Mediterraneo, mondo
di Berardo Cori
Mediterraneo, mondo
sommario: 1. Il mondo mediterraneo come 'regione' della Terra. 2. Qualche mutamento fisico, lento ma non impercettibile. 3. L'evoluzione economica. 4. Cambiamento demografico, migrazioni e mescolanze culturali, qualità della vita. 5. La trasformazione insediativa. 6. Le nuove tendenze geopolitiche e geoeconomiche.□ Bibliografia.
1. Il mondo mediterraneo come 'regione' della Terra
Nell'incessante processo che ha ridisegnato le grandi unità regionali del mondo, si è venuta sempre più affermando, negli ultimi decenni, la nozione di 'regione mediterranea', peraltro di antica tradizione. Uno spazio dalla superficie relativamente modesta, nell'insieme poco più densamente popolato della media mondiale, ma collocato nel cuore del continente antico e a cavallo fra tre delle tradizionali 'parti di mondo' - Europa, Asia e Africa - che ne sono storicamente le più illustri; tale spazio, pur assai diversificato sotto vari punti di vista, è però unito da un complesso sistema di relazioni, pacifiche o conflittuali, ma comunque ben radicate storicamente, mai interrotte nel tempo, continuamente rinnovate nelle loro modalità.
Non esiste una nozione di mondo mediterraneo universalmente accettata: essa infatti varia secondo la prospettiva adottata. In senso stretto, e stando ai canoni della geografia fisica, la regione mediterranea può essere definita come l'area che manda le sue acque correnti al Mar Mediterraneo, delimitata quindi da una linea orografica di 'spartiacque'; oppure come lo spazio circoscritto dal limite biogeografico (e al tempo stesso, naturalmente, climatico) della coltura dell'ulivo, identificata come pianta mediterranea per eccellenza (v. King e altri, Unity, ..., 2001, p. 2). Tuttavia, per evidenti comodità pratiche e statistiche, trova sempre maggiore accoglienza una definizione basata sui confini degli Stati che si affacciano sul Mediterraneo, esclusi tradizionalmente quelli del Mar Nero e incluso invece, sempre per tradizione, quel Portogallo che è idrograficamente atlantico ma climaticamente e biogeograficamente mediterraneo: ventuno paesi in totale, per una superficie complessiva di circa 8,6 milioni di kmq, pari a un po' meno del 5,8° delle terre emerse (naturalmente senza contare i 2,5 milioni di kmq che rappresentano la superficie acquea del 'Mare' Mediterraneo). Ma va sempre tenuto presente che questa cifra finisce per includere, per non spezzare assurdamente unità politiche statuali, da un lato vastissime aree desertiche dell'Africa settentrionale e, in minor misura, del Vicino Oriente, dall'altro tutta la Francia atlantica: spazi che, per ragioni opposte, non hanno assolutamente niente di mediterraneo.
Su questo territorio vive una popolazione di circa 435 milioni di abitanti (dato del 2000), pari grosso modo al 7° dell'umanità, di cui 201 milioni (46°) negli undici Stati europei (Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Iugoslavia, Albania, Grecia, Malta), 94 milioni (22°) nei cinque asiatici (Turchia, Siria, Libano, Israele, Cipro) e 140 milioni (32°) nei cinque africani (Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco). Le previsioni a breve termine sono per il raggiungimento del mezzo miliardo di abitanti nel 2010.
Per completezza, va notato che risulta esclusa dal novero dei paesi mediterranei la Macedonia, unico Stato della ex Iugoslavia che non ha sbocco al mare; mentre fanno indiscutibilmente parte della realtà mediterranea sia il territorio (dominion) britannico di Gibilterra (6 kmq, con 25.000 abitanti) - rivendicato dalla Spagna e con la prospettiva di un futuro possibile 'condominio' su di esso fra Regno Unito e Spagna (trattative e sondaggi al riguardo sono iniziati nel 2002) - sia l'Autorità Nazionale Palestinese, che si sovrappone a quella di Israele sulla striscia di Gaza e in alcune città della Cisgiordania (6.000 kmq, quasi 2 milioni di abitanti). Tale Autorità, pur non costituendo uno Stato, ha partecipato o aderito ad alcuni rilevanti atti internazionali relativi al mondo mediterraneo, come la Dichiarazione di Barcellona (v. cap. 6); nella prospettiva, per ora quasi utopistica, di una vera pacificazione tra Palestinesi e Israeliani, essa rappresenta in qualche misura l'embrione di un possibile Stato palestinese da affiancare, come ventiduesimo Stato mediterraneo, a quello ebraico. Va infine ricordato che Cipro risulta tuttora suddivisa de facto tra la Repubblica Cipriota, che è riconosciuta dalla comunità internazionale e ospita quasi i 3/4 della popolazione dell'isola, e una Repubblica Turca di Cipro del Nord, riconosciuta solo dalla Turchia.
Da quanto si è detto sopra, emerge il fatto che il mondo mediterraneo affianca alla sua indiscutibile 'unità' altrettanto chiari elementi di 'diversificazione'. La suddivisione in 'sponda settentrionale' (europea), 'sponda orientale' (asiatica) e 'sponda meridionale' (africana) è la più classica e indiscutibile. Ma non si possono trascurare altre suddivisioni più sottili, in particolare quella che distingue nella sponda settentrionale i tradizionali paesi 'occidentali' del Mediterraneo del nord, dal Portogallo all'Italia, sviluppati, membri della NATO e dell'Unione Europea, e i paesi 'orientali', per lo più meno sviluppati e usciti da bufere recenti, legati a NATO e UE solo nel caso della Grecia e, solo dal 2004 e limitatamente all'UE, della Slovenia, con un'ultima appendice NATO in quella Turchia che però già fa parte della sponda orientale. Quest'ultima, la sponda asiatica, è la minore per superficie e popolazione, come si è visto, ma non certo la più unitaria, sol che si pensi all'unicum rappresentato da Israele, all'arabismo deciso della Siria, alle contraddizioni di Cipro (nell'UE a partire dal 2004). Infine la sponda africana, senz'altro la più omogenea fisicamente e culturalmente, ma pur sempre variegata nelle sue economie e nelle sue posizioni politiche.
Si può concludere questa premessa - dopo aver fatto un cenno alla lunga tradizione storica delle relazioni intra-mediterranee, dall'antichità al Rinascimento e oltre - ricordando che il noto studioso del global change, Roberto Frassetto, definisce il mondo mediterraneo "la più complessa regione della Terra per l'ambiente e i comportamenti degli uomini, nonché un'area di sfida per gli studi-pilota multidisciplinari e la cooperazione scientifica e tecnologica" in vista dei rischi connessi con i cambiamenti globali e locali (v. Frassetto e altri, 1993, p. 18). Non per niente il primo studio organico a livello internazionale riguardante il cambiamento globale, il noto Piano azzurro (v. Grenon e Batisse, 1988), scelse a suo tempo come 'regione campione' del mondo proprio l'area mediterranea; e la letteratura 'generalistica' sullo spazio mediterraneo si rinnova continuamente, con contenuti scientifici e culturali di solito assai elevati (v., ad es., Reiffers, 1997; v. Conti e Segre, 1998; v. King e altri, Geography, ..., 2001; v. Lozato-Giotart e altri, 2001).
2. Qualche mutamento fisico, lento ma non impercettibile
Se il mondo mediterraneo va palesemente evolvendosi, come vedremo, dal punto di vista antropico, economico e politico, non mancano tuttavia segnali, anche se assai più modesti, di mutamenti fisici.
Questi ultimi sono in primo luogo legati alla tendenza complessiva, lentissima ma indiscutibile, verso un graduale riscaldamento medio del clima: la temperatura media annua della Terra attorno al 2025 potrebbe essere superiore di circa 2 °C rispetto a quella degli anni novanta. A causa dello scioglimento graduale di una parte dei ghiacciai marini e terrestri che questo aumento termico inesorabilmente comporta, il livello del Mar Mediterraneo (come quello degli altri mari) si è innalzato nel corso del XX secolo di 10-15 cm, e va crescendo a un ritmo anche superiore nel XXI secolo - circa mezzo centimetro all'anno (v. Milliman e altri, 1992; v. Laureti e altri, 1996, pp. 12-13). Naturalmente si tratta di tendenze che possono attenuarsi o anche invertirsi nel corso del tempo, ma intanto le conseguenze di quel che si è finora potuto misurare sono evidenti in molti tratti costieri, foci fluviali, insediamenti marittimi nel Mediterraneo, e giustificano i timori che da più parti si avanzano per il destino della Laguna di Venezia, dei delta del Po, del Nilo, del Rodano, dell'Ebro (alcune di queste aree sono densamente popolate e urbanizzate). Venezia e Alessandria d'Egitto sono le città più minacciate, ma anche le località costiere incluse nell'arco compreso fra Monfalcone e Rimini (dove la curva di livello attuale di due metri dista in media una ventina di km dalla linea di costa) sono senz'altro a rischio, anche per la frequenza in questo tratto di resti di lagune, zone umide, aree di bonifica e tratti di pianura in continua subsidenza per cause sia naturali sia antropiche (v. Pinna, 1996, p. 203).
Mentre l'acqua marina s'innalza di livello, non diventa certo più pulita. Lo sviluppo della fascia litoranea mediterranea e del Mediterraneo stesso come mare di transito industriale ne ha trasformato acqua e coste in "spiagge imbrattate di melma oleosa, acque avvelenate da prodotti chimici, con specie naturali in via di estinzione" a causa di "rifiuti industriali, acque di scolo urbano non depurate, prodotti chimici usati in agricoltura, perdite di greggio non controllate, l'incessante sfruttamento dei banchi di pesca" (v. King e altri, Unity, ..., 2001, p. 12). Agli apporti inquinanti di origine fluviale si aggiungono poi quelli derivanti dalla crescente erosione eolica, legati al processo di 'desertificazione' in corso in alcune parti delle terre mediterranee (v. Doumenge, 2001, pp. 9-46).
La crescita del livello o i problemi d'inquinamento dell'acqua salata non devono far dimenticare il problema dell'acqua dolce, che i periodi siccitosi accentuatisi qua e là nel Mediterraneo nei primi anni del Duemila hanno riportato drammaticamente in primo piano. L'acqua dolce tende a scarseggiare nel Mediterraneo (in particolare nei paesi del Vicino Oriente e dell'Africa nordorientale) per fattori umani come la crescita demografica e l'aumento del consumo pro capite dell'acqua stessa, ma anche per crescenti irregolarità stagionali se non riduzioni tout court nella fornitura 'naturale' di essa: le previsioni basate su stime recenti generalmente accreditate indicano una possibile riduzione della piovosità nel Mediterraneo dell'ordine del 15° nel corso di un secolo, con punte particolarmente negative nei mesi invernali (v. Thornes, 2001, p. 262). Si tratta, oltre che di un fattore di crescita del tasso di salinità delle acque mediterranee, di un cospicuo contributo alla desertificazione, fenomeno che colpisce soprattutto, nella sponda europea dove è stato particolarmente studiato, la Penisola Iberica meridionale e orientale, le isole italiane e il Peloponneso. Fra Egitto e Sudan e fra Israele e paesi arabi confinanti il fenomeno è motivo anche di occasioni non trascurabili di scontro politico (v. Anderson, 2001, p. 24).
Tornando all'inquinamento, esso non riguarda solo le acque, marine e fluviali, e le coste. C'è l'inquinamento industriale interno, cui si aggiunge quello, troppo spesso sottovalutato, provocato dal traffico di veicoli a motore: se nel 1963 nei paesi mediterranei circolavano in tutto 15 milioni di autoveicoli, questa cifra è salita a 65 milioni nel 1991 e a 85 milioni nel 2000. Sempre a proposito di traffico, occorre segnalare che ogni anno entrano nel, o attraversano il, Mediterraneo circa 300.000 imbarcazioni di differenti dimensioni, potendo contare su quasi 300 porti o porticcioli di attracco. La fascia costiera dei paesi mediterranei sembra inesorabilmente intrappolata fra l'uso sempre più intensivo del mare da un lato e l'intensificazione dell'uso degli spazi costieri ('cementificazione' edilizia, in particolare) dall'altro.
Fra tanti e percettibili mutamenti ambientali, quale ad esempio la tendenziale attenuazione della presenza estiva dell'anticiclone delle Azzorre sul Mediterraneo, resta invariata nella regione la geografia dei rischi e delle catastrofi (v. Dauphiné e Provitolo, 2001; v. Pinna, 2002), con le sue inevitabili conseguenze sulla geografia dello sviluppo e dell'insediamento. Il rischio idrologico, quello delle inondazioni, continua a essere forte nelle terre della sponda nord o meglio nord-ovest, dal Portogallo alla Croazia settentrionale passando per la Spagna di nord-ovest, la Francia, l'Italia settentrionale e la Slovenia. Il rischio opposto, quello della siccità, persiste elevato nella sponda sud, mentre il rischio sismico colpisce soprattutto la sponda est, oltre che la Penisola Balcanica.
3. L'evoluzione economica
L'economia mediterranea si evolve, com'è del resto naturale, nella stessa direzione dell'economia mondiale. Valutando questa evoluzione in termini di numero di addetti ai tre grandi settori economici, si può notare che tra il 1990 e il 2000 il settore primario si è ridimensionato, anche se in diversa misura, in tutto il mondo mediterraneo: drasticamente nei paesi europei, dove è passato a occupare dal 10 al 6° della popolazione attiva, in maniera più ridotta nei paesi asiatici e africani del bacino, dove si è limitato a perdere alcuni punti percentuali (scendendo dal 39 al 33° nei primi, dal 34 al 29° nei secondi), restando però, negli uni e negli altri, il maggior settore economico per assorbimento di manodopera dopo il dominante settore terziario. Il settore secondario, pur diversissimo nella sua composizione interna, occupa invece sulle tre sponde del Mediterraneo una percentuale di forza lavoro relativamente omogenea, poco più di 1/4 della popolazione attiva, con appena qualche punto in più nella media dei paesi europei del bacino. La forte differenza, che fa da pendant a quella accennata per il settore primario, si ritrova nel settore terziario, che occupa in media i 2/3 degli attivi nel Mediterraneo europeo, meno della metà nel Mediterraneo africano e soprattutto in quello asiatico. Naturalmente questi dati non includono il 'settore informale' del mondo del lavoro, che pure svolge un ruolo importante praticamente in tutti i paesi del bacino e può essere considerato una caratteristica mediterranea. 'Secondo lavoro', piccole imprese non ufficializzate, lavoro familiare o comunque 'sommerso' potrebbero contribuire all'alba del terzo millennio, secondo valutazioni forse eccessive, al 20-30° dell'attività economica totale in Grecia, Italia e Spagna, fino al 40-50° nei paesi dell'Africa settentrionale (v. Dunford e King, 2001, p. 41).
Il dettaglio dei singoli paesi, sempre attorno all'anno 2000, presenta situazioni anche più diversificate. Tutti i paesi mediterranei europei, con la sola eccezione dell'Albania, rientrano nella tradizionale formula caratteristica delle aree sviluppate: III 〉 II 〉 I, con il settore terziario realmente dominante (dal 50 al 70° e oltre della popolazione attiva). Rientrano in questa categoria anche gli Stati più evoluti della sponda orientale (Israele, Cipro, Libano) e, con valori del settore terziario più modesti (45-50°), della sponda meridionale (Libia, Algeria, Tunisia: i primi due favoriti dalla gestione dello sfruttamento degli idrocarburi, il terzo dal turismo). Sono invece tuttora prevalentemente rurali (dal punto di vista della numerosità della manodopera, s'intende) Stati come l'Albania, la Turchia e il Marocco, gli ultimi due con la formula I 〉 III 〉 II (considerata generalmente tra le meno favorevoli), e terziario-rurali (III 〉 I 〉 II) come la Siria e l'Egitto.
Naturalmente, tutte queste percentuali e graduatorie si riferiscono al numero degli attivi nei tre tradizionali settori produttivi, non all'incidenza di questi ultimi nella formazione del Prodotto Interno Lordo (PIL). Quest'ultima proporzione è nel Mediterraneo, come altrove, abbastanza diversa dalla prima, a tutti i livelli, in particolare per quanto riguarda il settore primario e i paesi meno sviluppati: per esempio, in Turchia o nel Marocco gli addetti al settore primario costituiscono circa il 40° della popolazione attiva ma generano solo fra il 15 e il 20° del PIL.
Le grandi linee dell'economia della regione mediterranea sono rimaste sostanzialmente invariate nell'ultimo decennio del Novecento e nei primi anni del 2000 (v. Dunford e King, 2001). Ad esempio, il Mediterraneo è sempre un mare caratterizzato da un'intensa economia marittima assai diversificata, ma in particolare dal massiccio trasporto via mare di idrocarburi dai paesi produttori di energia del Vicino Oriente e dell'Africa settentrionale verso i paesi europei che di tale energia sono assetati. Anche altri flussi hanno direzioni costanti: in particolare quelli di prodotti agricoli e di migranti da sud a nord, e quelli di turisti da nord a sud (come si vedrà in seguito). Il settore informale continua a rappresentare una parte importante del mercato del lavoro mediterraneo. Le differenze macroeconomiche tra i protagonisti dell'economia mediterranea restano fortissime: ancora nel 2000 il reddito medio pro capite dei Francesi era doppio di quello dei Greci o dei Portoghesi, superava sette volte quello dei Turchi e quasi una ventina di volte quello dei Marocchini o dei Siriani. Nell'insieme, i paesi della sponda europea ricavano, con il 40° della popolazione del bacino, ben il 90° del prodotto lordo della regione mediterranea. Tra le recenti variazioni all'interno di questa sponda, vale la pena di citare una ripresa dell'economia ellenica che ha fatto parlare, con qualche esagerazione, di 'miracolo greco' e di 'modello' per i Balcani (v. Paulet, 2001, p. 144).
Non mancano naturalmente squilibri interni ai singoli paesi, da quelli fra le principali aree urbane da un lato e le regioni rurali dall'altro, a quelli fra le coste e l'interno, specialmente sulla sponda africana e su quella asiatica, fino a quelli classici nord-sud dell'Italia e della Spagna. Se alcuni squilibri si vanno lentamente e moderatamente attenuando, altri, come quelli fra i litorali e le regioni interne, si stanno accentuando con lo sviluppo del turismo costiero.
Tra i grandi settori produttivi, quello primario si differenzia tradizionalmente nel Mediterraneo per una prevalenza agricola a nord e una pastorale a sud e a est, con persistenze di nomadismo; e si caratterizza anche per la coesistenza di latifondi e di 'minifondi', nonché per la relativa scarsità dei terreni più fertili, spesso valorizzati con audaci opere di terrazzamento. Cereali, olio d'oliva, vino, frutta e ortaggi continuano a essere i maggiori prodotti di questa agricoltura a forte intensità di lavoro. Tuttavia, anche l'immagine tradizionale, al limite dell'oleografia, dell'agricoltura mediterranea sta cambiando. Cresce anzitutto la percentuale della superficie agricola che viene irrigata: negli anni novanta essa ha raggiunto il 25° di quella coltivata in Italia e il 33° in Grecia; ma anche nei paesi mediterranei extraeuropei, pur prescindendo dall'Egitto nilotico tradizionalmente irriguo, si registrano sostanziali progressi nella percentuale delle terre irrigate in Siria (20°), Turchia (15°) e persino, sia pure in minor misura, in Algeria e in Tunisia. Cresce altresì la meccanizzazione agricola: in Francia già dal 1995 il numero dei trattori ha superato quello degli addetti all'agricoltura, in Italia ci stiamo avvicinando a questo traguardo. È vero che in questo campo lo scarto rispetto ai paesi della sponda meridionale e di quella orientale (con l'eccezione di Israele: un trattore ogni tre agricoltori) è enorme; tuttavia, all'inizio del nuovo millennio il Libano, la Siria, la Turchia e anche l'Algeria si stanno avvicinando al pur modesto traguardo di un trattore ogni dieci lavoratori agricoli. E gli indici di produzione alimentare elaborati dalla Banca Mondiale per l'anno 2000 risultano in leggera crescita per quasi tutti gli Stati delle sponde meno sviluppate del Mediterraneo. Fermo restando che pressoché in tutti i paesi tendono a crescere, negli ultimi anni, i contrasti fra le regioni pianeggianti, costiere, irrigate, fertili, in forte sviluppo, e quelle dai caratteri opposti lasciate in parziale abbandono (v. Dunford e King, 2001, p. 49); e che si verificano casi di coltivazioni di piante da droga come il papavero da oppio e la Cannabis, ad esempio nel Libano (dove una massiccia reazione governativa a questo fenomeno è iniziata nel 2002) e in Albania.
L'industria dei paesi mediterranei si presenta, nell'insieme, concentrata intorno a due modelli: quello dell'estrema frammentazione in una miriade di piccole imprese semi-artigianali e quello della concentrazione in grandi imprese, talvolta multinazionali. Il primo modello è ben noto e tipico delle regioni dell'Italia centrale, ma diffuso anche altrove nella sponda settentrionale, dalla Penisola Iberica alla Grecia. Il secondo modello è quasi un simbolo dell'unità funzionale che tiene insieme il Mediterraneo, inteso come complesso di mari e di terre. La definizione del nostro mare come "una grande via d'acqua usata per trasportare materie prime sulle sue coste, dove si localizzano molti impianti industriali pesanti e terminali di oleodotti" (v. Fumagalli, 1998, p. 105) rende bene l'idea. Le coste mediterranee, pur apprezzate per il turismo e le bellezze naturali, sono oggi anche "una lunga e quasi completa fascia di grandi impianti industriali pesanti" (ibid., p. 106). Nella seconda metà del Novecento, infatti, industrie di base - come raffinerie di petrolio, impianti petrolchimici, stabilimenti siderurgici a ciclo integrale, fonderie di metalli non ferrosi - si sono moltiplicati lungo le coste del nostro mare, con ampi sviluppi e ramificazioni nell'interno. Ciò vale in particolare per le coste settentrionali, anche se non va dimenticato che su quelle meridionali un asse minore ma non trascurabile unisce industrialmente il Marocco all'Egitto: oggi sono città industriali Tetouan, Nador, Oujda in Marocco, la capitale algerina, Tunisi e Sfax in Tunisia, Ras Lanouf, Marsa al-Brega e Tobruk in Libia, Alessandria in Egitto. Alla base di una parte di queste industrie disposte lungo l'asse africano sta la produzione dei pozzi petroliferi libici, algerini ed egiziani i quali, insieme con quelli siriani, forniscono oggi circa il 6° della produzione mondiale di petrolio; va pure ricordata la produzione algerina di gas naturale, che alimenta i consumi della sponda mediterranea opposta tramite gasdotti diretti in Sicilia e (in costruzione) in Spagna.
Questa cospicua produzione mineraria e industriale alimenta un traffico mercantile marittimo che all'alba del terzo millennio è stimato in un miliardo di tonnellate di merci, senza contare il traffico di transito. Circa un terzo di esso riguarda i porti del Mediterraneo nord-occidentale, spagnoli, francesi e italiani, con punte elevatissime a Marsiglia (primo scalo francese e terzo in Europa), nei porti italiani dell'Alto Tirreno e dell'Alto Adriatico, in quelli catalani. Sono una cinquantina i porti mediterranei d'interesse internazionale, suddivisi molto chiaramente fra porti prevalentemente d'imbarco nella sponda sud e sud-est da Orano a Iskenderun, e porti soprattutto di sbarco a nord, da Gibilterra a Zara (v. Fumagalli, 1998, p. 115). Ai porti d'imbarco affluiscono oleodotti e gasdotti dalle aree produttrici di idrocarburi, le quali si localizzano di frequente all'interno e a distanze abbastanza notevoli dai primi: è il caso, in particolare, dei giacimenti che gravitano per l'esportazione sulla costa orientale del Mediterraneo.
Nel quadro dell'industrializzazione mediterranea qualcuno ha voluto di recente vedere una componente definibile come 'californiana', consistente cioè nell'immigrazione di capitali e di manodopera qualificata dall'Europa centro-settentrionale per l'esercizio di attività produttive ad alta tecnologia. In effetti, nelle regioni del Mediterraneo nordoccidentale sono sorte negli ultimi decenni del Novecento alcune 'tecnopoli' - come Sophia Antipolis presso Nizza e i parchi tecnologici di Siviglia e di Malaga - che hanno attirato qualche flusso di questo tipo. Si tratta tuttavia di un fenomeno almeno per ora limitato, e assolutamente non paragonabile - dal punto di vista del numero delle persone coinvolte - alle attività legate al turismo.
Fra le attività terziarie dei paesi mediterranei una delle più importanti, e senz'altro quella geograficamente più appariscente e con maggiori ripercussioni territoriali e paesaggistiche, è comunque l'attività turistica, per la quale il Mediterraneo svolge sicuramente un ruolo di avanguardia a livello mondiale (v. Lozato-Giotart, 2001; v. Williams, 2001). La straordinaria combinazione tra i vantaggi offerti dal clima e il fascino dell'ambiente storico-culturale fa del turismo il perno delle attività economiche mediterranee. I 25 milioni di 'arrivi' di turisti nel 1960 sono diventati 85 milioni nel 1975 e 200 milioni nel 2000 (un terzo di tutto il movimento turistico internazionale!), con una previsione di quasi 400 milioni per il 2025, sviluppo che peraltro genera fondati timori per l'impatto futuro di così grandi masse sulla natura e l'ambiente del Mediterraneo (v. Grenon e Batisse, 1988).
Nessun'area della Terra può vantare simili cifre e simili prospettive, e ciò si verifica nonostante l'instabilità politica, il terrorismo, i conflitti regionali che caratterizzano e ostacolano molti paesi del Mediterraneo meridionale e orientale frustrandone le chiare vocazioni climatiche, ambientali e paesaggistiche, altrimenti in grado di esaltare le possibilità turistiche anche al di là delle realizzazioni attuali. La popolazione interna dell'Europa (dall'immediato entroterra degli stessi paesi mediterranei fino alle regioni più continentali) e quella marittima ma dei mari freddi chiede servizi e attività ricreative lungo la maggior parte delle coste mediterranee e utilizza il Mediterraneo come una sorta di grande lago turistico pieno di attrattive naturali e culturali.
Il coronimo 'bacino mediterraneo', sotto la decisiva influenza delle grandi società organizzatrici del turismo e delle vacanze che ne hanno diffuso una suggestiva immagine paradisiaca, è diventato quasi un sinonimo di 'turismo estivo costiero di massa', costruito essenzialmente attorno alla spiaggia, al mare, al sole, con l'ausilio di prezzi relativamente bassi e di una grande varietà di attrezzature per l'accoglienza e l'intrattenimento dei turisti e dei villeggianti, attività che oggi impiegano direttamente 5 milioni di persone e mantengono almeno parzialmente un indotto di altri 10 milioni di posti di lavoro. Inizialmente limitato ai paesi nord-occidentali del bacino, il turismo si è poi rapidamente sviluppato con alterne vicende nell'Europa mediterranea orientale (con gravi battute d'arresto e conseguenti ritardi all'epoca della crisi iugoslava negli anni novanta), in parte del Maghreb e da ultimo in alcuni paesi del Vicino Oriente. Fanno eccezione, per motivi diversi, pochi Stati, come Albania, Siria, Libia e Algeria. Certo, i paesi dominanti in questo campo restano di gran lunga Francia, Spagna e Italia, che da soli assorbono circa i 2/3 della ricettività e dei flussi di arrivi - l'una e gli altri concentrati soprattutto lungo il cosiddetto 'arco latino', dalla Costa del Sol nella Spagna meridionale fino alla lunghissima riviera dell'Adriatico occidentale, passando naturalmente per tutte le coste e le isole del Mare Iberico, del Golfo del Leone, del Tirreno -, seguite da Grecia, Portogallo e Turchia. Spagna, Francia, Grecia e Portogallo contano ogni anno più di un arrivo turistico per abitante, anche se in termini relativi sono i piccoli Stati insulari del Mediterraneo, Malta e Cipro, a far registrare tre o più arrivi annui per abitante; Grecia e Turchia rappresentano la recente e naturale espansione verso est della grande riviera mediterranea settentrionale, che la ripresa del turismo costiero croato non tarderà a saldare all'arco latino.
In termini di PIL, alla fine del secolo scorso il turismo contribuiva con il 5° circa nell'insieme dei paesi mediterranei, con cifre pro capite formidabili a Cipro e a Malta, ma assai elevate anche in Spagna. Nelle economie insulari di Malta e di Cipro il turismo contribuisce al PIL con più del 20°, ma è pure notevole il contributo che esso offre al Marocco, alla Tunisia, all'Egitto (5-10°), mentre tale contributo scende ovviamente al di sotto del 2° nelle economie evolute e complesse come quelle francese e italiana, e ancor di più nei pochi paesi in cui il fenomeno turistico non ha finora attecchito a causa delle situazioni e degli atteggiamenti locali. I principali 'clienti' del turismo mediterraneo vengono reclutati soprattutto, oltre che nei più ricchi e avanzati fornitori dello stesso (Francia, Italia e Spagna, ad esempio, generano flussi molto cospicui che alimentano circa i 2/3 del loro turismo interno e quote cospicue di quello mediterraneo esterno), nei paesi dell'Europa centro-settentrionale, come la Germania, il Regno Unito, i paesi del Benelux, i paesi alpini, ma anche nei più ricchi fra i paesi del Vicino Oriente, particolarmente quelli non mediterranei; minore il contributo d'oltreoceano (meno del 3° degli arrivi), anche se i turisti americani spendono in media pro capite quasi il doppio degli altri.
Ovviamente, questa gigantesca pressione turistica crea timori legati al suo impatto ambientale. Dagli anni novanta, così, nelle conferenze euromediterranee di Hyères (1993), Barcellona (1995) e Napoli (1996), si è iniziato a parlare di 'turismo sostenibile', che si comincia a realizzare con la creazione di parchi e riserve naturali o aree protette negli spazi marini e costieri (v. Lozato-Giotart, 2001, pp. 188-190): agli inizi del terzo millennio se ne contavano già oltre un centinaio, naturalmente più o meno efficienti a seconda dei luoghi, e comunque concentrati sui litorali settentrionali (ove del resto se ne avverte di più il bisogno). Altri progetti si accumulano e lasciano bene sperare, anche se occorrerà vigilare sulla gestione e sul rispetto effettivo di questi strumenti di protezione ambientale. Né va dimenticato, sotto un altro punto di vista, il ruolo che il turismo svolge, insieme ai fenomeni migratori, nel processo di omogeneizzazione e di ulteriore internazionalizzazione del mondo mediterraneo.
4. Cambiamento demografico, migrazioni e mescolanze culturali, qualità della vita
La consistenza, il comportamento e la struttura del mondo mediterraneo dal punto di vista demografico sono tutt'altro che uniformi: i valori medi nascondono estremi molto distanti fra loro. Questo vale sia per gli aspetti statici che per quelli dinamici di tali caratteristiche delle popolazioni mediterranee.
La consistenza demografica degli Stati, anzitutto, varia com'è noto tra alcune centinaia di migliaia di abitanti di Malta e di Cipro; qualche milione degli Stati minori sorti dalla dissoluzione della Iugoslavia o di paesi come l'Albania, il Libano, la Libia; dieci milioni del Portogallo, della nuova Iugoslavia in senso stretto, della Grecia, di Israele, della Tunisia; quindici della Siria. Rapidamente si passa poi ai trenta milioni o quasi di Algeria e Marocco, ai quaranta della Spagna, ai quasi sessanta di Francia e Italia e ai sessantacinque di Turchia ed Egitto, attualmente i due colossi demografici del Mediterraneo.
Se dalla constatazione statica riferita all'anno 2000 si passa all'osservazione delle variazioni assolute intervenute negli ultimi dieci anni del millennio, si possono notare la stasi o qualche piccolo regresso del Portogallo, degli Stati minori emersi dalla frantumazione della ex Iugoslavia (la Slovenia, la Croazia e soprattutto la Bosnia-Erzegovina martoriata dalla guerra), dell'Albania salassata dall'emigrazione, di Malta. Guadagnano invece qualche centinaio di migliaia di abitanti, in 10 anni, la nuova Iugoslavia (grazie all'afflusso di profughi serbi dai nuovi Stati sopra citati), la Grecia, il Libano e in minor misura anche Cipro; un paio di milioni di abitanti la Spagna, la Francia e quasi anche l'Italia; qualcosa di più (da 3 a 6 milioni ciascuno) la Siria, Israele, l'Algeria, il Marocco; ma crescono soprattutto i due colossi turco ed egiziano, di una decina di milioni di abitanti ciascuno.
Così, la densità di popolazione del mondo mediterraneo nasconde attualmente, dietro una ragionevole media di circa 50 abitanti/kmq (valore di poco superiore a quello medio mondiale), una varianza elevatissima. Anche se si trascura l'eccezionale densità dell'insediamento tipica del piccolo arcipelago maltese (400.000 abitanti su poco più di 300 kmq), la gamma delle densità varia dai 300 abitanti/kmq e oltre di piccoli Stati come il Libano e Israele, ai quasi 200 dell'Italia, ai circa 100 di Portogallo, Francia, Slovenia, Iugoslavia e Albania, ai circa 80 di Spagna, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Grecia, Turchia, Siria e Cipro, ai 60 di Egitto, Tunisia e Marocco. Ma ad abbassare la media provvedono l'Algeria (13 abitanti/kmq) e la Libia (appena 3 abitanti/kmq), i grandi Stati desertici per eccellenza.
Al di là delle differenze tra i vari paesi, va notato che in molti di essi la popolazione tende ad addensarsi sulla fascia costiera, a non più di 50-100 km dalla linea di costa, e che questa 'litoralizzazione' demografica tende in genere a crescere col tempo. In genere, la densità della popolazione costiera nel Mediterraneo è più che doppia rispetto a quella della popolazione totale: così accade per esempio in Portogallo, in Italia, nei paesi desertici come la Tunisia, la Libia e l'Algeria, e soprattutto in Grecia, per non parlare dei piccoli Stati insulari (Malta, Cipro) e costieri (Albania, Libano, Israele), in cui praticamente quasi tutta la popolazione dev'essere considerata costiera. Le previsioni per il futuro, mentre non indicano una particolare ulteriore litoralizzazione della popolazione italiana (ormai arrestatasi da qualche decennio), annunciano un forte aumento della concentrazione umana sulle coste in quasi tutti i paesi delle sponde meridionale e orientale, dall'Algeria alla Turchia; e nel senso di un rafforzamento numerico della popolazione costiera spingono anche la maggior parte delle scelte migratorie e, naturalmente, quelle legate allo sviluppo e alla pratica del turismo. Solo in poche eccezioni questa tendenza della popolazione a spostarsi verso il mare sembra essersi di recente arrestata: è il caso di alcune regioni italiane affacciate sul mare, come la Toscana, in cui l'interno ha iniziato a mostrare segni di rivalorizzazione a partire dagli anni sessanta, o di alcune isole croate che sono in via di spopolamento da parecchi decenni, tanto da indurre lo Stato croato a incentivarne finanziariamente il ripopolamento.
Se le alte densità, a parte i casi di Libano e Israele, caratterizzano essenzialmente i paesi del Mediterraneo europeo, la tendenza alla crescita demografica prevale al contrario in quelli delle sponde africana e asiatica: in dieci anni queste ultime hanno guadagnato due punti percentuali ciascuna sul totale della popolazione mediterranea, mentre la sponda europea ha perso la risicata maggioranza assoluta di popolazione che deteneva ancora nel 1990 (50,1°), scendendo al 46,2° nel 2000. Questa tendenza, che secondo le proiezioni porterà il contributo della sponda europea al totale della popolazione mediterranea ad appena 1/3 nel 2025, dipende dal diverso comportamento demografico naturale, e trova un parziale correttivo solo nei movimenti migratori: questi tendono difatti in qualche misura a ridurre la senilizzazione dei paesi di arrivo e ad attenuare la predominanza giovanile nelle popolazioni dei paesi di partenza.
Nei paesi della sponda nord i tassi annui di natalità, all'alba del XXI secolo, stanno - con la sola eccezione dell'Albania, che ha un comportamento demografico tendenzialmente 'islamico' - fra il 9 e il 13‰, quelli di mortalità fra l'8 e il 12‰: è evidente che poco margine resta per una qualche crescita numerica della popolazione. Tale margine si concretizza quasi soltanto in Francia, paese 'ringiovanito' dall'immigrazione assai prima degli altri, nella Bosnia-Erzegovina parzialmente musulmana, nella 'giovane' Malta, e in questi paesi si limita comunque al 3-5 di crescita naturale annua. Tutti gli altri Stati euro-mediterranei nel 2000 hanno fatto registrare tassi di variazione naturale compresi fra + 1 e - 1‰: in altre parole, una crescita zero accompagnata da un ben comprensibile invecchiamento della popolazione.
La sponda asiatica, abitata da popolazioni giovani e prevalentemente musulmane, con l'eccezione di Cipro, in prevalenza greca e matura, fa registrare invece indici di natalità del 22-23‰, con una punta superiore addirittura al 30‰ in Siria, e indici di mortalità del 6-7‰, anche in questo caso con una punta in Siria inferiore al 5‰; e dunque tassi di crescita naturale sul 15‰, con un record del 28‰, naturalmente in Siria.
Infine, nella sponda africana la situazione è molto diversificata: tassi di natalità notevolmente ridottisi rispetto al passato in Tunisia e Marocco (18-20‰), ma ancora alti in Algeria ed Egitto (28‰) ed elevatissimi in Libia (44‰, tra i record mondiali). Con una mortalità che sta fra il 5 e l'8‰, ne risulta un saldo naturale annuo che va da un minimo del 13‰ (Tunisia) a un massimo del 36‰ (naturalmente in Libia).
Solo con i movimenti migratori si ridimensiona (peraltro in misura modesta) questo forte differenziale di crescita demografica fra le tre sponde, cui corrisponde ovviamente come naturale conseguenza un forte differenziale nella struttura per età della popolazione, nell'incidenza del numero dei giovani in particolare, in definitiva nella disoccupazione giovanile. Ma il fenomeno migratorio, seppur tradizionale e di lunga data fra il Maghreb e la Francia, è assai più recente (in termini di storia contemporanea, s'intende) per la maggior parte dei paesi mediterranei. Si svolge sotto i nostri occhi, e in massima parte ha origine e destinazione all'interno del bacino, ma è tutt'altro che facile da valutare in termini quantitativi.
Molti paesi mediterranei sono multietnici in larga misura e per vecchia tradizione, altri lo stanno diventando solo marginalmente e da poco tempo. Fra i primi si collocano i territori della ex Iugoslavia: nonostante che il mosaico etnico si sia tradotto sul finire del Novecento in una frammentazione in più Stati, la maggior parte di essi continua a inglobare minoranze nazionali consistenti. Così in Croazia il 12° della popolazione attuale è rappresentato da Serbi, nella nuova e ridimensionata Iugoslavia il 16-17° è costituito da Albanesi (nel Kosovo), e nella Bosnia-Erzegovina addirittura metà della popolazione è composta da Croati e soprattutto da Serbi. Sulla sponda africana, 1/3 degli abitanti del Marocco e 1/6 di quelli dell'Algeria sono Berberi, su quella asiatica più di 1/10 dei residenti in Turchia e quasi un 1/10 degli abitanti della Siria sono Curdi (che, al contrario dei Berberi, creano notevoli problemi di convivenza e alimentano l'emigrazione clandestina), mentre a Cipro quasi 1/5 sono Turchi, abitanti per lo più nella già citata, e misconosciuta, Repubblica Turca di Cipro del Nord. Infine, nello Stato d'Israele circa 1/5 della popolazione è classificato come 'altri', ed è chiaramente costituito nella stragrande maggioranza da Arabi (Palestinesi anzitutto, con i problemi purtroppo noti e cruenti).
Fra gli Stati mediterranei che hanno subito soltanto di recente o addirittura stanno sperimentando solo adesso trasformazioni etniche il meno noto è la Libia, paese scarsamente popolato e bisognoso di manodopera per lo sfruttamento delle sue risorse petrolifere, che è stato perciò soggetto a cospicue quanto poco conosciute immigrazioni recenti, tanto da censire ormai un 20° di 'altri' (tra cui molti di provenienza per l'appunto mediterranea, ad esempio Egiziani e Siriani) nelle proprie statistiche della popolazione.
Ben note, ma numericamente modeste in proporzione alle popolazioni autoctone, sono invece le comunità immigrate dalla sponda africana occidentale in Francia, in minor misura e più di recente in Italia e - attraverso lo stretto di Gibilterra diventato 'confine migratorio' - in Spagna: almeno un milione e mezzo di Nordafricani risiede in Francia, soprattutto Algerini e Marocchini, alcune centinaia di migliaia in Italia, un po' meno in Spagna (si tratta di dati ufficiali, certamente sottovalutati dato che in questi ultimi due paesi l'immigrazione è di frequente clandestina: v. Brunetta e Rotondi, 1996, p. 67). È da notare che l'immigrazione algerina in Francia e quella tunisina in Italia rappresentano l'esatto inverso delle emigrazioni mediterranee d'altri tempi, soprattutto francesi in Algeria (i cosiddetti pieds noirs) ma anche italiane in Tunisia. Opposte sono anche le condizioni nelle quali tali migrazioni si sono svolte o si svolgono: Francesi e Italiani avevano piena libertà di emigrare e di stabilirsi nei due paesi maghrebini, mentre i migranti da questi ultimi, dopo una prima fase in cui sono stati ben accetti in Francia per fabbisogno di manodopera (come i Turchi in Germania), si sono trovati di fronte alle regole dell'Unione Europea istituite con il Trattato di Schengen (1990; v. Anderson e Bort, 1998) e quindi hanno dovuto spesso scegliere - di frequente con successo, peraltro - la via della clandestinità. Resta il fatto che nell'intera Unione Europea vivrebbero stabilmente, secondo stime recenti, diversi milioni di cittadini di paesi mediterranei, in buona parte di religione e cultura islamica (in maggioranza Turchi, Marocchini e Algerini), oramai profondamente radicate e profondamente diverse da quelle dominanti nei paesi ospiti (v. Montanari, 1998, p. 168, e 2001, p. 109).
Tre sono le fondamentali motivazioni che determinano le migrazioni attuali all'interno del Mediterraneo: il fattore demografico-economico, legato alla forte crescita di popolazione prima descritta, alla sovrabbondanza numerica delle classi in età lavorativa rispetto ai posti di lavoro locali, alla povertà generalizzata; il fattore etnico, determinato dall'inconciliabilità fra certe minoranze e le maggioranze etniche di alcuni paesi (tipico il già citato caso dei Curdi); infine, un fattore congiunturale, connesso con avvenimenti temporanei, relativamente sporadici, come quelli che hanno caratterizzato negli ultimi anni o decenni il Vicino Oriente e la Penisola Balcanica (v. Paulet, 2001, p. 147).
Un tipo del tutto peculiare di migrazione verso il Mediterraneo, ma non tra paesi mediterranei, è poi quella post-lavorativa, cioè quella dei pensionati benestanti originari dell'Europa centro-settentrionale che si stabiliscono in Spagna o in altri paesi mediterranei europei per godersi 'il sole del tramonto' della loro vita (v. King e altri, 2000) o, più genericamente e materialmente, per vivere finalmente in un ambiente climatico percepito come 'fascia del sole' (sunbelt), paragonabile alla Florida negli Stati Uniti. Questo tipo di movimento spiega ad esempio la presenza di un 2° di Britannici fra la popolazione maltese: eredità coloniale, certo, ma in funzione di un ambiente schiettamente mediterraneo eppure in qualche misura loro 'familiare'. Ma al di fuori dell'eredità coloniale, cospicui o significativi insediamenti di pensionati britannici e tedeschi sono stati gradualmente e in misura crescente realizzati, nell'ultimo quarto del secolo XX e agli inizi del XXI, in regioni spagnole come l'Andalusia (provincia di Malaga in particolare), la provincia di Alicante, le Isole Baleari e, al di fuori della Spagna, nell'Algarve portoghese e in Toscana: regioni conosciute spesso durante una vacanza, ricordate con piacere e scelte poi come residenza per la vecchiaia.
Nonostante questi complessi e intrecciati spostamenti di popolazione, rimangono nel Mediterraneo diversi Stati nazionali, cioè abitati in assoluta prevalenza da autoctoni: ad esempio l'Albania, che ha solo una piccola minoranza greca (meno del 2° della popolazione); la Grecia, con un'ancor più ridotta minoranza turca (meno dell'1°); la Tunisia, con meno del 2° di Berberi; e soprattutto l'Egitto, Stato nazionale per eccellenza, abitato pressoché esclusivamente da Egiziani.
L'evoluzione demografica, unitamente a quella economica analizzata in precedenza, dei paesi mediterranei sta lentamente cambiando la 'qualità della vita' di alcuni dei più diseredati di questi. Se in Francia, Spagna, Italia e Grecia la durata media della vita umana ha superato i 78 anni, in Marocco ed Egitto essa tocca appena i 67; ma bisogna ricordare che questi ultimi Stati hanno fatto recentemente grandi progressi, grazie al miglioramento delle loro strutture sanitarie, in confronto a molti paesi sottosviluppati del mondo che vedono le loro popolazioni attestarsi sui 50 anni appena di vita media.
Per quanto riguarda l'alfabetizzazione, il distacco è ancora più forte e oscilla fra il tasso di quasi il 100° degli Stati europei prima indicati e il 50° dei due citati paesi nordafricani. Per di più, sulle sponde mediterranee africana e in parte anche asiatica il dato medio nasconde forti squilibri interni fra popolazione urbana e popolazione rurale e ancor più, in tutto il settore islamico del mondo mediterraneo, fra maschi e femmine.
Perciò l''indice di sviluppo umano' - strumento statistico escogitato di recente per sintetizzare il livello socio-economico-demografico raggiunto dagli Stati e variabile fra gli estremi teorici di 0 e 1 - vede la Francia, l'Italia e la Spagna attestarsi attorno alla quota di 0,9, il Marocco e l'Egitto limitarsi a 0,6 (v. Bonavero e Dansero, 1998).
5. La trasformazione insediativa
Il processo di urbanizzazione continua la sua inesorabile marcia anche nel Mediterraneo. La diversa velocità e le differenti modalità che lo hanno caratterizzato non sono tanto questione di sviluppo o sottosviluppo, quanto di tradizioni, di ambiente, di scelte territoriali. Così, il più rurale dei paesi mediterranei risulta essere il Portogallo, il quale ancora nel 2000 non aveva che il 37° di popolazione urbana, restando indietro (in un processo che pare inarrestabile, ma non per questo è necessariamente positivo) anche all'Albania (42°), alla Bosnia-Erzegovina (43°), all'Egitto (45°). I paesi più avanzati del Mediterraneo nord-occidentale risultano urbanizzati al 65-80°, ma anche la Turchia si attesta oggi sul 75°, e la Libia e il Libano sfiorano il 90°. Malta e Israele (quest'ultimo per ragioni strategiche, oltre che geografico-fisiche) toccano la quota più elevata del bacino (91°), mentre la media mediterranea si colloca su un ragionevole 65°, peraltro prevedibilmente suscettibile di ulteriore crescita. La dinamica del fenomeno, misurata nel decennio 1990-2000, vede i paesi più sviluppati ormai attestati su cifre stabili o poco variabili, mentre i balzi in avanti dell'urbanizzazione di fine millennio hanno riguardato i paesi dell'Africa settentrionale (escluso l'Egitto) e la Turchia: quest'ultima passata in appena un decennio da un sostanziale equilibrio numerico fra cittadini e rurali al rapporto 75/25 prima citato.
Le città mediterranee dunque crescono; e naturalmente si trasformano. Tuttavia, la loro evoluzione è condizionata dai modelli iniziali di urbanizzazione, che Giacomo Corna-Pellegrini (v., 1994) ha identificato in quattro tipi fondamentali: modello europeo, modello mediterraneo in senso stretto, modello multiculturale orientale, modello arabo-islamico. Il primo, tipico della sponda settentrionale del Mediterraneo centro-occidentale e legato in genere al mondo europeo più sviluppato, si caratterizza per una forte base economica capitalistica, una crescita dinamica delle aree suburbane e peri-urbane, servizi pubblici efficienti, una consistente e attiva classe media, capacità attrattiva nei confronti di immigrazioni di vario genere: gli esempi vanno da Malaga a Barcellona, da Marsiglia a Nizza, da Genova a Pisa, da Venezia a Fiume (Rijeka). Il modello mediterraneo in senso stretto riguarda città con una base economica più debole, con notevole ricorso alla spesa pubblica, forte peso delle attività terziarie amministrative e sviluppo relativamente recente dell'industria pubblica, fenomeni evidenti di speculazione edilizia: da Napoli a Palermo, da Ajaccio alla Valletta, da Atene a Istanbul, questo è il mondo urbano in cui Europa e Asia, Oriente e Occidente, sviluppo moderno e residui di sottosviluppo si incontrano. Il modello multiculturale orientale nasce da una preesistente base economica rurale e tradizionale, come quella che ha dato origine a Beirut o alle città israeliane, da Tel Aviv a Gerusalemme; queste ultime si caratterizzano in particolare per un'estrema efficienza dal punto di vista delle condizioni di vita e dei servizi pubblici, nonché per un forte senso di egualitarismo e di solidarietà nella vita sociale, condizioni in buona misura derivate dalla costante situazione di tensione e di pericolo in cui tali realtà urbane si trovano a vivere. Infine, le città del modello arabo-islamico presentano tre caratteristiche fondamentali comuni: un retroterra largamente desertico, una cultura quasi totalmente omogenea (anche dal punto di vista urbanistico), il retaggio dell'influenza diretta o indiretta su di esse esercitata dall'Occidente in epoca coloniale e post-coloniale; così il loro paesaggio urbano risulta più o meno lo stesso, dalla costa atlantica marocchina fino al Mar Rosso e oltre.
Questa classificazione in quattro tipi rappresenta già un'importante sforzo di generalizzazione delle realtà urbane mediterranee; ma si possono anche identificare alcuni elementi per un'ulteriore presentazione sintetica delle città del nostro bacino. Anzitutto, quasi tutte sono state fondate centinaia, se non migliaia, di anni fa, e da allora abitate senza discontinuità, come dimostra la sovrapposizione fisica, in esse, di diversi strati di civiltà testimoniati da resti archeologici, monumenti, patrimonio artistico. Poi, quasi tutte le città mediterranee sono andate soggette, attraverso fasi diverse, a immigrazione su larga scala dai loro retroterra rurali. Infine, la maggior parte di esse si localizza lungo la costa o vicino a essa, ospitando o collegandosi a tutta una serie di porti che ne testimoniano l'attività marittima e in genere il forte legame con il mare, tanto da formare spesso vere e proprie 'teniapoli', lunghe conurbazioni nastriformi come quella ben evidente, almeno su lunghi tratti, nelle coste dell'arco latino (si pensi all'allineamento della Riviera Ligure e della Toscana costiera settentrionale, praticamente senza soluzione di continuità: v. Corna-Pellegrini, 1994).
Di recente, sono stati contati lungo le coste mediterranee 538 centri urbani (identificati approssimativamente con tutti quelli aventi più di 10.000 abitanti); di questi, 45 sono grandi città, con oltre 200.000 abitanti. Da notare che circa la metà degli uni e delle altre è localizzata in Italia (v. Lemmi, 1998). Notevoli allineamenti costieri si ritrovano non solo negli altri paesi della già ricordata teniapoli litoranea nord-occidentale (un centinaio di centri urbani tra coste spagnole e francesi), ma anche nell'Italia adriatica, in Grecia, nella Turchia meridionale e fino in Algeria. All'inizio del terzo millennio, 24 città mediterranee sono 'milionarie': di esse, 16 superano i due milioni di abitanti (capitali politiche: Madrid, Roma, Atene, Ankara, Damasco, Il Cairo, Tunisi, Algeri; e metropoli economiche: Barcellona, Milano, Napoli, Istanbul, Smirne, Tel Aviv-Jaffa, Alessandria, Casablanca); due di tali città, Istanbul e Il Cairo, potrebbero essere senz'altro classificate dal punto di vista quantitativo tra le 'megalopoli' della Terra (anche se non tra le 'città mondiali' in senso qualitativo). Nelle 16 città mediterranee multimilionarie vivono oggi 65 milioni di persone, vale a dire il 15° della popolazione del Mediterraneo, contro l'8° di cinquant'anni addietro: il processo di concentrazione delle genti mediterranee si è nettamente affermato (v. Escallier, 2001). Dal punto di vista produttivo, comunque, sono Madrid, Barcellona e Milano che si collocano tra le città più importanti della Terra; quanto a Parigi (una città che - come d'altronde Milano - non è certamente mediterranea, ma è capitale di uno Stato che è anche mediterraneo) e a Roma, si possono senz'altro inserire nella selettiva lista delle 'città mondiali'.
Al livello dei singoli paesi, va ricordato il frequente dualismo urbano tra coppie di metropoli, come Madrid e Barcellona per la Spagna, Roma e Milano per l'Italia, Istanbul e Ankara per la Turchia: Barcellona, Milano e in minor misura Istanbul sono autentiche capitali economiche dei rispettivi paesi, che lasciano a Madrid, Roma e Ankara le funzioni di guida politica e di governo. Vi sono peraltro dualismi meno noti, come quelli fra Damasco e Aleppo in Siria; ma d'altra parte esistono anche capitali-primato, assolutamente dominanti, com'è il caso di Atene per la Grecia (nonostante l'innegabile ruolo economico svolto da Salonicco) e in minor misura di Beirut, Tripoli, Lubiana, per non parlare delle capitali degli Stati insulari.
La trasformazione fondamentale che si è verificata nell'ultimo mezzo secolo nelle città mediterranee è quella dal 'punto' all''area' o alla 'linea'. "La città mediterranea compatta era un luogo di eccellenza, fortemente individualizzato e identificato, nel cuore di un paesaggio rurale" (v. Escallier, 2001, p. 106). Ciò si verificava ancora quando le città dell'Europa industriale avevano ormai da tempo cambiato aspetto e struttura. Ma oggi anche le città mediterranee hanno conosciuto il dilagare della popolazione urbana in periferia, l'espandersi delle costruzioni, la graduale cancellazione degli spazi rurali: il passaggio dalla città all'agglomerazione, alla conurbazione, quando non all'area metropolitana.
Certo, i centri (intendendo questa parola in senso lato) delle città mediterranee restano molto densamente popolati: Robert Escallier fa giustamente gli esempi di Genova, Napoli, Atene, Smirne, Aleppo, Il Cairo. Spesso per ragioni geomorfologiche manca lo spazio per un'edilizia più allentata; ma anche dove tale spazio esiste, in genere le costruzioni si accumulano, mancano gli spazi verdi, le densità abitative superano i 100 residenti per ettaro, come a Marsiglia, a Napoli, a Istanbul, ad Algeri - ma anche i 200, come al Cairo. E questo nonostante non manchino consistenti tendenze allo spostamento della popolazione verso la periferia: anzi, "il movimento di de-densificazione dei quartieri centrali è qui ancor più violento e spettacolare in quanto i centri mediterranei sono tra i più densamente popolati del mondo" (ibid., p. 108).
Di recente, queste tendenze alla suburbanizzazione e alla peri-urbanizzazione si sono rafforzate a un ritmo via via più accelerato. Non solo i centri storici delle città mediterranee sono sempre più oggetto di operazioni di rinnovo se non di vero e proprio 'sventramento'; ma la stessa 'prima cintura' urbana attorno al centro si sta caratterizzando sempre di più, a partire dall'ultimo decennio del millennio, per consistenti riduzioni della pressione demografica. "In tutto il bacino mediterraneo, milioni di cittadini hanno lasciato o stanno lasciando i centri delle città per installarsi in periferia, talvolta a parecchi chilometri dal centro delle grandi città" (ibid., p. 108). Ciò comporta da un lato una forte espansione periferica dell'abitato, dall'altro un'impressionante crescita del fenomeno del pendolarismo suburbano, con i relativi problemi di viabilità, di traffico, di inquinamento.
Non è raro imbattersi, anche nelle città mediterranee più impensate, in centri cittadini radicalmente ristrutturati: a Beirut c'è chi parla di 'distruzione volontaria' di un tipico centro tradizionale, trasformato in una struttura complessa e ultramoderna; a Casablanca esiste ormai un vero e proprio Central Business District, che concentra le funzioni metropolitane dell'intero Marocco e si suddivide in quartieri specializzati nelle diverse attività terziarie e quaternarie; a Nizza, la città vecchia è diventata l'area d'incontro e di svago dei giovani. Rimane tipica la brusca discontinuità che continua a caratterizzare i confini della città: tanto a Nizza quanto ad Algeri una periferia urbana relativamente compatta è immediatamente a contatto con aree agricole importanti; anche se ci sono casi in cui l'espansione peri-urbana si appoggia su, o addirittura ingloba, cittadine minori o antiche località rurali, con insediamenti di grandi o piccole dimensioni, spesso abusivi in una percentuale che può arrivare al 60° o anche, in alcuni casi e secondo alcune fonti, all'80° dell'edificato totale (percentuali via via ridotte da eccezionali - in realtà praticati con provvedimenti successivi quasi regolari nel tempo - condoni edilizi).
6. Le nuove tendenze geopolitiche e geoeconomiche
Nel mondo mediterraneo di fine Novecento e di inizio Duemila si vanno profilando, sia pure in maniera indistinta e contraddittoria, nuove tendenze relativamente 'unitarie'. Si tratta di tendenze che hanno come polo di attrazione quei processi di sviluppo e di unificazione in corso nell'Europa centro-occidentale, i quali stanno nel contempo svolgendo azione analoga di 'calamita' nei confronti dell'Europa orientale. Sembra quasi che da est, da sud-est e da sud un insieme crescente di forze graviti verso l'integrazione con un'Europa occidentale - atlantica, ma anche mediterranea - che ha dato l'esempio geopolitico e geoeconomico dei vantaggi connessi a un cambiamento di scala economico e politico.
Il quadro della regione mediterranea resta per ora fratturato e conflittuale. Fratture e conflitti sono locali: Curdi contro Turchi, fondamentalisti contro moderati nei paesi islamici, maggioranze e minoranze etniche e religiose nella ex Iugoslavia, Arabi ed Ebrei in Israele/Palestina. E sono globali: 'ricchi' prevalentemente a nord/nord-ovest, 'poveri' prevalentemente a sud/sud-est; traffici illeciti, di merci e di persone, dilaganti; mafie in crescita. Forse, come suggerisce Ewan Anderson (v., 2001, pp. 18-27), ce ne siamo accorti tardi in Europa, immersi come eravamo nelle tensioni Est-Ovest, che pure coinvolgevano ma solo come scenario marginale il bacino mediterraneo. Pian piano ci siamo resi conto che il conflitto arabo-israeliano, il ginepraio iugoslavo, il terrorismo e il fondamentalismo islamico, la spinta migratoria da sud a nord non avevano niente a che fare con la guerra fredda, ma non per questo erano problemi minori.
Da area d'importanza marginale sulla scena politica mondiale, il Mediterraneo è diventato un centro nevralgico di tensione internazionale. Da 'culla della civiltà' a 'culla del terrorismo', scrive Anderson con qualche esagerazione (ibid., p. 21). Ai contrasti fra Stati (Israele/paesi arabi, Grecia/Turchia) si aggiungono quelli all'interno degli Stati, dall'Algeria ai Balcani passando per Cipro. Solo il Mediterraneo nord-occidentale appare tranquillo, stabile, prospero: negli anni novanta comincia a farsi strada l'idea geopolitica - già in circolazione in un altro ambito territoriale, quello dell'Europa orientale - che la soluzione dei problemi sia nell'Unione Europea, cioè in una futura libera circolazione di merci, di capitali e soprattutto di persone tra Mediterraneo ed Europa.
Nel mondo mediterraneo si è cominciato a parlare di Europa, a dire il vero, già nel 1975, all'atto della stipula della Convenzione di Barcellona per la protezione del Mar Mediterraneo dall'inquinamento, elaborata nel quadro dell'iniziativa ONU sui mari regionali. Poi vengono le ricerche del Plan Bleu (v. Grenon e Batisse, 1988), che producono una sorta di unificazione scientifica, dal punto di vista sia delle scienze naturali che di quelle umane, delle problematiche mediterranee. Ma un punto di svolta è segnato più nettamente dalla nuova Convenzione di Barcellona, quella del 1995.
Non si tratta, per quest'ultimo atto, soltanto di un accordo tecnico di massima - peraltro molto importante dal punto di vista ecologico - per la protezione della 'biodiversità' e lo sviluppo della "gestione costiera integrata" (v. Vallega, 1998). A Barcellona nel 1995 si riuniscono 27 paesi dell'Unione Europea e del Mediterraneo (unica assente la Libia, a parte i paesi della ex Iugoslavia che già avevano sottoscritto altri accordi con l'UE). Essi adottano congiuntamente un approccio di cooperazione, inteso a dare una nuova dimensione alle loro relazioni, il cui obiettivo più ambizioso è quello della creazione della MFTA (Mediterranean Free Trade Area, o Area Mediterranea di Libero Scambio) a partire dal 2010. Accordi specifici in questo senso erano già stati stipulati fra UE e singoli paesi mediterranei come il Marocco, la Tunisia, l'Egitto e Israele; a essi si unisce la Giordania nel 1997, e il Mediterraneo si avvia lentamente, così, a costituire un nuovo insieme 'regionale' geopolitico e geoeconomico (v. Paulet, 2001, p. 146). Si tratterà ora di vedere se tale nuovo insieme sarà capace di stimolare lo sviluppo, creare posti di lavoro, ridurre la pressione migratoria, assicurare stabilità sociale (v. Dunford e King, 2001, p. 57), nonché suscitare l'indispensabile consenso popolare. Come scrive Armando Montanari (v., 1998, p. 168), "il sentiero verso la costruzione della Regione Euro-Mediterranea appare ancora lungo e irto di difficoltà. Il processo, tuttavia, è stato avviato"; l'espressione 'partnership euro-mediterranea', con tutta la sua imprecisione geografica e politica, sta già entrando nel linguaggio geopolitico contemporaneo (v. Gillespie, 1997). Non è detto che tale processo si risolva in un vantaggio per i paesi mediterranei meno sviluppati: ma intanto alcuni di essi (Turchia, Tunisia, Marocco) già premono addirittura per un ingresso vero e proprio nell'Unione.
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