoche successive. Esso tuttavia spesso non esitò a contrastare anche clamorosamente il potere, sia laico che ecclesiastico: basti l'esempio di Cassiodoro e dei suoi rapporti con la monarchia gota.
Una cultura tradizionale più scaltrita ebbe per il monachesimo orientale ripercussioni notevoli sull'economia, in particolare quella agricola: sono famosi gli orti del monastero calabro di Vivarium, dove appunto visse Cassiodoro. L'orticoltura, questo tipo di coltivazione della terra intensivo, più ricco di interventi e sperimentazioni, fu prerogativa agricola per eccellenza dell'economia monastica, ma lo fu soprattutto di quella dei fratelli orientali. Nel Mezzogiorno d'Italia orti e giardini (spesso fusi in un'unica realtà) debbono molto ai monaci per la loro splendida fioritura e diffusione in un territorio, per di più, dove l'esperienza del cristianesimo monastico fu arricchita dalla vicinanza e dalla sovrapposizione della scienza agraria musulmana. Grandi creatori di oasi, gli Arabi (e i musulmani in genere) trasferirono e arricchirono tale esperienza nell'impianto di orti e giardini, in tutto il bacino mediterraneo e altrove. La Sicilia ne fu particolarmente beneficiata ed esemplarmente dotata di un'orticoltura tra le più famose. L'introduzione degli agrumi dal Medio Oriente diede il via a una realtà di lunghissima durata grazie soprattutto al secolare dominio degli Arabi nell'isola: di qui e dalle frange meridionali della Spagna, pure araba, tale coltura salì verso nord, giungendo in Italia sino al Lazio e toccando anche zone costiere, dove però ebbe carattere esclusivamente ornamentale. Gli agrumi, e altre specie importate dall'Oriente, uscirono dagli orti e riempirono le campagne, passando dal settore orticolo a quello dell'agricoltura vera e propria. Se ricordiamo che altre specie ancora furono introdotte in Italia dai monaci (una lunga tradizione culturale legava i cenobi dell'Oriente a quelli del sud europeo) ci avviciniamo a comprendere, tenendo conto della fusione di questi vari apporti, la peculiare fisionomia che la coltivazione della terra assunse nei paesi meridionali dell'Occidente a iniziare dall'VIII secolo, l'epoca della conquista araba della Spagna.
L'orticoltura e l'agricoltura, nata dalla prima, sono un fenomeno tipicamente urbano e appunto da ciò deriva l'impulso maggiore che esse ebbero agli inizi in aree dove la presenza della città si mantenne, tra tardo-antico e primo Medioevo, sostanzialmente vitale, ma anche in seguito, nelle zone dove l'afflusso di popoli dell'Europa settentrionale e delle steppe asiatiche incoraggiò l'insorgenza di pascoli, boschi e villaggi, che facevano parte del costume di vita di quei popoli. Piante alimentari, erbe medicinali e alberi ornamentali (molto più numerosi quelli provenienti dall'Oriente) si unirono alle nostre colture, dando vita a un'agricoltura ricchissima nella concentrazione delle specie vegetali degli orti, che in Occidente è venuta meno solo da alcuni decenni e non dovunque. La tendenza a privilegiare la coltura di maggior rendimento e minor costo è una politica economica che inizia con la nascita della grande proprietà fondiaria, già nel primo Medioevo. Gli stessi grandi monasteri non ne andarono esenti: basti pensare all'estensione delle colture cerealicole su spazi sempre più ampi, che assicurava un prodotto di primaria necessità e dalla commercializzazione anche allora tutto sommato agevole. Tuttavia una tecnologia agraria molto meno agguerrita imponeva la varietà delle coltivazioni, che poteva assicurare la riuscita di qualcuna di esse anche nel caso di avversità climatiche.
Il monachesimo fu attraversato, per tutto il Medioevo e oltre, da scosse riformatrici che, se da un lato erano volte a ristabilire lo spirito della sua genesi originaria, dall'altro si proponevano l'adeguamento ai tempi nuovi. Queste due componenti non concorsero sempre in eguale misura alle cosiddette riforme monastiche, che videro prevalere l'una o l'altra, a seconda dei luoghi e dei tempi. Esse furono, comunque, costantemente unite e il richiamo alle origini e al Vangelo non venne meno in alcuna circostanza. Nella prima metà del IX secolo l'aristocratizzazione del clero secolare e regolare sollecitò Benedetto d'Aniane a instaurare una regola in cui prevalse l'aspetto rigoristico e penitenziale; solo con il tempo la sua riforma smussò l'asprezza degli inizi, costituendo la premessa storica di ogni altro movimento riformatore, sia pure con modalità diverse. Un secolo più tardi l'esperienza individuale ed eremitica di Oddone, secondo abate di Cluny, era volta sia a sottrarre i monasteri al controllo del laicato, sia al ripristino della spiritualità e dell'austerità delle origini. Spesso si giunse a forme di contestazione della decadenza monastica che sfociarono non solo in vere e proprie ribellioni con le altre comunità religiose, ma anche in ribellioni alla gerarchia ecclesiastica e all'ordine costituito. Un fenomeno, questo, che affiancò l'eresia o addirittura vi sfociò apertamente ed ebbe la sua massima affermazione nel vivace e spesso convulso mondo della civiltà comunale italiana, pur non escludendosi altri focolai al di fuori della nostra penisola e soprattutto il suo debordare in ampie zone d'Europa. Ciò accadde, in particolare, nella travagliata storia del movimento francescano, a iniziare già dalla metà del XIII secolo, quando il fondatore dell'ordine era morto da poco. Fu, però, dal Trecento che la variegatura estrema delle iniziative monastiche, ortodosse o meno, toccò il punto più alto della sua diffusione, anche in rapporto alle conseguenze della crisi dei Comuni italiani, al formarsi sempre più deciso delle potenti monarchie europee, alle crisi sociali ed economiche che scossero tutto quel secolo e, pur a livelli diversi, il successivo.
La sollecitazione al ritorno alle origini, con un'accentuazione singolare della solitudine, dell'appartarsi, segnò le riforme dei camaldolesi e dei vallombrosani, insieme alla reazione, principalmente dei primi, a una società che, a cavallo del Mille, andava 'mondanizzandosi', e allo stesso monachesimo che ne subiva, con il clero secolare, l'influenza. Da ciò la scelta di luoghi solitari sui versanti montani tra l'Emilia e la Toscana. Non vi fu estraneo, certamente, il risorto anelito all'eremitismo, che tuttora caratterizza fortemente l'esperienza spirituale dei monaci camaldolesi. Tutto questo in un clima sia di rigorismo (si pensi a papa Silvestro II e all'imperatore Ottone III), sia di incipiente conflitto tra potere civile e potere ecclesiastico, alle soglie della lotta per le investiture. Ma, al di là di tutto ciò, nel dar vita a questi e ad altri movimenti riformatori contò anzitutto il cambiamento che investì, anche se in diverse misure e forme, la società dopo il Mille, nel passaggio dall'alto al pieno Medioevo. Un clima di fermenti cominciò a incrinare il mondo feudale, pur giunto a quell'epoca (XI e XII secolo) alla sua massima affermazione: rinascita vigorosa delle città, deciso enuclearsi delle autonomie nelle comunità rurali, rafforzarsi e dilatarsi dei traffici, vigoreggiare dell'artigianato, primo saldo imporsi delle monarchie feudali, e lo stesso radicarsi nel territorio della nobiltà, soprattutto al nord delle Alpi, dove essa si andava cristallizzando nelle forme della signoria bannale, contrassegnata da rapporti sempre più rigidi con i propri soggetti. Non ultimo, certamente, il riaccostarsi, ben più influente che nel passato, alla civiltà araba e bizantina. Le stesse crociate favorirono questi contatti e concorsero, per il tramite soprattutto del mondo islamico, all'ingresso incisivo nell'Occidente delle culture orientali e delle specifiche discipline coltivate dagli Arabi. È innegabile che una forte componente di razionalismo prese allora la via dell'Occidente: la Spagna musulmana, tra XI e XII secolo, ne fu l'espressione primaria, in cui si incrociarono le culture araba, cristiana ed ebraica. Ciò avveniva in un periodo in cui si sentiva un bisogno notevole di arricchimento scientifico, nella temperie nuova in cui le mentalità e le culture dotte si evolvevano verso l'approfondimento della conoscenza non solo filosofica, ma anche matematica e fisica. Il monachesimo prese posizione nei confronti di queste e altre novità e, nonostante chiusure forse più formali che sentite, in molti casi ne fu certo influenzato. I cistercensi, con la loro esigenza di ordine geometrico sia nell'apprestare i propri insediamenti che nell'organizzare il loro sapere e le stesse aziende fondiarie, dovettero molto, fra XII e XIII secolo, al sapere trasmesso, rielaborato o creato dalla cultura islamica. (V. anche Cristianesimo e Chiese cristiane; Religione).
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di Francesco Sferra
Il monachesimo è presente in misura diversa in quasi tutte le più importanti esperienze religiose e culturali orientali: nell'induismo, nel taoismo, nel bon e soprattutto nel buddhismo e nel jainismo, che sono religioni essenzialmente monastiche e sulle quali pertanto soffermeremo maggiormente la nostra attenzione.
È difficile determinare in quale momento il fenomeno monastico abbia avuto origine, poiché da fonti antiche sappiamo che eremiti e comunità di asceti, come quella degli Ājīvaka, erano presenti in India prima della predicazione del Buddha (VI-V secolo a.C.) e del contemporaneo Mahāvīra, il fondatore del jainismo, che dichiarò di essere il ventiquattresimo di una lunga serie di maestri, tra i quali il suo predecessore, Pārśvanātha, forse è esistito davvero circa due secoli e mezzo prima di lui. La comunità buddhista e quella jaina in un primo momento non dovettero distinguersi dalle varie comunità di asceti mendicanti, detti parivrājaka, che percorrevano l'India senza fissa dimora, ma allorché furono stabilite le rispettive regole monastiche e fissate le dottrine, esse assunsero una propria determinata fisionomia, che le portò nel corso dei secoli a influenzare in modo decisivo la cultura indiana e, nel caso del buddhismo, asiatica.
La storia del buddhismo, in particolare, è legata alla crescita della comunità monastica, alla sua organizzazione e al suo rapporto con la società. Le trasformazioni del monachesimo buddhista, che si è diffuso da Ceylon al Giappone, sono dipese dai cambiamenti dell'ambiente sociale oltre che da una graduale evoluzione interna; in tutte le regioni in cui esso è giunto, la comunità monastica non ha cessato di assimilare elementi autoctoni e di modellarsi sulla base delle società e delle culture con cui è venuta via via in contatto, al punto che si può parlare di un buddhismo thai, tibetano, birmano, coreano, vietnamita, lao, ecc. D'altra parte, è difficile immaginare la storia di molti paesi asiatici senza considerare il ruolo svoltovi dal buddhismo. Per alcuni di essi, come per il Tibet, si può addirittura affermare che gran parte della loro storia politica e sociale coincide con quella della comunità buddhista in essi presente.
Nonostante il ruolo politico e culturale sostenuto dal monachesimo in alcuni paesi e contesti storici, non bisogna dimenticare che alla vita monastica si riconosce una funzione essenzialmente morale e spirituale. Il monaco è sì nel mondo, ma sta in esso "come la goccia d'acqua sul loto" (Suttanipāta, 392), con il suo esempio e con l'insegnamento trasmette al mondo i valori etici e spirituali sui quali i laici sono chiamati a basare la propria esistenza. Da questo punto di vista l'influenza del monachesimo nella società è rilevante ed è testimoniata, ad esempio, dal fatto che in certi paesi buddhisti (Cambogia, Thailandia, ecc.) ancora oggi è in uso, tra i giovani laici di ogni ceto sociale, divenire monaci per un tempo determinato allo scopo di raggiungere una piena maturità umana e spirituale.
In Oriente esiste un rapporto di reciproca dipendenza tra i laici e i monaci: i primi manifestano riconoscenza e devozione nei confronti dei secondi rispettando l'antica usanza indiana di provvedere ai bisogni materiali (cibo, vesti, ecc.) dei monaci e degli asceti di tutte le tradizioni spirituali, permettendo loro di non lavorare per vivere e di dedicarsi a tempo pieno allo studio e all'ascesi. In effetti, bhikṣu (pāli, bhikkhu), la parola sanscrita che traduciamo con 'monaco', significa letteralmente 'mendicante'. In cambio i laici accumulano meriti spirituali e ricevono insegnamenti. Ciononostante, esistono alcune sette che con il tempo hanno riconsiderato questo aspetto della disciplina: i monaci della setta viṣṇuita Svāminārāyaṇa, ad esempio, vivono dei propri guadagni; molti abati pongono grande attenzione ai loro investimenti, cercando di dipendere sempre meno dalla generosità via via minore dei devoti, mentre all'interno del buddhismo, la tradizione cinese Ch'an (giapponese, zen) prevede espressamente il lavoro manuale come elemento indispensabile del cammino spirituale. In ossequio alla prima regola enunciata da Pai-chang (720-814): "Un giorno senza lavorare è un giorno senza mangiare", i monaci zen svolgono per lo più lavori nei boschi, nei campi, nelle fattorie, ecc., senza riguardo per il proprio livello gerarchico.
Tra gli strumenti che favoriscono la crescita spirituale tutte le tradizioni religiose attribuiscono un posto di grande rilievo alla regola monastica. Essa in primo luogo cerca di conservare il più possibile alto il livello della moralità di tutti gli appartenenti alla comunità: la vita dei monaci è fissata nei minimi particolari per garantire la disciplina dei singoli mediante la disciplina collettiva, favorendo tra l'altro il mutuo sostegno ed evitando situazioni di scandalo. La regola costituisce un fattore di coesione all'interno della comunità: non è un caso, ad esempio, che sin dagli inizi - e ancora oggi in alcuni paesi - i monaci buddhisti residenti in uno stesso luogo manifestino la loro unione celebrando insieme il rito dell'uposatha (sanscrito, upoṣadha) (v. Dutt, 1924, pp. 107-108) a ogni cambiamento di luna (due volte al mese). Dopo una predica rivolta ai laici dal più qualificato dei religiosi, tale rito prevede che questi ultimi si riuniscano tra loro per recitare la regola monastica e per procedere alla confessione pubblica (alla quale non è escluso che nei primi tempi partecipassero anche i laici). Nei giorni dell'uposatha, inoltre, si raccomanda ai laici di digiunare come i religiosi, di andare ad ascoltarne gli insegnamenti e di rispettare alcune restrizioni: rinunciare all'uso di profumi, di unguenti, di ghirlande, ecc. e non assistere a spettacoli di danza, di canto e teatrali.
La regola delle scuole buddhiste è codificata nel Vinayapiṭaka ('Canestro della disciplina'), la prima delle tre raccolte di testi in cui è suddiviso il Canone. Non si può determinare con esattezza il momento in cui la tradizione orale fu fissata per iscritto, ma è presumibile che già nel I secolo d.C. esistessero diverse raccolte di Scritture e che ognuna delle scuole nelle quali si era suddivisa la comunità buddhista possedesse un proprio canone. La determinazione di quale fosse il comportamento più consono ai religiosi fu certamente il frutto di un lavoro di analisi e di sintesi che coinvolse diverse generazioni di monaci e che comportò il confronto di posizioni differenti. Sebbene una prima fissazione orale delle regole disciplinari e della dottrina si ebbe nel primo concilio buddhista tenutosi a Rājagṛha, dopo la morte del Buddha (avvenuta secondo gli storici occidentali intorno al 480 a.C.), contrasti interni si accesero ben presto tra i monaci, prima ancora del grande scisma tra gli Sthavira ('anziani') e i Mahāsāṅghika ('appartenenti alla Grande Comunità'), avvenuto intorno al 340 a.C. a Pāṭaliputra (odierna Patna); scisma che, secondo alcuni studiosi, segnò l'inizio della tradizione buddhista che va sotto il nome di Mahāyāna ('grande veicolo') e che si venne delineando in modo più chiaro all'inizio dell'era cristiana. Per quanto concerne la disciplina (vinaya), si può ricordare che nel 377 a.C. (386 e 367 secondo altri), durante il secondo concilio buddhista tenutosi a Vaiśālī, si verificò uno scisma poiché alcuni monaci, chiamati Vṛjiputraka (da Vṛji, loro terra d'origine), avrebbero voluto inserire nelle regole del vinaya dieci norme (tra le quali quella di accettare oro e argento) considerate lassiste dal resto della comunità. Perfino il Buddha fu oggetto di critiche da parte di alcuni discepoli capeggiati da Devadatta, suo cugino. Il dissenso, che la tradizione attribuisce unicamente all'invidia di quest'ultimo, riguardava la condotta dei monaci: secondo Devadatta essi non avrebbero dovuto dormire in città o villaggi né accettare inviti nelle case dei laici, si sarebbero dovuti vestire solo di cenci, avrebbero dovuto dormire unicamente all'aperto e, infine, attenersi a una dieta strettamente vegetariana (cfr. Saṅghabhedavastu, vol. II; v. Gnoli, The Gilgit manuscript of the Saṅghabhedavastu, 1978, pp. 204, 259).
Il Vinayapiṭaka ebbe molte versioni codificate in un arco di tempo piuttosto ampio e oggi possediamo, completi o in frammenti, i codici monastici di sei scuole (v. Dutt, 1960, pp. 77-79), che tuttavia non differiscono sostanzialmente tra loro. Solo il vinaya dei Theravādin, che è stato redatto in pāli nel I secolo a.C. a Śrīlaṅka (ma che è stato elaborato oralmente in un tempo molto antico), ci è pervenuto nella sua interezza in lingua originale, mentre degli altri possediamo frammenti o antiche traduzioni in tibetano o cinese.Il nucleo più antico del Vinayapiṭaka, il Pāṭimokkha (sanscrito, Prātimokṣa), comprende un elenco analitico delle prescrizioni e dei divieti cui devono sottostare i monaci (le monache devono osservarne un numero maggiore; v. Wijayaratna, 1990², p. 141), le sanzioni comminate in caso di infrazione, che per i fatti più gravi prevedono l'espulsione dalla comunità (saṅgha), e il relativo formulario di confessione. Pare che anticamente il Pāṭimokkha includesse 150 regole (v. Dutt, 1924, pp. 92-93), ma il loro numero si è accresciuto ed è variato nel corso del tempo e da scuola a scuola, da un minimo di 218 a un massimo di 263 (v. Dutt, 1960, p. 70). Il Pāṭimokkha dei Theravādin, ad esempio, che è tuttora studiato e messo in pratica nei paesi del Sudest asiatico, è diviso in otto sezioni, nelle quali vengono esaminate rispettivamente 4 infrazioni che determinano l'esclusione dalla comunità (coito, furto, omicidio, falsità), 13 mancanze che comportano una pena (masturbazione, contatto con donne, ecc.), 2 regole per giudicare i casi incerti, 30 infrazioni circa l'uso degli oggetti (abito, scodella, ecc.), 92 mancanze minori (bugie, offese, ecc.), 4 infrazioni circa il modo di ricevere il cibo, 75 regole di buon comportamento e 7 regole per risolvere i problemi all'interno della comunità.
A parte i cinque precetti comuni a tutti i buddhisti (non uccidere, non rubare, non mentire, non commettere adulterio e non fare uso di sostanze intossicanti), è prescritto che i monaci pratichino il celibato e la castità, rinuncino ai piaceri del mondo, come la partecipazione a feste e spettacoli, osservino la povertà (di norma posseggono solo tre abiti, una ciotola, un rasoio, un ago e un filtro per l'acqua) e si nutrano in genere una sola volta al giorno (entro le dodici) del cibo che viene donato loro dai laici. L'offerta di cibo e, secondariamente, di vesti, d'alloggio, di mobilio, di fiori, ecc. costituisce per i laici un impegno inderogabile e, come si è accennato, un merito; i monaci, da parte loro, contraccambiano con il dono della predicazione della dottrina, considerato ben più prezioso. Nel corso dei secoli, specie nel Sudest asiatico, la vita dei monaci è rimasta pressoché fedele alle regole austere fissate dal Vinayapiṭaka. A tale proposito è interessante la testimonianza di Gasparo Balbi, un mercante veneziano che visitò le Indie Orientali alla fine del XVI secolo e che riguardo ai monaci buddhisti (da lui chiamati talapoi secondo la lingua mon) incontrati in Birmania scrisse: "Detti talapoi caminano per la città con una pignatta attaccata alla cintura, cercando il vivere, del quale trovano in abbondanza, perché sono tenuti da quelle genti santi nella lor legge e sono come i nostri frati religiosi ed ancora essi predicano della lor legge ogni lunedì della settimana; nel qual tempo si levano a buon'hora, andando per la città con percuotere alcune batiche [bacili] per risvegliar le genti, che facciano lor da mangiare e che vadano alla predica, la qual finita c'hanno, si mettono a cantar e poi licentiano le genti, le quali se ne ritornano alle lor case. Detti talapoi nelle prediche loro non ricordano se non che non debbano esser homicidiali, robbatori, adulteri né offendano il prossimo. [...] E le stanze di tali talapoi sono ne' boschi con case fatte assai in alto per timor delle tigri e non mangiano se non una volta il giorno e vanno vestiti di una vesta lunga fino a meza gamba di color rovano [giallo ruggine] e non si calzano in piedi alcuna cosa, né portano in testa alcuna sorte di cappelli o berrette, ma vanno rasi nella testa, nella barba e in ogni altra parte del corpo loro. Si cingono una cintura di cuoio larga quattro dita e sopra la spalla destra una stola sopra posta traversa sotto il fianco sinistro fino alla cintura. Sogliono per il cocente sole portar un sombrer coperto di bambace [tessuto di cotone] rovana chiara e l'inverno a tempo di pioggia portano un aggiron [mantello] per rispetto dell'acque. Servano castità continuamente e nell'andar vanno assai modesti" (cit. in Pinto, 1962, p. 202).
Il Vinayapiṭaka dei Theravādin è diviso in tre parti: la prima, detta Suttavibhaṅga, illustra appunto le regole del Pāṭimokkha destinate ai monaci e alle monache (rispettivamente nel Bhikkhuvibhaṅga e nel Bhikkhunīvibhaṅga), descrive i fatti che determinarono storicamente la nascita delle singole regole e le situazioni nelle quali sono previste delle attenuanti per chi viene meno alla disciplina. La seconda parte, detta Khandaka, è divisa a sua volta in due sezioni, il Mahāvagga e il Cullavagga, e può essere considerata come una continuazione o un supplemento alla precedente; vi è inserito un certo numero di racconti edificanti sulla vita del Buddha, una narrazione (probabilmente aggiunta in un secondo momento) dei concili di Rājagṛha e Vaiśālī e vi sono descritti gli eventi che hanno portato alla formazione del Saṅgha e le norme generali che regolano la vita dell'istituzione monastica: le cerimonie, le azioni da svolgere quotidianamente, l'abbigliamento, i medicamenti, le procedure di riappacificazione tra i monaci, i principî igienici da osservare meticolosamente e i criteri di ammissione nell'ordine. In merito a questi ultimi è interessante notare che la vita monastica è da sempre aperta a tutti, tranne a coloro che potrebbero turbare l'ordine della comunità, come i criminali, o che sarebbero incapaci di seguire la regola, a coloro che hanno gravi malattie nervose (epilessia, ecc.) o della pelle e ai bambini non autorizzati dalla famiglia. Si diviene novizi (śrāmaṇera, navaka) dopo aver preso rifugio (śaraṇa) nel Buddha, nel Dharma (Legge) e nel Saṅgha e dopo l'ordinazione minore, detta pravrajyā (pāli, pabbajjā; tibetano, rab tu 'byung ba, 'uscita'); quindi si trascorre un periodo sotto la guida di un religioso più anziano ed esperto. Con l'ordinazione maggiore, detta upasaṃpadā, si è monaci a tutti gli effetti e si ha il diritto di partecipare al rito dell'uposatha. Ma l'ingresso nell'ordine non è definitivo: si può abbandonare l'abito ed eventualmente riprenderlo. L'ultima parte del Vinayapiṭaka, detta Parivāra (o Parivārapātha), è forse opera di un monaco singalese, che riassunse in 19 capitoli un certo numero di regole disciplinari sotto forma di domande e risposte.
Grande importanza riveste anche il Vinaya dei Mūlasarvāstivādin, che ci è pervenuto per gran parte nella versione originale redatta in sanscrito e integralmente in traduzione tibetana (la sua traduzione in cinese, avvenuta tra il 700 e il 712 d.C., è incompleta). Esso non solo fu alla base di moltissime scuole del buddhismo Mahāyāna, che si diffuse soprattutto nell'India del nord e nella Cina, ma fu anche l'unico codice monastico ad essere tradotto in tibetano, tra l'VIII e il IX secolo d.C. Non è un'opera omogenea, ma un aggregato di testi appartenenti a epoche diverse e successivamente riuniti. È probabile che sia molto antico, forse addirittura precedente al regno di Kaniṣka I (144-167 d.C.), e sembra contenere elementi che lo farebbero ritenere precedente ai Vinaya di altre correnti (v. Gnoli, 1977, pp. XX-XXI).Ci sono pervenute opere molto antiche composte in sanscrito, connesse al Vinaya di alcune scuole dell'antico buddhismo indiano; tra questi testi (mai tradotti in tibetano) ricordiamo, ad esempio, il Mahāvastu, l'Abhisamācārikā, il Bhikṣunīvinaya dei Lokottaravādin, lo Śrīghanācārasaṃgraha (di cui possediamo anche una Ṭīkā o 'commento') e il Prātimokṣasūtra dei Mahāsāṅghika. Le opere più importanti per quanto riguarda la disciplina Ch'an a noi pervenute sono il Ch'an men kuei shih del 1004 e il Ch'an yüan ch'ing kuei del 1103, entrambe in cinese. L'ultima, in modo particolare, è importante per il carattere sistematico con cui tratta l'argomento e perché fece da modello per tutti i codici successivi, cinesi e giapponesi (v. Collcutt, 1983, p. 168).
La regola monastica jaina, detta kalpa o sāmācārī, tramandataci da fonti antiche come i Mūlasūtra e i Chedasūtra (v. Deo, 1960, pp. 6-9), stabilisce che i monaci osservino in modo assolutamente radicale e incondizionato i cinque 'grandi voti' (mahāvrata). I primi quattro, analoghi a quelli osservati dai buddhisti, sono ahiṃsā (non nuocere), asatyatyāga (non mentire), asteya (non rubare), brahmacarya (castità assoluta). Essi costituivano già la regola fondamentale dei Nirgrantha, 'gli svincolati', la comunità di monaci e laici fondata da Pārśvanātha. Il quinto dei mahāvrata, il divieto di possedere alcunché (aparigraha), è stato introdotto da Mahāvīra. Il primo e più importante scisma, che determinò le due grandi divisioni della comunità e che perdura tuttora, avvenne a causa di una diversa interpretazione di questo quinto voto. Secondo la tradizione, in occasione di una carestia verificatasi nel Bihar durante il regno di Candragupta (III secolo a.C.), il patriarca Bhadrabāhu si sarebbe trasferito a sud, nel Dekkan, insieme a una parte della comunità, dopo aver incaricato il suo discepolo Sthūlabhadra di occuparsi di quelli che restavano al nord. Costoro convocarono un concilio a Pāṭaliputra per raccogliere tutti i testi sacri che fino ad allora erano stati tramandati oralmente e per fissare il Canone. Quando, dopo dodici anni, gli emigrati tornarono dal Dekkan, entrarono in contrasto con i confratelli rimasti nel Magadha, che avevano scelto di indossare un abito bianco, rinunciando alla nudità. La tensione tra i due gruppi, che non riguardava solo la disciplina ma verteva anche su alcuni aspetti del rituale e su questioni dottrinali, si prolungò per parecchie generazioni e nel 79 a.C. la rottura tra i due orientamenti divenne inevitabile: la comunità si scisse in śvetāmbara ('vestiti di bianco') e digambara ('vestiti d'aria'). Questi ultimi negavano che potessero raggiungere la liberazione (mokṣa) in questa vita coloro che non rispettavano la nudità totale o che non potevano rispettarla (come le donne, a cui non era concessa), rifiutavano alcuni elementi della biografia di Mahāvīra (per esempio, che egli fosse stato sposato, che avesse avuto una figlia, ecc.) e, infine, non riconoscevano l'autenticità del Canone che gli śvetāmbara avevano fissato e che tramandavano oralmente. Gli śvetāmbara, dal canto loro, indissero un secondo concilio a Valabhī nella seconda metà del V secolo d.C., sotto la protezione del re Dhruvasena, per stabilire la redazione definitiva del Canone e metterlo per iscritto.
Il risultato fu che ai monaci venne concesso di possedere pochissime cose: tra queste una ciotola per raccogliere il cibo elemosinato, un pezzo di stoffa per filtrare l'acqua, un bastone da viandante e, talvolta, un libro che simboleggia il maestro assente. Vi sono alcuni oggetti che caratterizzano in modo particolare i monaci jaina e che mostrano come l'ahiṃsā sia per loro il principale dei mahāvrata: una scopa detta rajoharaṇa, con cui vengono rimossi i piccoli insetti che potrebbero essere calpestati durante il cammino (con il buio i monaci non possono neanche spostarsi per paura di nuocere loro), e una piccola mascherina detta mukhavastrikā, che evita l'ingestione delle piccole creature.
Le regole disciplinari fanno sì che nella giornata del monaco nulla sia lasciato al caso. Il praticante di stretta osservanza, ad esempio, non può dormire per più di tre ore (e può farlo solo steso in terra o su una superficie dura), non può avere cura del proprio corpo, non può accendere il fuoco, può muoversi solo a piedi, può mangiare solo alcuni cibi vegetariani ricevuti in elemosina, che siano avanzati a laici fedeli alla dottrina jaina e che non siano stati preparati appositamente per lui, deve ispezionare le sue vesti per liberare eventuali piccoli insetti, ecc. Nell'Uttarajjhāyā (XXVI, 12 ss.) leggiamo: "Nella prima parte del dì il monaco deve studiare, nella seconda meditare, nella terza andare in giro per la questua, e nella quarta di nuovo studiare. Nel primo quarto della prima parte del dì deve ispezionare le sue cose, riverire il superiore, indi dedicarsi allo studio senza lasciarsi turbare da nulla. Nell'ultimo quarto della prima parte deve ispezionare la sua scodella [...] la sua pezzuola [...] il suo vestito. Nella terza parte del dì deve mendicare cibo e bevanda [...] Nella quarta parte del dì deve riporre la sua scodella, indi dedicarsi allo studio che rivela ogni cosa esistente. Nell'ultimo quarto della quarta parte del dì deve riverire il maestro [...], indi ispezionare il suo alloggio. Il monaco zelante deve anche ispezionare il luogo dove evacuare e orinare; di poi praticare il kāyotsarga [meditazione silenziosa] fino a che il sole tramonta, senza lasciarsi turbare da nulla. Deve poi riflettere metodicamente sulle trasgressioni che ha commesso durante il giorno in rapporto alla conoscenza, alla fede, alla condotta [...] Deve ordinatamente confessare le colpe commesse durante il giorno. Nella prima parte della notte il monaco deve studiare, nella seconda meditare, nella terza dormire, nella quarta di nuovo studiare. Nell'ultimo quarto della quarta parte della notte deve riverire il superiore [...] praticare il kāyotsarga [...] riflettere sulle trasgressioni commesse durante la notte [...] confessare le colpe" (cit. in Della Casa, 1962, p. 74). Le monache (che vivono separate dai monaci) devono osservare regole più severe di quelle a cui sono sottoposti gli uomini, poiché si ritiene che la loro natura le renda più esposte alle tentazioni e meno capaci di fronteggiarle. I digambara addirittura non accettano le monache, la cui nudità considererebbero scandalosa; essi stessi, alla presenza di altri, usano coprirsi con un cencio.I cinque mahāvrata sono accompagnati da altre prescrizioni, che nell'insieme rappresentano la disciplina preparatoria all'ascesi. Si tratta del controllo (gupti) delle attività di corpo, parola e mente, dell'attenzione scrupolosa (samiti) a non nuocere ad alcun essere vivente, dell'osservanza dei dieci doveri (dharma) propri dei monaci, tra cui pazienza, povertà, ecc., della riflessione (anuprekṣā) sulla transitorietà dell'esistenza e sulla via per la liberazione, della sopportazione (parīṣahā) di pene e disagi e, infine, della retta condotta (cāritra). L'ascesi si presenta in due forme: una interiore, che presuppone degli esercizi yogici di concentrazione progressiva, che permettono l'accesso a stati superiori di coscienza, e una esteriore, che comporta, tra le altre cose, l'assunzione per tempi più o meno lunghi di posizioni scomode (vietate alle donne) e il digiuno temporaneo. Una pratica caratteristica e piuttosto comune, la cui esecuzione è però lasciata allo zelo individuale e sottomessa all'approvazione del maestro, è il suicidio per inedia, la saṃlekhanā, l'unica forma di morte volontaria ammessa.
Ogni giorno i monaci e i laici debbono recitare sei formule, dette āvaśyaka, che contengono il voto di evitare ogni atto riprovevole, la lode dei 24 Tīrthaṃkara (Mahāvīra e i suoi predecessori) e del proprio maestro, la confessione, l'introduzione alla meditazione silenziosa e, infine, la rinuncia a cibi e bevande non indispensabili. Fu Mahāvīra a rendere obbligatoria la confessione (pratikramaṇa), ancora facoltativa nella comunità fondata da Pārśvanātha, e a raccomandare la nudità come mezzo di mortificazione. Contravvenire alle regole comporta una punizione che viene impartita dal capo della comunità; essa può consistere nella privazione di cibo, nello svolgimento di esercizi supplementari e, nei casi più gravi, nella retrocessione (paryāya) nella gerarchia monastica o addirittura nell'esclusione dalla comunità.
Anche nel jainismo l'accesso alla comunità monastica è molto facile e non vigono limitazioni di casta o di razza. È necessario aver compiuto sette anni e mezzo, avere un fisico capace di affrontare le difficoltà di una vita di sacrificio, essere mentalmente sani e privi di impedimenti esterni, come la mancata autorizzazione dei genitori o del tutore, oppure debiti in sospeso con la giustizia. Il noviziato dura quattro mesi, durante i quali in assoluta obbedienza si è al servizio di un monaco più anziano, detto 'maestro' (guru), che ha il compito di istruire il discepolo (śiṣya) nella disciplina e nelle Scritture. La consacrazione, che viene impartita fuori dal centro abitato dopo una processione, consiste nella rinuncia agli oggetti personali, nella tonsura (cūḍākarma; anticamente vigeva lo strappo dei capelli secondo l'esempio di Mahāvīra), nell'assunzione di un nome nuovo e, infine, nel giuramento di osservare i cinque mahāvrata, ai quali se ne aggiunge talvolta un sesto: non bere né mangiare dopo il tramonto. Al buio, infatti, come ricorda Hemacandra (1088-1172), un famoso poligrafo e monaco jaina, potrebbero ingerirsi inavvertitamente dei piccoli insetti (Yogaśāstra, III, vv. 48-54).
Nell'induismo l'esperienza monastica si inserisce nell'ambito più ampio dell'ascetismo ed è propria di numerose sette viṣṇuite, śivaite e śākta. La figura dell'asceta (sādhu) non presenta caratteristiche fisse: egli può essere un monaco che vive in comunità e osserva la castità e la povertà, così come può essere sposato, vivere nomade o solitario. Anche se la vita itinerante è tenuta in maggior considerazione dai codici monastici di tutte le sette, la scelta tra vivere senza una fissa dimora e risiedere in un monastero o altrove (muovendosi solo eccezionalmente per pellegrinaggi o altri motivi religiosi) è riservata al sādhu al momento dell'iniziazione. I monasteri sono luoghi aperti ai visitatori laici e religiosi, in essi si può risiedere continuamente o recarsi solo di passaggio. Qualunque tipo di vita scelga, ogni sādhu è tenuto comunque ad osservare regole comuni a tutti gli asceti: deve compiere atti di purificazione, come la pratica del digiuno in determinati giorni dell'anno, e atti di adorazione, deve studiare le Scritture e accrescere la propria conoscenza della letteratura settaria, deve consolare gli afflitti, diffondere una cultura religiosa con la parola e l'azione e impegnarsi nel servizio sociale aprendo scuole e ospedali e aiutando i poveri e i bisognosi (v. Tripathi, 1978, pp. 16-17).
Tra le diverse sette e tra gli individui stessi ricorrono atteggiamenti differenti nei confronti di alcuni aspetti della disciplina: per esempio, nonostante la maggior parte delle scuole segua una dieta vegetariana, alcune non ne riconoscono la necessità (v. Tripathi, 1978, pp. 138-139; v. Briggs, 1973², p. 45); taluni asceti fanno uso di sostanze intossicanti come la cannabis indica, il tabacco e gli alcolici; alcuni si lasciano crescere i capelli e la barba, altri si radono completamente (anche le ascelle e la regione pubica); la raccolta dell'elemosina può avvenire mediante una richiesta passiva o sotto forma di compenso per un'azione compiuta (canto, insegnamento, ecc.) o, in rarissimi casi, per mezzo di un'estorsione (v. Tripathi, 1978, p. 101).
Osservando gli asceti si può riconoscere la loro setta di appartenenza dalla veste e dagli ornamenti indossati (collane, bracciali, orecchini, ecc.). In generale, i viṣṇuiti portano vestiti bianchi, o gialli se osservano il celibato; gli ścivaiti hanno una veste color zafferano, mentre gli śākta, gli Svāminārāyaṇa e gli Ānandamārga indossano un abito rosso. Come i digambara jaina, coloro che osservano la nudità totale usano coprire i genitali quando si presentano in società. Un segno di riconoscimento caratteristico delle scuole induiste è costituito dai disegni colorati (tilaka) che gli asceti sono soliti dipingersi sulla fronte: gli aderenti alle scuole viṣṇuite presentano linee verticali, quelli delle scuole ścivaite orizzontali (in entrambi i casi sono possibili molte varianti).
Nell'ambito del taoismo l'istituzione monastica non è mai divenuta la regola e ha riguardato invece solo una piccola parte del clero. I 'dignitari del Tao' (taoshih) infatti furono, per la grandissima maggioranza, dei laici e obbligatoriamente sposati. Il monachesimo rappresentò "un'eccezione che, in quanto tale, ci permette di constatare che, più importante del modo di vita, è la funzione liturgica a definire la situazione del tao-shih, il suo ruolo in quanto specialista dei riti in seno alla società. Essere dignitari del Tao è anzitutto una funzione sociale" (v. Schipper, 1982; tr. it., p. 72). Non mancarono tuttavia scuole che raccomandarono la vita monastica, per esempio quella del Ch'üan-chen, che, originaria della Cina del nord, estese la sua influenza su tutto il paese nel corso del XVI e XVII secolo. Le istituzioni monastiche taoiste che conosciamo erano molto simili a quelle del buddhismo: nei grandi centri, come Paiyün-kuan a Pechino o il Lo-fou-shan presso Canton, i religiosi rispettavano cinque regole disciplinari simili a quelle dei buddhisti e come questi ultimi si affidavano a un triplice rifugio. Dopo aver preso i voti e assunto l'abito monacale erano obbligati, inoltre, a lunghi periodi di ritiro, durante i quali recitavano i libri sacri.
Era costume in tutta l'India che i religiosi, monaci ed eremiti, fossero itineranti e che solo nel periodo delle piogge (giugno-settembre) conducessero una vita sedentaria e spesso comunitaria. I monaci jaina, ad esempio, originariamente potevano soggiornare in un medesimo luogo da uno a cinque giorni e, solo in casi eccezionali, potevano restarvi un mese o due. Con l'andar del tempo, quasi in tutte le scuole si ebbe il passaggio graduale dalla vita errabonda a quella sedentaria e comunitaria secondo un processo simile a quello che avvenne nel monachesimo egiziano ad opera di Pacomio.
Una delle principali ragioni che condussero alla fondazione dei monasteri è da individuare nella necessità di accumulare in luoghi comuni i beni che venivano donati dai laici e che i singoli monaci non avrebbero potuto possedere, ma che dovevano essere accettati e custoditi, affinché i donatori ne ricevessero meriti spirituali. Il monastero aveva il vantaggio di costituire un importante punto di riferimento per la comunità, di essere un luogo in cui conservare i testi sacri e le reliquie, svolgere i riti, impartire insegnamenti, praticare gli esercizi spirituali e organizzare attività caritative. Inoltre, esso poteva sopperire più efficacemente ai bisogni di quei monaci (e laici, specie negli ultimi decenni) desiderosi di impegnarsi in una pratica meditativa intensiva, individuale o collettiva, più o meno prolungata. Non mancano brani in cui si danno indicazioni sulle norme da osservare nell'edificazione degli ambienti adatti a questo scopo, che potevano trovarsi nel monastero stesso o nelle sue vicinanze. Lo yoga, leggiamo nella Haṭhayogapradīpikā, un testo induista del XV secolo d.C., "dovrà svolgersi in una cella privata grande quattro cubiti, priva di pietre, fuoco e acqua, dotata di un piccolo ingresso, priva di incrinature, fessure o cavità, né troppo alta né troppo bassa, ben intonacata con sterco di vacca, pulita, priva di qualsiasi insetto, ornata all'esterno da un pergolato, una veranda e un pozzo e circondata da un recinto" (I, vv. 12-13). Alle volte la costruzione di un monastero è il risultato di lunghe ricerche astrologiche, la sua architettura mira a rappresentare simbolicamente la complessa realtà dell'universo visibile e invisibile, come mostra la pianta a forma di maṇḍala del monastero di bSam-yas presso Lhasa, il primo costruito in Tibet, nella seconda metà dell'VIII secolo.
I vihāra in cui inizialmente si riunivano le comunità buddhiste non erano ancora dei veri e propri cenobi, ma piuttosto delle capanne, o luoghi di rifugio, che venivano erette in un parco (ārāma) il più delle volte messo a disposizione da un laico benestante o da un re; il parco veniva spesso recintato e tenuto in ordine da un sovrintendente, detto ārāmika, pagato dal donatore. Con l'andar del tempo questi luoghi divennero sempre più grandi per rispondere alle esigenze dell'accresciuta comunità; in genere comprendevano una sala per la meditazione e una per le riunioni, gli alloggi per i monaci e, naturalmente, i locali necessari alla vita comunitaria: cucine, magazzini, refettorio, biblioteca, piscine, bagni, pozzi, ecc., nonché sale per l'insegnamento, una pianta di Ficus religiosa che richiamava l'Albero del Risveglio del Buddha e talvolta un'infermeria, cappelle e santuari (caitya) in cui venivano adorate le immagini del Buddha e uno stūpa, un tumulo contenente reliquie, che simboleggiava la presenza del Maestro. Il ripresentarsi di questi elementi fissi non implica che la fisionomia del monastero fosse rigidamente determinata: nella disposizione dei vari ambienti e nella loro conformazione architettonica si osservano delle variazioni nel tempo, da luogo a luogo e anche da monastero a monastero. Si pensi, ad esempio, che a Ceylon alcuni cenobi moderni sono sprovvisti dello stūpa (v. Bareau, 1957, p. 11), che pure costituisce l'oggetto primario del culto buddhista. La maggior parte dei monasteri edificati in India furono distrutti e depredati dai musulmani nel XIII e XIV secolo; ma di alcuni, come quelli di Ellora e Ajaṇṭā, che erano scavati nella roccia, è ancora possibile ammirare la magnificenza.
Il passaggio alla vita cenobitica ha comportato una notevole trasformazione sia nell'organizzazione interna della comunità, sia nella relazione tra questa e la società. Durante i primi secoli dell'era cristiana i principali monasteri indiani cominciarono a effettuare il prestito a interesse e l'affitto dei beni di proprietà: terre, campi, botteghe, ecc. Simili attività vennero intraprese anche in altri paesi buddhisti. In Corea, ad esempio, i cenobi del X e dell'XI secolo erano veri e propri centri commerciali specializzati, tra l'altro, nella produzione del tè e nella distillazione dei liquori. In Cina, i monasteri accumulavano ricchezze anche attraverso le vendite all'asta di beni e le lotterie. Questa disponibilità economica ha permesso il sostentamento delle comunità monastiche, l'ampliamento e l'abbellimento di monasteri e santuari e ha reso possibile la realizzazione di capolavori artistici di grande bellezza (come i dipinti di Ajaṇṭā, le statue di Buddha a Sārnāth e a Mathurā e lo stūpa di Barabuḍur in Indonesia), alla costruzione dei quali parteciparono spesso sia monaci sia laici per ottenere meriti spirituali.
Non c'è dubbio che l'accrescimento del potere economico dei monasteri si accompagnò in taluni casi a un indebolimento del vigore spirituale dei monaci e determinò conflitti di interesse sul piano politico. Il fasto raggiunto, ad esempio, durante la dinastia Tang (618-907 d.C.) da molti monasteri, che avevano impoverito le riserve auree e di altri metalli dello Stato cinese, la sottrazione di manodopera al lavoro dei campi per destinarla alla realizzazione dei monasteri e opere d'arte e la necessità di impedire che la popolazione ricorresse all'ordinazione religiosa per sfuggire al fisco, al servizio di leva e alle corvées furono i motivi principali che spinsero nell'845 d.C. l'imperatore Wu-tsung a perseguitare la comunità buddhista e a ordinare la confisca dei beni e la distruzione della maggior parte dei circa 4.600 monasteri e 40.000 istituzioni minori presenti sul suo territorio. Nel Tibet in un primo momento i monasteri entrarono in contrasto soprattutto con le antiche famiglie feudali che sentivano minacciato il loro predominio. In effetti, dopo la fondazione dell'importante monastero di bSam-yas e soprattutto sotto il regno di Ralpa-can (815-838 d.C.), che stabilì che ogni monaco dovesse essere mantenuto da sette famiglie, i monasteri buddhisti acquistarono grandi privilegi e accrebbero sia il loro numero sia la loro influenza in campo economico e politico. Oltre alle rendite dei terreni agricoli, delle mandrie e delle greggi, i monasteri beneficiavano delle donazioni. A questo si aggiunga che anche in Tibet essi erano esenti dal pagamento dei tributi e che i monaci non dovevano prestare servizio militare. Con la seconda diffusione del buddhismo, e in particolare a partire dal XIII secolo, gli scontri politici in Tibet coincisero di fatto con la lotta tra le diverse scuole in cui si era divisa la comunità buddhista. Dal XVII secolo in poi si assistette all'egemonia della setta dei Ge-lugs-pa, guidata dai Dalai Lama, che fu sottomessa con violenza nel 1959 dai Cinesi. L'ordinamento politico di questa scuola prevedeva che il Dalai Lama fosse coadiuvato da un gabinetto di quattro membri (tra i quali almeno un monaco), che nelle province ogni funzionario laico dovesse essere affiancato da uno religioso, che i problemi economici, giudiziari, ecc. riguardanti i monaci fossero trattati da un'amministrazione distinta da quella civile, alla quale avrebbe dovuto essere affidata anche la nomina dei funzionari religiosi e l'amministrazione dei tesori dello Stato.I monasteri svolsero (e in alcune zone svolgono tuttora) un ruolo fondamentale anche dal punto di vista della promozione culturale. Talora si trattò di veri e propri centri di attività ecumenica, dove si studiavano sia le dottrine buddhiste sia quelle eterodosse, si diffondevano opere e idee nuove, si traducevano, copiavano e conservavano manoscritti. Nelle lamasserie tibetane, per esempio, furono intraprese importanti opere di traduzione e di catalogazione delle Scritture e dei loro commenti. Nel XIII secolo a sNar-thang, un monastero del Tibet centrale fondato nel 1153, fu realizzata un'imponente raccolta di testi buddhisti, quasi tutti tradotti dal sanscrito, suddivisi nei due grandi gruppi del bKa'-'gyur (Kanjur), contenente le opere ritenute espressione della parola del Buddha, e del bsTan-'gyur (Tanjur), contenente trattati esegetici e filosofici, testi liturgici, mistici, ecc. L'opera svolta a sNar-thang fu alla base dell'enorme lavoro di revisione e ordinamento dei testi del Canone buddhista tibetano, portato a termine da Bu-ston (1290-1364), celebre storico e abate del monastero di Zha-lu.
L'insegnamento che veniva impartito nei centri indiani di Nālandā, Vikramaśīla, Odantapura, ecc. era destinato ai novizi e ai giovani (anche i laici in certi casi ne potevano beneficiare) e abbracciava i più svariati campi del sapere. Il monastero di Nālandā, che fu fondato durante il regno di Kumāragupta I (ca. 414-455 d.C.) e distrutto agli inizi del XIII secolo, fu la prima e la più famosa delle università buddhiste: ad essa giungevano studenti da tutta l'Asia, specie dalla Cina, e vi studiarono maestri celebri come Dharmakīrti (VI secolo d.C.) e Śāntideva (VIII-IX secolo d.C.). Hsüan-tsang, un pellegrino cinese che visitò l'India nel VI secolo d.C., osservò: "Vi sono migliaia di istituzioni in India, ma nessuna paragonabile in grandezza a Nālandā. Vi sono ivi diecimila studiosi che studiano non solo la letteratura buddhistica in tutte le sue ramificazioni, ma anche altre opere, quali i Veda (compreso l'Atharvaveda), la logica, la grammatica, la medicina, la filosofia del Sāṃkhya, ecc. Le lezioni sono quotidianamente impartite da cento cattedre. La pietà di generazioni di re non solo adornò il luogo con edifici magnifici, comprendenti dimore e sale per le lezioni, ma fornì tutto il materiale necessario a sì vasto concorso di maestri e discepoli. A questo fine sono state devolute le rendite di circa cento villaggi, nei quali duecento proprietari si avvicendavano a fornire i bisogni quotidiani dei residenti" (cit. in Gnoli, 1973, pp. 104-105).Comunità tanto grandi richiedevano un'organizzazione ben strutturata. Fu necessario istituire nuove cariche che si aggiunsero a quelle già previste dalla comunità antica. Dopo la morte del Buddha, il Saṅgha ebbe un carattere essenzialmente 'democratico' (v. Dutt, 1924, pp. 141-146), l'obbedienza era richiesta solo per il periodo del noviziato e l'anzianità era l'unico criterio di distinzione tra i monaci anche se, naturalmente, esistevano ruoli particolari: alcuni conservavano a memoria il Vinayapiṭaka, altri i Sutta, ovvero i discorsi del Buddha, altri ancora erano esperti di questioni dottrinarie. In risposta alle nuove esigenze della comunità, si dovette dar vita alle figure dell'abate, dell'intendente, del direttore dei lavori, del professore, del censore, ecc. e si delineò un ordinamento gerarchico, complesso e articolato, soprattutto nei monasteri maggiori (v. Tucci, 1970; tr. it., pp. 166-188).
Per secoli i monasteri (specie quelli ubicati nelle città e nei villaggi) furono gli unici centri ad assicurare servizi sociali e culturali di primaria importanza. In essi avvenivano i contatti e gli scambi tra i dotti, si praticava la medicina e la farmacia, si custodivano le lettere e le arti, si forniva ai laici un'istruzione scolastica. La letteratura vietnamita dall'XI al XIV secolo, ad esempio, è opera quasi esclusivamente di monaci e sviluppa solo temi religiosi. Nei paesi del Sudest asiatico prima della nascita della scuola pubblica era soprattutto grazie alle pagode se l'analfabetismo era quasi sconosciuto tra i maschi (v. Zago, 1985, pp. 81-86). La diffusione del buddhismo in Mongolia (iniziata nel XIII secolo) comportò cambiamenti profondi non solo nella vita economica e sociale, ma anche nella letteratura e nella lingua, che si arricchirono rispettivamente di opere religiose e profane e di termini nuovi necessari a tradurre adeguatamente dal tibetano i testi del Kanjur e del Tanjur. Tra le opere caritative svolte dai monasteri buddhisti in Cina durante la dinastia Tang è degno di nota il mantenimento di ospedali e orfanotrofi (v. Kenneth, 1976, pp. 228-229).
Intorno al X secolo d.C. anche i monasteri indù, diffusi in tutta l'India, assunsero una grande importanza non solo come centri di spiritualità, ma anche come istituzioni sociali che si prendevano cura dei bisognosi e come luoghi di cultura. I monasteri dei tre ordini dello Śaivasiddhānta, che presero il nome dal loro luogo di origine, furono i centri di formazione di molti precettori reali. Dall'ordine degli Āmardaka, la cui sede principale era a Ujjayinī, provennero i precettori della dinastia dei Kākatīya del regno di Andhra; dall'ordine dei Māttamayūra i precettori della dinastia dei Varmā del Punjab e di quella dei Pratihāra e Paramāra dell'India centrale. Alla dinastia Paramāra appartenne Bhoja (XI secolo), uno dei teologi più importanti dello Śaivasiddhānta. I precettori della dinastia dei re Kalacuri dell'India centrale provenivano dall'ordine dei Mādhumateya. Grazie al favore dei loro patroni reali (il più celebre è Avanivarman della dinastia Cālukya, IX secolo), i monaci dello Śaivasiddhānta propagarono le loro dottrine nei regni vicini e, in modo particolare, nell'India del sud, dove comunità śivaite sono ancora presenti. Da Māttamayūra, l'antica capitale dei Cālukya, essi fondarono monasteri nel Mahārāṣṭra, nel Koṅkaṇa, nel Karṇāṭaka e nel Kerala. In alcune regioni sono stati invece i monasteri viṣṇuiti ad assumere un ruolo cruciale nella preservazione e nello sviluppo della cultura. Si può affermare, ad esempio, che la cultura dell'Assam, per quanto concerne l'arte (danza, musica, pittura, ecc.), l'educazione e la letteratura, dall'inizio del XVI secolo fino all'avvento della dominazione inglese, si è sviluppata soprattutto nei centri viṣṇuiti fondati dalle comunità che si richiamavano all'insegnamento di Śaṅkaradeva (XV-XVI secolo d.C.) (v. Goswami, 1988, pp. 175-222).
Uno dei primi a riorganizzare la vita ascetica indù in forma monastica fu Śaṅkarācārya (788-820 d.C.), famoso maestro dell'Advaitavedānta e capo dei dieci ordini di asceti detti Dashnami (v. Ghurye, 1964², pp. 82-97). Egli fondò personalmente quattro monasteri (maṭha): lo Śṛṅgerimaṭha, nell'odierno Stato del Mysore, che affidò alla direzione di un suo discepolo chiamato Mandana; il Govardhanamaṭha a Purī, nell'Orissa, che esiste ancora oggi; lo Śardamaṭha a Dvārakā, nel Gujarat e, infine, il Jyotirmaṭha a Badarīnāth, nell'Himālaya. Altri monasteri furono fondati successivamente ed è possibile che un quinto maṭha sia stato istituito dal maestro a Kāñcī (v. Cenkner, 1983, pp. 109 ss.). Nel corso dei secoli questi grandi maṭha adottarono regole precise di affiliazione e di organizzazione e si differenziarono dagli antichi eremi delle foreste per il loro ordinamento di tipo 'monarchico', presieduto in genere da un samnyāsin, o rinunciante. Essendo luoghi deputati all'educazione dei giovani (vidyāpīṭha), vi si trovavano, così come nei monasteri moderni, un tempio, una biblioteca e una scuola. Nel passato l'insegnamento era impartito da maestri consacrati, che convivevano con i loro studenti; attualmente, invece, gli insegnanti sono prevalentemente brahmani laici, che abitano fuori dal monastero e, di conseguenza, intrattengono rapporti meno stretti e continuati con i loro allievi (sempre esclusivamente maschi). Ancora oggi è praticato il sistema tradizionale di apprendimento, secondo il quale la comprensione dei testi segue la loro memorizzazione, ottenuta a sua volta attraverso la recitazione collettiva e ripetuta delle opere. Il corso base dura dai sette ai dieci anni e prevede lo studio del sanscrito, della letteratura, della grammatica e dei Veda, oltre che della logica, dell'astrologia e della filosofia della Mīmāṃsā e del Vedānta. Gli studi filosofici più avanzati durano altri sei o sette anni. In alcuni maṭha vengono svolti anche corsi di storia, matematica, geografia e lingue moderne.
La setta tantrica dei Kānphaṭayogin, i seguaci del famoso maestro śivaita Gorakhnāth (XI secolo d.C.), possiede numerosi monasteri, alcuni molto importanti, che spesso occupano luoghi in cui già anticamente risiedevano comunità di religiosi. In questi cenobi si può trovare un tempio dedicato a Śiva o alla Dea (devī) o ad altre divinità, oltre che la tomba (samādh) o il reliquiario del fondatore del monastero o di qualche altro eminente insegnante, le tombe di numerosi yoghin e uno o più ostelli (dharamśāla) per mendicanti o visitatori. I centri principali sembrano più o meno indipendenti l'uno dall'altro e in un rapporto paritario, anche se, generalmente, la sede più importante dei Kānphaṭayogin a nord è ritenuta il monastero di Ṭilla, nel Punjab, mentre a sud è il monastero di Gorakhpur. L'insieme dei cenobi è sottoposto alla supervisione di un organo detto Bhek Bārah Panth, che è composto da dodici rappresentanti provenienti ciascuno da una delle dodici sette (panth) in cui si suddividono i Kānphaṭayogin. Tale organo svolge una funzione di controllo e di consultazione nell'elezione degli abati (mahant) e nella soluzione di controversie. I suoi membri sono eletti durante una grande assemblea che si riunisce ogni dodici anni, alla quale partecipano migliaia di yoghin provenienti da tutti i monasteri; il Bhek Bārah Panth è presieduto da un monaco scelto a rotazione da una delle dodici sette, che assume la funzione di capo di tutti gli yoghin (yogeśvara).
La vita all'interno del monastero comprende l'adorazione delle reliquie, l'insegnamento e la meditazione. Molto tempo viene dedicato alla conversazione e di rado si ricorre alla questua, poiché in generale le donazioni spontanee di cibo e le rendite del monastero garantiscono la sussistenza. I discepoli più anziani si occupano di insegnare ai seguaci più giovani gli elementi della dottrina e della pratica. L'abate dirige le varie attività del monastero, istruisce gli yoghin sullo yoga e sulla disciplina ascetica, amministra e salvaguarda i beni della comunità. La carica di abate può acquistarsi per decisione di un concilio, per autorità o per successione ereditaria; nell'ordine gerarchico seguono poi il guru o maestro, lo yoghin e i novizi.
Anche la comunità jaina era, ed è, organizzata in modo piuttosto articolato al suo interno. Essa viene denominata caturvidhasaṅgha ('comunità quadripartita'), poiché comprende quattro gruppi di persone: monaci, monache, laici e laiche. La direzione spirituale è affidata ai monaci che, depositari della dottrina, svolgono il loro ufficio di insegnamento esponendo e commentando le Scritture con prediche all'aperto o negli upāśraya, centri in cui la comunità si rifugia durante il periodo delle piogge. L'insegnamento letterale spetta all'upādhyāya (o paṇḍita presso i digambara), mentre quello approfondito all'ācārya (o pravartinī presso le monache). Ogni aggregato di credenti riconosce in una di queste figure l'autorità competente non solo nell'interpretazione di luoghi difficili e controversi della dottrina, ma anche nelle questioni disciplinari.I laici assumono un potere e un'importanza maggiori che nel buddhismo. Essi riconoscono ai monaci una preminenza negli uffici propriamente religiosi (come il diritto di presiedere ai riti più solenni) e nell'impartire l'insegnamento, ma si riservano di controllare l'attività e la moralità dei fratelli consacrati, eventualmente allontanandoli dalla comunità. In alcuni casi, essi possono praticare la saṃlekhanā (v. sopra, cap. 2) e, esercitandosi in determinate pratiche ascetiche, possono accedere attraverso undici gradi detti pratimā a uno stato considerato meritorio, simile a quello monastico, ma più esposto alle tentazioni del mondo.
Il jainismo non è mai uscito dall'India, dove si è diffuso molto presto. Già al tempo di Bhadrabāhu sembra che comunità jainiche fossero presenti nel Bengala e nell'Orissa. Il Dekkan fu occupato soprattutto dai digambara, mentre il Gujarat e le zone dell'Ovest dagli śvetāmbara. Entrambe le scuole si compiacciono di menzionare tra i propri adepti molte principesse e molti regnanti, tra cui anche Aśoka Maurya (268-233 a.C.), che favorì enormemente la diffusione del buddhismo. In realtà, sebbene non mancassero re che cercarono di instaurare uno Stato jainico - nel caso di Kumārapāla (1143-1172) nel Gujarat, arrivando ad imporre a tutti i sudditi una dieta strettamente vegetariana e proibendo la caccia e la pesca, in assoluta obbedienza al principio dell'ahiṃsā -, è molto probabile che nella maggior parte dei casi si trattasse della semplice e benevolente tolleranza che i regnanti erano soliti assicurare a tutte le comunità religiose. (V. anche Buddhismo; Induismo; Jainismo; Shintoismo).
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