Moneta
di Federico Caffè
Moneta
sommario: 1. Evoluzione storica della moneta. 2. Dalla moneta ‛pegno' alla moneta ‛segno'. 3. Le concezioni quantitative. 4. Le indicazioni di politica economica delle concezioni quantitative. 5. Il contributo di Keynes alla teoria monetaria. 6. La domanda di moneta come applicazione della teoria della scelta. 7. L'analisi dell'offerta di moneta e delle sue determinanti. 8. Dalle scelte finanziarie agli effetti sul livello del reddito e dell'occupazione. 9. Problemi aperti di teoria e di politica monetaria. □ Bibliografia.
1. Evoluzione storica della moneta
Il modo odierno di considerare la moneta e i fenomeni monetari è il risultato di una evoluzione secolare che appare dominata dalla ricerca spontanea di soluzioni idonee ad agevolare gli scambi tra gli operatori economici. Lo scambio diretto di beni contro beni, o baratto, presentava comprensibili inconvenienti per l'eventuale non coincidenza nell'apprezzamento dei beni potenzialmente scambiabili e per altre analoghe complicazioni pratiche. Di qui lo scindersi dell'atto di scambio in due operazioni distinte: cessione di un bene o servizio contro un bene intermedio, che l'esperienza dimostrava essere largamente richiesto ed accettato dal pubblico; e impiego di questo bene intermedio per l'ottenimento degli altri beni e servizi desiderati. Quale strumento intermedio degli scambi vennero adoperate, nella più lontana antichità, le cose più disparate: pietre, conchiglie, sale, capi di bestiame, tabacco, metalli vari; anche il loro impiego, come pure il successivo passaggio all'uso dei metalli preziosi dotati di particolari requisiti e attrattive, risultano chiaramente influenzati dalla ricerca delle soluzioni idonee ad agevolare al tempo stesso i consumatori e i produttori (v. Robertson, 1922; tr. it., pp. 243 ss.).
Questa spinta evolutiva dettata dalla comodità e dalla convenienza degli scambi la si ritrova anche nell'ulteriore passaggio dalla moneta con un effettivo contenuto intrinseco in metalli preziosi (oro, argento) a una moneta puramente cartacea o scritturale. Nè è da ritenere che si tratti di un processo ormai concluso. Da un lato, come possibilità legata agli sviluppi delle contabilizzazioni elettroniche, già si profilano sistemi che tenderebbero a rendere ancor più immateriale lo strumento monetario, in quanto risulterebbe virtualmente non necessaria persino la sua esistenza come segno cartaceo. Dall'altro lato, la diffusione contemporanea delle cosiddette ‛carte di credito', che consentono di effettuare acquisti con la semplice esibizione di tessere rilasciate da particolari istituti di credito, che provvedono poi sia al pagamento effettivo ai fornitori sia al recupero del loro credito, può essere utile a richiamare l'attenzione sulla concreta maggiore complessità e molteplicità della creazione di mezzi monetari rispetto all'idea diffusa di considerarla unicamente come espressione della sovranità statale (v. Del Vecchio, 1966, p. 110).
Da questo pur sommario accenno ai tratti salienti dell'evoluzione dei mezzi monetari nel tempo possono desumersi alcune utili avvertenze introduttive.
1. In primo luogo, a conferire carattere di moneta a un determinato mezzo usato come intermediario degli scambi di beni e servizi o, più in generale, come strumento regolatore dei rapporti di debito, non concorre necessariamente l'utilità intrinseca del mezzo stesso, bensì ‛la fiducia nella sua generale accettazione'. ‟Moneta è qualunque cosa che funzioni, in generale, come strumento di scambio. La condizione necessaria per l'esercizio di questa funzione di strumento di scambio è l'accettazione generale per il regolamento di debiti. L'accettazione generale può essere il risultato di molteplici fattori che operino da soli o associati; e rientra nello sconcertante ma suggestivo gruppo di fenomeni che risentono di convincimenti che si autogiustificano. Se i componenti di una collettività sono d'avviso che la moneta sarà generalmente accettata allora lo sarà effettivamente; in caso diverso non lo sarà" (v. Newlyn, 1962, p. 2).
2. Il concetto di moneta non si presta a una definizione che si basi soltanto su una sua caratteristica. Come intermediario negli scambi, la moneta costituisce un mezzo di pagamento. Ma questa funzione implica che una qualche disponibilità monetaria sarà trattenuta, nel corso del tempo, da chi ne fa uso; le consuetudini di pagamento dei sistemi economici moderni comportano, di norma, il decorso di intervalli più o meno prolungati tra gli incassi e gli esborsi. Al tempo stesso che mezzo di pagamento, la moneta è, dunque, riserva di valore: vale a dire, uno dei possibili modi in cui gli operatori economici possono mantenere la ricchezza di cui dispongono.
Meno strettamente connesse con quelle sinora menzionate sono le funzioni della moneta come misura dei valori e come termine di riferimento nei pagamenti differiti: entrambe praticamente importanti, ma che possono anche non coesistere nel mezzo che operi come mezzo di pagamento e riserva di valore.
3. Ultima avvertenza che conviene sottolineare è la mancanza di ogni necessaria connessione tra il contenuto intrinseco della moneta e la solidità del sistema monetario. È tuttora diffuso il convincimento che i sistemi monetari basati sui metalli preziosi fossero più ordinati e solidi di quelli odierni, puramente cartacei. Si tratta di un mito tenace, ma non rispondente alla realtà, come è attestato da una estesissima letteratura economica, nella quale è particolarmente ragguardevole il contributo italiano (v. Custodi, 1803-1816).
2. Dalla moneta ‛pegno' alla moneta ‛segno'
Se la moneta fu incontestabilmente creazione dell'economia mercantile, e non già dello Stato, fu tuttavia ‟la prima delle creazioni dell'economia mercantile di cui i governi appresero ad impossessarsi" (v. Hicks, 1969; tr. it., p. 73). Ciò si verificò per effetto della coniazione: il fatto, cioè, di imprimere sui pezzi metallici figure o iscrizioni, che finirono per far apparire la moneta come un'espressione della sovranità dei pubblici reggitori. Questi non tardarono a individuare nella creazione di moneta un mezzo per procurare entrate all'erario. Dalla politica fraudolenta della ‛tosatura' dei pezzi metallici, alla richiesta di rimborso delle spese di coniazione (‛monetaggio') in misura superiore ai costi sostenuti dalla zecca, alla imposizione di un vero e proprio prelievo a favore dell'erario (‛signoraggio'), tutta una serie di interventi dei poteri pubblici concorse nel tempo a quella erosione del potere d'acquisto della moneta che spesso viene considerata come caratteristica dei tempi moderni e dei segni monetari cartacei. Lo studio di queste vicende sul piano storico ha posto in rilievo fenomeni di notevole interesse. In primo luogo, l'influenza dei governi poteva esercitarsi più liberamente sulle monete con circolazione limitata a circoscritte aree statali, nell'ambito delle quali era possibile salvaguardare l'accettazione dei pezzi metallici deprezzati, conferendo loro il carattere di ‛moneta legale'. Nei riguardi, invece, delle monete estesamente usate nei traffici internazionali, l'accettazione dipendeva dall'apprezzamento dei mercanti. Essi non avrebbero mancato di sospendere l'invio dei metalli preziosi verso i paesi le cui zecche si fossero rese responsabili di alterazioni monetarie. A differenza delle monete ‛locali', che vennero di frequente manipolate in funzione delle difficoltà finanziarie dei governi, le monete ‛grandi' - tra le quali rientrarono, via via nel tempo, le monete maggiori bizantine e arabe, il fiorino di Firenze, il ducato di Venezia, la sterlina - dovettero pertanto la loro affermazione, spesso più che secolare, alla stabilità che le contraddistinse (v. Cipolla, 1956, p. 21).
Un aspetto delle antiche vicissitudini monetarie, che ha lasciato una larga traccia nella letteratura economica (v. Einaudi, 1953, p. 231), è costituito dalle cosiddette monete ‛immaginarie o ideali' o ‛numerarie' o ‛di conto': monete che, a differenza di quelle reali le quali soltanto potevano essere impiegate nei pagamenti effettivi, servivano per fini di contrattazione e di contabilizzazione. Non è necessario soffermarsi sulle ragioni, d'altronde diverse nei tempi e nei luoghi, che hanno portato a utilizzare questo dualismo tra moneta astratta e moneta effettiva, che esaurì la sua funzione alla fine del sec. XVIII. Il punto che qui interessa porre in evidenza è che, indipendentemente dalle circostanze specifiche che portarono nel tempo all'uso di monete immaginarie o di conto, le variazioni - disposte dalle autorità pubbliche - del loro rapporto rispetto alle monete reali realizzavano quegli stessi effetti che oggi si attendono da un processo inflazionistico o deflazionistico.
La cosiddetta moneta immaginaria costituiva già un esempio di ‛moneta-segno', sprovvista cioè di un effettivo contenuto intrinseco in metalli preziosi. Con il volgere del tempo, la circolazione di mezzi di pagamento cartacei, rappresentativi di determinati quantitativi di metalli preziosi e trasformabili nei medesimi a richiesta dei detentori, venne ad affermarsi per ragioni di convenienza. Anziché conservare direttamente e con notevoli rischi i metalli preziosi, risultò vantaggioso depositarli presso persone che godevano di larga fiducia (orefici, mercanti e simili), persone che rilasciavano di norma attestazioni del loro impegno alla pronta riconsegna dei metalli. Queste attestazioni divennero utilizzabili per effettuare pagamenti, in quanto la loro accettazione implicava fiducia nell'impegno assunto dai detentori materiali dei metalli.
Su queste basi sorge quella che diventerà l'attività bancaria, la cui evoluzione risulta particolarmente significativa per i fenomeni monetari, allorché il banchiere si rende conto della possibilità pratica di far fronte alla richiesta di conversione in metalli dei segni cartacei da lui rilasciati, senza che questi siano integralmente coperti dai metalli preziosi. A fronte delle attestazioni rilasciate è infatti sufficiente la conservazione di una prudenziale ‛riserva parziale', la differenza potendo essere utilizzata per effettuare operazioni di prestito. In questa fase, mentre l'accettazione dei mezzi cartacei continua a basarsi sulla fiducia, il sistema ammette una creazione di mezzi cartacei ‛multipla' rispetto alla disponibilità metallica mantenuta come riserva. Da una funzione di mera intermediazione, il sistema bancario evolve verso una funzione di partecipazione diretta alla creazione di mezzi monetari.
Come l'effettiva circolazione di metalli preziosi non valse a porre le collettività al riparo da vicissitudini, frodi e alterazioni, così l'esperienza storica dell'impiego dei mezzi cartacei ha ripetutamente esposto le collettività stesse a difficoltà e perturbazioni. All'analisi teorica tendente a chiarire i nessi tra fenomeni monetari e fenomeni reali, attinenti cioè alla produzione di beni e servizi di una collettività, è stata sempre strettamente associata l'indagine di quello che possa essere fatto o non possa essere fatto dai poteri pubblici, con l'impiego degli strumenti della politica monetaria.
3. Le concezioni quantitative
Influenza predominante, ai finì appunto di una spiegazione analitica e di suggerimenti per l'azione pubblica, hanno avuto le concezioni quantitative che, presenti in modo implicito anche in epoca più remota, hanno formato oggetto di elaborazione sistematica a partire almeno dal 1568. Risalgono infatti a tale anno le considerazioni del giurista francese J. Bodin, alle quali faranno riscontro in Italia i contributi di B. Davanzati e di G. Montanari e, in Inghilterra, le osservazioni dei filosofi J. Locke e D. Hume: elemento comune di questi diversi apporti essendo ‟il convincimento che il valore della moneta dipende, in larga misura, dalla sua quantità e che, conseguentemente, un qualche controllo dell'offerta di moneta é una premessa essenziale di ogni ragionevole politica monetaria" (v. Sayers, 1960, p. 710).
Le concezioni in senso lato quantitative non soltanto hanno assunto significati diversi attraverso il tempo, ma sono state interpretate in modo differente anche in una medesima epoca. Così in quella degli economisti classici, pur nel quadro di una generale accettazione della dipendenza del livello dei prezzi dalla variazione della massa monetaria, coesistono due orientamenti di pensiero intorno alla possibile influenza della quantità di moneta sull'attività economica. Da un lato, le dottrine abitualmente associate al nome di David Ricardo e formulate con riferimento esclusivo all'equilibrio di lungo periodo portavano alla conclusione fondamentale che il livello dell'attività economica era determinato soltanto dai fattori reali del sistema, mentre la quantità della moneta influiva unicamente sul livello dei prezzi. Altri autori (in particolare H. Thornton e J. S. Mill), dando maggior rilievo agli effetti di breve periodo connessi soprattutto al funzionamento dei meccanismi creditizi, riconoscevano che cause monetarie potevano avere effetti reali e che, d'altro canto, cause reali potevano avere effetti monetari (v. Hicks, 1967; tr. it., p. 133).
L'antitesi tra questi due punti di vista costituisce, come si vedrà, parte importante del dibattito odierno sui problemi monetari; ma appunto per questo è sembrato utile indicarne le origini remote.
Un ulteriore motivo di divisione, nell'ambito delle concezioni quantitative, trae origine dal prevalente rilievo attribuito, nelle formulazioni teoriche, a fattori istituzionali di carattere oggettivo, o a fattori di comportamento di carattere soggettivo. Espressione generalmente nota del primo indirizzo è ‟l'equazione degli scambi" dell'economista americano Irving Fisher (v., 1911) che assume la forma MV = TP. In questa formula, M indica la quantità complessiva della moneta, V la sua velocità di circolazione, definita come rapporto tra il volume delle transazioni e la quantità di moneta, T l'ammontare complessivo delle transazioni (scambi), P il livello generale dei prezzi. In assenza di ulteriori specificazioni, l'espressione è tautologica, in quanto implica che la spesa monetaria corrisponde al valore monetario dell'insieme dei beni scambiati. Ma, se si suppone che la velocità di circolazione rifletta le ‟abitudini della collettività considerata" a detenere moneta rispetto al volume degli scambi (date le forme di pagamento, le istituzioni bancarie disponibili e simili), allora la velocità stessa risulta costante nel breve periodo (vale a dire sino a quando non siano intervenute modificazioni apprezzabili nelle abitudini e negli altri elementi istituzionali indicati). Se poi si suppone che le transazioni (o scambi) corrispondano a quelle di una situazione di pieno impiego (in cui, pertanto, non è possibile ampliare ulteriormente l'offerta nel breve periodo), allora anche il termine T risulterà costante. Dalla costanza nel breve periodo dei termini V e T emerge la relazione tra la variazione della quantità di moneta e la variazione nello stesso senso dei prezzi (e, in senso inverso, nel potere d'acquisto della moneta) che costituisce l'essenza del principio quantitativo.
Una simile relazione, come è ovvio, non si applica soltanto ai biglietti dell'istituto di emissione, ma anche ai mezzi di pagamento posti in essere dall'intermediazione delle banche. Va altresì ricordato che, nella relazione in esame, la moneta viene considerata esclusivamente come mezzo di scambio, strumento cioè per il regolamento delle transazioni, e che queste si riferiscono all'economia nel suo complesso; a loro volta, i prezzi sono espressi mediante un indice generale e la quantità di moneta è quella complessiva: la relazione intercorre, cioè, tra grandezze aggregate del sistema economico.
L'indirizzo alternativo dà rilievo - come si è detto - ai fattori di carattere soggettivo, nel senso di basare la propria formulazione quantitativa sul desiderio dei soggetti economici di mantenere un determinato ammontare di scorte o disponibilità monetarie in rapporto al reddito di cui fruiscono. Questo indirizzo venne preferito dagli studiosi che facevano capo all'Università inglese di Cambridge, tra i quali si annoverano A. Marshall, A. C. Pigou, D. Robertson, J. M. Keynes. Le concezioni quantitative della Scuola di Cambridge trovarono espressione in varie formule, di cui la più nota è M = KPT. Mentre M, P, T conservano i significati già chiariti, K indica appunto la porzione del reddito che il pubblico intende conservare in forma monetaria. Il carattere abitudinario del rapporto desiderato tra scorte monetarie e reddito e l'ipotesi di transazioni che si svolgano al livello di pieno impiego conducono, anche in tal caso, a conclusioni del tutto simili a quelle che si desumono dalla relazione di Fisher. La differenza costituita dal carattere soggettivo delle decisioni circa il possesso di scorte monetarie è, tuttavia, importante. Con il rilievo dato a questo elemento, l'equazione di Cambridge' spiana la strada a un'analisi approfondita della domanda di moneta che sarà appunto svolta, in prosieguo di tempo, da uno dei suoi più prestigiosi esponenti, J. M. Keynes.
4. Le indicazioni di politica economica delle concezioni quantitative
Si è ricordato, in precedenza, che implicita nelle concezioni quantitative è un'indicazione di politica economica che suggerisce di assoggettare l'offerta di mezzi monetari al controllo di specifiche autorità a ciò delegate (in genere il Ministero del Tesoro, o altro dicastero economico e l'istituto di emissione, o banca centrale). Anche sul carattere di questo controllo non vi è stata, peraltro, univocità di interpretazioni. Nei primi decenni del 1800 fu proprio questo aspetto a formare oggetto in Inghilterra di una vivace controversia tra i seguaci della cosiddetta ‛scuola metallica' (currency school) e quelli della ‛scuola bancaria' (banking school). La controversia verteva appunto sulla definizione di ciò che andava assoggettato a controllo. In essenza, la tesi della scuola metallica era di considerare come moneta esclusivamente l'oro e le banconote. Di qui il suggerimento di imporre all'istituto di emissione di mantenere una riserva metallica (generalmente oro) che non doveva scendere al di sotto di una data percentuale dell'ammontare dei biglietti in circolazione. Si trattava pur sempre di una copertura parziale, il che significava un'accettazione dei biglietti basata sulla fiducia nella loro convertibilità. Questa, tuttavia, anziché essere affidata unicamente all'azione discrezionale dell'istituto di emissione, era salvaguardata anche da un vincolo legislativo che stabiliva che all'emissione aggiuntiva dei biglietti facesse sempre riscontro la prescritta copertura in metallo prezioso. Fu a questo principio che si ispirò il Bank Act o Atto di Peel del 1844 che, pur avendo riguardato in modo specifico l'assetto della Banca d'Inghilterra, in pratica influenzò la disciplina istituzionale delle banche centrali di tutti i paesi moderni e fu strumento dell'affermarsi, sul finire del secolo, del sistema monetario aureo, o gold standard.
Senza riuscire a conseguire questa predominante influenza sul piano concreto, la tesi sostenuta dalla scuola bancaria rimane molto significativa sul piano dottrinale. Essa affermava, infatti, che, in aggiunta all'oro e alle banconote, esistevano diversi altri mezzi (depositi bancari, cambiali, altre forme di credito) che potevano essere usati per il regolamento degli scambi e dei debiti. Un legame meccanico tra oro e biglietti dell'istituto di emissione appariva pertanto, al tempo stesso, inefficace e superfluo, data la diversità delle componenti dell'offerta di moneta, il cui adeguamento alle esigenze dei traffici andava affidato all'apprezzamento discrezionale dei banchieri.
Si trattava di una constatazione destinata ad assumere una importanza crescente nell'evoluzione successiva della teoria monetaria e, in particolare, nei suoi sviluppi più recenti. Questi sviluppi, oltre che dalla varietà delle componenti dell'offerta monetaria e dalla loro sostituibilità, sono stati influenzati dall'accrescersi - in complessità e diversificazione - dell'organizzazione finanziaria in senso lato. ‟In un mondo di mercati monetari e di mercati borsistici, la moneta è cosa del tutto diversa da ciò che essa era prima che queste istituzioni venissero in vita" (v. Hicks, 1967; tr. it., p. 128).
L'autore che ha contribuito più decisamente a incorporare questi aspetti nella teoria monetaria è stato l'economista inglese Keynes.
5. Il contributo di Keynes alla teoria monetaria
L'analisi dei problemi monetari, da parte di J. M. Keynes, è intimamente collegata con le profonde trasformazioni provocate negli assetti economici dalle vicende storiche successive alla prima guerra mondiale: dapprima, il tentativo di ripristinare il sistema monetario tradizionale basato sull'oro, sia pure con adattamenti diretti ad attenuarne la rigidità; successivamente il fallimento di questo tentativo, con l'abbandono del tallone aureo, da parte dell'Inghilterra, nel 1931; in seguito ancora, gli sconvolgimenti monetari connessi con la grande crisi mondiale, il manifestarsi nei vari paesi di livelli inusitati di inutilizzazione delle risorse umane e materiali, il frantumarsi di quei legami commerciali, monetari e finanziari che avevano reso sostanzialmente unitaria l'economia mondiale ante 1914; infine, l'avviamento - prima ancora del chiudersi del secondo conflitto mondiale - verso forme di collaborazione internazionale organizzata nei rapporti commerciali, monetari e finanziari.
La stretta connessione con le vicende storiche rende l'apporto di Keynes particolarmente sollecito per le misure di intervento pubblico desiderabili di fronte al modificarsi e all'incalzare degli eventi. Ne discendono, da un lato, una riconsiderazione costante del proprio e dell'altrui pensiero teorico: riconsiderazione di cui le tappe salienti sono costituite da A tract on monetary reform (1923), da A treatise on money (1930), da The general theory of employment, interest and money (1936) e da International clearing union (1943); dall'altro, una posizione cruciale che l'insieme di queste opere assume per la teoria e la politica monetaria moderne, anche se queste debbono molto al pensiero di altri eminenti studiosi della teoria monetaria, tra i quali vanno almeno ricordati K. Wicksell, D. Robertson e J. Hicks.
Considerato in rapporto alla contrapposizione, sottolineata nelle pagine precedenti, tra il punto di vista che riconduce l'attività economica alle sue determinanti reali e il punto di vista che pone in rilievo l'influenza dei fattori monetari, il pensiero keynesiano costituisce una vigorosa affermazione di questo secondo punto di vista. Il concetto di neutralità della moneta, che era connaturale a coloro che attribuivano importanza esclusiva alle determinanti reali, diviene per Keynes (v., 1973, p. 93) ‟una nozione priva di senso".
Queste premesse erano indispensabili per poter chiarire la posizione di punto di riferimento centrale che l'apporto keynesiano assume anche nei confronti dei posteriori e più recenti indirizzi dottrinali, pur quando essi si siano proposti criticamente il superamento di quell'apporto.
Partendo da concezioni quantitative di tipo cambridgiano e con una continuità di sviluppi che ha trovato di recente un esegeta approfonditamente documentato (v. Leijonhufvud, 1968), Keynes fornisce nella General theory un'analisi della domanda di moneta che può considerarsi la base della moderna teoria monetaria. Si tiene conto della complessa realtà istituzionale contemporanea, nella quale l'esistenza di un mercato finanziario organizzato consente l'acquisto e la vendita di vari tipi di titoli o attività finanziarie (titoli pubblici, obbligazioni, azioni e simili). Questi titoli promettono un certo rendimento, espongono a varie forme di rischio, sono vendibili, quando occorra, appunto sul mercato finanziario, ma ai prezzi che esso fisserà e con possibili perdite rispetto all'originario prezzo d'acquisto (in gergo tecnico, perdite in conto capitale). Nei confronti di questi vari tipi di impiego della ricchezza patrimoniale, anche la moneta costituisce una forma di impiego alternativo: infruttifera, ma sempre spendibile, senza incorrere in perdite in conto capitale.
In questo quadro, il problema centrale della teoria monetaria consiste appunto nel cercare di spiegare perché i soggetti economici detengano una parte delle loro disponibilità nella forma di moneta, pur essendo questa infruttifera, anziché nei vari titoli produttivi di interessi e di profitti. D'altra parte, porre in questi termini l'analisi della domanda di moneta significa considerarne non soltanto la funzione di mezzo di scambio, ma altresì quella di strumento di impiego della ricchezza, o più scolasticamente di riserva di valori. Tenendo conto congiuntamente di queste due funzioni, secondo una linea di pensiero che risaliva ad A. Marshall, ma che si era venuta chiarendo con lentezza nei suoi continuatori, Keynes spiegò la domanda di moneta del pubblico in base a tre moventi, o ragioni essenziali: a) il movente delle transazioni o negoziazioni; b) il movente precauzionale; c) il movente speculativo.
Può essere utile rilevare che la distinzione tra questi moventi non implicava in alcun modo l'individuazione di compartimenti stagni in cui le complessive disponibilità monetarie venissero a ripartirsi. Anzi, nota lo stesso Keynes, non era nemmeno necessario che i moventi fossero nettamente separati nella mente del singolo individuo, la cui domanda complessiva di moneta si sarebbe generalmente manifestata in un unica decisione (v. Keynes, 1936; tr. it., p. 195). Nondimeno, considerare questa decisione come il risultato composito di moventi diversi appariva opportuno, una volta chiarito il significato specifico di ciascuno di essi.
Il movente delle transazioni, o negoziazioni, è connesso con la mancanza di sincronismo tra la periodicità degli incassi (per es., mensili, settimanali) e il ritmo dei pagamenti (per es., di frequente giornalieri). Si tratta di un fatto di comune esperienza, sia per le famiglie sia per le imprese. Poiché le transazioni sono legate al reddito, e le consuetudini circa i ritmi e le forme delle riscossioni e dei pagamenti evolvono lentamente in una data collettività, la domanda di moneta per il movente in esame dipenderà dal livello del reddito monetario, ossia dall'attività globale del sistema economico.
Il movente precauzionale riflette una domanda di moneta per fini prudenziali, ma sempre connessa con la discontinuità di ritmo tra pagamenti e incassi. Ogni esigenza di pagamento che non rientri esattamente nel quadro previsto dal soggetto economico potrebbe essere da lui fronteggiata con la vendita di qualche titolo, o attività finanziaria. Ma questa vendita potrebbe esporlo a perdite in conto capitale. Può essere quindi prudente disporre di una certa scorta di moneta, proprio per la sua intrinseca funzione di mezzo di pagamento.
Con il movente speculativo, al quale Keynes diede speciale rilevanza, si entra in pieno nella considerazione dei titoli offerti e negoziabili sul mercato finanziario. Keynes, esclusivamente per scopi di semplicità, anziché considerare la vasta gamma di titoli disponibili nella realtà, si limitò a supporre l'esistenza sul mercato finanziario unicamente di titoli obbligazionari a reddito fisso. Questa semplificazione restringeva l'alternativa aperta agli operatori tra il detenere denaro contante o detenere titoli dell'unico tipo disponibile sul mercato finanziario; ma aveva il vantaggio di concentrare l'attenzione sul carattere istituzionalmente ‛infruttifero' del denaro contante e su ‛un unico tasso di interesse', quello appunto ottenibile con l'impiego del danaro nei titoli a reddito fisso, negoziabili sul mercato finanziario.
La deliberata schematizzazione del mercato finanziario contribuisce a mettere in più vivida luce il legame tra la domanda di moneta per scopi speculativi e il tasso di interesse; legame che Keynes analizza in base alle differenti aspettative degli operatori circa l'andamento futuro delle quotazioni dei titoli, dalle quali dipende il loro rendimento effettivo.
Si supponga, per esemplificare il gioco di queste aspettative, che il titolo a reddito fisso prescelto abbia un valore nominale di 100 e rechi un interesse annuo di 4. Sin quando il tasso di interesse per gli impieghi di analoga durata rimanga pari al 4%, sarà possibile vendere il titolo al valore di acquisto di 100. Ma se si verifica nel mercato un aumento del tasso di interesse al 5%, la quotazione del titolo al 4 deve necessariamente adeguarsi al nuovo livello dell'interesse e scenderebbe a 80; allora, in caso di vendita, il rendimento annuo compenserebbe di ben poco la perdita in linea capitale, pari a 20. In generale, l'acquisto di attività finanziarie (o il temporaneo rinvio dell'acquisto con il mantenimento in forma liquida della disponibilità suscettibile di impiego) sarà appunto influenzato dalle aspettative dei soggetti circa il livello futuro dei tassi di interesse (ai quali sono collegate, come si e' visto, le quotazioni dei titoli); aspettative che essi baseranno sulla loro esperienza del passato e sul convincimento di ‟conoscere meglio del mercato ciò che il futuro arrecherà" (v. Keynes, 1936; tr. it., p. 170). In definitiva, dunque, il mantenimento di moneta per scopi speculativi varierà con il tasso di interesse, e in senso inverso: quanto più basso sarà il tasso di interesse (quanto più elevato il prezzo dei titoli), tanto più elevato sarà l'ammontare di contante che il pubblico desidera detenere, e viceversa.
È conveniente, dopo aver analizzato separatamente i tre moventi, considerarli ora in modo congiunto. ‟In circostanze normali - scrive Keynes - la quantità di moneta richiesta per soddisfare il movente delle negoziazioni e il movente precauzionale è principalmente una risultante dell'attività generale del sistema economico e del livello del reddito monetario...". A sua volta, ‟la domanda complessiva di moneta per soddisfare il movente speculativo mostra generalmente una sensibilità continua a variazioni progressive del saggio di interesse, ossia esiste una curva continua che collega le variazioni della domanda di moneta per soddisfare il movente speculativo alle variazioni del saggio di interesse, quali risultano da variazioni dei prezzi delle obbligazioni" (ibid., p. 196).
In più, quando si introduca la considerazione dell'offerta di moneta e delle sue variazioni - sia che esse abbiano carattere occasionale, sia che rispondano a una deliberata azione delle autorità monetarie - risulta ancor più evidente l'importanza cruciale attribuita da Keynes al movente speculativo, in quanto ‟e precisamente giocando sul movente speculativo che la manovra monetaria (o, in inancanza di manovra, ogni variazione accidentale della quantità di moneta) esercita la sua influenza sul sistema economico" (ibid.).
É sembrato opportuno soffermare l'esame su questi elementi, perché essi costituiscono il nucleo essenziale degli sviluppi successivi della teoria monetaria, anche quando questa abbia preferito assumere atteggiamenti di contrapposizione critica rispetto al pensiero keynesiano. Appare evidente, per esempio, che, posta la premessa di una destinazione delle disponibilità liquide tra contante o titoli obbligazionari, un ragionevole passo ulteriore era quello di estendere l'analisi a una gamma di attività finanziarie più ampia di quelle prese in considerazione da Keynes. Ciò è puntualmente avvenuto, come si vedrà tra breve; si tratta di una integrazione valida e importante, ma che appare incontestabilmente connessa con l'impostazione keynesiana, anche se i singoli autori abbiano talvolta preferito affermare il contrario.
È in rapporto alle proposizioni keynesiane sin qui analizzate che riesce invece più agevole rendersi conto dei molteplici e controversi problemi affrontati dall'evoluzione più recente della teoria monetaria: sia ai fini di un riesame critico e integrativo dell'analisi della domanda di moneta; sia ai fini dell'approfondimento conoscitivo del processo di offerta della moneta, nonché del ‛meccanismo di trasmissione' delle influenze monetarie sull'attività economica: aspetti tutti sui quali rivolgeremo ora il nostro esame.
6. La domanda di moneta come applicazione della teoria della scelta
A orientare l'analisi della domanda di moneta nella direzione indicata - che, in sostanza, si ricollega alla teoria generale della scelta - ha contribuito, oltre all'apporto keynesiano sin qui considerato, anche uno scritto pionieristico di Hicks. Egli, traendo spunto da un accenno contenuto nel Treatise on money di Keynes circa le ‟preferenze relative dell'investitore a tenere depositi bancari o titoli", ne ha elaborato acutamente le implicazioni, che portano a spiegare le decisioni monetarie del pubblico in base alla logica delle scelte. ‟Sappiamo - egli scrive - che l'analisi dell'utilità marginale non è altro che una teoria generale della scelta, che si può applicare ogni volta che la scelta è tra alternative che possono avere espressione quantitativa. La moneta è ovviamente esprimibile in termini quantitativi [...]. Occorre spiegare [in base, appunto, alla logica della scelta] la decisione di tenere attività in forma di sterile moneta, invece che in titoli che rendano un interesse o un profitto" (v. Hicks, 1935, p. 2).
Per quanto in questa impostazione si ritrovino, pressoché alla lettera, considerazioni simili a quelle esposte nel capitolo precedente, occorre tener presente che l'attenzione di Hicks era prevalentemente accentrata sul comportamento delle singole unità economiche (sull'aspetto, cioè, ‛microeconomico', secondo il linguaggio corrente); mentre Keynes nella General theory concentra l'attenzione sulle grandezze globali del sistema economico (ossia sull'aspetto che si designa correntemente come ‛macroeconomico'). Essendo entrambi gli aspetti essenziali per la comprensione della problematica economica, questo duplice impulso non ha mancato di riflettersi sull'ulteriore sviluppo delle indagini intorno alla domanda di moneta.
Queste indagini si sono proposte, ad un tempo, compiti di generalizzazione e di integrazione. Così si è riconosciuto che l'influenza del tasso di interesse, inizialmente riferita alla domanda di moneta per fini speculativi, non poteva essere trascurata anche nei riguardi delle disponibilità detenute per fini di transazioni e precauzionali. Questa estensione, che era un ovvio riflesso della sostituibilità tra moneta e altre attività finanziarie fruttifere, imponeva tuttavia la considerazione di vari altri elementi. Nell'integrarli nell'analisi, la teoria della domanda di moneta si è gradatamente ampliata nell'esame sistematico dell'impiego della ricchezza tra differenti attività finanziarie, che si designa correntemente come analisi delle scelte di portafoglio.
Quando, cioè, si supponga l'esistenza di un mercato finanziario organizzato, da un lato sarà possibile che la scelta dei soggetti economici si manifesti su un'estesa gamma di attività finanziarie, dall'altro sarà necessario tener conto di un complesso intreccio di variabili che concorrono alla spiegazione della domanda di moneta. Intanto, le decisioni dei soggetti non dipenderanno soltanto dal flusso del reddito, ma anche dal fondo o stock della ricchezza disponibile. Inoltre, perché le scelte rispondano a principi di razionalità, occorrerà tener conto: dei saggi di rendimento delle differenti attività finanziarie; della probabilità di variazioni future dei saggi di rendimento (il che introduce nella scelta la considerazione dell'‛incertezza'); delle aspettative circa l'andamento futuro dei prezzi dei beni, il cui acquisto costituisce una tra le possibili destinazioni della ricchezza.
Il comportamento dei soggetti, che si suppongono intesi a massimizzare il risultato utile delle loro decisioni, risponde a un criterio abbastanza semplice, nel senso che la scelta ottimale del portafoglio richiederà che i tassi marginali di rendimento, rettificati per tener conto del rischio, siano uguali per tutte le attività finanziarie acquisite. Una scelta diversa, infatti, significherebbe preferire attività finanziarie con rendimento minore, in luogo di altre disponibili con rendimento maggiore, e ciò contrasterebbe con l'obiettivo ipotizzato di massimizzazione del risultato conseguibile. Ma, se il criterio risolutore della composizione ottimale del portafoglio di attività finanziarie appare semplice, non si deve perdere di vista che le decisioni dei soggetti ‟si basano su aspettative, valutazioni di rischio, atteggiamenti nei confronti del rischio e un complesso di altri fattori" (v. Tobin, 1969, p. 29).
La linea di pensiero che considera la moneta come un modo di detenere la ricchezza determinato in base a scelte che riguardano l'insieme delle attività alternative disponibili è abitualmente legata al nome di J. Tobin e dei suoi collaboratori presso l'Università di Yale. In realtà, l'analisi delle scelte di portafoglio si è sviluppata anche con il contributo di vari altri autori (v. Johnson, 1962, p. 345) e, per questo stesso fatto, costituisce un'impostazione teorica largamente accettata. Ciò non toglie che, nell'ambito di un'impostazione sostanzialmente comune, si distinguano ulteriori indirizzi specifici.
Uno di essi, ispirato a intenti di semplificazione, si è proposto di concentrare l'attenzione sui più ravvicinati rapporti di sostituzione tra la moneta e le attività maggiormente liquide: vale a dire, negoziabili con facilità e senza incorrere in apprezzabili perdite in conto capitale, al momento dell'eventuale monetizzazione delle attività stesse.
Il suggerimento di considerare le disponibilità monetarie nel quadro ‟della più ampia struttura di liquidità dell'economia" è stato avanzato con molto vigore da un documento ufficiale inglese, il Radcliffe committee on the working of the monetary system report, che, pur proponendosi un esame particolareggiato del funzionamento del sistema monetario inglese, è divenuto un importante punto di riferimento nella letteratura monetaria contemporanea, appunto per questo tentativo di dar speciale rilievo alla ‛liquidità in senso generale' del sistema economico. Le decisioni di spesa, infatti, secondo la tesi del Committee, dipendono dalla liquidità in senso generale e non dalla disponibilità immediata di denaro da parte del soggetto, che costituisce soltanto un elemento di massima liquidità. In altri termini, una decisione di spesa non è limitata dalla quantità di denaro esistente, ma è legata alla quantità di denaro che un privato o una società prevedono di procurarsi sia con redditi ricavati (per esempio, da vendite commerciali), o con alienazioni di attività, sia con ricorso a forme varie di credito, incluso quello dei fornitori. In particolare, nelle condizioni attuali, esiste un grado notevole di sostituibilità fra le varie fonti potenziali di credito, per il fatto che, a fianco delle tradizionali banche commerciali, e in concorrenza con esse, esiste una vasta gamma di ‛intermediari finanziari' la cui attività pone in grado il mercato di disporre di titoli forniti di un grado elevato di liquidità (v. Radcliffe committee..., 1959).
Il discorso degli intermediari finanziari dovrà essere ripreso e completato nell'esame che verrà in seguito dedicato ai problemi dell'offerta di moneta in senso lato. Rimanendo per ora strettamente aderenti ai problemi della domanda di moneta (con una separazione dei due aspetti che risponde, ovviamente, solo a fini di schematicità espositiva), occorre osservare che, se il concetto di liquidità complessiva del sistema economico ha contribuito a chiarire alcune importanti circostanze che influiscono sulle decisioni di spesa, ha nel contempo suscitato nuovi problemi. Poiché, per le attività diverse dalla moneta, la liquidità dipende da circostanze che non consentono una distinzione netta e rigida tra un comparto liquido e un comparto non liquido, l'indagine si è arricchita di ricerche intese a esplorare i fattori influenti sul grado di liquidità, nelle differenti situazioni di mercato.
Un secondo indirizzo, che ha per esponente l'economista K. Brunner, si è proposto un compito di maggior approfondimento, suggerito dall'insoddisfazione per il modo in cui la moneta viene considerata nell'ambito dell'analisi delle scelte di portafoglio. Queste vengono studiate nel presupposto che la moneta già esista e senza un'indagine approfondita e realistica della sua fondamentale ragione d'essere. Per ricercarla, secondo la linea di pensiero del Brunner, occorre andare oltre la teoria della scelta convenzionale, che, nei suoi presupposti semplificatori, considera come date le dotazioni e le preferenze dei soggetti e ipotizza che essi siano forniti di piena conoscenza e di perfetta informazione circa i prezzi e la qualità dei beni. A questa situazione, egli contrappone uno stato di cose in cui manchi questa pienezza di informazione ed esista una diffusa incertezza circa i prezzi, le qualità dei beni e le opportunità del mercato in generale. In ogni momento nel tempo, i soggetti possono avvalersi di un fondo di informazioni ereditato dal passato e possono considerare conveniente accrescerlo o aggiornarlo, con una specifica destinazione di risorse nell'intento appunto di acquisire informazioni. Ora, l'impiego della moneta consente ai soggetti di ‟ridurre l'ammontare di informazioni che essi devono acquisire, elaborare e accumulare, e il numero degli scambi che essi debbono effettuare, allo scopo di trasformare la loro dotazione iniziale in una collezione ottimale di beni. L'impiego della moneta accresce lo stato di benessere di coloro che ne fanno uso, con il ridurre l'in- certezza, la lunghezza della catena degli scambi, la dispersione dei rapporti tra i prezzi, accrescendo invece la ricchezza attesa e la disponibilità del tempo libero" (v. Brunner, 1971, p. 13). Con questa analisi, che tende a dare più valide basi microeconomiche a quella delle scelte di portafoglio, si pone sostanzialmente in evidenza la produttività specifica della moneta, attraverso l'esame dei costi umani che essa consente di ridurre e dei vantaggi di benessere che permette di conseguire.
Un terzo indirizzo, infine, che ha per principale esponente M. Friedman, tende a una presentazione dell'analisi della domanda di moneta in termini che mirano soprattutto a porre l'accento sulle differenze dell'analisi stessa rispetto agli svolgimenti di pensiero che trovano un nucleo unificatore nella logica delle scelte di portafoglio.
In realtà, dal punto di vista della storia della teoria eco- nomica, non appare dubbio che anche l'apporto di Friedman rientri nel quadro di questi svolgimenti (v. Patinkin, 1972, p. 139). Nondimeno, poiché l'autore è tra quelli che hanno maggiormente contribuito al dibattito teorico odierno sui problemi monetari (anche se con qualche sovrabbondanza di interventi polemici), appare necessario soffermarsi sulla sua versione della teoria della domanda di moneta, che anch'egli elabora concentrando l'attenzione su un numero limitato di variabili considerate di importanza predominante.
Secondo Friedman, che riferisce spesso il suo pensiero alla tradizione della Scuola di Chicago, la domanda di moneta (o di ogni altra particolare attività finanziaria) dipende da tre gruppi principali di fattori: a) la ricchezza complessiva da detenere in varie forme; b) il prezzo e il rendimento relativi alle varie forme di impiego alternativo della ricchezza; c) i gusti e le preferenze delle unità detentrici della ricchezza (v. Friedman, 1956, p. 4). Il concetto di ricchezza, che egli include come ‛variabile cruciale' nella spiegazione della domanda di moneta, è inteso nel senso più ampio: comprensivo, cioè, anche della ricchezza umana, vale a dire della capacità degli individui di essere fonte di reddito. In concreto, per fini di misurazione, viene utilizzato un indice della ricchezza costituito dal cosiddetto ‛reddito permanente': espressione che vuole sottolineare come questo reddito non sia valutato con i criteri abituali della contabilità nazionale, ma indichi piuttosto il flusso di reddito che i soggetti economici considerino normale per un periodo di tempo sufficientemente lungo, cioè in una prospettiva temporale che si estenda oltre il consueto periodo annuale.
In definitiva, la ricchezza (o il reddito permanente che ne costituisce manifestazione approssimata) e le altre variabili in precedenza indicate sono quelle che Friedman giudica di preminente importanza nell'analisi della domanda di moneta e che egli considera pertanto sufficienti a fornirne una spiegazione aderente ai fatti. Oltre a questa deliberata limitazione delle variabili da includere nella funzione di domanda di moneta, è caratteristico della trattazione di Friedman l'assumere che le decisioni di soggetti economici siano influenzate non già dalla entità nominale delle scorte monetane, ma dal valore delle scorte stesse in termini reali, vale a dire dal loro effettivo potere d'acquisto. Nel parlare di domanda di moneta - avverte Friedman - dobbiamo chiederci che cosa determini l'equivalente ‛potenziale' di beni e servizi che il pubblico desidera conservare nella forma di moneta.
Lo studio dei fattori che influiscono sulla domanda di moneta ha inoltre condotto i teorici della Scuola di Chicago ad affermare, sulla base di indagini empiriche, che la domanda stessa si mantiene stabile nel tempo. Questo non significa che essa rimanga costante, al modificarsi delle situazioni, bensì che esiste una relazione funzionale stabile tra la domanda di moneta e i fattori che la determinano.
Infine, nella concezione di Friedman, si sostiene l'indipendenza dei fattori che determinano la domanda di moneta da quelli che determinano l'offerta.
Ognuna delle parti che compongono il quadro di riferimento teorico elaborato da Friedman ha dato luogo a prolungati e accesi dibattiti polemici; dibattiti che hanno riguardato anche il suo modo di considerare la moneta unicamente come attività finanziaria, senza tener conto della problematica inerente alla funzione della moneta come mezzo di scambio, o strumento di regolamento delle transazioni. Qui preme, peraltro, più che entrare nel fitto intreccio di tali polemiche, indicare gli elementi essenziali dell'indirizzo di pensiero che fa capo a Friedman. D'altra parte, occorre procedere oltre l'analisi della domanda di moneta, alla quale è stata sinora limitata l'esposizione, e affrontare l'esame di un altro aspetto essenziale: quello cioè dell'offerta dei mezzi monetari.
7. L'analisi dell'offerta di moneta e delle sue determinanti
Nell'esame svolto intorno all'evoluzione storica della moneta, come pure nei successivi capitoli, si è fatto accenno a più riprese alla quantità della moneta o dei mezzi di pagamento in generale. Si è posto in evidenza che il passaggio dalla moneta metallica alle banconote cartacee ha implicato la possibilità di una creazione di mezzi cartacei multipla rispetto alla riserva metallica. Si è ricordata la controversia insorta sull'estensione da dare alla definizione di moneta: se, cioè, dovessero prendersi in considerazione a tal fine esclusivamente l'oro e le banconote, o se si dovesse tener conto anche dei diversi altri mezzi (depositi bancari, cambiali, crediti di altro genere) che potevano essere usati per il regolamento degli scambi e dei debiti. Si è indicata la connessione intima tra le concezioni quantitative e il controllo della quantità di moneta come compito fondamentale della politica monetaria. Si è sottolineata infine l'esistenza, già nel periodo degli economisti classici, di un duplice orientamento di pensiero circa la possibile influenza della quantità di moneta (ossia dei fattori monetari) sull'attività economica (reale).
Questa prospettiva storica consente di comprendere con maggior chiarezza che il complicarsi delle tecniche e l'impiego sempre più frequente di elaborate ricerche di carattere quantitativo ed econometrico non significano necessariamente un rinnovarsi o un arricchirsi della problematica. Nè, ancor meno, questo può attendersi da mere innovazioni o preferenze di carattere termino logico. Nondimeno, se appare utile essere consapevoli delle origini remote di problemi o di contrasti che sono oggi al centro del dibattito monetario, occorre altresì tener conto adeguato degli sviluppi che hanno subito nel corso dell'evoluzione del pensiero economico.
Con riguardo all'offerta di moneta, soltanto in epoca non troppo lontana (v. Crick, 1927) si è giunti a rendere accessibile non solo agli esperti, ma al pubblico in generale, il processo di creazione di credito, ossia di mezzi di pagamento, ad opera delle banche commerciali, o di deposito e sconto. Queste, nei sistemi istituzionali moderni, dispongono di un loro specifico ‛potere di emissione', costituito dal rilascio, sia ai propri depositanti sia ai beneficiari dei propri crediti, di assegni bancari, titoli largamente accettati come mezzo di pagamento e di regolamento dei debiti. Da ciò discendono varie conseguenze. La possibilità, a suo tempo esaminata con riferimento agli istituti di emissione, di un'espansione multipla delle loro banconote, rispetto alla riserva metallica parziale, va ora considerata con riferimento all'espansione di mezzi creditizi, da parte delle banche di credito ordinario. ‟I depositi bancari a vista, al pari delle banconote, costituiscono moneta con riserva parziale [...]. Una banca ordinaria ha depositi di un ammontare più volte superiore alla sua ‛riserva' di banconote, allo stesso modo che una banca di emissione ha biglietti in circolazione per un valore più volte superiore a quello delle sue riserve. Invero le banche creano depositi nello stesso modo in cui si pongono in essere biglietti" (v. Duesenberry, 1964, p. 16). Da un lato, vale a dire, è l'attività svolta dalle banche nel concedere crediti (o, più in generale, nell'effettuare i propri impieghi) a determinare, ‛di riflesso', la formazione di depositi: cioè, di attestazioni debitorie delle banche che il pubblico è disposto a detenere e a impiegare per il regolamento degli scambi. Dall'altro lato, nell'ambito di questo processo di creazione di credito, le banconote finiscono per assumere una funzione concettualmente analoga a quella tradizionale dei metalli preziosi come riserva delle banconote: una funzione, come sappiamo, di mera riserva parziale, destinata a sostenere un'espansione multipla di moneta bancaria. L'entità di questo multiplo dipenderà dalla riserva di banconote che le banche riterranno necessario detenere (o dovranno detenere per effetto di vincoli legislativi), nonché dalla proporzione in cui i prestiti concessi dalle banche verranno utilizzati mediante assegni o daranno luogo a richieste di banconote, e quindi a una loro contrazione presso singole banche o presso l'intero sistema bancario.
Poiché l'istituto di emissione è l'unico che può fornire banconote (utilizzate dal pubblico, oltre che dalle banche), ne deriva la sua posizione di cardine del sistema bancario, nel senso che gli competono compiti di regolamentazione della condotta delle banche in quanto creatrici di credito.
Nella terminologia adoperata di recente in diversi paesi, si designa come ‛base monetaria' l'insieme delle attività che possono essere utilizzate dalle banche ordinarie nella funzione appunto di riserva a fronte dei depositi.
L'istituto di emissione, o più in generale le autorità monetarie, possono controllare la base monetaria, sia regolandone il volume, nel senso dell'aumento o della diminuzione, sia stabilendo quali attività liquide rientrino nella base monetaria. L'importanza della manovra della base monetaria dipende dal fatto che, in tal modo, si può frenare o stimolare l'attività del sistema bancario, e quindi il livello dei depositi. Ad esempio, l'accrescimento della base monetaria ad opera delle autorità, tenderebbe a far accumulare presso le banche la parte di essa non trattenuta dal pubblico, provocando un aumento dei depositi.
Un'estesa letteratura economica è stata dedicata allo studio teorico ed empirico del cosiddetto ‛moltiplicatore dei depositi', mediante il quale si tende a stabilire l'espansione massima dei depositi stessi realizzabile sulla base di determinate ipotesi. Nell'espressione più semplice, il moltiplicatore di espansione dei depositi è pari al reciproco della percentuale minima di riserva (che, come si è detto, potrebbe essere stabilita in base all'esperienza, o rispondere a una consolidata consuetudine, o essere fissata dalla legge).
Le indagini tendenti a stabilire le relazioni quantitative tra base monetaria e depositi bancari, pur avendo contribuito a chiarire il meccanismo della creazione di credito, si prestano a qualche equivoco interpretativo, qualora si perda di vista che i risultati finali indicano effetti possibili, limiti potenziali. Il realizzarsi o meno di queste possibilità dipende, congiuntamente, dal comportamento effettivo delle autorità monetarie, delle banche e del pubblico. La condotta di quest'ultimo, in particolare, va considerata tenendo conto della complessità dei fattori già esaminati, che influiscono sulla domanda di moneta in senso lato.
Sin qui si è esaminata quella componente dell'offerta di moneta costituita dai depositi bancari, attestazioni debitorie delle banche ordinarie abitualmente accettate dal pubblico e interscambiabili con i biglietti dell'istituto di emissione. Sappiamo, peraltro, che accanto alle banche operano altri ‛intermediari finanziari', di tipo diverso a seconda delle differenti realtà istituzionali, ma con compiti sostanzialmente simili di ‛mediazione specializzata', di cui occorre dare qualche ulteriore ragguaglio. Gli intermediari finanziari raccolgono risparmi dai soggetti economici che hanno disponibilità eccedenti le somme destinate a spesa e accordano finanziamenti alle imprese che ne abbisognano. Ma, nel far questo, essi offrono al mercato titoli per la raccolta dei fondi disponibili in quelle forme che siano più gradite ai risparmiatori, mentre, nell'accordare finanziamenti, sono in grado di adattarli (nella durata, nelle richieste di garanzie, nelle diverse condizioni accessorie) alle differenti situazioni delle imprese. Ora, questa loro azione differenziata interessa il nostro esame da un duplice punto di vista. Da un lato, completa ciò che si è detto circa il processo di creazione di credito: in quanto vi contribuiscono anche gli intermediari finanziari diversi dalle banche ordinarie per il fatto che le attestazioni debitorie rilasciate dagli intermediari stessi sono maggiormente negoziabili, e quindi più utili rispetto al mercato di quanto lo siano le singole attestazioni debitorie dei vari clienti. Da questa possibilità di scambiare un diritto di esigere meno negoziabile con un altro maggiormente negoziabile deriva l'influenza che istituzioni del genere esercitano sul modo di operare del sistema economico in generale. In più, il rilievo che in tale quadro assumono i problemi del finanziamento delle unità economiche e dell'organizzazione finanziaria in senso lato, riflettendosi - come già si ebbe a porre in rilievo - nella gamma svariata delle attività finanziarie disponibili su un mercato organizzato e nella loro sostituibilità, ha portato a utilizzare, anche per lo studio dell'offerta di moneta, l'analisi delle scelte di portafoglio, in parallelismo con la sua applicazione rispetto ai problemi della domanda.
Occorre, ovviamente, mutare ciò che va mutato. L'analisi viene inizialmente riferita alle banche ordinarie e si propone di spiegare l'ammontare complessivo e la composizione delle attività possedute (incluso il contante e gli impieghi dotati di elevata liquidità), nell'ipotesi che le banche mirino alla massimizzazione dei profitti. Le loro decisioni dovranno tener conto dei rendimenti attesi sulle varie attività, delle possibili variazioni dei loro prezzi, delle diversità nei costi di negoziazione e nei rischi; l'eguaglianza dei rendimenti al margine nei vari impieghi che esse tenderanno a realizzare, per conseguire la massimizzazione dei profitti, implica quindi la considerazione di rendimenti rettificati in funzione di questi diversi elementi integrativi. Vi sono, peraltro, altre circostanze a noi già note che devono ora essere inserite in questo schema di ragionamento. Si è già illustrato in precedenza come, a fronte dei depositi, le banche detengano una riserva di banconote, il cui ammontare minimo è frequentemente stabilito da disposizioni legislative. Si è altresì posto in evidenza che è la banca centrale a fornire, con la creazione della base monetaria, i mezzi utilizzabili dalle banche ordinarie per la costituzione della riserva (al livello minimo, o a quello eventualmente più elevato che le banche preferiscono detenere, quale margine libero di riserva). Va infine ricordato che sia il pubblico sia gli intermediari finanziari, nell'ambito delle scelte concernenti la composizione dei portafogli dei singoli operatori o delle diverse istituzioni, concorrono a richiedere e detenere banconote o, più in generale, mezzi rientranti nella base monetaria.
In definitiva, dunque : ‟l'istituto di emissione fornisce i mezzi di riserva occorrenti per l'attività di prestito delle banche commerciali ; queste forniscono le riserve monetarie occorrenti per l'attività di prestito degli intermediari finanziari non bancari. Per il sistema nel suo complesso, le scelte di portafoglio del pubblico rispetto alle bancono- te, ai depositi bancari, alle attestazioni debitorie degli intermediari finanziari non bancari e alle altre attività - concorrono a determinare l'ammontare delle riserve disponibili per tutti gli intermediari finanziari (incluse le banche ordinarie) e, conseguentemente, a determinare l'offerta di prestiti di questi ultimi" (v. Fleming, 1972, p. 35).
Applicata all'offerta di moneta, l'analisi delle scelte di portafoglio conduce a porre in rilievo le affinità, più che le differenze, esistenti tra i diversi tipi di intermediari finanziari, bancari o non bancari, e la sostituibilità che viene a stabilirsi, mediante le decisioni del pubblico tra le rispettive attestazioni debitorie.
Nel passare pertanto al quesito ‛perenne' dei rapporti tra fattori monetari e attività economica reale, occorre affrontare il problema da questo angolo visuale più comprensivo, che richiede di tener conto, nell'indagine di tali rapporti, di questa più complessa struttura di istituzioni finanziarie (v. Gurley e Shaw, 1960).
8. Dalle scelte finanziarie agli effetti sul livello del reddito e dell'occupazione
Sin qui, pur essendo stato posto in evidenza il contributo di Keynes alla teoria monetaria (v. sopra, cap. 4), non si è fatto accenno a un aspetto essenziale di questo contributo, cioè al significato ultimo che esso ha assunto di aperta confutazione della teoria quantitativa. In effetti, Keynes fu inizialmente un continuatore brillante dell'elaborazione che questa teoria ebbe presso la Scuola di Cambridge cui egli (come si è già visto) apparteneva. Se, anche nelle opere anteriori alla General theory, non mancano spunti critici nei confronti dell'interpretazione ‛tradizionale' della teoria quantitativa, essi riguardano, in generale, i costi imposti alla collettività internazionale dai tentativi di ritorno al gold standard dopo il primo conflitto mondiale e una certa insoddisfazione nei confronti delle spiegazioni accettate circa il processo mediante il quale la moneta si trasforma in reddito. La svolta avvenne, appunto, con la General theory, opera nella quale (con l'espressione stessa dell'autore), il suo pensiero si libera ‟dalle confusioni della teoria quantitativa" (v. Keynes, 1949). Per quali ragioni e in qual modo ciò sia avvenuto non può essere chiarito adeguatamente, se non affrontando in pieno il problema dei rapporti tra fenomeni monetari (o, più comprensivamente, finanziari) e fenomeni reali del sistema economico. Nell'esame della domanda e dell'offerta di moneta vi si è fatto allusione più volte, ma in modo incidentale. Ora il tema deve essere affrontato con maggiore approfondimento.
Conviene ricordare che la teoria quantitativa si inquadrava in una concezione che ammetteva l'esistenza nel sistema economico di condizioni di pieno impiego e di una tendenza a ritornarvi, nel caso di temporanei allontanamenti. Non si trattava di un atto di fede, ma del risultato necessario di meccanismi riequilibratori che si supponevano operanti nel sistema economico e che si individuavano soprattutto nella adattabilità, o flessibilità, dei prezzi e dei salari alle condizioni di domanda e offerta. E con riferimento a un sistema del genere che venivano analizzate le conseguenze di una eventuale variazione della quantità di moneta: conseguenze che si riflettevano unicamente e per intero sul livello generale dei prezzi. La determinazione di questo livello costituì dunque l'oggetto essenziale di studio della teoria monetaria.
La posizione assunta da Keynes nella General theory contesta appunto questa affermata tendenza del sistema economico alla piena occupazione e vi contrappone la possibilità di un equilibrio in condizioni di sottoccupazione: il termine equilibrio non indicando, ovviamente, uno stato di cose soddisfacente, o approvabile, bensì una condizione che può protrarsi e perdurare per l'inefficacia dei meccanismi considerati riequilibratori.
Il fondamento teorico della possibilità di un ‛equilibrio di sottoccupazione' ha formato oggetto di un dibattito che dura da circa un quarantennio, nel corso del quale alla contrapposizione analizzata in un primo tempo tra Keynes e ‛i classici' è venuta, da ultimo, sostituendosi un'affermata contrapposizione tra il pensiero genuino di Keynes e quello dei keynesiani (in un significato comprensivo che include i formalizzatori, gli esegeti e i divulgatori).
Per i fini che direttamente qui interessano, basterà dire che, da un lato, si è cercato di compiere un'operazione riduttiva del significato della disoccupazione keynesiana, ricollegandola al fatto istituzionale della rigidità dei salari, ossia alla loro non adattabilità verso il basso, anche in presenza di disoccupazione, a motivo dell'azione frenante delle unioni sindacali. Dall'altro lato, in epoca più recente, si è compiuta un'operazione di interpretazione dell'apporto keynesiano in termini conformi alla logica dell'equilibrio economico generale di tipo walrasiano: è stata individuata come una differenza essenziale la mancanza di quella piena capacità di informazione che costituisce il presupposto nell'analisi dell'equilibrio generale ed è fondamentale per il coerente coordinamento delle decisioni economiche. L'‛insufficienza di comunicazione', la mancata o intempestiva trasmissione dei ‛segnali del mercato' che dovrebbero guidare tali decisioni diventano, in tal caso, le circostanze che impediscono al sistema di uscire da una situazione keynesiana di disoccupazione (v. Leijonhufvud, 1968, p. 120).
Nei riflessi sulla teoria monetaria, l'angolo visuale assunto da Keynes pone al centro di essa lo studio della determinazione del livello del reddito, ossia della produzione complessiva, e dell'occupazione. Gli effetti di eventuali variazioni nella quantità di moneta vengono analizzati con riferimento appunto a questi fenomeni: in tal senso, egli ‟spostò il sistema di determinazione del reddito (e del tasso di interesse) da una teoria di tipo reale a una teoria monetaria" (v. Johnson, 1972, p. 202).
Cerchiamo di renderci conto di che cosa questo significhi in base all'esame in precedenza svolto della domanda e dell'offerta di moneta, secondo la logica delle scelte di portafoglio. Supponiamo che le autorità monetarie, avvalendosi degli strumenti istituzionali di cui dispongono (variazione del tasso ufficiale di sconto, operazioni di acquisto o vendita di titoli pubblici - dette anche ‛operazioni di mercato aperto' - e modificazione della percentuale di riserva obbligatoria a carico delle banche commerciali) modifichino la quantità di moneta, ad esempio nel senso dell'aumento, rispetto a una precedente situazione. L'essenza dell'analisi delle scelte di portafoglio è che questa circostanza mette in moto una catena di adattamenti nella struttura del portafoglio, incanalando quindi le addizionali disponibilità monetarie verso la vasta gamma di attività esistenti nel mercato finanziario, a cominciare da quelle più agevolmente sostituibili con la moneta, in quanto dotate di più elevata liquidità. L'aumento delle quotazioni di queste attività (che subirebbero il primo impatto del processo di riaggiustamento del portafoglio) e il conseguente declino dei rendimenti effettivi spingerebbero la catena degli arbitraggi verso le attività finanziarie meno liquide, estendendo all'intero mercato finanziario e ai rendimenti effettivi delle diverse attività le connesse ripercussioni. In tal modo, l'azione iniziata dalle autorità monetarie, da un lato, sin quando esistessero nel sistema economico risorse disoccupate e non si delineassero strozzature, darebbe origine a incrementi di reddito e occupazione (anziché a incrementi di prezzi); dall'altro lato, il ‛processo di trasmissione' degli impulsi monetari sull'attività economica si realizzerebbe mediante le sostituzioni effettuate nella composizione dei portafogli e le connesse modificazioni nei livelli dei tassi di interesse.
S'intende che questo processo di trasmissione era presente soltanto in nuce nella General theory e che il suo completamento ad opera degli autori di ispirazione keynesiana ha portato a rivolgere l'attenzione soprattuto sugli effetti ultimi del processo concernenti l'accumulazione di capitale reale. Inoltre, utili integrazioni sono state apportate per tener conto delle imperfezioni che si manifestano sui mercati finanziari e degli effetti di razionamento che ne discendono (v. Smith, 1969, p. 107).
Nondimeno, permangono caratteristiche comuni della linea di pensiero keynesiana : a) l'esame delle influenze monetarie sulle decisioni di spesa degli operatori economici, in condizioni che non presuppongono necessariamente il pieno impiego; b) la considerazione che queste influenze operino essenzialmente mediante la variazione dei tassi di interesse.
Malgrado l'importanza attribuita sul piano teorico ai tassi di interesse, nel processo di trasmissione sin qui esaminato, l'orientamento di pensiero keynesiano ha portato - sul piano dei suggerimenti pratici di politica economica - a fare affidamento sulla politica fiscale, più che su quella monetaria, ai fini dell'intervento pubblico tendente al pieno utilizzo delle potenzialità produttive del sistema economico. La manovra della spesa pubblica, in vista della realizzazione diretta di investimenti da parte di operatori pubblici, è prospettata come mezzo più efficace e diretto di sostegno, quando necessario, dell'andamento economico. Questo, più che da scarsa fiducia nella validità della politica monetaria in sé, può essere dipeso (è stato osservato con riferimento a Keynes, se non ai keynesiani) dal convincimento che l'azione delle autorità monetarie non sarebbe stata realizzata con la decisione e l'intensità necessarie per realizzare i necessari cambiamenti nella sfera dei tassi di interesse a lungo termine (v. Leijonhufvud, 1968, p. 20). Ne sono, ad ogni modo, derivati un diverso modo di considerare il disavanzo del bilancio dello Stato e degli enti locali e una differente concezione del debito pubblico. La spesa pubblica effettuata con il ricorso al disavanzo (deficit spending) veniva non soltanto accettata, ma esplicitamente raccomandata in funzione del promovimento della ripresa mediante l'espansione della domanda globale. La funzione del debito pubblico, d'altra parte, si modificava, nel senso che esso cessava di essere una fonte straordinaria di finanza da utilizzarsi in condizioni di emergenza, per diventare uno strumento di abituale impiego per la regolamentazione appunto della domanda globale.
Il rilievo attribuito in tal modo alla ‛finanza flinzionale' ha finito per determinare l'impressione che si fosse trascurata eccessivamente l'importanza degli impulsi monetari sul sistema economico. Si è fatta interprete di questa impressione una corrente di pensiero che ha voluto designarsi come ‛monetarista' o, più significativamente, ‛neo quantitativa', anche se si tratta - ancora una volta - di una particolare versione dell'analisi delle scelte di portafoglio.
L'elemento differenziale, rispetto alla sequenza di riaggiustamento in precedenza esaminata, consiste nell'ammettere una più ‛diretta' sostituibilità tra la moneta e l'intero complesso delle attività finanziarie e ‛reali', in luogo dell'effetto ‛indiretto' sulla spesa per investimenti, conseguente alla modificazione dei livelli dell'interesse.
Come avverte Friedman, il principale esponente dell'indirizzo monetarista, più che riguardare ‛la natura del processo', la diversità concerne ‛l'estensione delle attività prese in considerazione'. ‟I keynesiani inclinano a concentrare la loro attenzione su una gamma limitata di attività finanziarie negoziabili e di tassi di interesse ufficiali. Noi (monetaristi) insistiamo sulla necessità di tener conto di una gamma molto più estesa di attività e di tassi di interesse: come ad esempio i beni di consumo durevoli e semidurevoli, le costruzioni e altre proprietà reali. Di conseguenza, consideriamo i tassi di interesse di mercato cui si riferiscono i ‛keynesiani' soltanto come una esigua parte del completo spettro dei tassi di cui occorre tener conto" (v. Friedman, 1972, p. 910). Va chiarito che con questo più completo spettro di tassi si intende indicare, in sostanza, il rendimento ottenibile da una qualsiasi attività finanziaria o reale.
Mentre, quindi, viene posta in rilievo la più diretta influenza sulla spesa di una variazione della quantità di moneta, si sottolinea al tempo stesso la maggiore complessità del processo, proprio per la più estesa comprensività che si propone (nella quale, ovviamente, si riflette la formulazione della domanda di moneta, ad opera di Friedman, in precedenza esposta).
‟Il completo adattamento alle variazioni monetarie richiede un arco di tempo molto lungo e influenza numerose grandezze economiche. Se gli adattamenti fossero rapidi, immediati e meccanici [...], l'azione della moneta risulterebbe in modo nitido e netto anche dai dati imperfetti che sono disponibili. Ma se l'adattamento è lento, sfasato nel tempo e di carattere complesso, allora i dati grezzi possono essere ingannevoli e può rendersi necessaria un'analisi molto più sottile per distinguere ciò che è sistematico da ciò che è occasionale ed erratico" (v. Friedman, 1970, p. 235).
Le conseguenze di queste argomentazioni, e in particolare il rilievo dato agli sfasamenti temporali (lags) che si manifestano nella trasmissione degli impulsi monetari sull'attività reale, sono notevoli per i suggerimenti di politica economica che i monetaristi ne traggono. A loro avviso, le autorità monetarie, anziché ampliare o restringere la creazione di mezzi monetari, con l'intento ultimo di ottenere determinati effetti sulla domanda globale, dovrebbero proporsi di dare un ritmo costante alla variazione annua dei mezzi monetari, assumendo come parametro di riferimento la variazione annua del reddito nazionale. A una condotta di tipo discrezionale, andrebbe preferita (sostengono i monetaristi) l'osservanza di una semplice regola di comportamento automatico. Nell'ipotesi, ad esempio, che l'incremento tendenziale del reddito sia dell'ordine del 3-4% annuo, le autorità monetarie dovrebbero assicurare un incremento della quantità di moneta in misura all'incirca pari. Spetterebbe poi alle forze economiche reali di compiere il necessario processo di adattamento.
Viene in tal modo a chiarirsi ulteriormente, sul piano delle conclusioni di filosofia sociale, il significato degli indirizzi di pensiero dei monetaristi e dei keynesiani: inclini, i primi, a far affidamento su regole automatiche di condotta della politica monetaria, nell'intento di evitare gli errori in cui gli uomini possono incorrere nell'adozione di decisioni discrezionali; portati, i secondi, a obiettare che regole rigide e statiche non sono le più idonee ad agevolare il funzionamento di economie complesse e dinamiche come quelle odierne.
9. Problemi aperti di teoria e di politica monetaria
Nel cercare di raccogliere le fila di questa esposizione, sembra utile fornire un'indicazione, con criteri di rappresentatività più che di completezza (come, del resto, si è dovuto fare nell'intera esposizione), dei problemi che sono tuttora aperti nella sfera della teoria e della politica monetaria. Concorrono a proporli sia il continuo riesame critico alimentato dalla riflessione teorica, sia le esigenze mutevoli e pressanti imposte dall'evoluzione delle vicende storiche. Soffermiamoci dapprima su alcuni problemi che si propongono sul piano strettamente teorico.
Seguendo i criteri generalmente accolti nelle trattazioni monetarie, è parso opportuno esaminare distintamente le funzioni di domanda e offerta di moneta e le conseguenze di variazioni di quest'ultima sull'attività economica. Sarà, peraltro, risultato evidente che un'analisi valida dell'influenza dei fattori monetari sul sistema economico non può compiersi se non tenendo conto dell'intera rete delle interdipendenze esistenti tra le variabili del sistema economico, cioè in uno schema teorico di equilibrio economico generale.
Un tentativo pionieristico di analisi della moneta nell'ambito della teoria dell'equilibrio economico generale di tipo walrasiano è stato compiuto, a partire dal primo decennio del secolo, dall'economista italiano G. Del Vecchio (v., 1932). Sebbene J. A. Schumpeter, nella sua History of economic analysis abbia dato atto che, quando le ricerche monetane di Del Vecchio furono intraprese, ‟una teoria walrasiana della moneta addirittura non esisteva per la stragrande maggioranza degli economisti" (v. Schumpeter, 1954, p. 1082), questo remoto tentativo è stato quasi del tutto ignorato nella letteratura economica.
L'opera più recente alla quale si fa abitualmente riferimento per l'apporto dato alla trattazione della moneta in un'analisi di equilibrio generale è quella pubblicata nel 1956 dall'economista Don Patinkin, con il titolo Money, interest and prices (di cui è apparsa nel 1965 una seconda edizione modificata). L'opera è sostanzialmente un tentativo di riaffermazione, con opportuni aggiornamenti, della tesi di una capacità del sistema economico di riequilibrarsi al livello del pieno impiego, mediante la illimitata flessibilità verso il basso di prezzi e salari. Il concetto innovativo introdotto per riaffermare in forma nuova questa tesi classica è il cosiddetto ‛effetto Pigou' o real balance effect, effetto cioè delle scorte monetarie nel loro effettivo potere di acquisto o valore reale.
Partendo dal familiare concetto che gli individui desiderano mantenere una determinata parte del loro reddito in forma monetaria, il Patinkin (riprendendo e utilizzando ai suoi fini un'osservazione teorica formulata originariamente da A. C. Pigou) pone in rilievo le conseguenze, sulle scorte monetarie, di una diffusa riduzione dei prezzi (nell'ipotesi, appunto, di una loro flessibilità verso il basso). Le scorte monetarie tenute dai singoli vedono aumentare il loro effettivo potere d'acquisto: diventano, in altri termini, eccessive, rispetto alle abitudini degli individui e a quel certo rapporto consuetudinario che essi desiderano mantenere tra il flusso della spesa corrente, l'ammontare delle scorte monetarie (nel loro valore reale) e, se si vuole, la ricchezza complessiva. Per ridimensionare le scorte monetarie divenute eccessive, gli individui saranno portati ad accrescere la loro domanda di beni e servizi per fini di consumo (e, di riflesso, ne risulterà accresciuta anche la domanda per fini di investimento). In tal modo, il ripristino di condizioni di piena utilizzazione delle risorse del sistema economico avverrebbe mediante le decisioni spontanee degli individui, stimolati dal meccanismo del real balance effect.
Ma questo meccanismo è stato utilizzato dal Patinkin per l'elaborazione formale di uno schema nel quale la moneta diventa parte integrante nello studio dei fenomeni economici reali: nel senso che le disponibilità liquide - considerate nel loro valore reale, ossia nella loro effettiva capacità d'acquisto - sono incluse come componente sistematica nell'analisi delle relazioni reciproche esistenti tra le variabili del sistema economico.
Non è possibile, ovviamente, render conto dell'intreccio di discussioni suscitate dagli stimoli forniti da questa opera. Basterà ricordare che, da un lato, si è pervenuti a dover ammettere che la posssibilità teorica del real balance effect non ne garantisce l'efficacia operativa, in quanto esso è generalmente troppo debole per poter produrre (con ragionevole tempestività) gli effetti attesi. Come ha rilevato Leijonhufvud, ‟il grande dibattito teorico accentratosi sull'effetto Pigou si è svolto nell'intesa generalmente accettata che la sua importanza empirica è nulla, quanto meno nel periodo breve" (v. Leijonhufvud, 1968, p. 13).
Dall'altro lato, un dibattito non meno vivace si è accentrato sul concetto di ‛neutralità della moneta', che Patinkin aveva cercato di riaffermare, in un contesto che peraltro superava la scissione (o dicotomia) tra settore reale e settore monetario e mirava a considerarli in modo unitario. Ma, ancora una volta, un dibattito del genere si è alla fine dimostrato un esercizio in futilità', dato che, per la sua intrinseca inconsistenza, ‟la neutralità della moneta non è valida nè come costruzione concettuale nè come norma di politica economica" (v. Aschheim, 1973, p. 82).
La ripresentazione, ad ogni modo, di un modello di sistema economico con prezzi flessibili ha costituito un apporto di indubbia importanza che, nei suoi sviluppi, ha condotto a considerare la moneta in schemi analitici di tipo walrasiano. Questi sviluppi, di fatto, sembrano venire incontro a un acuto suggerimento di J. Viner che, in un suo scritto, criticava l'inclinazione dei keynesiani a togliere alla General theory ‟quel po' di generalità walrasiana che essa possiede", anzichè proporsi di ‟renderla ‛più' walrasiana nel suo carattere analitico" (v. Viner, 1964; tr. it., p. 291).
Non sapremmo, invece, condividere l'avviso di R. W. Clower, che pure ha avuto parte notevole in tali sviluppi, là ove egli afferma che, secondo ‟l'opinione contemporanea" in fatto di teoria monetaria, ‟la moneta ha una lieve importanza nel breve periodo e nessuna nel lungo" (v. Clower, 1969; tr. it., p. 18). Si tratta di una opinione quanto meno prematura, dato che l'inserimento della moneta nei modelli di sviluppo è tuttora in fase embrionale, costituendo un problema aperto, e anzi indubbiamente il maggiore di quelli che si pongono all'attenzione sul piano dell'analisi teorica.
Quanto ai problemi che sono resi pressanti dall'evoluzione della realtà storica, ci si dovrà limitare alla menzione di quelli connessi con il persistere del fenomeno dell'inflazione, nell'esperienza grosso modo successiva al secondo conflitto mondiale, e quelli legati alla creazione di una moneta internazionale, integrativa (o sostitutiva) dell'oro.
Si tratta di problemi che costituiscono una sfida sia per gli economisti teorici sia per i responsabili delle decisioni di politica economica. Sinora il loro impegno ha avuto più motivi di frustrazione che non di compiacimento. Ma è 0vvio che in questi campi vi è un notevole lavoro da svolgere: sia con riguardo a una più adeguata comprensione dei fenomeni (che, nel caso dell'inflazione, potrà richiedere uno studio di carattere interdisciplinare), sia con riguardo alla ricerca di soluzioni operative, che si basino sul consenso e non su effetti di dominazione.
Per conto nostro, vorremmo soltanto sottolineare l'esigenza di sfuggire, nell'esame di questi problemi aperti, alla tentazione intellettualistica dei ‛grandi ritorni'. È semplicistico pensare che all'inflazione si ponga argine con il mero controllo dell'offerta di moneta ; come è semplicistico proporre il ‛ritorno all'oro' quale soluzione adeguata agli odierni problemi monetari internazionali.
Il riconoscimento di questa esigenza costituisce, a nostro avviso, un presupposto perchè lo studio di questi problemi aperti proceda in una direzione corretta.
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