MONETA (XXIII, p. 632)
Le tavole che seguono espongono le principali caratteristiche dei sistemi monetarî vigenti. Delle due tavole, la prima indica le unità monetarie dei varî stati quali erano definite dalle disposizioni legislative in vigore al 31 dicembre 1937; non si è tenuto quindi conto del corso dei cambî, che differisce sempre dalle parità nominali indicate e che, com'è noto, può oscillare da un giorno all'altro. Tuttavia, per permettere un rapido giudizio circa lo stato di ogni moneta, si è creduto opportuno indicare, per mezzo di segni speciali, quali paesi hanno sospeso la convertibilità della moneta cartacea in oro oppure hanno proibito l'esportazione dell'oro; quali hanno istituito il controllo dei cambî, sottraendo quindi il corso della moneta alle vicissitudini di borsa; e quali hanno, in altro modo, svalutato di fatto la loro moneta, pur lasciando intatto teoricamente il fisso della moneta. Servono pure ad orientarsi rapidamente le indicazioni aggiunte per mostrare se la moneta di uno stato è collegata con quella della Gran Bretagna o degli Stati Uniti o della Francia, seguendone le oscillazioni. È da notare infine che alcuni stati (Gran Bretagna, Francia), che non hanno introdotto il controllo dei cambî, hanno però istituito dei fondi speciali coi quali intervengono sul mercato per impedire che le oscillazioni del corso eccedano certi limiti.
La moneta manovrata. - Il complesso dei procedimenti tecnici con i quali, dopo il conflitto mondiale, quasi tutti i paesi hanno cercato di presidiare la propria moneta interna, sganciandone le sorti dalle vicende del mercato internazionale monetario-creditizio, è stato denominato succintamente "moneta manovrata". Essa assume significati diversi a seconda dei paesi e delle strutture tecnico-economico-sociali che sono loro proprie. In quanto la moneta manovrata si basa, elettivamente, sul mercato creditizio, sfruttandone al limite delle possibilità le vaste capacità di reazione a impulsi che vengono impressi all'attività economica, da una volontà la quale intenda guidarla verso finalità preordinate; essa trova la sua più ampia applicazione nel settore bancario (v. banca, App.). È comune, comunque, a ogni paese la preoccupazione di mantenere il livello dei prezzi mercantili interni (in quanto espressione di forze meramente monetario-creditizie), il più possibile autonomo dal movimento delle quotazioni mondiali. Prima della guerra era norma costante di governo economico (retaggio della concezione meccanicistica dei rapporti fra i popoli, teorizzata dagli Anglosassoni nei primi decennî del sec. XIX) che i cambî esteri fossero il traguardo regolatore della normale e della sana economia nazionale, in quanto segnavano, a ogni paese, l'esatto livello dei prezzi mercantili, delle remunerazioni, delle quantità da produrre, collegando ogni nazione a quel vastissimo centro che era (o avrebbe dovuto essere) il mercato mondiale, come somma delle risultanze di ogni mercato nazionale. Quindi tutta la politica economica era orientata a presidiare la stabilità dei cambî esteri, alla quale era subordinata quella delle quotazioni interne, forzatamente obbligate a seguire le sorti del mercato internazionale. Le compensazioni fra nazioni erano affidate soltanto a questo meccanismo che avrebbe dovuto funzionare automaticamente, attribuendo a ogni paese quel potenziale economico e di benessere che sarebbe stato fissato, per forze interne, dall'ordinamento in atto. Era, in sostanza, il trionfo del "sistema aureo", espressione ultima di tutta una concezione della vita dei popoli in funzione produttiva, nella quale nessuna volontà avrebbe potuto mai esercitare una influenza decisiva e direttiva.
Ma presto apparve, specie dopo la guerra mondiale, con il crollo del regime aureo che a essa seguì, come quel sistema, invece, per funzionare, dovesse riconoscere la preminenza a qualche organamento nazionale, regolato da precise finalità e con sicura visione unitaria; come avveniva con il potere attribuito, tacitamente, a Londra quale centro direttore del movimento economico mondiale prebellico. Mancando, nel dopo guerra, l'organo adatto per l'esercizio di questo potere normativo e regolatore mondiale, perché la sterlina e la City, nel dopoguerra, avevano perduto il rango tenuto (non senza onore, talora) dal 1815 in poi; e per il fatto che il dollaro era privo di quegli apprestamenti tecnico-istituzionali la cui esistenza deve essere considerata essenziale per tale dominio, si ritornò a concezioni antiche, per trovare una norma aderente alle nuove condizioni di fatto e che servisse di guida per la tutela monetaria.
Anzitutto una circostanza va rilevata: dopo il conflitto mondiale la moneta, come conio metallico effettivamente circolante, aveva perduto quasi ogni importanza. A essa si era sostituito il credito, cioè il titolo nascente da transazioni mercantili con pagamento differito e che servì egregiamente, non solo quale prova e strumento negoziale di contratti, ma anche quale mezzo di scambio e misura dei valori. Spostata su queste basi essenzialmente creditizie, la circolazione monetaria poté essere regolata e manovrata assai più facilmente di un tempo. Si manovrò il credito e con esso la massa dei mezzi di scambio e il potere di acquisto della nazione. Con quale finalitb? Non più quella di mantenere stabili i cambî esteri. Altre "stabilità" furono proposte come criterio regolatore: quella dei prezzi mercantili, quella della massa di popolazione occupata, quella della misura dell'interesse, quella della potenza di acquisto del mercato, quella dell'importo del risparmio da investire rispetto al reddito nazionale esistente; sono varî i criterî vagheggiati da scrittori e anche, in parte, sebbene tentennando, attuati da alcuni governi. Fra queste varie alternative va rilevata la via seguita dall'America, nel periodo precedente la crisi, dal 1923 al 1929, la quale riuscì ad assicurare al mercato interno una notevole stabilità nei prezzi mercantili all'ingrosso, pur lasciando, alle quotazioni della borsa la più ampia libertà di movimento, creando così una delle maggiori cause occasionali della depressione. Come si vede, dunque, la manovra creditizia, nel senso della stabilità soltanto dei prezzi mercantili è quanto mai illusoria come sistema per garantire al mercato una condotta priva di cicloni. Fra gli altri criterî, quello della stabilità della popolazione occupata potrebbe essere, socialmente, più utile, in quanto tende a garantire una costanza di lavoro e di impiego di masse operaie; ma esso sembra più adatto a paesi che hanno raggiunto una stabilità demografica numerica, cioè sono destinati a decadere qualitativamente, come composizione e come rendimento delle generazioni. Sulle altre enunciazioni proposte dagli studiosi non si può esprimere opinione fondata, perché manca un preciso riscontro nella realtà delle quantità prese a base di orientamento e perché manca, altresì, ogni esperienza concreta al riguardo. Esperienze concrete esistono, invece, per un'altra direttiva di politica economica creditizia: la deflazione. Essa consiste, sostanzialmente, nella rigida tutela e nella selezione restrittiva della gestione creditizia di una nazione, allo scopo di impedire una progressiva svalutazione della moneta nazionale sia nei riguardi delle merci e dei servizî, sia dell'oro e della sua potenza di acquisto rispetto ad altri mercati (cambî esteri).
La deflazione, che è uno dei metodi con cui si può realizzare la "moneta manovrata", è una direttiva politica la quale può essere seguita soltanto da regimi dotati di alta capacità e forza intrinseca di governo, in quanto essa impone una revisione in basso delle quotazioni mercantili esistenti sul mercato e quindi agisce in un senso nettamente contrario a quello verso il quale si dirige la più usuale e comune manovra monetaria, specie dei paesi anglosassoni. Ma nonostante la sua indubbia difficoltà tecnica e i sacrifici che essa impone, la deflazione può essere l'unica salvezza economica di un paese che non voglia compromettere la saldezza della propria moneta e infliggere alla struttura politico-sociale della nazione il male della svalutazione progressiva della valuta. Come accadde in Italia con il discorso di Pesaro dell'agosto 1926.
Altra direttiva concreta di manovra monetaria è quella detta reflazione, neologismo coniato dalla sottile mentalità finanziaria anglosassone durante la crisi mondiale, per indicare quei complessi provvedimenti assunti dagli organi creditizî di quei paesi con lo scopo, almeno apparente, di bilanciare gli effetti deprimenti di una crisi economica, il cui epicentro si ritiene sia da trovare in una mancata espansione creditizia, adeguata a sostenere il mercato nella propria andatura produttiva nel tempo, senza gravi oscillazioni di quote e di prezzi. Ma a stretto rigore non si sa ben definire e individuare i confini tra reflazione e la inflazione creditizia e quindi, in sostanza, la prima si identifica con la seconda.
Comunque si può formulare, per ora, allo stato delle esperienze e delle idee, soltanto un giudizio sommario sulle finalità che queste tendenze di politica economica e di dottrina esprimono.
Esse sono state elaborate in una fase dominata da forze depressive dei prezzi mercantili; dunque la "stabilità" che esse cercavano di assicurare al mercato, era un espediente, abile e intelligente, per evitare una revisione in basso delle quotazioni mercantili e finanziarie; stabilità da ottenere con qualsiasi mezzo, anche con l'inflazione creditizia. Il che era tanto più facile quanto più difficile risultava il controllo a causa della mancanza di ogni riferimento a un mercato aureo mondiale. Inoltre tentavano di avere una portata anche politico-sociale, in quanto i regimi demo-liberali non possono, di regola, sopportare senza gravi scosse alla loro compagine, le forti crisi depressive; quindi la tutela della stabilità economica era anche un mezzo, assai efficace, per tutelare la permanenza di quelle forme di reggimento. La più vasta applicazione di esse si ebbe da parte dei paesi ricchi, demograficamente non espansivi (paesi scandinavi, per es.), per i quali la stabilità sulle posizioni raggiunte rappresenta un mezzo per non decadere, dato che non dispongono di forze proprie propulsive. Quindi sono teorie o tendenze politico-economiche le quali vanno molto attentamente considerate, per impedire che si dia esecuzione a direttive che non corrispondono alle esigenze economiche di paesi giovani, espansivi, demograficamente crescenti. Quello che c'è di sano e di concreto in queste tendenze revisionistiche, è la tutela del mercato interno realizzata in contrasto con le vicende del mercato internazionale; è la rivendicazione della "moneta nazionale", contro le affermazioni dei primi economisti del radicalismo anglosassone. Ma queste dottrine erano state già elaborate dai nostri maggiori economisti: Davanzati, Galiani, Verri, Fuoco, e sembra quindi assai opportuno far riferimento a questi scrittori anziché ad altri, per comprendere le finalità ultime da conseguire con la manovra per la nazionalità della moneta.
In un mondo dominato da queste particolarità nazionalistiche, le unioni monetarie, del tipo di quelle costituite nella seconda metà del secolo scorso in Europa e poi diffusesi anche altrove, allo scopo di unificare i regimi monetarî di più nazioni similari, non hanno possibilità concrete per realizzarsi. Per ora (aprile 1938) si verificano, invece, orientamenti comuni di politica monetario-creditizia, come avviene per la così detta "area sterlina" o "area dollaro" cioè per quegli aggruppamenti nazionali che si orientano sulla manovra monetaria di Londra e di New York; ma tali orientamenti non hanno alcun elemento comune con le vere "unioni" prebelliche e quindi ogni paese resta, almeno potenzialmente, libero da ogni vincolo al riguardo.