MONOPOLIO E POLITICHE ANTIMONOPOLISTICHE
Economia
di Alberto Heimler
Il paradigma teorico della concorrenza perfetta ipotizza un'organizzazione decentralizzata e parcellizzata dell'attività economica tale da impedire che ciascun singolo operatore sia in grado di esercitare un significativo potere di mercato. In queste circostanze è possibile dimostrare che il sistema conduce endogenamente al raggiungimento dell'efficienza produttiva e allocativa. Tuttavia all'interno di tale impostazione risulta poco rilevante l'individuazione dei processi attraverso i quali l'impresa si sviluppa e delle componenti che conducono al rafforzamento della sua presenza sul mercato. Solo nell'ambito delle più recenti evoluzioni dell'economia industriale viene approfondita l'analisi dell'origine del potere di mercato delle imprese. In particolare, come affermato da Demsetz (v., Economic..., 1982), la valutazione del grado di concorrenza presente nei diversi mercati non può essere effettuata sulla base di una semplice osservazione delle quote di mercato delle imprese che vi operano, ma deve comportare un esame complessivo di tutti i fattori che determinano i comportamenti effettivi degli operatori economici.
La teoria tradizionale ha impostato la valutazione delle problematiche concorrenziali confrontando le diverse configurazioni di prezzo e di quantità originate da strutture di mercato alternative e mostrando che se la struttura di mercato di un'industria fosse perfettamente concorrenziale, i prezzi sarebbero inferiori a quelli del monopolio e le quantità vendute risulterebbero sensibilmente superiori. Questo vantaggio per il consumatore derivante dalla struttura concorrenziale dei mercati ha rappresentato l'argomentazione economica principale per l'introduzione di una politica antimonopolistica capace di realizzare l'uguaglianza al margine tra il beneficio conseguito dal consumatore, pari al prezzo pagato per il bene, e il costo di produzione.Tuttavia l'opportunità di introdurre una politica antimonopolistica deve essere valutata in un contesto più ampio, tenendo conto delle problematiche relative all'individuazione delle effettive condizioni che consentono a un'impresa il raggiungimento e il successivo mantenimento di una posizione di monopolio.
Da questo fondamentale punto di vista, in presenza di rendimenti non crescenti di scala e in assenza di barriere all'entrata, anche di tipo strategico, il monopolio persiste nel tempo soltanto se favorito e protetto da un intervento pubblico quale la tutela di un brevetto, di un diritto d'autore o la concessione di un diritto esclusivo. Se non si verificano queste circostanze, la costituzione di posizioni di monopolio - per esempio a seguito della scoperta di un nuovo prodotto - rappresenta una situazione solo temporanea. Infatti, a meno che non venga impedito (da parte dell'impresa stessa o dall'intervento pubblico) ad altre imprese l'ingresso nel mercato, gli extraprofitti realizzati dal monopolista costituiscono un importante segnale per attirare nuovi operatori, favorendo il ripristino di condizioni concorrenziali e rendendo quindi superfluo un eventuale intervento pubblico che ostacoli di per sé la costituzione del monopolio.Peraltro, l'introduzione di un sistema di regole che impedisca la nascita di posizioni di monopolio che traggono origine da una maggior efficienza dell'impresa risulterebbe non solo inutile, ma anche dannosa: i profitti di monopolio costituiscono un essenziale incentivo per favorire gli aumenti di produttività, i miglioramenti qualitativi della produzione e, più in generale, la crescita e lo sviluppo delle imprese. La possibilità di conseguire profitti di monopolio genera vantaggi per la società, favorendo lo sviluppo di prodotti innovativi in grado di soddisfare sempre meglio i bisogni dei consumatori. Eventuali danni possono emergere solo se il monopolista pone in essere dei comportamenti che ostacolano abusivamente a svantaggio dei consumatori l'ingresso nel mercato di altri concorrenti.
Da queste brevi osservazioni emerge che generalmente non si richiede alcun intervento pubblico al fine di contrastare le posizioni di monopolio raggiunte a seguito di una maggiore efficienza delle imprese. Esso diviene invece necessario qualora il monopolio risulti sufficientemente stabile, nel senso che a causa delle condizioni tecnologiche della produzione o a causa dei comportamenti strategici posti in essere dal monopolista venga ostacolato l'effettivo operare della concorrenza per un periodo di tempo sufficientemente lungo. Nel caso del monopolio naturale (che trova la sua origine nelle particolari condizioni tecnologiche che caratterizzano l'attività di produzione dell'impresa) l'intervento pubblico, attraverso un'opportuna regolamentazione dei comportamenti d'impresa, persegue l'obiettivo di impedire l'esercizio del potere monopolistico di mercato. Viceversa, per evitare i comportamenti strategici d'impresa tendenti a costituire o a mantenere un monopolio ostacolando le possibilità concorrenziali degli altri operatori presenti sul mercato, sono necessari strumenti di intervento pubblico particolarmente sofisticati. Essi devono riuscire a individuare e impedire soltanto le azioni tendenti a danneggiare i concorrenti, non quelle dirette a favorire l'efficienza e la competitività dell'impresa.
Nella ragionevole ipotesi che l'obiettivo dell'impresa sia la massimizzazione dei profitti, il raggiungimento di una posizione di monopolio tale da consentire l'esercizio del relativo potere di mercato rappresenta per l'impresa la migliore tra tutte le situazioni possibili. Pertanto, la speranza di conseguire profitti di monopolio diventa un potente incentivo per favorire il progresso tecnologico, lo sviluppo delle imprese e, più in generale, la crescita economica. In questa prospettiva la politica antimonopolistica risulterebbe contraria all'interesse pubblico se, impedendo ogni esercizio del potere di mercato, ostacolasse le attività di impresa più innovative e promettenti.In generale gli interventi di politica economica nei confronti delle imprese cercano sempre di favorire il progresso tecnologico e l'innovazione. Esiste infatti una diffusa consapevolezza che strategie di sviluppo aziendale basate su complessi processi innovativi implicano la necessità di assumere rischi spesso elevati legati alla sperimentazione dei prodotti e all'incertezza relativa al successo del prodotto, una volta che esso abbia raggiunto il mercato. Peraltro il miglioramento delle conoscenze originato dall'attività di ricerca esercita effetti diffusivi che non rimangono confinati in ambito settoriale, ma influenzano l'intera economia attraverso sviluppi che non possono essere definiti a priori. Proprio per questo un investitore privato, non essendo in grado di esercitare appieno i propri diritti di proprietà sui risultati della ricerca (infatti l'eventuale protezione brevettuale non è totale), impegnerebbe nella ricerca scientifica una quantità di risorse inferiore a quella socialmente desiderabile. Da tale considerazione emerge l'ottimalità di un sistema di sostegno pubblico all'attività di ricerca.
Tuttavia solo recentemente la letteratura economica ha affrontato altri aspetti dell'attività di ricerca e, in modo particolare, i risvolti di tipo organizzativo, anche al fine di individuare le eventuali implicazioni per la politica della concorrenza. Fino al recente passato, come argomentano per esempio Grossman e Shapiro (v., 1986) e Tirole (v., 1988), la schematizzazione prevalente del processo innovativo prevedeva una serie di attività tra loro legate in forma sequenziale: ricerca, sviluppo dei prodotti, produzione, marketing e commercializzazione. In questo contesto, l'organizzazione del processo innovativo, se dovesse comportare il coordinamento di diversi operatori fra loro indipendenti, richiederebbe la predisposizione di accordi contrattuali tra imprese situate in stadi diversi del processo produttivo. Tali accordi risultano generalmente efficienti e non suscettibili di provocare alcuna restrizione nei meccanismi concorrenziali.
Più recentemente Dosi (v., 1988) ha posto in evidenza che il processo innovativo ha soprattutto una natura simultanea e richiede continui scambi e legami tra diverse imprese operanti all'interno di uno stesso processo innovativo. In questo contesto possono divenire essenziali forme di collaborazione tra imprese concorrenti. In una visione tradizionale tali accordi sono restrittivi della concorrenza perché possono dare origine a un coordinamento del comportamento degli operatori e artificialmente consentire l'esercizio collettivo di un potere di mercato che ciascuna impresa, in assenza della collaborazione con le altre, non potrebbe esercitare. Tuttavia, argomentano Jorde e Teece (v., 1992), tali accordi devono generalmente essere valutati in modo positivo perché consentono l'accesso ai mercati più remunerativi anche alle piccole e medie imprese che, unendosi, possono ridurre i rischi legati all'avvio di attività innovative particolarmente onerose.
Naturalmente gli accordi fra imprese non possono comportare la monopolizzazione di un'industria, soprattutto quando questo obiettivo viene raggiunto impedendo l'ingresso nel mercato a eventuali imprese rivali. Gli accordi devono eventualmente riguardare, come affermano Jorde e Teece (ibid.), molteplici fasi del processo innovativo, anche perché nelle circostanze in cui per esempio la commercializzazione fosse esclusa dall'accordo potrebbero ricadere sulle imprese partecipanti costi molto elevati relativi al trasferimento dei diritti di sfruttamento della scoperta eventualmente effettuata in comune. Quanto illustrato implica che al fine di favorire l'attività innovativa delle imprese una politica antimonopolistica deve risultare particolarmente attenta a distinguere dalle tante situazioni favorevoli quelle che effettivamente comportano una restrizione della concorrenza nel mercato.
Un'industria può essere considerata un monopolio naturale quando la funzione di costo è subadditiva, ossia quando una sola impresa riesce a soddisfare tutta la domanda del mercato a costi inferiori di quelli che si registrerebbero se due o più imprese suddividessero l'offerta complessiva tra loro.
L'esistenza di economie di scala, che implica la decrescenza della funzione del costo medio, rappresenta una condizione sufficiente ma non necessaria per la subadditività. Infatti, come mostrato da Sharkey (v., 1982), il concetto di subadditività comprende anche situazioni in cui la funzione del costo medio, dopo essere diminuita per lunghi tratti, risulta crescente. Il fatto rilevante è che, qualora una nuova impresa entrasse nel mercato, i costi di produzione dell'industria nel suo complesso risulterebbero comunque più elevati.
La nozione di subadditività è essenziale per stabilire l'esistenza del monopolio naturale. Infatti, se la funzione di costo (monoprodotto o multiprodotto) presenta questa caratteristica, l'ingresso di un concorrente nel mercato è inefficiente, determinando un aumento complessivo dei costi di produzione dell'industria. Generalmente quindi, in presenza di subadditività, se la tecnologia di produzione di un potenziale entrante è identica a quella del monopolista, non esistono incentivi all'entrata fintanto che il monopolista operi in maniera efficiente.
In alcune situazioni particolari potrebbe risultare impossibile per un monopolista naturale soddisfare tutta la domanda del mercato, fissando prezzi che coprano esattamente i costi di produzione (in assenza di extraprofitti) e al contempo impedire l'ingresso di imprese concorrenti in almeno un segmento del mercato. In tali circostanze il monopolio naturale risulta non sostenibile. Per esempio, nel caso di un monopolista monoprodotto la sostenibilità è assicurata se la domanda incontra la curva dei costi medi in un punto tale per cui un potenziale entrante abbassando i prezzi non potrebbe realizzare profitti positivi. Tuttavia esistono alcune situazioni in cui l'impresa entrante, non essendo obbligata a coprire l'intera domanda, può entrare nel mercato vendendo a prezzi inferiori a quelli del monopolista e conseguire profitti positivi.In queste circostanze il monopolio naturale, al fine di impedire costi complessivi per l'industria più elevati, dovrebbe essere protetto dall'ingresso di eventuali altre imprese. Tuttavia Sharkey e Telser (v., 1978) e Faulhaber e Levinson (v., 1981) affermano che solo in casi molto particolari tale protezione, introdotta al fine di garantire il raggiungimento dell'efficienza, risulta benefica. Nella generalità dei casi, infatti, la presenza di elevati costi non recuperabili comporta la possibilità che i prezzi fissati dal monopolista risultino sostenibili, tali cioè da impedire l'ingresso di nuovi operatori nel mercato, consentendo al contempo la copertura dei costi totali di produzione dell'impresa. Ciò garantisce che l'eventuale ingresso di nuove imprese sia originato da una loro maggiore efficienza e capacità innovativa e comporti di conseguenza una riduzione dei costi totali di produzione dell'industria nel suo complesso.
La teoria dei mercati contendibili rappresenta un'estensione della teoria della concorrenza perfetta alle situazioni in cui può esistere una concorrenza soltanto potenziale. In particolare Baumol, Panzar e Willig (v., 1982) hanno mostrato che, in assenza di costi irrecuperabili legati all'ingresso in un mercato caratterizzato da condizioni di monopolio naturale, un'impresa non potrebbe fissare prezzi superiori al costo medio di produzione perché altrimenti un eventuale concorrente potrebbe entrare nel mercato al fine di avvantaggiarsi di ogni possibile opportunità di profitto. La minaccia dell'entrata spingerebbe il monopolista ad adottare comportamenti virtuosi e la concorrenza potenziale garantirebbe il conseguimento dell'efficienza allocativa, senza cioè necessità alcuna di controllo sul processo di formazione dei prezzi.
Tuttavia l'applicabilità di questa teoria è posta in discussione, anche nelle circostanze in cui le ipotesi di base (perfetta simmetria tra le imprese e assenza totale di costi irrecuperabili) siano soddisfatte. In particolare Shepherd (v., 1984) argomenta che è del tutto irrealistico ipotizzare, come avviene nella teoria dei mercati contendibili, che l'ingresso di una nuova impresa nel mercato avvenga più rapidamente di una possibile reazione del monopolista in termini di prezzo di vendita del prodotto. Inoltre le conclusioni derivate in teoria possono modificarsi anche radicalmente qualora venga ammessa l'esistenza di costi irrecuperabili, sia pur modesti. In queste circostanze il monopolista potrebbe conseguire permanentemente extraprofitti significativamente positivi. Infine Shepherd considera del tutto irrealistica l'ipotesi che la minaccia concorrenziale esercitata da un potenziale entrante sia totale, nel senso che sia necessario che l'eventuale nuova impresa sostituisca completamente quella esistente. Shepherd ritiene infatti molto più probabile che una nuova impresa faccia il suo ingresso sul mercato producendo inizialmente su scala ridotta e solo successivamente possa eventualmente sostituirsi all'impresa dominante. In queste circostanze, conclude Shepherd, la disciplina concorrenziale esercitata da un potenziale entrante risulta modesta.
Nonostante questi limiti della teoria della contendibilità, i risultati raggiunti mostrano soprattutto l'importanza che la posizione della domanda riveste per stabilire il livello concorrenziale dei prezzi. In particolare, la teoria della contendibilità suggerisce un intervallo, compreso tra il costo incrementale e il costo medio totale necessario per fornire isolatamente un certo prodotto, all'interno del quale, in relazione alla posizione della curva di domanda, vengono a essere posizionati i prezzi. Questa logica, come affermano Baumol e Willig (v., 1986), può fornire utili spunti per una regolamentazione efficace. Ciò implica che, là dove l'operare della concorrenza non sia sufficiente a eliminare gli extraprofitti monopolistici, la regolamentazione potrebbe limitarsi a stabilire l'intervallo all'interno del quale consentire alle imprese piena libertà nella fissazione dei prezzi.
Se prevalgono condizioni di monopolio naturale non risulta funzionale al perseguimento dell'interesse pubblico che l'offerta complessiva venga suddivisa tra una molteplicità di piccole imprese. In queste circostanze è più efficiente che l'offerta sia accentrata presso un solo fornitore. Come già affermato, per conseguire questo risultato non è generalmente indispensabile controllare e limitare l'accesso al mercato. Infatti se il monopolio deriva direttamente dalle condizioni tecnologiche della produzione, esso generalmente emerge anche in situazioni di piena libertà di accesso al mercato. Infatti le situazioni di non sostenibilità sono assai difficilmente identificabili a priori e, comunque, estremamente rare anche in considerazione della dimensione e della specificità degli investimenti che caratterizzano l'attività produttiva nella maggior parte dei mercati potenzialmente soggetti a condizioni di monopolio naturale.
La piena apertura concorrenziale dei mercati richiede tuttavia la presenza di una struttura tariffaria coerente con questo obiettivo. In particolare, qualora all'impresa sia imposta, al fine di perseguire specifici obiettivi di equità, una struttura tariffaria che comporta la presenza di sussidi incrociati tra utenti e servizi diversi, un'apertura del mercato alla concorrenza potrebbe favorire imprese caratterizzate da costi di produzione identici, o addirittura superiori a quelli dell'impresa già operante. Infatti, quando le tariffe del monopolista relative a un determinato prodotto o servizio sono fissate a un livello più elevato dei costi necessari per rifornire quel mercato specifico, l'ingresso di un nuovo concorrente risulta remunerativo, indipendentemente dal fatto che il monopolio naturale sia sostenibile. Tale fenomeno di scrematura delle fasce di mercato più remunerative da parte di un'eventuale impresa entrante potrebbe danneggiare il monopolista, che si troverebbe costretto a operare in perdita e, al limite, a uscire dal mercato.
Per risultare efficacemente protetto da questi comportamenti concorrenziali, originati esclusivamente dalla particolare struttura tariffaria a esso imposta, il monopolista generalmente richiede che venga impedito l'accesso al mercato di eventuali altri operatori. Tuttavia, in queste circostanze, invece che proteggere il monopolista dall'operare della concorrenza e quindi ostacolare l'introduzione del progresso tecnologico e dei miglioramenti qualitativi, può essere opportuno un riequilibrio delle singole tariffe distorte al fine di allinearle ai rispettivi costi di produzione. Una preliminare quantificazione dell'entità dei sussidi necessari potrebbe infatti consentire una ripartizione dell'onere derivante dalla copertura dei relativi costi tra tutte le imprese operanti nel mercato, per esempio mediante l'introduzione di una specifica tassa di accesso. Laddove, invece, si ritenessero opportuni più generali interventi di sostegno volti a garantire la possibilità di accesso al servizio a categorie di utenza particolarmente svantaggiate, il costo di tali interventi dovrebbe preferibilmente essere posto a carico della generalità dei contribuenti piuttosto che essere finanziato dagli altri utenti del servizio attraverso il ricorso a sussidi incrociati.
La concorrenza, piuttosto che una risposta passiva all'ambiente esterno, rappresenta un processo innovativo di ricerca attraverso il quale le imprese scoprono continuamente nuovi prodotti e nuovi mercati. In questa prospettiva risulta estremamente complesso impostare una regolamentazione dei comportamenti d'impresa tale da non ostacolare il perseguimento dell'efficienza delle imprese, riducendo gli incentivi allo sviluppo di nuovi prodotti e processi. Pertanto, anche nelle circostanze in cui l'intervento pubblico risulti necessario per garantire il rispetto di legittimi interessi ed esigenze di natura generale, le scelte relative ai criteri, agli strumenti e alle modalità di intervento devono essere indirizzate a evitare eventuali effetti distorsivi sul funzionamento dei mercati e sul corretto svolgimento del processo concorrenziale. Tradizionalmente la regolamentazione dei comportamenti di impresa ha operato come strumento discrezionale di intervento sulla struttura dell'offerta e di contingentamento degli accessi, assumendo un ruolo spesso più funzionale alla protezione di determinate imprese o categorie di imprese che alle esigenze di promozione e di salvaguardia del benessere dei consumatori e della collettività. Essa infatti, ponendo le imprese che già operano nel mercato al riparo dai rischi e dai condizionamenti derivanti da un'efficace concorrenza, ha favorito la creazione e il mantenimento di ingiustificate posizioni di rendita, indebolendo gli incentivi alla gestione efficiente delle risorse.
Viceversa, come argomentano Heimler e Saba (v., 1994), il rapporto tra interventi di regolamentazione e funzionamento dei meccanismi concorrenziali dovrebbe tendere nel complesso a configurarsi in termini di complementarità, piuttosto che di reciproca esclusione; la regolamentazione dovrebbe assumere cioè un ruolo essenziale nell'attivazione della concorrenza soprattutto nei settori dei servizi di pubblica utilità, dove essa può svolgere una funzione importante di supporto dei processi di liberalizzazione dei mercati. Anche la privatizzazione delle imprese rappresenta un importante strumento per favorire l'introduzione di un'effettiva concorrenza. Attraverso i processi di dismissione delle aziende pubbliche, infatti, viene eliminata o ridotta la presenza di ingiustificate situazioni di privilegio nel confronto concorrenziale e vengono introdotti efficaci incentivi per una gestione efficiente delle imprese. Inoltre, eventuali interventi di riorganizzazione e separazione societaria delle imprese da effettuare al momento della privatizzazione delle stesse favoriscono una sostanziale trasformazione degli assetti strutturali dei mercati tale da garantire una maggiore articolazione dell'offerta e una più netta distinzione tra attività in monopolio naturale e attività nelle quali può operare una pluralità di imprese in concorrenza tra loro.Particolarmente indicativa, in questo senso, è l'esperienza derivante dalle politiche di liberalizzazione adottate in molti paesi nel corso dell'ultimo decennio nel settore delle telecomunicazioni, dove il processo di apertura alla concorrenza, che ha inizialmente interessato l'ambito dei servizi a valore aggiunto e di radiotelefonia mobile, si è progressivamente esteso alla stessa fornitura del servizio di telefonia vocale attraverso interventi diretti a favorire l'accesso dei terzi alle reti e la rivendita di capacità trasmissiva sulle linee affittate. Come documentato dall'OCSE (v., 1993), nei paesi in cui l'apertura alla concorrenza è stata più sensibile, maggiore è stato anche l'impulso allo sviluppo, all'innovazione tecnologica e alla differenziazione dei servizi e più significativi sono stati i benefici per gli utenti in termini di prezzi e qualità delle prestazioni.
Analoghe politiche di liberalizzazione sono state recentemente adottate in diversi paesi nel settore dell'energia elettrica, evidenziando anche in tale ambito la possibilità di introdurre sostanziali elementi di concorrenza nelle attività di produzione e vendita di elettricità, pur tutelando le esigenze connesse alla sicurezza, alla continuità, all'efficienza e all'universalità delle forniture. Nella maggior parte dei casi il processo di apertura alla concorrenza, che ha comportato interventi radicali di riforma dei preesistenti assetti proprietari, organizzativi e regolamentativi del settore, ha reso possibile lo sviluppo di strutture produttive sensibilmente più articolate, favorendo l'accesso di nuovi operatori nei mercati liberalizzati, stimolando il confronto concorrenziale tra una pluralità di produttori indipendenti, nonché tra produttori e distributori nella fornitura di elettricità alle grandi utenze, e consentendo in tali ambiti una completa deregolamentazione dei relativi prezzi. Pressoché ovunque, infatti, come affermano Covarrubias e Maia (v., 1994), si è assistito a un sostanziale aumento del livello di efficienza operativa delle imprese, in gran parte favorito dalla privatizzazione delle stesse e da un complessivo riequilibrio delle strutture tariffarie indirizzato a consentire una maggiore corrispondenza tra prezzi e costi di fornitura.
L'apertura alla concorrenza dei mercati non implica necessariamente il superamento delle posizioni di monopolio. Quando esse permangono e i comportamenti delle imprese non vengono disciplinati dalla concorrenza (neanche da quella potenziale), diviene necessaria una regolamentazione dei prezzi volta a impedire il mantenimento di profitti di monopolio, senza per questo modificare gli incentivi dell'impresa al perseguimento dell'efficienza. In particolare, al fine di non ostacolare il processo di minimizzazione dei costi, la regolamentazione dei prezzi non deve porre le imprese al riparo da ogni rischio, garantendo in ogni circostanza la copertura dei costi. In questo contesto, il raggiungimento dell'efficienza allocativa, ossia l'uguaglianza del prezzo al costo marginale, deve essere posto in relazione al conseguimento dell'efficienza produttiva e della minimizzazione dei costi. Questi due ultimi concetti non sono tra loro identici. L'efficienza produttiva riguarda esclusivamente la tecnologia di produzione e, in particolare, essa implica l'ipotesi di massimizzazione della quantità prodotta, date le quantità di fattori produttivi. Attraverso il processo di minimizzazione dei costi l'impresa, dati i prezzi dei fattori produttivi, sceglie tra le diverse tecnologie possibili, tutte utilizzate in maniera tecnicamente efficiente, quella più conveniente.In generale la regolamentazione dei prezzi, introdotta al fine di raggiungere l'efficienza allocativa (uguaglianza del prezzo di vendita al costo marginale), non garantisce il conseguimento dell'efficienza produttiva né risulta necessariamente funzionale alla creazione degli incentivi adatti a conseguire la minimizzazione dei costi. Inoltre, incentivando il perseguimento dell'efficienza produttiva, potrebbe essere consentito all'impresa, una volta stabilito autoritativamente il prezzo, il mantenimento degli eventuali extraprofitti da essa conseguiti. Tuttavia in questo modo non viene necessariamente massimizzato il surplus del consumatore, il che rappresenta generalmente l'obiettivo ultimo degli interventi di regolamentazione. Nella politica tariffaria occorre pertanto trovare un giusto compromesso tra efficienza allocativa e raggiungimento dell'obiettivo della minimizzazione dei costi, nella consapevolezza che comunque non è quasi mai possibile raggiungere e mantenere per un periodo di tempo sufficientemente lungo un equilibrio analogo a quello concorrenziale.
Gli interventi di regolamentazione tariffaria del monopolio naturale possono essere distinti in tre diverse tipologie: le politiche di tariffazione ottimale, le politiche di second best, gli schemi incentivanti.Le politiche di tariffazione ottimale derivano dalla condizione paretiana di uguaglianza tra prezzo e costo marginale che garantisce l'allocazione ottima delle risorse. Le prime proposte in questa direzione (v., Pigou, 1920; v., Hotelling, 1938) indicavano la necessità di una tariffa posta uguale al costo marginale, con un ripianamento da parte dello Stato delle eventuali perdite dell'impresa. Questo metodo richiede al regolatore un carico informativo molto elevato, senza peraltro dare alcun affidamento che le imprese minimizzino i costi di produzione. Alternativamente, la discriminazione completa dei prezzi proposta da Pigou (v., 1920), Robinson (v., 1933) e Kahn (v., 1970-1971), secondo la quale il prezzo di vendita è diverso per ciascun consumatore sulla base della sua disponibilità a pagare, garantisce l'efficienza allocativa (per l'ultimo consumatore il prezzo di vendita uguaglia il costo marginale) e quella produttiva; tuttavia il metodo comporta la massimizzazione del surplus del produttore, ma anche l'annullamento del surplus del consumatore, con evidenti problemi di ordine redistributivo.
Le politiche di tariffazione di second best, stabilendo una copertura dei costi totali (che comprendono i profitti normali) attraverso i ricavi di vendita, tendono a impedire le perdite che il monopolista naturale, la cui posizione è caratterizzata da rendimenti crescenti di scala, subisce a causa di una tariffazione effettuata al livello del costo marginale. Tuttavia la fissazione del prezzo al livello del costo medio di produzione, peraltro non del tutto agevole in un contesto multiprodotto, può influenzare sensibilmente il sistema di incentivi, inducendo l'impresa a comportamenti inefficienti. Gli andamenti dei costi, infatti, sono generalmente funzione di una pluralità di variabili quali, per esempio, il livello degli investimenti, la ricerca e lo sviluppo, le capacità manageriali e le spese pubblicitarie, tutte implicitamente collegate al rischio d'impresa. Pertanto, l'eliminazione del rischio attraverso meccanismi di regolamentazione tariffaria che garantiscono all'impresa la copertura dei costi totali di produzione può esercitare effetti perversi su numerose altre dimensioni dell'attività. La certezza di un profitto garantito può indebolire la propensione alla minimizzazione dei costi e all'introduzione di miglioramenti tecnologici e produttivi, comportamenti questi che, proprio a causa della presenza della regolamentazione, avrebbero un impatto limitato sull'effettiva profittabilità dell'impresa. Infine, come posto in evidenza da Averch e Johnson (v., 1962), la regolamentazione che garantisce all'impresa la copertura dei costi di produzione, compreso un tasso di profitto normale sul capitale investito, indurrebbe l'impresa a investire in misura eccessiva. Pertanto tale metodo di regolamentazione, oltre a non garantire l'efficienza allocativa, comporta il rischio di compromettere stabilmente l'efficienza produttiva dell'impresa.
Gli schemi di tariffazione incentivanti sono stati introdotti al fine di superare i limiti di una regolamentazione solo apparentemente rigorosa e peraltro penalizzata, oltre che dagli effetti perversi sui comportamenti d'impresa da essa innescati, anche dalla necessità di conseguire un grado d'informazione sulla struttura dei costi e sulle condizioni della domanda non sempre disponibile. Il metodo del price cap rappresenta il più recente sviluppo in questa direzione. Esso, sviluppato inizialmente nel Regno Unito all'avvio dei processi di privatizzazione dei servizi di pubblica utilità, su proposta di Littlechild (v., 1983), è basato su una predeterminazione del massimo tasso consentito all'impresa relativamente alla crescita dei prezzi di un paniere dei servizi da essa offerti. Osservato che molti servizi pubblici sono stati caratterizzati da un sostenuto progresso tecnologico che ha determinato risparmi notevoli sui costi, in molte circostanze le relative tariffe dovrebbero crescere a tassi ben inferiori a quelli dell'indice generale dei prezzi. La regolamentazione stabilisce pertanto un limite massimo consentito per la crescita dei prezzi dell'impresa, costituito dal tasso di crescita dei prezzi al consumo (che dovrebbe approssimare le variazioni dei prezzi dei fattori della produzione utilizzati dall'impresa) diminuito del tasso di crescita della produttività totale previsto nella fornitura del servizio.
Il sistema di regolamentazione del tipo price cap è stato proposto perché ritenuto di più facile applicazione rispetto agli altri sistemi di regolamentazione e inoltre perché esso è apparentemente meno suscettibile di produrre inefficienze. Infatti Littlechild (ibid.) afferma che, visto che l'impresa può trattenere ogni profitto guadagnato una volta rispettato il vincolo, verrebbe conservato l'incentivo all'efficienza produttiva associato alla massimizzazione dei profitti. I prezzi che si registrerebbero nel mercato, a causa della maggiore efficienza conseguita, sarebbero più bassi di quelli che prevarrebbero con la regolamentazione che garantisce la copertura dei costi totali di produzione, con benefici per i consumatori e anche per i produttori. Inoltre il sistema consentirebbe alle imprese notevoli flessibilità nel fissare i prezzi dei singoli servizi offerti, visto che esso viene applicato a un paniere e quindi non ai singoli servizi.
Tuttavia la regolamentazione basata sul price cap non affronta l'importante e delicato problema della determinazione ottimale del livello delle tariffe, che pertanto resta da risolvere preliminarmente all'adozione di un metodo di adeguamento tariffario. Infatti, solo una volta che la tariffa di partenza sia ottimale, il metodo del price cap può imporre alle imprese operanti sul mercato un vincolo tale da far loro raggiungere per lo meno il livello di efficienza implicito nella determinazione del tasso previsto di crescita della produttività totale dei fattori. In assenza di questo riequilibrio tariffario, il sistema del price cap non offre alcuna garanzia rispetto al raggiungimento di una tariffazione ottimale, da cui peraltro la struttura tariffaria potrebbe tendere a discostarsi sempre maggiormente.
A sua volta l'applicazione del sistema del price cap non è esente da difficoltà. Anzitutto, qualora il compito del regolamentatore venga svolto rigorosamente e accuratamente, il metodo presuppone una conoscenza dettagliata delle condizioni tecnologiche e di costo che prevarranno nel futuro al fine di calcolare accuratamente le variazioni previste di produttività, il che risulta estremamente complesso. Dal punto di vista informativo pertanto il sistema del price cap non è troppo diverso dalla tradizionale regolamentazione che garantisce all'impresa la copertura dei costi totali di produzione. Inoltre l'aggiustamento delle tariffe alle variazioni della produttività non può essere effettuato prescindendo dal realizzato livello di profittabilità dell'impresa. Infatti uno dei principali obiettivi della regolamentazione è il raggiungimento dell'efficienza allocativa. Pertanto particolare attenzione deve comunque essere dedicata a evitare la permanenza di extraprofitti elevati, ma anche di perdite troppo sostenute nei conti delle imprese. In questo contesto l'impresa regolamentata, per evitare di mostrare profitti troppo elevati in un dato periodo, tali da favorire vincoli sui prezzi più stringenti nel periodo successivo, può essere incentivata a non adottare importanti innovazioni tecnologiche che consentirebbero notevoli risparmi sui costi.Infine, a differenza del sistema di regolamentazione che garantisce la copertura dei costi totali di produzione e che comporta la fissazione da parte del regolamentatore dei prezzi (massimi) di tutti i servizi offerti dall'impresa, il metodo del price cap pone un vincolo sulla variazione aggregata dei prezzi, consentendo quindi all'impresa una certa libertà nella fissazione delle singole tariffe, una volta rispettato questo vincolo aggregato. Proprio questa flessibilità, sempre che la base di partenza delle diverse tariffe sia ottimale, potrebbe consentire un maggior rispetto delle esigenze dei consumatori e degli utenti, soprattutto in rapporto alla tariffazione dei prodotti e dei servizi innovativi. Tuttavia l'utilizzazione di una disciplina tariffaria basata sul price cap potrebbe non impedire la fissazione di prezzi particolarmente elevati per l'uso di una risorsa essenziale ed economicamente non riproducibile, ostacolando così l'ingresso di eventuali nuovi operatori nei mercati accessibili esclusivamente attraverso l'uso di questa risorsa.
La piena libertà di azione delle imprese non necessariamente determina una situazione concorrenziale a causa dell'eventuale innalzamento di ostacoli all'entrata nel mercato artificialmente generati dai comportamenti d'impresa. Pertanto, come suggerito anche da Baumol e Sidak (v., 1994), particolare attenzione deve essere dedicata a impedire l'erezione o la permanenza di ostacoli artificiali di natura strategica che rendano difficoltoso, e in alcuni casi persino impossibile, l'ingresso di altri concorrenti nei mercati, consentendo il mantenimento artificiale degli extraprofitti monopolistici.
Come affermato da Bain (v., 1956) e da Sylos Labini (v., 1956), la costituzione di barriere all'entrata da parte delle imprese già operanti favorisce il permanere di una struttura monopolistica dei mercati. In particolare possono essere considerate barriere all'entrata quelle che consentono all'impresa di conseguire profitti al di sopra del livello normale, senza per questo attirare l'ingresso nel mercato di nuove imprese. Si tratta pertanto di una definizione molto generale che comprende l'influenza della tecnologia di produzione, dei comportamenti strategici delle imprese e degli interventi pubblici di regolamentazione. Viceversa, Stigler (v., 1968) e Baumol e Willig (v., 1981) hanno definito le barriere all'entrata in relazione ai costi che deve sostenere il nuovo entrante, ma che non devono essere sostenuti dalle imprese già operanti nel mercato. Si tratta quasi esclusivamente dei costi legati al superamento dei vincoli di natura regolamentare o autorizzativa che restringono l'accesso al mercato. L'introduzione di queste barriere non può essere direttamente imputata alle imprese e, pertanto, come sostiene Bork (v., 1978), non è legittimo far ricadere su di esse la responsabilità di eventuali difficoltà d'ingresso nel mercato. Per esempio, come affermato da Demsetz (v., Barriers..., 1982), nel caso in cui un comune stabilisse di voler concedere un numero prefissato di licenze taxi senza consentire ai beneficiari la loro rivendita a terzi, si determinerebbe una barriera all'entrata nel mercato del trasporto pubblico di persone attraverso autovetture. Infatti un tassista escluso da questa prima allocazione di licenze e più efficiente degli altri non avrebbe alcuna possibilità di entrare nel mercato. Viceversa, pur nel contesto di una generale restrizione all'entrata di tipo amministrativo, consentire ai tassisti di rivendere la loro licenza garantirebbe a coloro che sono più efficienti un possibile ingresso nel mercato, sempre che le regole del suo funzionamento non ostacolino il perseguimento dell'efficienza. In tali circostanze, infatti, il tasso di profitto sarebbe stabilito dal regolamentatore prefissando il numero delle licenze e le tariffe verrebbero stabilite tenendo anche conto del rendimento legato all'utilizzazione della licenza. Pertanto la determinazione di un numero prefissato di licenze non costituisce una effettiva barriera all'entrata capace di restringere la concorrenza. Semmai, stabilire un numero prefissato di licenze e assegnarle gratuitamente consente ai beneficiari iniziali di ottenere dei guadagni spesso elevati (vantaggi assoluti), ma non necessariamente permette loro l'esercizio di un significativo potere di mercato.
La distinzione tra vantaggi di tipo strategico e di tipo assoluto di cui godono le imprese già operanti nel mercato rispetto ai potenziali entranti risulta essenziale nel processo di individuazione di barriere all'entrata aventi natura anticoncorrenziale.I vantaggi assoluti possono essere originati dalla regolamentazione, ma possono anche trovare origine nella disponibilità da parte dell'impresa di fattori produttivi essenziali o di brevetti, marchi o diritti di proprietà intellettuale. Ciò che contraddistingue queste situazioni è la considerazione che questi vantaggi possono generalmente essere acquistati dalle imprese rivali che, se più efficienti, sarebbero in grado di pagare per la risorsa scarsa un prezzo tale da renderne conveniente la vendita. Pertanto, pur costituendo effettivamente un impedimento all'ingresso di nuove imprese nel mercato e la causa dell'esercizio del potere di mercato, i vantaggi assoluti di costo non rappresentano una barriera all'entrata che restringe la concorrenza in quanto non impediscono l'ingresso nel mercato di operatori più efficienti.
I vantaggi strategici sono legati alla presenza di costi irrecuperabili e al fatto che l'impresa operante li abbia già sostenuti (vantaggio della prima mossa). Pertanto un'impresa concorrente troverebbe molto rischiosa l'entrata in considerazione della minaccia da parte dell'impresa già operante di abbassare il prezzo al livello del costo marginale, impedendo all'impresa entrante di recuperare il costo sostenuto per l'ingresso. Se questa minaccia risulta credibile, l'impresa operante si garantisce il mantenimento nel tempo degli extraprofitti di monopolio.
Di seguito verranno descritti e analizzati alcuni comportamenti d'impresa funzionali all'erezione di barriere all'entrata di tipo strategico. Una efficace politica antimonopolistica persegue l'obiettivo di ostacolare tali azioni. Tuttavia le indicazioni normative che emergono non presentano una validità generale, ma vanno applicate ai casi concreti con circospezione, nella consapevolezza che l'intervento pubblico deve favorire lo sviluppo delle imprese, non bloccarlo attraverso l'introduzione di sistemi d'incentivazione distorti.
La presenza di economie di scala non necessariamente determina profitti di monopolio. Anzitutto, come dimostrato da Baumol, Panzar e Willig (v., 1982), in assenza di costi irrecuperabili la concorrenza potenziale garantisce l'uguaglianza tra ricavi e costi totali, eliminando ogni possibile profitto di monopolio. Pertanto in un mercato contendibile, caratterizzato da una perfetta simmetria delle condizioni di costo e delle caratteristiche della domanda tra imprese già operanti e quelle potenziali entranti, non esiste la possibilità di comportamenti strategici da parte delle imprese. Più in generale, come affermato da Stiglitz (v., 1987), ciò che decide l'eventuale ingresso nel mercato da parte di un'impresa non sono i prezzi osservati, ma quelli che si prevede prevarranno dopo l'entrata. In questo contesto solo in casi estremamente specifici le economie di scala costituiscono una barriera di tipo strategico, consentendo all'impresa il raggiungimento di extraprofitti positivi in assenza di vantaggi in termini di maggiore efficienza. In particolare, come mostrato da Dixit (v., 1989), un'impresa in monopolio potrebbe adottare una tecnologia caratterizzata, per livelli produttivi più elevati di quelli prevalenti, da costi medi estremamente bassi, effettivamente ostacolando l'ingresso nel mercato di altre imprese. In questa ipotesi la creazione di capacità produttiva in eccesso, pur penalizzando le opportunità di profitto di breve termine dell'impresa, rappresenta una minaccia per eventuali potenziali entranti che, a causa dei prevedibili comportamenti di prezzo dell'impresa già operante, non troverebbero nel mercato un'adeguata remunerazione per i loro investimenti. Solo in casi analoghi a quello esposto le economie di scala assegnano all'impresa dei vantaggi strategici rispetto ai suoi possibili concorrenti.
Le strategie di differenziazione del prodotto consentono alle imprese potenziali entranti una maggiore facilità di ingresso nel mercato e pertanto non costituiscono di per sé una barriera. Tuttavia Schmalensee (v., 1978), con riferimento all'industria americana dei cereali per la prima colazione, ha mostrato che un'impresa dominante, differenziando i prodotti in maniera strategica, può impedire l'ingresso nel mercato di eventuali concorrenti che non troverebbero più 'spazio' per una collocazione profittevole. Peraltro Judd (v., 1985) ha riconosciuto la scarsa credibilità di tale strategia, collegandola alla sola possibilità che i costi di uscita dal mercato per l'impresa operante siano elevati. Altrimenti, a fronte di una eventuale strategia di prezzi predatori posta in essere dall'impresa entrante, l'impresa già operante risulterebbe in molte circostanze incentivata a cessare la produzione dei beni rispetto ai quali esiste tale minaccia concorrenziale.
Relativamente alle spese pubblicitarie, che generalmente accompagnano le strategie di differenziazione del prodotto, è stato affermato che esse possono costituire un impedimento all'entrata, pur non rappresentando una effettiva barriera. Spence (v., 1980) ha mostrato che le spese in pubblicità rappresentano costi fissi e irrecuperabili. Tuttavia esse non costituiscono di per sé una barriera all'ingresso nel mercato, potendo essere effettuate anche dalle imprese entranti. Inoltre, relativamente all'osservazione di Bain (v., 1956) e di Comanor e Wilson (v., 1967) secondo cui le imprese che effettuano molta pubblicità sono caratterizzate da saggi di profitto ben superiori alla media, Telser (v., 1969) e, successivamente, Demsetz (v., 1989) mostrano che, se le spese pubblicitarie vengono considerate come un investimento in reputazione e la remunerazione del relativo stock diviene parte integrante dei costi totali di produzione, la disparità tra i saggi di profitto delle imprese scompare. Ciò implica che le spese pubblicitarie non consentono nel lungo periodo il mantenimento di extraprofitti positivi.
Peraltro, a differenza di altri aspetti dell'attività d'impresa legati per esempio più direttamente alla tecnologia di produzione, la scelta di quanta pubblicità effettuare rientra nell'ambito delle decisioni strategiche d'impresa. A questo proposito Sutton (v., 1991) ha argomentato che una strategia pubblicitaria particolarmente aggressiva può rappresentare una minaccia per altre imprese, ostacolando il loro ingresso nel mercato e favorendo per le imprese già operanti il mantenimento di extraprofitti.Anche la reputazione può eventualmente costituire un ostacolo all'ingresso nel mercato, ma in generale non può considerarsi effettivamente una barriera. La reputazione, infatti, è una sorta di stock che l'impresa costruisce nel tempo attraverso comportamenti coerenti nei confronti dei consumatori. Per esempio, per quei prodotti il cui livello qualitativo non può essere verificato prima dell'acquisto, l'aver conquistato una reputazione sufficientemente elevata, consente all'impresa il mantenimento di extraprofitti positivi. In queste circostanze, afferma Farrell (v., 1986), un'impresa entrante, pur abbassando il prezzo, non sarebbe in grado di acquisire quote di mercato in quanto tale strategia verrebbe interpretata dal consumatore come segnale di un prodotto di bassa qualità. L'impresa potenziale entrante non ha valide alternative a sua disposizione, in quanto acquisire la reputazione necessaria non è un processo istantaneo, ma richiede tempo e coerenza di comportamento. Nel frattempo l'impresa già operante può mantenere extraprofitti positivi, ma solo finché altre imprese non riescono a raggiungere un analogo grado di reputazione, realizzando così un'effettiva minaccia concorrenziale. Tuttavia la reputazione di un'impresa non è strettamente limitata al mercato nel quale essa opera, ma può essere fatta valere anche in altri mercati non necessariamente collegati al primo, indebolendo così le argomentazioni che considerano la reputazione un ostacolo strategico all'ingresso nel mercato.
Il rifiuto di contrarre è stato generalmente associato alle strategie operative di un'impresa che possiede in monopolio un fattore produttivo essenziale per la fornitura di un servizio o di un prodotto ai consumatori. Qualora un'altra impresa intenda entrare in quest'ultimo mercato, tale obiettivo può essere conseguito solo se le viene consentita l'utilizzazione del fattore produttivo essenziale. La prima impresa, rifiutandosi di contrarre con la seconda, può impedirle l'accesso al mercato.Al riguardo è possibile fornire due argomentazioni tra loro contrastanti: a) il rifiuto di contrarre crea un'asimmetria nelle opportunità delle diverse imprese e, pertanto, rappresenta una barriera all'entrata; b) il potere di mercato dell'impresa deriva dal controllo da essa esercitato sul fattore produttivo essenziale, potendo ricavare tutto il profitto di monopolio attraverso la sua cessione; di conseguenza l'impresa, a meno che non ottenga guadagni di efficienza, non ha alcun interesse a ostacolare l'ingresso sul mercato (a valle) di un suo concorrente; ciò implica che il rifiuto di contrarre persegue obiettivi proconcorrenziali quali, per esempio, quello dell'efficienza produttiva.
Le due argomentazioni appena richiamate danno indicazioni opposte rispetto alle politiche da adottare nell'ipotesi di rifiuto di contrarre da parte di un'impresa. Solo nel primo caso il comportamento è considerato restrittivo della concorrenza, mentre nel secondo, che riassume le posizioni espresse dalla Scuola di Chicago e relative all'impossibilità che un'integrazione verticale conduca a un aumento del potere di mercato, viene attribuita all'impresa una strategia pienamente concorrenziale. Il problema di queste due impostazioni è che entrambe forniscono un contributo alla comprensione degli effettivi comportamenti d'impresa, ma nessuno dei due risulta valido in ogni circostanza.La critica della Scuola di Chicago, richiamata da Bork (v., 1978), risulta valida se la tecnologia dell'impresa è caratterizzata da rendimenti costanti di scala e non esiste alcun problema informativo. Solo in queste circostanze l'impresa che controlla il fattore produttivo essenziale non troverebbe conveniente l'esclusione perché potrebbe esercitare il suo potere di mercato (che deriva esclusivamente dal possesso del fattore produttivo essenziale) nei confronti di chiunque. Tuttavia, se queste ipotesi sono abbandonate, il pieno esercizio del potere di mercato potrebbe non essere più consentito e l'impresa, cercando di appropriarsi dei vantaggi di efficienza dell'entrante, fisserebbe un prezzo per il fattore produttivo essenziale ben al di sopra del suo costo marginale. Tale strategia, se posta in essere una volta che l'impresa fosse entrata e in un contesto di asimmetria informativa rispetto agli effettivi vantaggi tecnologici da essa posseduti, potrebbe costringere quest'ultima a lasciare il mercato.Hart e Tirole (v., 1990) generalizzano questo risultato senza dover ricorrere alla presenza di asimmetrie informative, ipotizzando che un acquirente mai accetterebbe un contratto che eliminasse tutti i suoi profitti a vantaggio del venditore monopolista. Infatti in questa circostanza il venditore potrebbe aumentare ancora i suoi profitti rifornendo a prezzi più bassi, ma pur sempre superiori al costo marginale, altri acquirenti, ma facendo così subire perdite consistenti al primo. Pertanto l'integrazione verticale rappresenta generalmente la soluzione più efficiente per il monopolista al fine di conseguire un'effettiva massimizzazione dei profitti. Inoltre Hart e Tirole mostrano che in molte circostanze l'integrazione verticale rappresenta lo strumento più efficace per mantenere i profitti di monopolio, rendendo profittevole escludere dal mercato eventuali concorrenti. Sulla base di queste considerazioni, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato (v., 1995, V, 1-2), istituita con la legge del 10 ottobre 1990, n. 287, al fine di tutelare la concorrenza in Italia, ha accertato che la società Telecom Italia S.p.A., rifiutandosi di concedere in affitto alla Telesystem S.p.A. le linee telefoniche necessarie per la fornitura di servizi di telefonia a gruppi chiusi di utenza, abusava della sua posizione dominante. Con questo comportamento la Telecom Italia, al fine di garantirsi la possibilità di conseguire extraprofitti positivi, ostacolava la diffusione della concorrenza su un mercato liberalizzato.
Gli accordi di esclusiva restringono la libertà concorrenziale delle imprese di scegliere, se sono imprese di produzione, il rivenditore che esse preferiscono (esclusiva di vendita) e di allargare ad altre marche, se sono imprese di distribuzione, la gamma dei prodotti da inserire nell'assortimento (esclusiva di acquisto). Gli accordi di esclusiva di vendita e di esclusiva di acquisto presentano la caratteristica di ridurre le possibilità di profitto dei soggetti vincolati (i produttori nel caso dell'esclusiva di vendita e i distributori nel caso delle esclusive d'acquisto). Pertanto, come sostenuto da Bork (v., 1978), a meno che non favoriscano l'espansione del mercato, compensando in questo modo l'ipotizzata riduzione dei profitti, questi accordi non verrebbero sottoscritti.
Tuttavia questa affermazione, anche se generalmente valida, non sempre risulta verificata, in quanto in alcune circostanze i contratti di esclusiva possono trovare origine in comportamenti strategici delle imprese, aumentando i costi necessari per accedere al mercato da parte di imprese terze e consentendo così il mantenimento di profitti di monopolio. In particolare, gli accordi di esclusiva di acquisto possono aumentare i costi delle imprese potenziali entranti quando le intese riguardano una quota elevata di un numero prefissato di distributori, così che la rete di punti di vendita che rimane accessibile ai produttori esclusi dagli accordi risulta da un punto di vista qualitativo o quantitativo inadeguata a garantire un accesso soddisfacente al mercato finale.
Ciò implica che questi accordi possono precludere alle imprese terze la possibilità di commercializzare i propri prodotti attraverso quei punti di vendita che per localizzazione o per livello di servizio offerto alla clientela sarebbero stati più adatti di altri a svolgere questo compito. Quando ciò si verifica, le imprese possono essere costrette a ovviare alle caratteristiche non ottimali dei distributori sostenendo maggiori sforzi promozionali, allo scopo di raggiungere quei consumatori ai quali avrebbero avuto accesso se avessero potuto utilizzare una rete di distribuzione adeguata. Si realizza pertanto un aggravio di costi che può condurre le imprese a essere meno concorrenziali in fase di fissazione del prezzo, il che tuttavia non conduce alla conclusione che il livello di concorrenza nel mercato nel suo complesso si sia ridotto, dato che ciò dipende dalla capacità delle imprese che sottoscrivono gli accordi di aumentare a loro volta i prezzi in modo significativo e permanente.
I contratti leganti condizionano la vendita di un prodotto alla vendita congiunta di un altro bene, spesso funzionalmente collegato al primo. Anche in questo caso sono state formulate due argomentazioni alternative. È stato affermato che attraverso i contratti leganti un monopolista che produce un certo prodotto X tende a estendere la sua posizione di monopolio anche sui mercati contigui. Tuttavia, sostengono per esempio Bork (v., 1978) e Posner (v., 1978), esiste soltanto un potere di mercato ed è quello legato alla produzione di X. Pertanto ogni aumento di prezzo ottenuto nella vendita del bene contiguo implica una diminuzione delle quantità complessivamente vendute di X e pertanto una riduzione di profitto.
La critica di questi autori ai contratti leganti, come strumenti per consentire l'estensione del potere di mercato, ha comportato una diversa giustificazione per l'utilizzazione di queste forme contrattuali da parte del monopolista. In particolare è stato sostenuto che i contratti leganti vengono utilizzati al fine di favorire la discriminazione dei prezzi (v. Bowman, 1957; v. Blair e Kaserman, 1978), ma anche per consentire l'eventuale sfruttamento delle economie di scala e per ridurre il rischio di impresa.
Recenti studi hanno invece mostrato che queste conclusioni possono risultare modificate quando all'ipotesi di rendimenti costanti di scala viene sostituita l'ipotesi di una struttura del mercato collegato non perfettamente concorrenziale. In queste circostanze obiettivo dell'analisi non è dimostrare se risulta profittevole per il monopolista introdurre contratti leganti, dati i prezzi prevalenti sul mercato contiguo, ma verificare se può essere profittevole per il monopolista modificare i prezzi a suo vantaggio attraverso l'introduzione dei contratti leganti. In tale contesto Whinston (v., 1990) pone in evidenza che i contratti leganti rendono aggressiva l'impresa monopolista nel mercato collegato in quanto ogni mancata vendita su questo mercato implica anche una riduzione di vendite di X. Pertanto è possibile che questa aggressività riduca le opportunità di profitto e ostacoli l'operare della concorrenza impedendo a un'impresa potenziale entrante di recuperare i costi irrecuperabili legati all'entrata nel mercato contiguo. In questo modo, attraverso i contratti leganti, viene alterata la struttura del mercato al fine di consentire al monopolista di mantenere extraprofitti positivi.
L'Autorità garante della concorrenza e del mercato (v., 1993) ha applicato la nozione di contratti leganti per impedire la diffusa pratica dei distributori di gas petrolifero liquefatto di affidare in comodato (contratto secondo il quale una parte consegna all'altra una cosa affinché se ne serva per un uso determinato, con l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta) ai propri clienti il serbatoio nel quale contenere il gas. In questo modo ciascuna società di distribuzione legava a sé i clienti per quanto riguarda l'attività di fornitura del gas petrolifero liquefatto in quanto il serbatoio poteva essere riempito soltanto dalla società proprietaria. I meccanismi concorrenziali operavano soprattutto in relazione alla stipula dei contratti relativi ai nuovi impianti mentre la pratica di affidare in comodato il serbatoio consentiva di mantenere in vigore un'intesa fra tutti i diversi distributori volta a tenere elevati i prezzi di fornitura del gas petrolifero liquefatto.
La pratica dei prezzi predatori è stata definita da Tirole (v., 1988) come originata dall'esigenza di indurre l'uscita dal mercato dei concorrenti attraverso un comportamento particolarmente aggressivo nel processo di formazione dei prezzi. L'impresa che adotta una strategia di prezzi predatori subisce una perdita di breve periodo uguale alla differenza tra costi effettivamente sostenuti e prezzi. Tuttavia, una volta che la strategia abbia successo e le imprese rivali siano costrette a uscire dal mercato, l'impresa deve essere in grado di fissare prezzi tali da consentire profitti di monopolio, innanzitutto per ripianare le perdite subite. Ciò implica l'esistenza di sufficienti barriere all'entrata nel mercato.Affinché una strategia di prezzi predatori conduca a risultati favorevoli occorre, come suggerito da Telser (v., 1966), che l'impresa che l'adotta abbia a disposizione considerevoli risorse finanziarie in modo da minacciare i concorrenti e costringerli a lasciare il mercato. Peraltro qualora i rivali siano convinti della credibilità della strategia perseguita dall'impresa, lasceranno il mercato prima di essere danneggiati in modo irreparabile. Tuttavia, affinché l'impresa sia in grado di conseguire una posizione di monopolio, essa deve avere a disposizione una capacità produttiva sufficiente a soddisfare l'intera domanda del mercato, altrimenti la strategia seguita non potrà essere considerata credibile dalle imprese concorrenti che, pertanto, tenderanno a non lasciare il mercato.
Anche se tutte queste condizioni sono soddisfatte, la profittabilità di una strategia di prezzi predatori non rappresenta una condizione necessaria per garantire razionalità al comportamento seguito dall'impresa. Occorre infatti anche dimostrare, come suggerito da McGee (v., 1958), che l'impresa non ha a disposizione alternative meno costose, in particolare l'acquisizione dell'impresa rivale, per raggiungere lo stesso obiettivo. L'argomentazione di McGee è stata criticata perché non tiene sufficientemente in considerazione la possibilità che i comportamenti predatori stabiliscano una reputazione per l'impresa, costituendo una minaccia duratura nei confronti delle imprese potenziali entranti nel mercato. Se infatti la strategia di monopolizzazione è rappresentata dall'acquisizione delle imprese entranti, il monopolista si potrebbe trovare costretto ad acquisire tutte le imprese che entrano nel mercato, il che potrebbe rivelarsi estremamente costoso.
Nello stesso spirito Kreps e Wilson (v., 1982) e Milgrom e Roberts (v., 1982) mostrano l'importanza della reputazione per il successo delle strategie predatorie. Secondo la loro analisi l'irrazionalità dei comportamenti predatori può essere giustificata solo se le imprese concorrenti non hanno alcuna percezione a priori sulla natura dell'impresa che pone in essere questi comportamenti aggressivi. Quando invece esiste incertezza relativamente alla natura dell'impresa, i comportamenti predatori consentono l'esercizio del potere di mercato.
Nonostante ciò, non è certo che i prezzi predatori, fintanto che non costringano effettivamente un'impresa a uscire dal mercato, debbano essere vietati. Roberts (v., 1987) afferma infatti che per stabilire che un determinato comportamento sia effettivamente predatorio occorre individuare con precisione l'intenzione dell'impresa e analizzare in maniera estremamente dettagliata le condizioni informative esistenti, il che in molte circostanze è estremamente complesso e difficile. L'Autorità garante della concorrenza e del mercato (v., 1995, V, 6) ha accertato che la società Italcementi, al fine di impedire la commercializzazione in Sardegna di cemento importato, praticava forti sconti sulle forniture di calcestruzzo preconfezionato effettuate da propri impianti di betonaggio, tali da comportare dei prezzi di vendita inferiori ai costi variabili. Con queste pratiche assimilabili a comportamenti di prezzo predatorio, i preconfezionatori indipendenti di calcestruzzo venivano dissuasi dall'acquistare cemento dagli importatori; ciò consentiva alla Italcementi di mantenere la propria posizione dominante sul mercato del cemento in Sardegna.
Una posizione di monopolio può essere conseguita oltre che attraverso strumenti di crescita interni all'impresa anche attraverso l'acquisizione delle imprese rivali operanti nel mercato (concentrazioni orizzontali). Viceversa le intese non comportano modificazioni negli assetti strutturali del mercato e discendono dalle possibilità di coordinamento oligopolistico a disposizione delle imprese. Pertanto la loro influenza sugli equilibri di mercato, che in parte è simile a quella esercitata dalle operazioni di concentrazione, non viene discussa in questo articolo che riguarda soltanto il monopolio e le politiche più appropriate per contrastarlo.Relativamente alla valutazione dell'attività di concentrazione, occorre sottolineare che non ogni concentrazione tra imprese concorrenti favorisce il conseguimento di profitti monopolistici. Affinché ciò accada occorre anzitutto che l'operazione riguardi le imprese di più ampia dimensione operanti nel mercato. Inoltre a seguito della concentrazione l'impresa deve essere in grado di mantenere per un periodo sufficientemente lungo comportamenti sostanzialmente indipendenti da quelli degli altri operatori presenti. Infine potrebbe accadere che i miglioramenti di efficienza generati da una concentrazione orizzontale compensino più che adeguatamente la crescita dei profitti che si realizza, in modo da comportare per i consumatori prezzi inferiori a quelli prevalenti prima dell'operazione.
È al problema di natura empirica dei rapporti tra potere di mercato, efficienza e grado di concentrazione che numerosi studi e analisi hanno cercato di dare una risposta. In particolare è stata verificata, soprattutto nell'esperienza americana, l'esistenza di un legame relativamente robusto tra grado di concentrazione delle imprese e profitti conseguiti. Al riguardo occorre considerare che non è possibile interpretare in maniera univoca la presenza di una relazione significativa tra grado di concentrazione e profittabilità delle imprese. È possibile ritenere infatti che il comportamento oligopolistico e l'esercizio del potere di mercato rappresentino le principali determinanti dei prezzi e dei saggi di profitto osservati. Si può d'altra parte sostenere che la presenza di imprese più efficienti sia la ragione principale delle quote di mercato elevate e dei conseguenti maggiori profitti che vengono registrati in alcune industrie.
Recentemente Farrell e Shapiro (v., 1990) hanno sostenuto che le concentrazioni orizzontali determinano generalmente una crescita del potere di mercato delle imprese coinvolte a danno dei consumatori. Essi infatti dimostrano che i miglioramenti di efficienza necessari per consentire una riduzione dei prezzi a seguito di un'operazione di concentrazione devono risultare estremamente rilevanti. Tuttavia questi autori, pur affermando che le operazioni di concentrazione orizzontale danneggiano generalmente i consumatori, suggeriscono che la valutazione complessiva della perdita di benessere deve essere effettuata considerando congiuntamente i danni subiti dai consumatori e i maggiori profitti conseguiti dai produttori, sia pure non necessariamente valutando con lo stesso peso gli aumenti del surplus del produttore e le riduzioni del surplus del consumatore.
L'analisi economica di Farrell e Shapiro (nell'articolo citato sopra) giustifica l'introduzione di un controllo preventivo delle concentrazioni al fine di impedire le operazioni che favoriscono per un periodo di tempo sufficientemente lungo il conseguimento di profitti monopolistici da parte delle imprese coinvolte. Tuttavia tale conclusione, sia pure soggetta a numerose ulteriori condizioni, vale in particolare per le operazioni di concentrazione tra imprese operanti in uno stesso mercato. Quando invece le imprese coinvolte operano in fasi distinte di uno stesso processo produttivo (concentrazioni verticali) o in mercati non collegati tra loro in maniera funzionale (concentrazioni conglomerali) sono necessari altri tipi di considerazioni.L'Autorità garante della concorrenza e del mercato (v., 1995, V, 13) ha autorizzato la concentrazione tra Ferrovie dello Stato S.p.A., il principale gestore della rete ferroviaria nazionale, e la Sogin S.r.l., uno dei principali operatori nazionali nel settore del trasporto pubblico tramite autobus, solo alla condizione che fossero cedute a terzi le linee di trasporto pubblico che si sovrapponevano direttamente a tratte ferroviarie. In particolare, l'Autorità ha ritenuto che, attraverso l'acquisizione delle linee di trasporto pubblico nelle quali la Sogin S.r.l. operava in parallelo con le Ferrovie dello Stato, si eliminava la concorrenza da un mercato, quello del trasporto pubblico di persone, caratterizzato da elevate barriere all'ingresso di natura economica e istituzionale.
Un'operazione di concentrazione che coinvolge imprese operanti in fasi verticalmente collegate di uno stesso processo produttivo generalmente comporta un miglioramento dell'efficienza allocativa piuttosto che una sua riduzione. Tale miglioramento di efficienza, come mostrato da Williamson (v., 1989), è associato alla riduzione dei costi negoziali conseguita ponendo all'interno dell'impresa alcune fasi di produzione che prima avvenivano al suo esterno. In questo modo l'impresa riesce ad acquisire un maggior controllo sui suoi costi di produzione. Inoltre, ove il processo d'integrazione verticale avvenga nei confronti di una fase di lavorazione posta a monte del processo produttivo, l'impresa consegue una maggiore certezza rispetto alla qualità e alla continuità delle forniture.
Tuttavia in alcuni casi molto specifici le concentrazioni verticali possono risultare restrittive della concorrenza, in particolare quando esse vengono utilizzate per modificare a proprio vantaggio le modalità di interazione con le imprese rivali piuttosto che per raggiungere una maggiore efficienza di mercato. Ciò avviene quando le concentrazioni sono promosse da produttori o distributori che hanno un notevole potere di mercato e che attraverso una concentrazione verticale possono ostacolare l'accesso dei concorrenti al mercato finale, contribuendo a innalzare in modo significativo i costi e quindi i prezzi di vendita di imprese rivali.
Affinché una concentrazione verticale possa conferire un potere monopolistico aggiuntivo alle imprese coinvolte occorre che tali legami tra imprese riguardino, per esempio, una quota elevata di un numero prefissato di distributori, così che la rete di punti di vendita che rimane disponibile ai produttori esclusi risulta inadeguata a garantire un accesso soddisfacente al mercato finale. Ciò implica che attraverso le concentrazioni verticali è possibile precludere alle imprese terze la possibilità di commercializzare i propri prodotti attraverso quei punti di vendita che sarebbero stati più adatti di altri a svolgere questo compito. Quando ciò si verifica, le imprese possono essere costrette a ovviare alle caratteristiche non ottimali dei distributori sostenendo maggiori sforzi promozionali, allo scopo di raggiungere quei consumatori ai quali avrebbero avuto accesso se avessero potuto utilizzare una rete di distribuzione adeguata. Si realizza pertanto un aggravio di costi, che può consentire alle imprese integrate verticalmente il mantenimento di profitti di monopolio.
Un'operazione di concentrazione che coinvolge imprese operanti in mercati tra loro distinti non conduce di per sé ad alcun aumento di potere di mercato. Certamente, a seguito di un'operazione di concentrazione di tipo conglomerale, potrebbero essere adottati comportamenti abusivi da parte dell'impresa, quali per esempio contratti leganti, prezzi predatori, contratti di esclusiva, tendenti a favorire l'estensione di un eventuale potere monopolistico su altri mercati. Tuttavia questi comportamenti rappresentano una mera possibilità e non possono essere considerati in una valutazione a priori degli effetti anticoncorrenziali di un'operazione di concentrazione. Soltanto in circostanze molto particolari una concentrazione conglomerale può essere considerata a priori capace di esercitare effetti anticoncorrenziali di tipo strategico. Per esempio, ove l'impresa acquisita avesse mostrato l'interesse a entrare come operatore indipendente nel mercato in cui l'impresa acquirente mantiene una posizione dominante, risulterebbe possibile sostenere che la concentrazione ha la finalità di proteggere una posizione di monopolio, impedendo l'ingresso di un concorrente nel mercato. (V. anche Concorrenza; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Liberismo; Mercato; Offerta; Oligopolio; Prezzi).
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di Pietro Fattori
Qualsiasi trattazione che, in chiave comparatistica, si proponga un'analisi giuridica delle politiche antimonopolistiche realizzate nell'ambito dei diversi ordinamenti, intese convenzionalmente come quell'insieme di regole volte a controllare e limitare il potere di mercato delle imprese, implica la risoluzione di un delicato problema metodologico. È evidente, infatti, la difficoltà di sistematizzare una materia che, dal punto di vista storico e geografico, è praticamente senza confini e che, latamente intesa, rischia di confondersi nella più ampia problematica dell'intervento statale nell'economia. Se, infatti, interventi volti a limitare fenomeni di carattere monopolistico si registrano sin dall'insorgere delle prime organizzazioni di carattere statuale, tanto che nella ricerca di precedenti significativi si è soliti attingere dalla storia romana e greca (v. Raybould, 1992), le relazioni tra potere economico e potere politico costituiscono un filo rosso che si snoda lungo l'intero processo di organizzazione sociale e politica dell'Occidente.
Tuttavia, un complesso organico di regole e istituti, fondato sull'esigenza di sottoporre a controllo i fenomeni monopolistici in funzione di garanzia di un regime di mercato concorrenziale, è venuto delineandosi solo in epoca relativamente recente, dapprima negli Stati Uniti, a seguito dei rilevanti cambiamenti tecnologici e organizzativi che tra il 1870 e il 1920 circa hanno investito il sistema industriale, e quindi in Europa, dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, nell'ambito del processo di costituzione delle Comunità economiche europee.
Al fine di individuare le caratteristiche essenziali delle principali politiche di controllo e limitazione del potere economico delle imprese, appare quindi lecito il riferimento alle moderne legislazioni antimonopolistiche statunitense e comunitaria, che indiscutibilmente hanno costituito e costituiscono ancora oggi i modelli più rappresentativi sotto il profilo dell'importanza economica e dell'evoluzione giuridica.
Se, inoltre, il sistema statunitense rappresenta, come si vedrà, la matrice storica delle moderne legislazioni a tutela della concorrenza, la normativa comunitaria, in virtù del processo di armonizzazione degli ordinamenti dei paesi membri dell'Unione Europea (e di quelli facenti parte dello Spazio Economico Europeo), possiede a sua volta una notevole forza espansiva.I due sistemi devono essere considerati, naturalmente, in relazione al contesto politico, economico e sociale che ne ha determinato la nascita e un'evoluzione che, seppure non divergente, risulta caratterizzata da alcune sostanziali differenze.
L'insorgere delle preoccupazioni per i fenomeni monopolistici risale, nel caso degli Stati Uniti, molto indietro nel tempo: esse infatti si manifestarono con particolare vigore già in occasione del dibattito relativo alla istituzione della Banca degli Stati Uniti (1791). L'ostilità dell'opinione pubblica divenne tuttavia particolarmente evidente nella fase successiva alla guerra civile, quando apparve chiaramente che le pratiche poste in essere da alcune grandi imprese minacciavano di turbare la libertà del commercio. Emblematico fu il caso della Standard Oil Company (1882): gli azionisti di cinquanta raffinerie di petrolio, cui era riconducibile il 95% dell'attività di raffinazione, misero infatti in comune le rispettive quote azionarie e, spogliandosi della gestione diretta delle attività economiche, ma conservando un diritto di partecipazione agli utili, realizzarono un sistema perfettamente collusivo attraverso un utilizzo anticoncorrenziale dell'istituto del trust (di qui il termine, invalso nella prassi, di legislazione antitrust). Se la Standard Oil Company costituì il caso più eclatante di restrizione della concorrenza, anche altri settori industriali (zucchero, sale, cotone, olio di semi di lino, ecc.) subirono, nel medesimo periodo, un intenso processo di monopolizzazione, realizzato dalle imprese principalmente attraverso lo strumento del trust, ma anche per il tramite di altre forme associative, come, ad esempio, cartelli temporanei, peraltro ponendo spesso in essere pratiche intimidatorie (v. Letwin, 1981). Nell'opinione pubblica era diffusa la convinzione che lo sfruttamento di tale potere da parte delle imprese, particolarmente nei settori del credito, delle linee di trasporto e delle materie prime, si traducesse in un danno per i consumatori, costretti a pagare prezzi più alti, per i concorrenti di minori dimensioni, gradualmente estromessi dal mercato, e per i lavoratori, spinti verso la disoccupazione dalla chiusura degli impianti e dalle operazioni di ristrutturazione delle imprese. Si riteneva, inoltre, che una elevata concentrazione industriale fosse motivo di corruzione a livello amministrativo e legislativo e costituisse, in ultima istanza, una minaccia per lo sviluppo di un sistema democratico e per la stessa libertà dei singoli (v. Thorelli, 1955). Si determinò, in conseguenza, una sostanziale convergenza di opinioni circa la necessità di un intervento di carattere legislativo, volto a reprimere e disperdere l'eccessiva concentrazione di potere di mercato (la tesi di una assunzione delle proprietà dei trust e di una loro gestione diretta da parte del governo fu invece assolutamente minoritaria). Questa esigenza fu soddisfatta in tempi brevi. Nel 1888 il senatore John Sherman dell'Ohio si fece promotore di un Bill to declare unlawful trusts and combinations in restraint of trade and production che, dopo un laborioso processo di riscrittura e un intenso dibattito parlamentare, divenne legge federale il 2 luglio del 1890. Lo Sherman act, che a distanza di oltre un secolo costituisce ancora la pietra angolare del sistema di tutela della concorrenza statunitense, è formulato in termini molto generali (le sue previsioni sono state assimilate a quelle di una carta costituzionale). Esso dichiara illegale, nella sezione 1, "ogni contratto, combinazione nella forma di trust o altrimenti, o cospirazione, che limita gli scambi o il commercio tra i vari Stati, o con nazioni straniere [...]". La sezione 2 prevede invece che "ogni persona che monopolizzerà o tenterà di monopolizzare o entrerà a far parte di combinazioni o cospirazioni con altra persona o persone, tendenti a monopolizzare qualsiasi parte degli scambi o del commercio fra i vari Stati o con nazioni straniere sarà ritenuta colpevole di un reato [...]". Può quindi affermarsi, in via molto generale, che mentre la sezione 1 vieta gli accordi restrittivi della concorrenza (restraint of trade), la sezione 2 proibisce un utilizzo anticompetitivo del potere di mercato, sotto il distinto profilo della 'monopolizzazione' (monopolization) e del 'tentativo di monopolizzare' (attempt to monopolize).
Successivamente alla approvazione dello Sherman act, il sistema normativo è venuto articolandosi con l'emanazione di altri atti legislativi (v. Bernini, 1991). Così, nel 1914 fu approvato il Clayton act, che, con un dichiarato intento integrativo dello Sherman act, proibì, nella misura in cui fossero suscettibili di indebolire sostanzialmente la concorrenza o di dare vita a un monopolio, le pratiche di discriminazione del prezzo (par. 2), i contratti cosiddetti leganti e quelli contenenti clausole di esclusiva (tying and exclusive arrangements) (par. 3), le fusioni e concentrazioni tra imprese (par. 7) e i cosiddetti interlocking directorates (par. 8), ossia la presenza degli stessi individui negli organi di gestione di imprese concorrenti. Dello stesso periodo è il Federal trade commission act (1914) che, al fine di conferire una maggiore efficacia al sistema riducendo i costi e le incertezze legate al ricorso all'azione giudiziaria, istituì un'apposita agenzia governativa - la Federal Trade Commission (FTC) - incaricandola di una generale funzione di vigilanza sul rispetto della legislazione antitrust; la FTC venne ad affiancarsi all'altro organismo - l'Antitrust division presso il Department of justice - creato nel 1903 per dare impulso alla applicazione della nuova legislazione federale. Con una rilevante disposizione di carattere sostanziale il Federal trade commission act dichiarò inoltre illegale l'utilizzo, da parte delle imprese, di metodi di concorrenza sleale (sez. 5). Nel 1936, in una fase di piena recessione economica, fu emanato il Robinson Patman act, con il quale il divieto di discriminazioni di prezzo, contenuto nel Clayton act, fu esteso a determinati tipi di sconti e riduzioni. Con il Wheeler-Lea act del 1938 si intesero invece rimuovere le forti limitazioni che avevano caratterizzato l'applicazione da parte della FTC della sezione 5 del Federal trade commission act in tema di concorrenza sleale. L'estensione del divieto a pratiche e comportamenti "sleali e ingannevoli", a prescindere dal loro impatto sulla concorrenza, si risolse nel garantire un'ampia protezione alla generalità dei consumatori (su tale norma si fonda, ad esempio, la repressione da parte della FTC della pubblicità ingannevole). Il Celler-Kefauer amendment (1950) contribuì a sua volta a rimediare ad alcune lacune e incongruenze del Clayton act in ordine al controllo delle concentrazioni, che avevano consentito alle imprese una facile elusione della normativa. Infine, l'Hart-Scott-Rodino antitrust act del 1976 introdusse importanti modifiche nel sistema di applicazione della normativa a livello sia amministrativo che processuale.Il sistema sopra delineato costituisce un corpus normativo suscettibile di applicarsi a pressoché tutti i comportamenti posti in essere dalle imprese: accordi orizzontali e verticali e altre pratiche concordate, comportamenti di carattere monopolistico, concentrazioni orizzontali, verticali e conglomerali. Esenzioni per determinati settori di attività economica sono state previste da emendamenti successivi della legislazione o sono state di volta in volta stabilite dalle Corti sulla base dell'intrinseca incompatibilità della legislazione antimonopolistica con altre forme di regolazione. Particolarmente ampie sono le esenzioni nei confronti dell'attività sindacale e dell'agricoltura; esenzioni parziali riguardano i servizi di pubblica utilità e il trasporto, il credito e le assicurazioni; le libere professioni in quanto tali non sono sottratte all'applicazione della normativa antitrust.
La sezione 1 dello Sherman act proibisce, con una formulazione dal rigido tenore letterale, qualsiasi accordo restrittivo della concorrenza, a prescindere dalla sua forma e dalle concrete modalità di realizzazione. La norma ha una portata assai ampia, suscettibile com'è di applicazione a qualsiasi azione concertata tra una pluralità di soggetti (non solo, quindi, accordi, formali e informali, volti alla fissazione dei prezzi, alla limitazione della produzione, alla ripartizione dei mercati, al boicottaggio dei concorrenti, ma anche restrizioni verticali). La giurisprudenza, tuttavia, ha chiarito ben presto che l'illiceità di un'intesa non dipende semplicemente dalla sua capacità di restringere la concorrenza, posto che qualsiasi accordo comporta intrinsecamente un effetto restrittivo, ma dalla circostanza che le limitazioni che essa realizza siano irragionevoli (unreasonable, undue, secondo la celebre opinion del giudice Brandeis nel caso Chicago Board of Trade vs. U.S., 1918). La tensione fra due differenti approcci nella valutazione di liceità di accordi e pratiche concertate in relazione alla sezione 1 dello Sherman act si coglie nella contrapposizione in genere istituita fra i due standard di analisi giudiziale della per se rule e della rule of reason. In base alla per se condemnation theory, cui vanno riconosciuti indubbi vantaggi in termini di tempi e costi dell'azione giudiziaria e di certezza del diritto, una pratica è dichiarata illegale senza che occorrano indagini o accertamenti ulteriori. Tale criterio è in genere applicato a quelle condotte la cui intrinseca anticompetitività non richiede un esame dell'intento delle parti o degli effetti - attuali o potenziali - della pratica. Si tratta, in genere, di accordi tra concorrenti che fissano prezzi e condizioni di vendita, ripartiscono mercati o clienti, stabiliscono un rifiuto collettivo di contrarre - cosiddetti group boycotts - o condizionano la vendita di un bene all'acquisto di un secondo prodotto - cosiddetti tying contracts. L'utilizzo di uno standard di ragionevolezza implica invece che nella valutazione della fattispecie si tenga conto di tutte le circostanze del caso concreto. Sono sottoposti ad uno scrutinio di legalità applicando una rule of reason, tra gli altri, accordi di vendita e acquisto esclusivo, di ricerca e sviluppo, ecc., in cui l'intento e l'effetto restrittivo sono ponderati in relazione alle legittime giustificazioni economiche addotte dalle parti e ai benefici che, in termini di efficienza, possono derivare dall'accordo.
L'analisi, sulla base di questi parametri, delle restrizioni poste in essere in violazione della sezione 1 dello Sherman act ha conosciuto una significativa evoluzione (v. Mangini, 1995). Dopo un iniziale periodo di prevalenza di interpretazioni particolarmente rigorose, tese alla condanna di qualsiasi restraint of trade (ad esempio, nel caso U.S. vs. Trans-Missouri Freight Ass., 1897), la rule of reason, sebbene con contorni non sempre chiaramente definiti, si è ben presto attestata come prevalente standard di legalità usato dalle Corti al fine di stabilire se la restrizione posta in essere fosse irragionevolmente restrittiva della concorrenza, e cioè non fosse altrimenti giustificabile che dall'intento di limitare la concorrenza (Standard Oil Co. of New Jersey vs. U.S., 1911; Chicago Board of Trade vs. U.S., 1918). La valutazione della restrittività dei comportamenti di impresa secondo la rule of reason, nonostante le iniziali incertezze della giurisprudenza, non viene condotta prendendo in considerazione qualsiasi vantaggio di ordine economico o sociale, né è limitata alla verifica dell'impatto dell'intesa sul mercato da un punto di vista meramente quantitativo. Essa, con sempre maggior consapevolezza a partire dalla nota pronuncia Sylvania in tema di restrizioni verticali, si fonda invece sull'analisi della capacità dell'intesa stessa di produrre effetti "pro-competitivi" (benefici per il consumatore) che compensino ed eccedano le restrizioni della concorrenza (Continental T.V., Inc. vs. GTE Sylvania, Inc., 1977). Anche se un approccio dicotomico è tuttora prevalente, e l'applicazione della per se rule nei confronti di condotte palesemente anticoncorrenziali può ancora dirsi la regola (FTC vs. Superior Court Trial Lawyer Ass., 1990), alcune recenti pronunce sono però venute attenuando la rigida contrapposizione tra rule of reason e per se rule, elaborando da un lato più accurati testi di ragionevolezza, e dall'altro proponendo versioni 'abbreviate' (truncated) della rule of reason, che consentono di prendere in esame alcune cause di giustificazione anche in quei casi tradizionalmente sottoposti ad un giudizio di illiceità per se (U.S. vs. Brown University, 1993; U.S. Healthcare, Inc. vs. Healthsource, Inc., 1993).
I divieti contenuti nella sezione 2 dello Sherman act sono rivolti a tre categorie di condotte, definite in termini molto lati (to monopolize, to attempt to monopolize, to combine or conspire to monopolize). L'applicazione della sezione 2 dello Sherman act vive nella perenne tensione che comporta il distinguere, tra le condotte delle imprese in possesso di un certo potere di mercato, quelle che mirano ad alimentare, sia pure in modo aggressivo, il processo competitivo e quindi ad assicurare ai consumatori la quantità e la qualità dei beni desiderati a un prezzo concorrenziale, e quelle che si prefiggono l'esclusione dei concorrenti dal mercato. L'applicazione delle norme da parte delle Corti ha in primo luogo chiarito che il divieto di monopolizzazione non ha ad oggetto la dimensione delle imprese in quanto tale, ma si basa invece su due elementi: il possesso di un potere monopolistico nel mercato rilevante e l'intenzionale acquisizione o mantenimento di tale potere (Grinnel Corporation vs. U.S., 1966). Sotto il primo profilo, può affermarsi in termini molto generali, e da un punto di vista prettamente economico, che il potere di mercato può essere identificato con la possibilità per un'impresa di innalzare in misura significativa i prezzi sopra il livello concorrenziale e di mantenerli a tale livello per un periodo di tempo prolungato (v. Landes e Posner, 1981). Tale definizione ha tuttavia scarso valore pratico e operativo in quanto la misurazione del potere economico presuppone l'individuazione di uno specifico mercato (il "mercato rilevante", secondo una terminologia risalente a una pronuncia del 1948, U.S. vs. Columbia Steel Co., 1948), inteso come il contesto sia merceologico che geografico nel quale si verificano in concreto le restrizioni della concorrenza. Il fattore più importante per determinare il potere economico di un'impresa, nonostante l'accresciuta consapevolezza della scarsa attendibilità di tale parametro, è tuttora la quota di mercato; mentre da una quota superiore al 70% si inferisce in genere l'esistenza di un potere monopolistico, una quota inferiore al 40% depone per la sua assenza. Secondo una prima linea di interpretazione giurisprudenziale, il requisito soggettivo dell'intento o del proposito di monopolizzare è stato presunto in quei casi in cui l'impresa non fosse in grado di dimostrare di aver raggiunto una posizione monopolistica attraverso una condotta "onestamente industriale" (U.S. vs. Aluminium Co. of America, Alcoa, 1945), in conseguenza cioè di una crescita o sviluppo ottenuti in virtù della superiore qualità dei suoi prodotti, di abilità negli affari o di ragioni esterne che sfuggono al suo controllo (Grinnel Co. vs. U.S., 1966). La rigidità di questo standard di giudizio, applicato in alcuni importanti casi (American Tobacco Co. vs. U.S., 1946) è venuta successivamente ridimensionandosi ad opera di una successiva serie di pronunce che hanno ricollegato l'intento di monopolizzare un mercato all'esistenza di specifiche condotte anticoncorrenziali, come rifiuti ingiustificati di contrarre o pratiche predatorie, caratterizzate dall'assenza di valide ragioni giustificative e spiegabili con il solo scopo di estromettere i concorrenti dal mercato (Telex Corp. vs. IBM, 1973; Berkey Photo, Inc. vs. Eastman Kodak Co., 1980). In conseguenza di tale impostazione diviene possibile, anche per le imprese con un rilevante potere di mercato, competere vigorosamente con i propri concorrenti difendendo la propria posizione di mercato.Il divieto del "tentativo di monopolizzazione", come distinta fattispecie prevista dalla sezione 2 dello Sherman act, ha chiaramente carattere preventivo, e, secondo la più recente giurisprudenza, è riferito a quelle condotte che, pur senza attingere la soglia della monopolizzazione, si caratterizzano per uno specifico intento di monopolizzare un mercato e comportano una "pericolosa probabilità" che la condotta medesima possa realizzare una situazione di monopolio (Spectrum Sports, Inc. vs. McQuillan, 1993).
Il controllo delle fusioni e acquisizioni (sezione 7 del Clayton act) ha come oggetto principale le concentrazioni orizzontali, che coinvolgono imprese operanti nello stesso mercato sia del prodotto che geografico, individuato secondo i principî di sostituibilità della domanda e dell'offerta (la disciplina è tuttavia applicabile anche nei confronti di concentrazioni verticali e conglomerali). Il controllo di queste operazioni risponde all'obiettivo di evitare che un accresciuto livello di concentrazione del mercato agevoli la creazione di monopoli o posizioni dominanti da cui possano scaturire condotte anticompetitive unilaterali o di oligopoli che possano essere la fonte di comportamenti collusivi. Le Corti e le agenzie federali hanno in genere inferito l'esistenza del potere di mercato delle imprese dalle quote di mercato e dal grado di concentrazione del mercato stesso, tenendo in considerazione altri fattori che possano impedire l'esercizio del potere di mercato o di comportamenti collusivi, come la facilità di nuove imprese di entrare nel mercato, la presenza di acquirenti dotati di potere contrattuale, l'eventuale stato di crisi di un'impresa, l'esistenza di mezzi diversi dalla concentrazione per conseguire guadagni di efficienza (si vedano le Horizontal merger guidelines emanate nel 1992 congiuntamente dal Department of justice e dalla Federal Trade Commission).
Non sono mancate le analisi che hanno sottolineato la sostanziale continuità tra la disciplina introdotta dallo Sherman act e i principî elaborati in seno alla common law, in particolare in materia di restraint of trade, che, a detta dello stesso senatore Sherman, avrebbero dovuto fungere da parametro per distinguere le restrizioni legali (reasonable) da quelle illegali (unreasonable) (i rapporti tra common law e Sherman act sono stati puntualizzati nella tanto nota quanto controversa opinion del giudice Thaft nel caso U.S. vs. Addyston Pipe & Steel Co., 1898). Nonostante la common law costituisca, sul piano tecnico-giuridico, la cornice entro la quale venne a collocarsi la nuova disciplina della concorrenza, solo le prime pronunce delle Corti vi si ricollegarono in modo significativo, mentre l'evoluzione giurisprudenziale dette ben presto vita a un complesso autonomo di principî di carattere sostanziale. In realtà lo Sherman act, intervenuto come detto in un contesto economico interessato da un processo di profonda trasformazione, costituì una novità assoluta soprattutto dal punto di vista dei suoi riflessi pratici e operativi. In primo luogo, il generalizzato divieto di comportamenti collusivi e di monopolizzazione, indipendentemente dagli strumenti giuridici e dai mezzi utilizzati dalle imprese, consentì l'applicazione delle nuove norme a una molteplicità di pratiche restrittive, ben oltre i confini stabiliti dalle precedenti pronunce delle Corti. Inoltre, l'istituzione di due agenzie federali - il Department of justice e la Federal Trade Commission - dotate di poteri investigativi e di ricorso alle Corti per ottenere, attraverso vari strumenti (principalmente injunctions e consent decrees), la cessazione delle condotte in violazione della legislazione antitrust, introdusse un peculiare livello di public enforcement della normativa, tanto da far affermare che le nuove norme avevano trasportato la dottrina del restraint of trade dal 'regno' del diritto privato a quello del diritto pubblico (Hovenkamp, 1994). In particolare, la rilevanza penale assunta dalle più gravi tipologie di restrizioni della concorrenza - individuate essenzialmente in accordi per la fissazione dei prezzi, per la divisione dei mercati, per la turbativa concertata di gare e appalti- ha introdotto la possibilità di un intervento più marcatamente repressivo da parte del governo federale (government criminal action da parte del Department of justice). Le sanzioni sono state sostanzialmente incrementate nell'ultimo decennio: in particolare, a ciascuna impresa responsabile di violazioni dello Sherman act può essere inflitta una multa fino a 10 milioni di dollari, oppure pari alla somma maggiore tra quelle equivalenti rispettivamente al doppio dei profitti tratti dall'illecito o al doppio delle perdite sofferte da chi ne ha subito il danno. Le persone fisiche possono essere punite con multe fino a 350.000 dollari e con pene detentive sino a 3 anni. Ma, soprattutto, l'impatto dello Sherman act è risultato grandemente accresciuto dalla possibilità per i privati (persone giuridiche e persone fisiche) di agire in giudizio onde ottenere il conseguimento di una somma pari al triplo del danno subito a causa di violazioni della normativa e ottenere ingiunzioni volte alla cessazione delle condotte anti-concorrenziali (sezioni 4 e 16 del Clayton act). Proprio la private treble damage action si è dimostrata il più potente incentivo e strumento di applicazione dello Sherman act. Non solo infatti le azioni dei privati hanno sempre largamente superato quelle intentate dal governo in termini quantitativi, ma esse sono anche all'origine di molti dei casi decisi dalle Corti che hanno determinato importanti sviluppi sul piano interpretativo. Il rischio, pure esistente, che il potente incentivo del recupero del triplo del danno subito possa risolversi in un eccessivo utilizzo dell'azione giudiziaria e nella sua frequente strumentalizzazione come metodo di disturbo di concorrenti più efficienti è stato in parte ridimensionato dai limiti che sono stati stabiliti dalle Corti in termini di legittimazione a ricorrere e di oneri probatori. Un'azione civile tesa al recupero del triplo dei danni subiti può essere intentata anche dal Department of justice per conto del governo degli Stati Uniti in qualità di acquirente di beni o servizi. In base all'Hart-Scott-Rodino act, il recupero dei danni tripli è consentito (per il tramite dei rispettivi attorney general) anche ai singoli Stati dell'Unione i cui cittadini siano stati danneggiati da violazioni della normativa antitrust; le Corti sono apparse comunque inclini a circoscrivere rigorosamente tale possibilità, escludendo che il meccanismo possa essere attivato a vantaggio dei consumatori che non siano coinvolti direttamente nella controversia oggetto di contestazione (Illinois Brick Co. vs. Illinois, 1977).
Fra i mezzi a disposizione delle Corti per ripristinare condizioni di concorrenza effettiva nei casi di violazione del divieto di monopolizzazione figurano anche rimedi di carattere strutturale, che possono assumere varie forme (cessione di impianti; licenze obbligatorie in materia di proprietà intellettuale, ecc.), la più radicale delle quali è la ristrutturazione dell'impresa monopolistica in diverse entità (divestiture). Dopo la 'dissoluzione' dello Standard Oil trust e dell'American Tobacco Co. nel 1911, questo rimedio è stato adoperato con particolare cautela dalle Corti, che ne hanno percepito l'estrema delicatezza e anzi l'intrinseca pericolosità (illustrata magistralmente dal giudice Wizanski nel caso U.S. vs. United Shoe Machinery Corp., 1953). La praticabilità dello strumento risulta poi grandemente compromessa dai tempi lunghi dell'azione giudiziaria e dai conseguenti cambiamenti che ciò può comportare nelle condizioni di mercato (nel caso U.S. vs. IBM Corp., 1982, il Department of justice abbandonò, dopo 13 anni, il tentativo di dividere l'IBM in 4 distinte società di computer considerando, tra l'altro, che la posizione di mercato dell'impresa stava iniziando a subire un processo di erosione ad opera dei concorrenti). Ciò nonostante, le potenzialità della 'de-monopolizzazione' sono testimoniate dalla circostanza che a tale rimedio si deve, per tramite di un consent decree, la trasformazione del settore delle telecomunicazioni negli Stati Uniti, attraverso la sottrazione al controllo della società AT&T, monopolista del settore, delle compagnie telefoniche operanti a livello regionale (Bell Companies; U.S. vs. American Tel & Tel. Co., 1982).
La politica antimonopolistica statunitense è strettamente collegata all'idea di concorrenza come principio organizzatore di un'economia di mercato, che occorre difendere contro l'eccessivo potere di trust e monopoli privati (si veda, ad esempio, l'importante relazione presentata dall'Attorney General's National Committee, 1955). Sul piano dell'applicazione del sistema legislativo, l'ampia formulazione delle norme dello Sherman act, e la conseguente discrezionalità dei giudici e degli altri organismi incaricati di far rispettare la disciplina, comportano necessariamente la scelta di valori, principî e criteri per l'interpretazione e l'applicazione delle norme. Da questo punto di vista, è noto che l'evoluzione del diritto antitrust è sempre stata strettamente collegata ai modelli di analisi forniti dalla teoria economica; l'adesione a un modello economico di riferimento è anzi ritenuta l'unico strumento capace di sottrarre l'applicazione della legge all'arbitrio dei singoli e dei gruppi politici (v. Hovenkamp, 1994). In questo contesto, come è stato incisivamente sottolineato, l'individuazione delle finalità della normativa assume il valore di presupposto indispensabile per una razionale politica antitrust e per la formazione di un coerente complesso di norme sostanziali (v. Bork, 1978). I tentativi di individuare la ratio dello Sherman act attraverso l'esame del relativo processo legislativo di elaborazione e approvazione hanno condotto a risultati assai diversi e anzi, in molti casi, opposti. Si è oscillato, lungo uno spettro assai ampio, tra chi ha attribuito al Congresso l'intenzione di arrestare, tramite l'approvazione della normativa, il trasferimento di benessere dai consumatori alle imprese monopolistiche e chi ha individuato nella promozione dell'efficienza allocativa lo scopo originario della legislazione antitrust (v. Posner, 1976; v. Bork, 1978). Altri hanno per lo più sottolineato il ruolo avuto da talune classi di imprenditori - agricoltori e piccoli business men - come ispiratori e beneficiari dello Sherman act (v. Hovenkamp, 1994). In realtà, sembrano ormai più convincenti letture diverse, che hanno messo in luce come un preciso modello economico di riferimento fosse ignoto ai padri fondatori dell'antitrust. Le nozioni di efficienza produttiva e allocativa dovevano ancora chiaramente delinearsi nella scienza economica del tempo, che, con poche eccezioni, assunse una posizione di deciso sfavore nei confronti della nuova regolamentazione, ritenuta inutile se non dannosa. L'approvazione dello Sherman act costituì, in primo luogo, una risposta a un'esigenza fortemente avvertita dall'opinione pubblica, fondata su premesse ideologiche che vedevano in dimensioni imprenditoriali rilevanti come quelle dei nuovi trust la minaccia per lo sviluppo di un'economia di mercato basata sulle possibilità per chiunque - anche e soprattutto per le piccole e medie imprese - di entrare nel mercato e di competere 'sui meriti'. Con l'approvazione dello Sherman act il Congresso si propose quindi una molteplicità di scopi, economici, politici e sociali, senza istituire una precisa gerarchia fra gli stessi, che si è determinata successivamente solo ad opera dell'interpretazione delle Corti, in relazione al contesto economico e sociale nel quale si sono trovate ad operare (v. Gellhorn e Kovacic, 1994).
Anche la politica di concorrenza, quindi, come qualsiasi politica istituzionale, è basata su una realtà economica in continuo mutamento e si esprime in forme storicamente condizionate. L'applicazione del diritto antitrust, come strumento volto a proteggere e promuovere un regime concorrenziale, ha pertanto conosciuto fasi di vigorosa espansione e altre di più o meno accentuato declino. Sebbene sia indubbiamente riscontrabile una certa interrelazione tra i contenuti della politica di tutela della concorrenza e le tendenze generali di carattere politico ed economico, i tentativi di verificare l'attendibilità di una teoria 'ciclica' dell'antitrust ne hanno messo in luce l'intrinseca infondatezza, sottolineando la molteplicità di variabili ideologiche e istituzionali che sottendono una politica antimonopolistica (v. Schwartz, 1990); tra queste ultime particolare considerazione meritano le nomine presidenziali - con conferma del Senato - dei giudici federali, in particolare della Corte Suprema, e degli organi di vertice del Department of justice e della Federal Trade Commission. In ogni caso, secondo una comune, quanto convenzionale, periodizzazione, a una fase di difficile avvio della nuova normativa (che vide il governo perdere la maggior parte dei casi portati davanti alle Corti, compresa l'azione intentata contro il trust dello zucchero, U.S. vs. E.C. Knight, 1895), fece seguito una fase di più intensa applicazione, testimoniata da alcune decisioni di particolare rilievo (Standard Oil Co., cit.; American Tobacco Co. vs. U.S., 1911). Dopo un periodo scarsamente significativo, successivo alla fine della prima guerra mondiale, vi fu una nuova fase di particolare attivismo nella seconda metà degli anni trenta, in genere fatta coincidere con la nomina di Thurman Arnold a capo del Department of justice, nella quale la normativa fu applicata a casi di integrazione verticale (U.S. vs. Paramount Pictures Inc., 1948) e nei confronti di oligopoli (American Tobacco Co. vs. U.S., cit.). Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale vide una ulteriore espansione, culminata negli anni sessanta (la cosiddetta Warren era, dal nome del giudice che presiedette in quegli anni la Corte Suprema) in una serie di decisioni, particolarmente in tema di restrizioni verticali, che furono in seguito criticate per la loro aperta ostilità verso l'innovazione tecnologica e per l'intento di favorire le imprese di minore dimensione (ad esempio, Brown Shoe Co. vs. U.S., 1962).
Negli anni settanta e ottanta è seguita una fase di più cauta applicazione, influenzata dalle premesse ideologiche e dai rigorosi modelli di analisi della scuola di Chicago, la quale, in estrema sintesi, ha individuato nel 'benessere dei consumatori', garantito dal perseguimento dell'efficienza allocativa, la finalità esclusiva dello Sherman act, traendone la conseguenza che molte delle pratiche tradizionalmente ritenute anti-concorrenziali producono in realtà effetti pro-competitivi. Anche se la Corte Suprema si è sinora astenuta dal risolvere definitivamente la questione relativa all'individuazione delle finalità della normativa antitrust, e l'equazione tra 'benessere dei consumatori' ed 'efficienza allocativa' non è stata espressamente approvata dalle Corti, l'attività degli organi federali e dei giudici è risultata comunque sostanzialmente influenzata dalle posizioni teoriche della Scuola di Chicago. A partire dalla metà degli anni settanta è infatti divenuto largamente prevalente un approccio che, pur con occasionali deviazioni, tende in genere a escludere il perseguimento di fini sociali e politici, come la protezione delle piccole e medie imprese o la dispersione del potere economico, e tende a porre in primo piano la promozione della concorrenza in termini di efficienza economica (Gordon vs. New York Stock Exchange, Inc., 1975; Brunswick Corp. vs. Pueblo Bowl-O-Mat., Inc., 1977), talora assimilando restrizioni della concorrenza e restrizioni dell'output (Broadcast Music Inc. vs. Columbia Broadcasting System, 1979; v. Mangini, 1995). Particolarmente rappresentativa di questo mutato approccio è la decisione Matsushita, nella quale la Corte Suprema ha espressamente invitato le Corti inferiori a non utilizzare argomenti mancanti di razionalità economica (Matsushita Elec Ind. Co. Ltd. vs. Zenith Radio Corp., 1986). Sul piano dell'enforcement, ne è derivata un'accresciuta attenzione nei confronti di cartelli e concentrazioni orizzontali e, al contrario, la diffusa convinzione che condotte unilaterali anticompetitive sono scarsamente rilevanti in assenza di un consistente potere di mercato, di barriere all'entrata e di alti livelli di concentrazione; che, in particolare, condotte di prezzo predatorie (predatory pricing) sono raramente praticate e ancor più raramente efficaci; che l'utilizzo del potere monopolistico posseduto in un mercato per ottenere vantaggi competitivi in un altro (leveraging) non solleva in genere problemi di carattere concorrenziale; che, infine, le restrizioni verticali che non hanno ad oggetto la fissazione del prezzo sono raramente anticompetitive. Parallelamente, la rule of reason è venuta consolidandosi come criterio di valutazione non solo delle non-price vertical restraint, ma anche di altre pratiche unilaterali. Negli ultimi anni, tuttavia, allo schema di analisi proposto dalla scuola di Chicago sono venuti affiancandosi e sovrapponendosi altri modelli e teorie economiche (v. Jacobs, 1995). Queste teorie muovono dagli stessi presupposti della scuola di Chicago, e cioè che qualsiasi politica antitrust deve basarsi su solide fondamenta economiche e che il suo scopo esclusivo è il benessere dei consumatori, misurato in termini di efficienza allocativa. Tuttavia, la scuola di Chicago fonda la propria visione dell'antitrust sull'assunto che i mercati sono generalmente efficienti e le relative imperfezioni tendono ad essere eliminate da un meccanismo di "autocorrezione". I "post-Chicagoans" ritengono invece che le imperfezioni del mercato siano molto più frequenti e durature e che le imprese, anche non dotate di un rilevante potere di mercato, possano avvantaggiarsi di tali imperfezioni ponendo in essere comportamenti di carattere strategico; in questo contesto sottolineano la rilevanza di condotte anticoncorrenziali che insistono su fattori diversi dal prezzo (non-price predation theories). Sotto quest'ultimo profilo, in particolare, si pone in evidenza la possibilità per le imprese di usare strategie che conducono a un incremento dei costi, e quindi dei prezzi, dei concorrenti sopra un livello competitivo, determinandone l'uscita dal mercato nel lungo termine, senza quel sacrificio dei profitti di breve termine dell'impresa che pone in essere tali pratiche tipico delle tradizionali condotte predatorie (raising rivals' costs) (v. Hawk, 1995). Secondo i critici della scuola di Chicago, le distorsioni della concorrenza rese possibili dalle imperfezioni del mercato determinano l'esigenza di un maggiore intervento delle Corti e delle agenzie federali anche in aree (predatory pricing; contratti di distribuzione; contratti leganti; concentrazioni verticali) dove, in genere, ai comportamenti delle imprese si sono nell'ultimo periodo riconosciuti effetti procompetitivi. La Corte Suprema ha recentemente mostrato una certa recettività a principî che si allontanano in parte dall'approccio della scuola di Chicago. Nella ormai celebre sentenza Kodak del 1992, la Corte ha affermato la rilevanza, sotto il profilo antimonopolistico, della pratica commerciale della società Kodak consistente nel subordinare la fornitura di ricambi per le apparecchiature di propria produzione (macchine fotocopiatrici, apparecchi micrografici, ecc.) all'accettazione, da parte degli acquirenti, delle prestazioni supplementari dei servizi di assistenza in esclusiva (Eastman Kodak Co. vs. Image Technical Service, Inc., 1992). Nonostante l'assenza di un consistente potere di mercato della società nella vendita delle apparecchiature, la rilevanza della pratica 'legante' è stata basata sull'esistenza di un deficit informativo dei consumatori e sui costi che essi, una volta acquistate le apparecchiature sul mercato 'a monte', dovrebbero sostenere per rivolgersi ai prodotti della concorrenza. Il valore della decisione è stato ed è ancora largamente discusso; è indubbio però che l'accento posto sulla capacità dell'impresa di sfruttare a proprio vantaggio eventuali asimmetrie informative comporta un allargamento significativo della nozione di potere di mercato aprendo importanti prospettive. Gli sviluppi recenti si segnalano inoltre per una applicazione della normativa antitrust a settori soggetti ad altre forme di regolazione (in particolare, all'industria dei servizi sanitari, nei cui confronti si è venuta delineando una vera e propria antitrust policy, sia in termini di litigation che di proposte di riforma), nella ricerca di un corretto equilibrio tra istanze di regolamentazione ed elementi di concorrenza.L'elemento che assume maggiore rilevanza, nel tentativo di delineare alcune tendenze di massima della politica antimonopolistica statunitense e che in questa sede può essere solo accennato, è certamente la crescente globalizzazione dell'economia, dovuta all'imponente aumento dei flussi commerciali internazionali, e la correlativa apertura dei mercati domestici alla concorrenza internazionale. Tale processo, i cui riflessi sulla valutazione dei comportamenti competitivi delle imprese devono ancora essere attentamente valutati, implica la necessità di un più stretto coordinamento tra politica della concorrenza e politica commerciale e pone con grande forza il problema dell'applicazione internazionale delle regole di concorrenza.
La disciplina antimonopolistica comunitaria è venuta sviluppandosi sulla base di premesse storiche e ideologiche molto diverse da quelle che condussero all'emanazione della legislazione antitrust americana. Non solo, infatti, prima del 1945 nessun paese europeo si era dotato di una legislazione a tutela della concorrenza, ma anzi comportamenti come la fissazione dei prezzi o la limitazione della produzione erano in genere consentiti (ad esempio in Inghilterra, negli anni venti-trenta) e, talora, persino favoriti (nel 1923 fu istituita in Germania una speciale cartel court, incaricata di giudicare i casi riguardanti imprese che intendessero abbandonare accordi di cartello; nel Codice civile italiano del 1942 fu espressamente previsto che i consorzi tra imprese potessero avere per oggetto il contingentamento della produzione o degli scambi). Dopo la seconda guerra mondiale, tuttavia, diversi paesi - Inghilterra (1948) e Germania (1957) per primi - adottarono legislazioni antitrust, mentre veniva contestualmente compiendosi il processo di costituzione delle Comunità economiche europee.
Le ragioni dell'introduzione pressoché simultanea di queste normative antimonopolistiche sono di carattere politico ed economico. Ad esse non fu estranea l'influenza esercitata dagli Stati Uniti, sia direttamente, attraverso il processo di occupazione delle forze alleate successivo alla seconda guerra mondiale, che indirettamente, per l'impressione generale destata dai risultati dell'economia americana nella fase successiva alla seconda guerra mondiale. Per quanto riguarda la Germania, tuttavia, non va sottovalutato il ruolo avuto dalla scuola 'ordoliberale' nell'elaborazione e introduzione della legislazione antitrust tedesca, che ha lungamente influenzato, sul piano concettuale, la nascita e lo sviluppo del diritto comunitario della concorrenza (v. Mestmäker, 1980). Anche se le varie legislazioni antimonopolistiche degli Stati europei costituiscono parte integrante dei rispettivi ordinamenti nazionali, ai quali sono indissolubilmente legate, esse si presentano, su un piano funzionale, largamente comparabili e in varia misura ispirate al modello statunitense, avendo in definitiva riguardo allo stesso tipo di fenomeni e problemi (intese restrittive della concorrenza, comportamenti di carattere monopolistico, concentrazioni, potere di mercato, ecc.). Inoltre, le nuove condizioni politiche ed economiche determinatesi in Europa successivamente al secondo conflitto mondiale, e gli sforzi, comuni ai vari Stati nazionali, tesi al contenimento dei livelli inflazionistici e dei prezzi, in una situazione di generalizzato aumento della capacità produttiva del sistema industriale, stimolarono l'adozione di normative tese alla protezione dei consumatori dal potere economico di cartelli e monopoli. Parallelamente, l'integrazione dei mercati dei singoli Stati membri nell'ambito della Comunità Economica Europea diede vita ad un'area geografica non limitata agli angusti ambiti nazionali e rese possibile l'introduzione, nel Trattato di Roma (1957), di una disciplina della concorrenza che regolasse i rapporti economici tra le imprese. L'approccio comunitario nei confronti del fenomeno monopolistico risulta condizionato dalle differenze che, dal punto di vista politico, economico e culturale caratterizzano i vari Stati membri, e dalla peculiare qualificazione della Comunità come organizzazione sovranazionale volta alla promozione e allo sviluppo del processo di integrazione europea. Nel sistema del Trattato istitutivo della Comunità Europea, "la creazione di un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato comune" (art. 3, lett. g) è funzionale ai più ampi fini di benessere economico e sociale enunciati dall'art. 2 del Trattato di Maastricht (1992), perseguiti attraverso l'instaurazione di un mercato comune e - a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Maastricht stesso - di un'Unione economica e monetaria. La politica di concorrenza si affianca, quindi, alle altre politiche istituzionali della Comunità (libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e capitali; agricoltura, trasporti, ecc.) finalizzate alla integrazione dei mercati nazionali e alla realizzazione del mercato unico. Nelle parole della Commissione essa mira, in particolare, a impedire che tale processo sia compromesso, ad opera delle imprese o degli Stati, "da azioni che hanno per effetto di ristabilire le barriere interne soppresse, o di privilegiare taluni operatori economici" (VII Relazione sulla politica di concorrenza). Accanto a questo obiettivo si pone l'altro, anch'esso più volte espressamente enunciato, di promozione della concorrenza, nella convinzione che questa rappresenti il mezzo più adatto per raggiungere una maggiore efficienza, una ottimale allocazione delle risorse, prezzi meno elevati, un più rapido sviluppo tecnologico ed una migliore qualità di prodotti e servizi (XIV e XXI Relazione sulla politica di concorrenza), assumendo, inoltre, un ruolo determinante ai fini del raggiungimento degli obiettivi comunitari di crescita, competitività e occupazione (v. Commissione Europea, 1993). L'espressa rilevanza che, nel sistema del Trattato, assume il perseguimento di finalità di carattere sociale (quali la coesione economica e sociale, la protezione dei livelli occupazionali, ecc.), esclude tuttavia che ai problemi posti in materia di concorrenza possa fornirsi una risposta unicamente sul terreno dell'efficienza economica, il che è particolarmente evidente in alcuni settori, come, ad esempio, in materia di aiuti di Stato alle regioni depresse.La politica di concorrenza, quindi, benché strumentale ai più ampi obiettivi sopra enunciati, e complementare alle altre politiche, riveste un ruolo di assoluto rilievo nell'ambito dell'ordinamento comunitario, tanto da poterne affermare il carattere di vero e proprio principio di ordine pubblico comunitario. Va considerato, tuttavia, che l'obiettivo di integrazione dei mercati ha largamente condizionato l'interpretazione e l'applicazione della relativa disciplina. Se dunque è probabilmente mancata nel contesto comunitario, a differenza di quello statunitense, una precisa individuazione del contenuto economico cui ricondurre la nozione di concorrenza, ciò si deve appunto al fatto che l'applicazione delle regole di concorrenza da parte delle istituzioni competenti è sempre stata funzionale alle esigenze del processo di integrazione europea. È questa la prospettiva nella quale si colloca anche la celebre statuizione della Corte di giustizia, secondo cui "la concorrenza non falsata di cui agli artt. 3 e 85 del Trattato CEE implica l'esistenza sul mercato di una concorrenza efficace (workable competition), cioè di una attività concorrenziale sufficiente a far ritenere che siano rispettate le esigenze fondamentali e conseguite le finalità del Trattato, e, in particolare, la creazione di un mercato unico che offra condizioni analoghe a quelle di un mercato interno" (sentenza del 25 ottobre 1977, Metro c. Commissione, causa 26/76). Certamente tali affermazioni implicano un consapevole abbandono del modello classico di concorrenza perfetta, a favore di una nozione di 'concorrenza effettiva'. Il loro reale valore risiede, tuttavia, soprattutto nella attenuazione della rigidità dei divieti contenuti nelle norme del Trattato e nel consentire una applicazione della normativa che tenga pragmaticamente conto non solo delle peculiarità del caso concreto, ma soprattutto degli obiettivi del processo di integrazione europea nelle diverse fasi del suo divenire (v. Pappalardo, 1985). Alla nozione comunitaria di concorrenza va quindi attribuito un contenuto dinamico, effetto della strumentalità delle regole di concorrenza rispetto ai fini posti dal Trattato e causa di una prassi applicativa di queste regole aperta alle esigenze del contesto economico-sociale in cui esse si inseriscono. E proprio ciò consente di ritenere che, allo stato attuale, l'obiettivo integrazionista che per tanti anni è stato centrale nella realizzazione della politica di concorrenza comunitaria possa progressivamente affiancarsi e cedere il passo ad altri obiettivi, come quello di favorire l'adattamento delle imprese al processo di globalizzazione dell'economia, facilitando la loro competitività su scala mondiale. Questo allargamento di prospettiva trova espressa conferma negli articoli 3A e 130 del Trattato sulla Comunità Europea, introdotti dal Trattato di Maastricht, i quali prevedono rispettivamente che la politica economica della Comunità venga attuata "conformemente al principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza" e che l'azione della Comunità volta a favorire la competitività dell'industria comunitaria debba svolgersi "nell'ambito di un sistema di mercati aperti e concorrenziali".Nel Trattato di Roma (entrato in vigore il 1° gennaio 1958), le regole di concorrenza sono contenute negli articoli 85-94, suddivisi in tre sezioni: Regole applicabili alle imprese (sez. 1, artt. 85-90), Pratiche di dumping (sez. 2, art. 91), Aiuti concessi dagli Stati (sez. 3, artt. 92-94).
6. L'ordinamento comunitario e le regole di concorrenza applicabili alle imprese
Le regole applicabili alle imprese sono incentrate sui "due pilastri" (v. Van Bael e Bellis, 1995) del divieto di intese restrittive della concorrenza (art. 85) e di abuso di posizione dominante (art. 86), che costituiscono l'elemento centrale della politica comunitaria di concorrenza. L'art. 90 prevede a sua volta l'applicabilità, entro certi limiti, degli articoli 85-86 alle imprese pubbliche o titolari di diritti speciali o esclusivi e conferisce alla Commissione il potere di indirizzare agli Stati membri direttive e decisioni in materia. Accanto a queste norme si pone il recente Regolamento CEE 4064/89 del Consiglio, relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese. Al pari della grande maggioranza delle legislazioni antitrust, quindi, anche le regole di concorrenza comunitarie applicabili alle imprese hanno ad oggetto tre distinti fenomeni. Se essi presentano, come è ovvio, profonde differenze, comuni sono però, oltre ai principî ispiratori, anche i criteri generali di applicazione della disciplina. Questa, da un lato, è condizionata dal presupposto che dalle singole fattispecie derivi un'alterazione della concorrenza, attuale o potenziale, all'interno del mercato comune o in una sua parte rilevante; dall'altro, invece, è subordinata alla condizione che la pratica restrittiva presenti, in atto o in potenza, l'attitudine a incidere sul commercio tra Stati membri. Il pregiudizio sul commercio è una nozione da interpretarsi assai latamente, come influenza, diretta o indiretta, attuale o potenziale, sulle correnti degli scambi fra Stati membri (sentenza del 30 giugno 1966, Société Technique Minière, causa 56/65). Tale condizione, dettata con formulazioni letterali del tutto analoghe nell'art. 85 e nell'art. 86 - nonché fondamento teorico della nozione di dimensione comunitaria di un'operazione di concentrazione ai sensi dell'art. 1 del Regolamento 4064/89 - assume dunque la duplice valenza di condizione per l'applicazione delle singole norme, nonché di regola generale per l'applicabilità del diritto comunitario rispetto a quelli nazionali. Nel diritto comunitario della concorrenza l'importanza assunta dal pregiudizio al commercio interstatuale non è, quindi, nemmeno lontanamente paragonabile a quella rivestita dallo stesso requisito nel sistema statunitense. Anche se, infatti, lo Sherman act condiziona l'operatività dei divieti da esso contemplati nelle sezioni 1 e 2 all'esistenza di restrizioni del commercio fra Stati (among several States), tale effetto è raramente verificato dalle Corti e, comunque, non assume mai il rilievo di criterio-guida per l'applicazione delle norme. Questa differenza non deve essere sottovalutata, in quanto spiega la divergenza di molte delle soluzioni cui è pervenuta, nei due ordinamenti, l'applicazione della normativa.
Il divieto in materia di intese posto dall'art. 85.1 del Trattato ha, analogamente alla sezione 1 dello Sherman act statunitense, un ambito di applicazione particolarmente ampio. Esso ricomprende qualsiasi tipologia di intese (orizzontali e verticali), qualunque sia lo strumento e la veste giuridica attraverso cui esse si realizzino - accordi, decisioni di associazioni di imprese, pratiche concordate - purché presentino un oggetto o un effetto restrittivi della concorrenza, attuale o potenziale (le condotte vietate in via esemplificativa dalla norma attengono, essenzialmente, alla fissazione dei prezzi, alla limitazione della produzione, alla ripartizione dei mercati, alla applicazione di condizioni discriminatorie, ai contratti cosiddetti leganti). La severità del divieto, che appare applicabile a tutte le restrizioni, interne e/o esterne, del comportamento concorrenziale delle imprese, è stemperata dal fatto che la restrittività dell'intesa deve essere valutata, sulla base di quanto sancito dalla Corte di giustizia (sentenza del 1 febbraio 1978, Miller c. Commissione, causa 19/77), in relazione alla sua capacità di pregiudicare "sensibilmente" la concorrenza (questo "effetto sensibile" ha assunto, ad opera della Commissione, precise caratteristiche in termini di soglie dimensionali delle intese rilevanti: cfr. Comunicazione della Commissione sugli accordi di importanza minore, 1986). Al di là di tale regola di carattere meramente quantitativo va, poi, soprattutto considerato che la disciplina comunitaria si caratterizza per un particolare rapporto tra divieto ed eccezione. Le intese vietate ai sensi dell'art. 85.1 (e quindi nulle ai sensi del paragrafo successivo) possono infatti beneficiare di un'esenzione, individuale o per categoria, qualora soddisfino le quattro condizioni di cui all'art. 85.3: da una parte, cioè, esse devono rivelarsi funzionali a miglioramenti di carattere produttivo o distributivo o alla promozione del progresso tecnico o economico, e in modo tale che ciò si traduca in congrui vantaggi per i consumatori; dall'altra, le restrizioni devono essere proporzionate e indispensabili a questi obiettivi e non ne deve comunque risultare sostanzialmente eliminata la concorrenza sul mercato del prodotto. Questa possibilità di esenzione, nelle parole della Corte di giustizia, dimostra che "le esigenze della conservazione di una concorrenza efficace possono venire conciliate con la tutela di finalità di natura diversa, e che, a questo scopo, si possono tollerare alcune restrizioni della concorrenza se sono indispensabili al conseguimento di dette finalità e non si risolvono nell'eliminazione della concorrenza per una parte sostanziale del mercato comune" (sentenza del 25 ottobre 1977, Metro, cit.). Si è a lungo discusso, senza giungere a soluzioni definitive, se nell'ambito della disciplina comunitaria delle intese trovi spazio un test di ragionevolezza assimilabile a quello utilizzato nell'esperienza statunitense nei confronti delle pratiche restrittive della concorrenza (v. Mangini, 1995). In proposito, occorre considerare che, anche se l'art. 85.1 si presenta come una norma di carattere rigidamente interdittivo, la Corte di giustizia, in alcune importanti pronunce relative a intese verticali, ha precisato che l'applicabilità dell'art. 85.1 deve essere valutata non in relazione agli aspetti formali di una fattispecie, ma al contesto economico e giuridico in cui essa si inserisce (sentenza del 28 febbraio 1993, Delimitis, causa C-234/89). Più in particolare la Corte, prendendo in esame alcune clausole restrittive della concorrenza, in materia di franchising (sentenza del 28 gennaio 1986, Pronuptia, causa 161/84) e di concessione esclusiva di vendita (sentenza dell'8 giugno 1982, Nungesser c. Commissione, causa 258/78), non le ha giudicate in contrasto con il divieto di cui all'art. 85.1 quando esse erano essenziali per l'organizzazione della forma distributiva in questione, secondo un criterio di valutazione che è stato assimilato a quello tipico delle restrizioni accessorie dell'esperienza di common law (v. Kovar, 1987). Altre forme di restrizione, e in particolare le clausole di esclusiva territoriale, trovano invece generalmente la loro valutazione, secondo la Commissione e la stessa Corte, nel quadro dell'art. 85.3. L'integrale trasposizione nell'ambito della disciplina comunitaria del meccanismo del 'bilancio concorrenziale' incontra quindi un ostacolo difficilmente superabile nella stessa struttura legale della fattispecie, incentrata sulla tanto dibattuta 'biforcazione' tra le norme di cui all'art. 85.1 e 85.3, che impone all'interprete di valutare dapprima la portata restrittiva dell'intesa, e quindi la possibilità di una deroga dal divieto ove questa risulti funzionale agli obiettivi sopra richiamati. Tuttavia, occorre tenere presente che l'applicazione del combinato disposto delle norme di cui all'art. 85.1 e 85.3 permette comunque alle istituzioni comunitarie di valutare, da un punto di vista complessivo, la 'ragionevolezza' delle restrizioni della concorrenza essenzialmente sotto il profilo dell'efficienza economica (l'art. 85.3 non prevede infatti, come eventuali cause di giustificazione delle intese vietate, il perseguimento di altri obiettivi, come la tutela dei livelli occupazionali o la protezione delle piccole e medie imprese).
Va però aggiunto che l'"incredibile formalismo" della Commissione nell'applicazione dell'art. 85.1 (v. Joliet, 1967) e l'esigenza di evitare migliaia di notifiche da parte delle imprese, hanno condotto all'adozione, in base all'art. 85.3, di numerosi regolamenti della Commissione e del Consiglio, che esentano automaticamente dal divieto dell'art. 85.1 alcune delle più comuni tipologie contrattuali rispondenti a determinati requisiti (accordi di distribuzione esclusiva; di acquisto esclusivo; di licenza di brevetto; di franchising; di ricerca e sviluppo, ecc.). In altri casi con tali regolamenti si sono introdotte regole differenziate per specifici settori economici (accordi di distribuzione di birra; di carburanti; regolamenti in materia di trasporti aerei e marittimi), nell'ambito delle quali le finalità di tutela della concorrenza divengono più strettamente complementari a quelle di politica industriale (è il caso, in particolare, del regolamento concernente gli accordi di distribuzione di autoveicoli; v. Frignani, 1990). La proliferazione dei regolamenti di esenzione per categoria costituisce indubbiamente un elemento di rigidità del sistema, che non va esente da critiche anche per gli effetti che è in grado di produrre sulla pratica degli affari, inducendo i privati a conformare i propri accordi alle prescrizioni regolamentari per sfuggire alla applicazione del divieto in tema di intese restrittive (v. Korah, 1990).
L'orientamento delle istituzioni comunitarie sulla base di questi principî si è ormai consolidato nel senso di considerare, nell'ambito degli accordi orizzontali, rigorosamente vietati quelli volti alla fissazione dei prezzi, alla ripartizione dei mercati, alla limitazione della produzione, al boicottaggio dei concorrenti (i cosiddetti bad agreements), mentre sono valutati più favorevolmente certi tipi di accordi di cooperazione (ad esempio, in materia di ricerca e sviluppo, di specializzazione, ecc.) che godono in genere di un'esenzione, individuale o per categoria. Nell'ambito delle restrizioni verticali, le più comuni delle quali beneficiano, come detto, di esenzioni per categoria, sono invece soggette a rigoroso divieto tutte quelle clausole che producono l'effetto di compartimentare i mercati nazionali, in genere attraverso il divieto di importazioni parallele, nonché quelle di fissazione del prezzo di rivendita dei prodotti. Nel trattamento delle restrizioni verticali da parte della Commissione, in particolare nell'ambito dei regolamenti di esenzione, assumono rilievo anche considerazioni di carattere extraconcorrenziale, prima fra tutte l'esigenza di garantire il distributore dal potere contrattuale del produttore, i cui effetti sul benessere dei consumatori sono oggetto di vivaci critiche (v. Van Bael e Bellis, 1995).
La funzione dell'art. 86 (divieto di abuso di posizione dominante) è simmetrica a quella dell'art. 85. Le due norme, infatti, "su piani diversi [...] mirano allo stesso scopo, cioè a mantenere un'efficace concorrenza nel mercato comune" (sentenza del 21 febbraio 1973, Continental Can c. Commissione, causa 6/72). Ai sensi dell'art. 86, il possesso di una posizione dominante non è, in quanto tale, illecito. L'applicabilità del divieto dipende infatti dalla circostanza che il potere di mercato dell'impresa venga esercitato in maniera abusiva (la norma fa divieto, esemplificativamente, di alcune pratiche, quali l'imposizione di prezzi non equi; la limitazione della produzione, degli sbocchi al mercato o dello sviluppo tecnico, a danno dei consumatori; l'applicazione nei rapporti commerciali di condizioni discriminatorie; le pratiche cosiddette leganti). La disciplina dell'art. 86 si differenzia, quindi, da quella dello Sherman act (sezione 2), in quanto non contiene una espressa proibizione della acquisizione o del mantenimento di una posizione monopolistica, ma si limita a vietarne l'abuso. Questa particolare opzione, incentrata non su un radicale divieto delle posizioni di dominio sul mercato, ma sul controllo dei possibili abusi che possono derivarne, era probabilmente l'unica consentita al legislatore comunitario, considerata la strumentalità delle regole di concorrenza al processo di integrazione di un sistema di economie nazionali caratterizzate da dimensioni limitate, nell'ambito delle quali le imprese nazionali, anche in forza degli interventi protezionistici degli Stati, godevano necessariamente di un rilevante potere di mercato. Va inoltre chiarito che la posizione dominante di cui all'art. 86 non si identifica propriamente con un potere monopolistico o quasi-monopolistico, ma con "una situazione di potenza economica grazie alla quale l'impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato di cui trattasi e ha la possibilità di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei suoi concorrenti, dei suoi clienti e, in ultima analisi, dei consumatori" (sentenza del 13 febbraio 1979, Hofmann La Roche, causa 85/76). L'accertamento della posizione dominante richiede, analogamente alla fattispecie della monopolization statunitense, un'operazione preliminare, che nell'ordinamento comunitario riveste una particolare autonomia sul piano logico-giuridico: l'individuazione del mercato rilevante, ovvero dell'ambito nel quale, in ragione tanto della sua estensione territoriale (mercato geografico) che delle caratteristiche del prodotto oggetto della pratica (mercato del prodotto), "le condizioni di concorrenza siano sufficientemente omogenee da consentire di valutare l'effetto della potenza economica dell'impresa in questione" (sentenza del 9 novembre 1983, Michelin, causa 322/81). Sotto questo profilo può rilevarsi un'attitudine delle istituzioni comunitarie certamente più rigorosa di quella delle Corti americane, che conduce talora, in base ad un test largamente fondato sulla intercambiabilità dei prodotti dal lato della domanda, a delineare dei mercati rilevanti molto ristretti, in diversi casi coincidenti con i beni o servizi dell'impresa che pone in essere la condotta vietata (per una applicazione del concetto si veda la sentenza del 12 dicembre 1991, Hilti, causa T-30/89). Anche in sede di applicazione dell'art. 86, come nella parallela disciplina statunitense, la quota di mercato costituisce il più significativo, anche se necessariamente approssimativo, elemento di prova dell'esistenza di un potere di mercato. Se, in genere, quote molto alte (comprese fra il 70 e l'80%) comprovano l'esistenza di una posizione dominante, all'opposto quote molto basse (inferiori al 10%) la escludono. Nelle situazioni intermedie sono presi in considerazione altri fattori riguardanti l'impresa di cui si intende accertare la posizione dominante, tra i quali un elevato grado di integrazione verticale, il possesso di conoscenze tecniche, la reputazione presso i consumatori, lo sviluppo della rete di distribuzione, l'ampiezza della gamma dei prodotti offerti, nonché, su un piano oggettivo, l'esistenza di barriere all'entrata sul mercato. Sotto il profilo dell'accertamento dell'abuso l'ambito di applicazione dell'art. 86 si è rivelato, nella prassi, straordinariamente ampio. In primo luogo, la violazione dell'art. 86 non richiede, a differenza delle fattispecie americane della 'monopolizzazione' o del 'tentativo di monopolizzare', alcun 'intento' di carattere soggettivo; anzi, la Corte di giustizia ha espressamente stabilito, in diversi casi, l'irrilevanza dei motivi addotti a giustificazione delle condotte abusive (sentenze del 6 marzo 1974, Commercial Solvents, cause riunite 6 e 7/73 e del 21 febbraio 1973, Continental Can, cit.). Inoltre, anche se i comportamenti esemplificati dalla norma hanno ad oggetto solo ipotesi in cui la posizione dominante è sfruttata direttamente a danno dei consumatori o, al più, dei fornitori (i cosiddetti abusi da sfruttamento), nella prassi la nozione di sfruttamento abusivo è stata estesa anche a fattispecie in cui la condotta dell'impresa dominante recava pregiudizio ai concorrenti o alla stessa struttura concorrenziale del mercato. Ciò in base alla considerazione che, quando si tratta del comportamento di un'impresa in posizione dominante sul mercato, nel quale di conseguenza la struttura concorrenziale è già indebolita, qualsiasi ulteriore restrizione della concorrenza può costituire abuso di posizione dominante (sentenza del 13 febbraio 1979, Hoffmann La Roche, cit.). Ne discende l'ulteriore conseguenza che la medesima condotta può essere o meno lecita, a seconda che l'impresa che la pone in essere sia in posizione dominante. L'applicazione del divieto viene in definitiva a dipendere, in questa prospettiva, dall'esistenza di un effetto di sostanziale restrizione della concorrenza, anche solo potenziale, come conseguenza della condotta dell'impresa in posizione dominante. Sotto questo profilo, la disciplina comunitaria posta dall'art. 86 presenta delle significative differenze rispetto alla corrispondente fattispecie del divieto di 'monopolizzazione', la cui violazione viene ricollegata dalle Corti americane all'esistenza di condotte 'esclusive' o 'predatorie' nei confronti dei concorrenti, che rendono improbabili possibili giustificazioni dei comportamenti dell'impresa in termini di efficienza. La divergenza dell'impostazione delle due discipline emerge con particolare nettezza con riferimento a talune specifiche fattispecie. Si consideri, ad esempio, che mentre l'art. 86 fa espresso divieto a un'impresa in posizione dominante di imporre prezzi o altre condizioni di transazione non eque, un'impresa monopolista non viola la sezione 2 dello Sherman act se, a prescindere da specifici comportamenti diretti contro i propri concorrenti, si limita a restringere l'output e a fissare i prezzi a un livello, appunto, monopolistico (proprio l'esistenza di un prezzo monopolistico costituirà il segnale per l'ingresso di nuovi concorrenti). Analogamente, con riferimento alle ipotesi di 'rifiuto a contrarre', casi di abuso di posizione dominante sono stati spesso accertati dalla Commissione e dalla Corte in relazione ai rifiuti opposti da un'impresa in posizione dominante ai suoi clienti o partners commerciali, dando in qualche misura rilevanza a elementi attinenti alla 'correttezza' dei rapporti imprenditoriali, mentre, nell'esperienza statunitense, l'accento è sempre stato posto sui rapporti 'orizzontali' tra l'impresa monopolista e i suoi concorrenti diretti. Queste divergenze sono riconducibili alle peculiari finalità perseguite dai due sistemi di tutela della concorrenza e al diverso ruolo che, in tale ambito, giocano considerazioni di efficienza. Esse consentono, peraltro, di capovolgere il tradizionale luogo comune della minore severità della disciplina comunitaria a fronte di quella statunitense. In realtà, l'applicazione del divieto di abuso di posizione dominante e l'accento posto in tale sede sugli effetti strutturali dei comportamenti delle imprese, piuttosto che sulla loro condotta, dimostrano come l'art. 86 costituisca uno strumento di intervento sul mercato molto più penetrante del corrispondente divieto di monopolizzazione contenuto nello Sherman act.
Il Trattato CE non prevede alcuna disposizione in tema di concentrazione di imprese, circostanza, questa, tanto più significativa se si considera che il Trattato CECA, di poco anteriore, conteneva invece una organica disciplina delle concentrazioni, sia pure specificamente limitata ai settori del carbone e dell'acciaio e ispirata ad ampie considerazioni di politica industriale più che a una logica autenticamente antimonopolistica. Tale assenza dipese da una scelta deliberata degli autori del Trattato di Roma, dovuta al desiderio di incoraggiare, nell'ambito della progressiva apertura dei mercati nazionali, il rafforzamento delle imprese comunitarie, la cui dimensione, negli anni cinquanta e sessanta, era ritenuta inadeguata a far fronte alle esigenze di una concorrenza crescente. In questa prospettiva le concentrazioni tra imprese furono solo occasionalmente sottoposte all'applicazione degli articoli 85 e 86 del Trattato, in un contesto di particolare incertezza giuridica. Il Regolamento 4064/89, la cui introduzione si è rivelata eccezionalmente difficoltosa a causa delle resistenze degli Stati membri (la prima proposta della Commissione è del 1973), costituisce uno strumento di controllo preventivo delle concentrazioni di dimensione comunitaria, che si applica a diverse ipotesi - dalla fusione, all'acquisto di partecipazioni di controllo, alla creazione di joint ventures - il cui denominatore comune può ravvisarsi in una modifica strutturale e duratura del controllo di un'impresa. Esso muove dal presupposto che la ristrutturazione delle imprese per il tramite di operazioni di concentrazione, come conseguenza della soppressione delle frontiere interne, sia un fenomeno da valutare positivamente, in quanto funzionale alle esigenze di una concorrenza dinamica e della competitività dell'industria europea, nei limiti in cui però tale processo non si traduca in limitazioni della concorrenza effettiva nel mercato comune (cfr. i "Considerando" nn. 4 e 5 Reg). Il Regolamento, in conseguenza, dichiara le concentrazioni incompatibili con il mercato comune qualora esse creino o rafforzino una posizione dominante, in maniera tale che la concorrenza ne risulti ostacolata in maniera significativa. Nella valutazione dell'operazione la Commissione deve tenere conto di una pluralità di elementi, tra i quali la posizione sul mercato delle imprese interessate, il loro potere economico e finanziario, le possibilità di scelta dei fornitori e degli utilizzatori dei beni e servizi interessati, l'andamento della domanda e dell'offerta di questi ultimi, l'esistenza di barriere all'entrata, nonché dei benefici recati dall'operazione stessa in termini di progresso tecnico ed economico, purché, sotto quest'ultimo profilo, essa risulti comunque a vantaggio del consumatore e non ostacoli la concorrenza.
Il diritto comunitario della concorrenza diverge radicalmente, sul piano applicativo, dal sistema statunitense che, come visto, si presenta fortemente decentrato, imperniato com'è su un diffuso sistema di tutela giurisdizionale e sul risarcimento del danno come conseguenza dell'illecito concorrenziale. Anche se, infatti, i divieti di cui agli articoli 85.1 e 86 sono atti a produrre direttamente effetti nei rapporti tra singoli, che i giudici nazionali possono tutelare, l'ordinamento comunitario si caratterizza tuttavia per un meccanismo di enforcement altamente centralizzato, che vede come assoluta protagonista la Commissione europea. A tale istituzione sono difatti attribuiti poteri di accertamento, diffida e sanzione di tutte le pratiche restrittive della concorrenza (previsti e disciplinati dal Regolamento CEE del Consiglio n. 17/62), nonché poteri di controllo sulle operazioni di concentrazione. Tale sistema è strettamente legato al processo di integrazione europea, in ragione dell'esigenza di promuovere l'uniformità di applicazione del diritto comunitario, e al ruolo di policy maker che è affidato alla Commissione. Esso, inoltre, è in certa misura connaturato alle tradizioni culturali e sociali dei cittadini degli Stati europei, e in particolare al ruolo riservato agli interventi dell'autorità amministrativa rispetto a quella giurisdizionale. Nella fase attuale, tuttavia, in particolare dopo l'allargamento dell'Unione ad Austria, Finlandia e Svezia, è in atto un ripensamento degli equilibri complessivi del sistema, volto a favorire un maggiore decentramento nella applicazione degli artt. 85 e 86, norme la cui messa in opera si fonda, diversamente dal Regolamento sulle concentrazioni, sul principio della competenza concorrente tra autorità comunitaria e autorità nazionali (giudici e autorità amministrative). Tale fenomeno, reso possibile dal consolidamento dei principî comunitari di concorrenza all'interno dell'ordinamento dei singoli Stati membri, è teso alla ricerca di una nuova organizzazione istituzionale per la tutela della concorrenza all'interno del mercato comune, la quale possa ovviare ad alcune lacune che, in termini di efficienza, l'attuale sistema presenta. I vantaggi generalmente ascritti a un'applicazione decentrata delle regole di concorrenza del Trattato sono essenzialmente quelli di una più efficace e capillare applicazione di tali regole all'interno dell'Unione e una più incisiva repressione di eventuali infrazioni, grazie alla maggiore facilità dei contatti che le autorità nazionali hanno con le realtà dei rispettivi Stati membri. Un riavvicinamento tra il centro decisionale e i soggetti destinatari delle decisioni, inoltre, rappresenta l'autentico obiettivo perseguito con l'introduzione dell'art. 3B, sul principio di sussidiarietà, nel Trattato CE. Certamente, la necessità di salvaguardare le peculiarità del sistema giuridico comunitario, quali la sua supremazia, l'esigenza di un'applicazione uniforme, nonché soprattutto la competenza esclusiva della Commissione ad applicare l'art. 85.3, rendono almeno nel breve periodo difficilmente praticabile la completa realizzazione del controllo decentrato delle intese e degli abusi rilevanti per il Trattato CE. Tuttavia, appare lecito prevedere che in prospettiva il sistema possa evolversi nella direzione già tracciata dal Tribunale di primo grado, là dove esso ha elaborato il concetto di interesse comunitario di una pratica restrittiva (sentenza del 18 settembre 1992, Automec, causa T-24/90). Se, infatti, la Commissione è già oggi legittimata a rigettare una denuncia per carenza di interesse comunitario, dopo aver riscontrato la mancata rilevanza di una presunta infrazione con il funzionamento del mercato comune, può essere ipotizzata una evoluzione del sistema verso uno stadio nel quale verranno lasciate alla cognizione della Commissione le sole pratiche che presentano elementi di particolare rilievo per il funzionamento del mercato unico, devolvendo invece le altre alle singole autorità nazionali interessate.
L'elemento di gran lunga più qualificante dell'attuale politica comunitaria è certamente il processo di apertura alla concorrenza dei principali monopoli pubblici degli Stati membri. Storicamente questa tendenza, che investe in pieno le stesse forme organizzative delle economie nazionali, può essere ricollegata al forte rilancio del processo di integrazione europea degli anni ottanta, testimoniato, fra l'altro, dalla stipula dell'Atto Unico Europeo (1986) e dal conseguente impulso al completamento del mercato interno. Ciò, mentre da un lato ha conferito una improvvisa accelerazione all'applicazione della normativa sugli aiuti di Stato, ha indotto a una profonda riconsiderazione dell'assetto monopolistico di molte imprese pubbliche, fondato sulla divisione del mercato comune in base alle frontiere nazionali.
Questa politica trova la sua base giuridica essenziale nell'art. 90 del Trattato, secondo il quale le regole di concorrenza sono applicabili alle imprese pubbliche e alle imprese cui gli Stati membri riconoscono diritti speciali o esclusivi, nella misura in cui tuttavia l'applicazione di tali regole non contrasti, di diritto o di fatto, con la missione particolare a esse affidata, e sempreché lo sviluppo degli scambi non ne risulti pregiudicato in misura contraria all'interesse della Comunità. La norma, inserita dagli autori del Trattato tra le regole applicabili alle imprese, deve in realtà essere considerata come una disposizione che obbliga in primo luogo gli Stati membri rispetto agli obblighi che derivano dal diritto comunitario, proibendo loro di violare, per il tramite delle imprese pubbliche, le norme comunitarie in materia di concorrenza. L'art. 90 testimonia emblematicamente la difficoltà di conciliare la costruzione di un mercato comune in un regime di libera concorrenza e l'esigenza di mantenere le scelte di politica economica in capo agli Stati membri. Esso, inoltre, riflette con estrema chiarezza la diversa genesi delle politiche di tutela della concorrenza statunitense e comunitaria, la prima nata in opposizione ai grandi monopoli privati ritenuti suscettibili di turbare lo sviluppo di un'economia di mercato, la seconda come alternativa all'intervento statale nell'economia. Infatti, anche se nell'ambito del Trattato sulla Comunità Europea solo l'agricoltura beneficia, entro certi limiti, di una esenzione dalle regole di concorrenza (art. 42), in realtà la diffusa presenza di imprese titolari di riserve legali di attività rende delicata e complessa la ricerca di un ambito di applicazione di queste regole in molti settori. Assume rilievo, in questa prospettiva, anche l'art. 37 del Trattato, che non impone un'abolizione assoluta dei monopoli nazionali di carattere commerciale, ma si limita a disporne il riordino in modo da escludere qualsiasi discriminazione fra i cittadini degli Stati membri per quanto riguarda le condizioni relative all'approvvigionamento e allo smercio.I risultati di gran lunga più incisivi di questo processo di demonopolizzazione, tuttora appena all'inizio, sono stati raggiunti attraverso l'applicazione del combinato disposto degli articoli 90 e 86 (divieto di abuso di posizione dominante), che ha dato vita a una serie di pronunce della Corte di giustizia la cui portata complessiva può certamente essere definita rivoluzionaria, per quanto attiene al loro impatto sulla organizzazione dei singoli Stati membri e sul processo di integrazione europea e di completamento del mercato interno. In tale giurisprudenza si rinviene infatti una linea interpretativa tesa a restringere progressivamente l'area di compatibilità dei monopoli nazionali con le regole dei Trattati.
Le pronunce della Corte di giustizia muovono dal presupposto, pacifico secondo un consolidato filone giurisprudenziale (sentenza del 30 aprile 1974, Sacchi, causa 155/73), che gli Stati membri sono liberi, per considerazioni di interesse pubblico, di conferire diritti di esclusiva in relazione a determinati settori economici. In quest'ambito, si è tuttavia affermato che la concessione di diritti speciali o esclusivi può costituire una misura illegittima ai sensi dell'art. 90.1 quando l'impresa che ne gode è indotta, con il loro semplice esercizio, ad abusarne (sentenza del 13 dicembre 1991, Merci Convenzionali Porto di Genova c. Siderurgica Gabrielli, causa C-179/90), nonché qualora la concessione di tali diritti renda probabile l'adozione di comportamenti abusivi da parte dell'impresa che ne beneficia (sentenza del 18 giugno 1991, ERT c. Dimotiki, causa C-260/89). Questa linea di ragionamento è stata condotta dalla Corte a ulteriori sviluppi nella sentenza Höfner (sentenza del 23 aprile 1991, causa C-41/90), dove, giudicando del monopolio conferito dal governo tedesco all'Ufficio federale per l'occupazione in materia di collocamento di personale direttivo di aziende, si è stabilito che uno Stato membro può violare l'art. 90, congiuntamente all'art. 86, semplicemente garantendo un diritto di monopolio a un'impresa, a prescindere da qualsiasi comportamento abusivo di quest'ultima. Nel caso di specie, infatti, l'Ufficio pubblico tedesco si era astenuto da qualsiasi condotta abusiva; esso, tuttavia, era risultato manifestamente incapace di soddisfare la domanda dei servizi di reclutamento di personale presente sul mercato. Vi è da dire, anzitutto, che le soluzioni raggiunte dalla Corte di giustizia nei diversi casi sopra richiamati sono state rese possibili da un'interpretazione restrittiva dell'eccezione di cui all'art. 90.2, secondo la quale l'applicazione delle regole del Trattato ostacola il perseguimento della missione affidata ai monopoli pubblici solo quando la rende impossibile, e non già semplicemente più difficile. Conseguentemente, tale eccezione può essere invocata solo se non esistono alternative meno restrittive della concorrenza per il perseguimento dello scopo istituzionale del monopolio. Parallelamente, la Corte ha dovuto confrontarsi (nel settore dei servizi postali) con il fondamentale problema della 'sostenibilità' di un regime concorrenziale per un'impresa pubblica obbligata alla prestazione di un servizio universale. In proposito, essa è giunta a delineare una soluzione di equilibrio, secondo la quale le imprese che forniscono tali servizi devono essere poste al riparo dalla concorrenza nei limiti in cui i profitti tratti dalle attività più redditizie sono funzionali al finanziamento di attività in perdita relative a prestazioni fornite nell'ambito del servizio universale (demandando comunque ai giudici nazionali l'impegnativo compito di stabilire, in questa prospettiva, la sfera minima dei diritti di esclusiva). In ogni caso, secondo la Corte, devono comunque ritenersi assoggettati a un regime di libera concorrenza quei servizi di carattere specifico che non ricadono nell'ambito del servizio universale, che non sono offerti dall'impresa monopolista e che soddisfano i bisogni di particolari categorie di utenti (sentenza del 19 maggio 1993, Regie de Postes c. Paul Corbeau, causa C-320/91). La giurisprudenza rapidamente esaminata ha largamente attenuato la distinzione tra esistenza di una posizione dominante e suo esercizio abusivo, rendendo la semplice esistenza di diritti di esclusiva, almeno in alcune circostanze, contraria alle regole del Trattato. Inoltre, nel ricollegare la violazione del divieto di abuso di posizione dominante non a una specifica condotta anticoncorrenziale, ma al semplice godimento della posizione di esclusiva legale, qualora l'impresa non sia in grado di soddisfare la domanda esistente sul mercato, la Corte sembra aprire la strada a un test di efficienza dei monopoli pubblici che non è mai stato condotto nei confronti di soggetti privati in posizione di dominio sul mercato (v. Gardner, 1995). Tale considerazione è strettamente collegata a un'altra: la legittimità dei monopoli legali, alla stregua delle regole a tutela della concorrenza, si caratterizza per un'intrinseca relatività, nel senso che un monopolio giustificabile al momento della sua creazione può non esserlo più in relazione ai successivi mutamenti di carattere sociale, economico e tecnologico.
Questa riconsiderazione dell'assetto organizzativo dei monopoli pubblici che forniscono servizi di interesse generale ha assunto una portata ancora più ampia in riferimento ai servizi di pubblica utilità. Si tratta di quei servizi di base forniti, in genere attraverso infrastrutture di rete, su tutto o su parte del territorio nazionale, da imprese titolari di diritti 'speciali' o 'esclusivi': tipicamente, produzione e distribuzione di gas e di elettricità, telecomunicazioni e servizi postali, ma anche, in certa misura, trasporti pubblici. La Commissione ha dedicato negli ultimi anni una attenzione crescente a questi settori, interessati da importanti evoluzioni strutturali, al fine di verificare l'esistenza di ragioni di interesse generale che possano giustificare il mantenimento dei regimi monopolistici, e di procedere, in caso contrario, alla loro eliminazione. L'esistenza di diritti esclusivi ostacola infatti la libera circolazione dei prodotti o la libera prestazione dei servizi e favorisce abusi di posizione dominante. L'assenza di concorrenza incide inoltre negativamente sul benessere dei consumatori, e pregiudica la complessiva competitività dell'industria comunitaria, così sotto il profilo della produttività come, nel medio e lungo periodo, sotto quello dell'incremento dei livelli occupazionali (XXIII Relazione sulla politica di concorrenza). L'obiettivo finale della politica di liberalizzazione avviata dalla Commissione è la conciliazione tra il rispetto delle regole di concorrenza e gli argomenti tradizionalmente invocati a sostegno dei monopoli, primi fra tutti l'esigenza di fornire, nel preminente interesse della coesione economica e sociale, un servizio universale a condizioni eque, ragionevoli e non discriminatorie (ma anche di garantire, ad esempio nel settore dell'energia elettrica, la sicurezza degli approvvigionamenti). Il ruolo svolto dalla Commissione ai fini della introduzione di una maggiore concorrenza nei servizi di pubblica utilità è risultato particolarmente incisivo in virtù dell'utilizzo dell'art. 90.3, il quale le consente di indirizzare decisioni e direttive obbligatorie nei confronti di tutti gli Stati membri. La politica di demonopolizzazione realizzata per il tramite di direttive della Commissione ha assunto un rilievo particolare nel settore delle telecomunicazioni, dove ha determinato dapprima la liberalizzazione del mercato dei terminali di telecomunicazioni (Direttiva 301/88/CEE del 16 maggio 1988; la validità della direttiva è stata confermata dalla Corte di giustizia con la sentenza del 19 maggio 1991, Francia c. Commissione, causa C202/88) e quindi della prestazione dei servizi di telecomunicazioni (Direttiva 90/388/CEE del 28 giugno 1990), fatte salve alcune eccezioni, tra le quali i servizi di telefonia vocale offerti al grande pubblico; anche i servizi di base di telefonia vocale, tuttavia, a seguito di una risoluzione del Consiglio del 1993 saranno pienamente liberalizzati entro il 1998. L'esigenza di garantire una effettiva concorrenza nel mercato dei servizi di telecomunicazioni ha poi indotto il Consiglio e la Commissione a emanare specifiche direttive volte ad assicurare il libero accesso, a condizioni eque e non discriminatorie, alla rete pubblica di telecomunicazioni e a liberalizzare la costruzione di nuove reti di telecomunicazioni e l'utilizzo delle infrastrutture alternative già esistenti. Nella medesima direzione si muovono gli orientamenti espressi in merito al settore dei servizi postali, per i quali un Libro verde presentato dalla Commissione nel 1992 auspica una maggiore apertura alla concorrenza, limitando i servizi riservati a quanto strettamente necessario all'offerta di un servizio universale, nonché alla produzione di energia elettrica e di costruzione e gestione di linee elettriche di trasmissione e distribuzione.
Vi è da dire che, anche a seguito delle liberalizzazioni, le regole di concorrenza del Trattato, e in particolare l'art. 86, continueranno a svolgere un ruolo fondamentale, trattandosi di evitare che le imprese già in posizione di monopolio si servano del loro potere di mercato per limitare la concorrenza nella prestazione dei servizi liberalizzati e nell'accesso dei terzi alle infrastrutture.Va, infine, considerato che l'art. 90 rappresenta soltanto uno degli elementi sui quali si articola il controllo comunitario delle misure statali che possono pregiudicare il libero gioco della concorrenza. Devono considerarsi funzionali alla generale esigenza per cui un rapporto di carattere privilegiato con i pubblici poteri non deve conferire un ingiustificato vantaggio a un'impresa rispetto ai concorrenti, da un lato l'obbligo derivante dal disposto combinato degli artt. 3 F, 5.2 e 85 o 86, in base al quale gli Stati membri non possono comunque adottare misure che pregiudichino un'efficace applicazione del divieto di intese restrittive della concorrenza o di abusi di posizione dominante; e, dall'altro, la disciplina posta dagli artt. 92 e 93 per le misure di sostegno finanziario adottate dagli Stati membri nei confronti di imprese pubbliche o private (aiuti di Stato).
A differenza di tutti i principali paesi industrializzati, l'Italia non si è dotata di una legislazione antimonopolistica che in tempi molto recenti. Anche se negli anni cinquanta e sessanta si erano succedute proposte, avanzate da varie parti politiche, volte alla regolamentazione dei fenomeni monopolistici, una disciplina antitrust è stata introdotta solo con l'approvazione della legge 10 ottobre 1990, n. 287 ("Norme sulla tutela della concorrenza e del mercato"). Le ragioni di tale ritardo sono da ricercarsi principalmente nella estensione assunta dall'intervento pubblico volto a garantire l'equilibrio sociale del paese, in un contesto di strutturale debolezza del sistema produttivo nazionale. Il controllo degli andamenti economici si è realizzato infatti, sin dagli anni trenta, per il tramite di forme di intervento diretto, in cui largo spazio ha assunto il sistema delle partecipazioni statali e dell'impresa pubblica, e indiretto, come il controllo dei prezzi o le varie politiche di incentivazione industriale. Inoltre, l'ampio utilizzo del modello concessorio in taluni settori economici e soprattutto nei servizi di pubblica utilità, si è tradotto nella diffusa presenza di limitazioni normative all'esercizio dell'attività economica dei privati, anche a prescindere dall'esistenza di puntuali ragioni di interesse generale. L'introduzione di una normativa antitrust è quindi stata resa particolarmente problematica dalle esigenze di definire i limiti della sua applicazione all'impresa pubblica e gli ambiti di esenzione dalla normativa stessa, e di non porre limiti alla crescita di un apparato produttivo ritenuto insufficiente dal punto di vista dimensionale.
Negli anni ottanta, tuttavia, si è assistito a un processo di crescita, ristrutturazione e riorganizzazione interna del sistema industriale italiano, in un momento nel quale era particolarmente forte la spinta del processo di integrazione europeo. Si è riproposta quindi con particolare vigore la questione della opportunità della introduzione di una disciplina interna a tutela della concorrenza, che ha condotto, dopo un intenso dibattito parlamentare, alla approvazione della legge n. 287/90. La legge contiene, in primo luogo, una disciplina delle intese restrittive della concorrenza, degli abusi di posizione dominante e delle operazioni di concentrazione che, anche sotto il profilo della formulazione delle norme, è quasi identica a quella delle corrispondenti fattispecie del Trattato di Roma (artt. 2-6). L'intenzione del legislatore di dare vita a una normativa pienamente armonizzata con quella comunitaria è resa ancora più evidente dalla norma di rinvio secondo la quale le norme sostanziali della legge devono essere interpretate in base ai principî dell'ordinamento delle Comunità Europee in materia di concorrenza (art. 1, comma 4). La scelta seguita dal legislatore è stata quella di affidare l'applicazione della legge a una autorità amministrativa appositamente istituita, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato. L'Autorità è un organo collegiale composto da un presidente e da quattro componenti, caratterizzato da una posizione di assoluta indipendenza dal potere esecutivo, cui sono attribuiti poteri di accertamento, diffida e sanzione (pecuniaria) delle fattispecie restrittive della concorrenza e di controllo sulle operazioni di concentrazione, sostanzialmente assimilabili a quelli della Commissione europea. La legge stessa, peraltro, non esaurisce la sua portata nell'introduzione di norme in materia di intese, abusi di posizione dominante e concentrazioni, ma esprime l'opzione, ben più ampia, per un corretto funzionamento del mercato. Sotto questo profilo assumono un rilievo particolare, da un punto di vista sistematico, non solo la disposizione dell'art. 1, comma 1, che collega espressamente la disciplina all'attuazione dell'art. 41 della Costituzione "a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica", ma anche quelle dell'art. 8 che, formulato sulla scorta dell'art. 90 del Trattato CE, sancisce la par condicio, sul piano concorrenziale, tra imprese pubbliche e private, e dell'art. 9 che, in presenza di monopoli legali di beni e servizi, riconosce in via generale ai terzi, salvo limitate eccezioni, il diritto di autoproduzione dei beni e servizi stessi. Inoltre, gli articoli 21 e 22 attribuiscono all'Autorità ampi compiti consultivi nei confronti del parlamento e del governo con riguardo alle distorsioni della concorrenza e del mercato indotte da misure normative e ai problemi comunque riguardanti la concorrenza, dandole la possibilità di indicare le misure più opportune per adeguare gli assetti di mercato ai principî concorrenziali.
La legge 6 febbraio 1996, n. 52, ha inoltre espressamente riconosciuto la competenza dell'Autorità ad applicare direttamente, in quanto autorità nazionale competente in materia di concorrenza, gli articoli 85.1 e 86 del Trattato della Comunità Europea, utilizzando i poteri e agendo secondo le procedure previsti dalla normativa nazionale in materia di concorrenza.La legge n. 287/90 costituisce, quindi, una cornice istituzionale per una politica antimonopolistica funzionale alle particolari caratteristiche dell'ordinamento italiano. Quanto alle norme di concorrenza applicabili alle imprese, va anzitutto precisato che l'impianto filocomunitario della normativa non preclude la ricerca di soluzioni originali, considerato che le finalità essenziali della disciplina italiana sono quelle della tutela e promozione della concorrenza nell'ambito di un mercato nazionale pienamente integrato. Così, ad esempio, mentre gli interventi dell'Autorità nei confronti di accordi orizzontali sono stati ispirati al tradizionale rigore di tutte le legislazioni antitrust, nei confronti delle intese verticali si è sviluppata un'attitudine meno restrittiva di quella delle istituzioni comunitarie. L'Autorità, infatti, ha giudicato restrittive le clausole di esclusiva in materia di distribuzione solo quando il mercato rilevante risultava caratterizzato da elevate barriere all'entrata e l'accordo risultava realizzato, per una durata apprezzabile, da imprese in possesso di un notevole potere di mercato. Le applicazioni di maggior rilievo del divieto di abuso di posizione dominante hanno invece riguardato, sinora, casi di imprese in posizione di monopolio legale, nei quali si è posto con particolare delicatezza il problema di determinare l'ambito di applicazione della disciplina antitrust. Al riguardo, può dirsi ormai consolidato l'orientamento dell'Autorità secondo il quale un'impresa incaricata per legge di un servizio di interesse economico generale è esentata dal rispetto delle norme nazionali a tutela della concorrenza e del mercato solo qualora il comportamento da essa posto in essere risulti l'unico comprovato e possibile mezzo per salvaguardare l'equilibrio economico dell'ente e per consentire allo stesso il perseguimento delle sue finalità istituzionali.I vari interventi di segnalazione dell'Autorità al parlamento e al governo, tra i quali si possono ricordare quelli in materia di riassetto del sistema delle partecipazioni statali, delle imprese concessionarie dei servizi di pubblica utilità, del sistema di distribuzione commerciale, degli appalti pubblici, si sono sempre appuntati sull'esigenza di eliminare, per quanto possibile, le limitazioni normative all'esercizio delle attività imprenditoriali. Nei settori di pubblica utilità (telecomunicazioni, energia elettrica, gestioni aeroportuali, e altri), l'accento è stato posto sulla esigenza di realizzare, in particolare nell'ambito di possibili processi di privatizzazione e con riguardo alle imprese operanti nei servizi di pubblica utilità, modelli organizzativi funzionali a una liberalizzazione dei mercati, riconsiderando altresì l'assetto attuale degli strumenti di regolamentazione allo scopo di incentivare l'efficienza produttiva e il miglioramento qualitativo delle prestazioni.Alla luce di queste brevi considerazioni può concludersi che la realizzazione di una politica antimonopolistica nel nostro paese si caratterizza per il tentativo di incidere simultaneamente sui comportamenti delle imprese e sui fattori che, in un gran numero di casi, ne costituiscono l'origine.
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