morfologia
La morfologia è il settore della linguistica che studia la struttura interna delle parole e le relazioni fra i cambiamenti di forma e i cambiamenti di senso delle parole. Ad es., la parola italiano può essere scomposta nell’elemento lessicale Italia e nel suffisso -ano sulla base dell’analogia formale e semantica di coppie di parole dalla struttura e dal significato analogo, quali Australia / australiano, Bolivia / boliviano. La morfologia studia anche le relazioni fra italiano e parole quali italiana, italiani, italiane, italianismo, italianità, italianizzare, italianizzazione. Come si può notare, fra italiano e italiani c’è una relazione diversa che tra italiano e italianizzare. Nel primo caso si tratta di due forme di una stessa parola, la cui unica differenza consiste nel valore della categoria plurale (➔ numero), nel secondo caso di due parole diverse (un aggettivo e un verbo) che hanno forma e significato in parte comuni.
Nella terminologia della linguistica, italiano, italiana, italiani, italiane sono forme flesse di uno stesso lessema, che identifichiamo con la forma di citazione (la forma che troviamo come voce del dizionario; ➔ lemma, tipi di) italiano. Invece, italianismo, italianità, italianizzare sono lessemi diversi rispetto a italiano, formati con l’aggiunta di suffissi che producono rispettivamente un nome maschile, un nome femminile, un verbo, che sono qui rappresentati nella loro forma di citazione (singolare per i nomi, infinito per i verbi). A sua volta il lessema italianizzare può avere più forme flesse (per es., italianizzo, italianizzava, italianizzato, ecc.), e a partire da esso può essere formato il nome italianizzazione, che ha due forme flesse, il singolare, corrispondente alla forma di citazione, e il plurale italianizzazioni.
La distinzione fra i rapporti tra le variazioni di forma di una stessa parola (forme flesse di uno stesso lessema) e i rapporti tra una parola e un’altra che ne condivide in parte la forma e il significato è alla base della distinzione fondamentale della morfologia, quella cioè fra ➔ flessione e ➔ formazione delle parole.
La flessione riguarda le diverse forme che uno stesso lessema può assumere in relazione al contesto in cui è usato. Si differenzia quindi dalla ➔ formazione delle parole, che riguarda invece la coniazione di lessemi nuovi a partire da un determinato lessema.
La formazione di parole nuove si ottiene principalmente o con l’aggiunta di ➔ affissi o tramite la combinazione di due parole. Nel primo caso si tratta di ➔ derivazione, in cui vengono usati principalmente ➔ suffissi (curare → cura-bile, cura-tore) o ➔ prefissi (fare → dis-fare, ri-fare); nel secondo caso, di ➔ composizione (pescecane, capostazione).
In italiano la flessione si manifesta principalmente tramite suffissi (in italiano non esistono prefissi flessivi, che si trovano invece in altre lingue, come l’arabo), ma anche con altre strategie, tra cui la modificazione vocalica interna (vedo ~ vidi), alternanze accentuali (per es., mangio ~ mangiò), costruzioni perifrastiche, quali, ad es., i tempi composti dei verbi (ho mangiato, avrò mangiato, ecc.; ➔ tempi composti; ➔ perifrastiche, strutture) o il grado comparativo dell’aggettivo (più bello, più dolce).
Al pari della formazione delle parole, la flessione ha la capacità di esprimere in modo economico alcuni tipi di significato ricorrenti. Così come in derivazione l’uso di suffissi permette, ad es., di formare nomi di agente a partire da un verbo, secondo schemi ripetuti e produttivi (per es., lavorare → lavoratore, donare → donatore), la flessione permette di esprimere la variazione tra singolare e plurale mediante la modifica del solo affisso, e mantenendo invariato il morfema lessicale (person-a → person-e).
I morfemi flessivi e derivazionali sono l’elemento variabile che si combina con l’elemento stabile costituito dal morfema lessicale. Essi costituiscono un inventario di norma chiuso, mentre i lessemi sono un inventario aperto.
La flessione si distingue dalla derivazione essenzialmente per la maggiore generalità dei significati espressi e il minore impatto sul significato del morfema lessicale (ad es., la differenza di significato tra giornale e giornalista è maggiore di quella fra giornale e giornali: le forme flesse di uno stesso lessema fanno riferimento a uno stesso referente, mentre il derivato e la sua base designano referenti diversi), ma soprattutto per la sua obbligatorietà. Se si usa una parola determinata in un contesto, è obbligatorio esprimere le categorie flessive pertinenti, richieste ad es. dall’➔ accordo (per es., una bella matita colorata), mentre nessuna regola sintattica richiede l’impiego di parole derivate: ad es., il ruolo di soggetto di una frase può essere svolto indifferentemente da una parola derivata o da una non morfologicamente complessa (cfr. la pizz-eria chiude fra un’ora / il bar chiude fra un’ora).
I valori delle categorie flessive si prestano maggiormente ad essere organizzati in serie paradigmatiche: ad es., la flessione di tutti i verbi prevede tre persone al singolare e tre al plurale nei tempi dell’indicativo (con l’eccezione di un ristrettissimo numero di verbi, detti per l’appunto difettivi, come competere, incombere, prudere), mentre da non tutti gli aggettivi possono essere derivati avverbi, e non è possibile usare il suffisso -ano con tutti i nomi, e neanche con tutti i nomi di nazione (cfr. Armenia / armeno, Estonia / estone, Francia / francese, Tunisia / tunisino). Dal punto di vista della posizione dei morfemi nella parola, i morfemi flessivi tendono ad essere più esterni rispetto a quelli derivazionali (per es., lavora-zion-e, lavora-tor-e).
L’italiano ha sostituito alcune caratteristiche del tipo morfologico fusivo proprie del latino (in particolare l’uso dei casi nei nomi e negli aggettivi e la coniugazione verbale sintetica, anche nell’espressione del passivo) con strategie di tipo analitico, quali l’impiego diffuso di preposizioni e di ausiliari (cfr. Simone 1993). Nondimeno, la morfologia dell’italiano (soprattutto l’espressione dei valori flessivi) è caratterizzata da fenomeni riconducibili al tipo fusivo, che possono essere riassunti nelle caratteristiche qui di seguito elencate (cfr. Iacobini 2006; ➔ latino e italiano):
(a) i lessemi sono di norma formati da una radice e da almeno un affisso flessivo, usato per indicare i rapporti fra parole (in primo luogo l’➔ accordo);
(b) gli affissi tendono a cumulare più funzioni;
(c) c’è una chiara differenziazione fra le principali ➔ parti del discorso (nomi, verbi, aggettivi, avverbi);
(d) i valori delle categorie grammaticali (genere, numero, tempo) di verbi, nomi e aggettivi sono raggruppati in diverse classi flessive;
(e) l’estensione dei paradigmi può essere molto ampia per numero di forme e di categorie grammaticali espresse;
(f) c’è una chiara distinzione fra affissi flessivi e derivazionali, ma al tempo stesso una diffusa omonimia e sinonimia all’interno dei due tipi di affissi;
(g) i fenomeni di allomorfia (➔ allomorfi) sono molto diffusi, e sono presenti anche casi di ➔ suppletivismo;
(h) in ragione di queste caratteristiche, la segmentazione lineare delle parole morfologicamente complesse in unità distinte di forma e contenuto non è sempre possibile (tecnicamente, non c’è sempre corrispondenza biunivoca fra morfi e morfemi).
La flessione consiste nell’indicazione per mezzo di morfi specifici di alcuni tipi di significato molto generali (per es., persona, numero, tempo, modo, aspetto) che un lessema deve obbligatoriamente esprimere quando è usato in un contesto. In italiano, ad es., un aggettivo deve necessariamente esprimere gli stessi valori delle categorie di genere e numero presenti nel nome con cui si accorda:
(1) una serata calda [femm. sing.] ~ due serate calde [femm. plur.]
(2) un giorno freddo [masch. sing.] ~ due giorni freddi [masch. plur.]
Anche nel caso in cui la forma dell’aggettivo non permetta di esprimere esplicitamente la distinzione di genere (grande in una casa grande / un giardino grande), il valore rispettivamente femminile o maschile è ugualmente presente, e riemerge laddove la forma lo consenta (ad es. nel grado superlativo: una casa grandissima / un giardino grandissimo).
La funzione principale della flessione è quella di segnalare i rapporti fra parole nell’enunciato e garantire quindi la coesione fra le parole nei sintagmi. Ma, come già detto, la flessione ha anche una funzione di economia espressiva, cioè quella di indicare con una minima variazione di forma, tramite processi ricorrenti e regolari, modifiche di significato di carattere generale (molto frequenti in una lingua) che riguardano relazioni fra parole.
Secondo una classificazione consolidata, le parti variabili del discorso (cioè modificabili secondo categorie flessive) dell’italiano sono: verbo, nome, aggettivo, pronome, articolo. La forma di avverbi, preposizioni, congiunzioni, interiezioni è invece invariabile. La flessione dei verbi è anche detta coniugazione, quella delle altre parti variabili del discorso (nomi, aggettivi, pronomi, articoli) è chiamata declinazione.
Ciascuna categoria flessiva si articola in due o più valori. In italiano le principali categorie flessive sono il genere (presente nei nomi, nei pronomi, negli aggettivi, negli articoli e nei modi indefiniti del verbo), il numero (distinto in singolare o plurale, espresso in tutte le parti variabili del discorso), la persona (distinta in prima, seconda, terza, espressa in verbi e pronomi), il tempo, il modo e l’aspetto (espressi nei verbi).
I nomi dell’italiano possono essere flessi per la sola categoria del ➔ numero. Nei nomi il genere è predeterminato (in termini tecnici, è un tratto inerente; ➔ genere), cioè ciascun nome è o maschile o femminile. Dal momento che non c’è un’alternativa possibile, il genere non è una categoria flessiva dei nomi dell’italiano. Di conseguenza un nome dell’italiano ha al massimo due forme flesse: singolare o plurale.
Nei nomi inanimati il genere non ha alcuna relazione con il tipo di significato espresso né con le caratteristiche del referente del nome: si pensi a coppie di parole quali il collo / la colla, il limo / la lima, il mento / la menta, il palo / la pala, il panno / la panna, ma anche al fatto che nomi semanticamente e formalmente simili possano avere genere diverso in un’altra lingua romanza. Ad es., ai nomi aria, arte, calma, nuvola, femminili in italiano, corrispondono nomi maschili in francese (air, art, calme, nuage), e ai maschili in italiano armadio, debito, dente, mare corrispondono i femminili francesi armoire, dette, dent, mer. Nei nomi di esseri animati (sia umani che animali), il genere del nome può essere determinato dall’identità sessuale del referente (cugino / cugina, attore / attrice, ma guardia; lupo / lupa, leone / leonessa, ma giraffa; per i rapporti fra genere grammaticale nei nomi e genere sessuale, ➔ genere e lingua).
Non esiste per l’italiano una distinzione consolidata della flessione dei nomi in classi flessive, paragonabile alla distinzione delle cinque flessioni nominali del latino o alla coniugazione verbale dell’italiano. Solo recentemente D’Achille & Thornton (2003) hanno proposto una classificazione basata su criteri coerenti ed efficaci, grazie alla quale si possono distinguere sei classi flessive. Le prime cinque comprendono i lessemi che hanno la stessa coppia di terminazioni per il singolare e per il plurale, la sesta classe flessiva comprende tutti i nomi invariabili (indipendentemente dalla terminazione). In tab. 1 sono riportate le sei classi flessive proposte da D’Achille & Thornton (2003); la linea più in basso riporta la distribuzione percentuale dei nomi di ciascuna classe flessiva nel vocabolario di base dell’italiano:
(a) la classe 1 comprende quasi solo nomi maschili (libro / libri, principio / principi, rifugio / rifugi, fico / fichi, portico / portici); i pochissimi nomi femminili (mano / mani) costituiscono un’eccezione;
(b) la classe 2 comprende solo nomi femminili (rosa / rose, bugia / bugie, faccia / facce, ferocia / ferocie);
(c) la classe 3 si divide all’incirca fra un 45% di nomi maschili (fiore / fiori, fiume / fiumi, nome / nomi), una uguale percentuale di nomi femminili (siepe / siepi, conversazione / conversazioni, ribellione / ribellioni), e un 10% di nomi ambigeneri sia al singolare sia al plurale (cantante / cantanti, contabile / contabili, inglese / inglesi, testimone / testimoni ); il diverso genere è rivelato dall’accordo (uno splendido cantante sing. masch., una splendida cantante sing. femm., molti splendidi cantanti plur. masch., molte splendide cantanti plur. femm.);
(d) la classe 4 è formata in maggioranza da nomi maschili (problema / problemi, tema / temi, pigiama / pigiami, monarca / monarchi), ma comprende anche pochissimi nomi femminili (ala / ali, arma / armi);
(e) la classe 5 comprende pochi nomi maschili al singolare e femminili al plurale (uovo / uova, paio / paia, centinaio / centinaia);
(f) la classe 6 comprende tutti i nomi che finiscono in consonante (sport, film) o vocale accentata (re, gru, città, virtù, età), i quali sono sempre invariabili, ma anche alcuni nomi invariabili che terminano in vocale non accentata sia maschili (vaglia, golpe, kiwi, video) sia femminili (consolle, ipotesi, radio).
Oltre alla numerosità delle classi indicata in tab. 1, un dato importante riguarda la loro produttività, cioè la possibilità delle diverse classi di arricchirsi di nuovi lessemi. Le classi più produttive sono le prime tre. La derivazione suffissale contribuisce alle classi 1 e 2 con molti suffissi, tra cui: -ata, -ezza, -ino, -ismo, izia, -mento, -oso, -tura; l’incremento della classe 3 si deve principalmente ai suffissi -bile, -ese, -nte, -zione. Alla classe 4 contribuisce il suffisso -ista, e in minor misura -ema. La classe 6, oltre a parole formate con il suffisso -ità si può arricchire di ➔ prestiti (computer, joystick, mouse) e di altre parole invariabili, dovute, per es., ad accorciamenti (bici, bus, tele). La classe 5 è improduttiva, come sono improduttive altre classi flessive minori, volutamente trascurate nella classificazione di D’Achille & Thornton (2003): sing. masch. ginocchio, plur. masch. ginocchi / plur. femm. ginocchia; sing. masch. labbro, plur. masch. labbri / plur. femm. labbra; sing. masch. orecchio / sing. femm. orecchia, plur. masch. orecchi / plur. femm. orecchie.
Dai dati citati si potrebbe trarre la conclusione che le vocali posteriori prevalgano per esprimere il singolare (o per il maschile, a per il femminile) e le vocali anteriori per esprimere il plurale (i per il maschile, e per il femminile), ma i casi di omonimia affissale sono numerosi: ad es., la classe 3 usa vocali anteriori per esprimere sia singolare sia plurale, e non distingue i due generi. Una recente tendenza riguarda l’incremento di parole invariabili, il che aumenta la percentuale di casi in cui è poco prevedibile a partire da una forma flessa l’appartenenza dei nomi a una classe flessiva, anche se il singolare in -o e in -a rappresenta un indizio piuttosto affidabile di appartenenza rispettivamente al genere maschile e femminile, mentre la terminazione in -e del singolare non permette previsioni affidabili (Thornton 2001).
Negli aggettivi uno stesso affisso flessivo esprime cumulativamente sia il valore di genere (maschile o femminile) che quello di numero (singolare o plurale). Gli affissi usati sono omologhi a quelli delle classi flessive 1, 2, 3 dei nomi.
Si possono distinguere tre classi flessive di aggettivi: la più numerosa è quella cosiddetta a quattro uscite (che usa gli stessi affissi delle classi flessive 1 e 2 dei nomi):
(3) bell-o [sing. masch.] / bell-i [plur. masch.]
(4) bell-a [sing. femm.] / bell-e [plur. femm.]
Diversi suffissi contribuiscono a formare aggettivi di questa classe, tra cui -ario, -ico, -oso.
L’altra classe flessiva di aggettivi corrisponde formalmente alla classe 3 dei nomi:
(5) grand-e [sing. masch. e femm.] / grand-i [plur. masch. e femm.]
Anche questa classe si può arricchire tramite la derivazione con suffissi tra cui -ale, -are, -bile.
La terza classe è formata da aggettivi invariabili non necessariamente accentati sulla vocale finale o terminanti in consonante (ad es. avana, rosa, viola, blu, pop).
Una classe composta da pochi membri è quella a tre uscite del tipo di belga:
(6) belg-a [sing. masch. e femm.] / belghe [plur. femm.] / belgi [plur. masch.]
La terminazione in -e può indicare sia aggettivi singolari (al maschile e al femminile) che aggettivi plurali femminili, mentre -i può indicare sia plurale solo maschile sia plurale maschile e femminile.
L’italiano ha perso rispetto al latino la possibilità di formare il grado ➔ comparativo tramite affissazione, mantiene invece la possibilità di formare il ➔ superlativo grazie al suffisso -issimo (per es., bello → bellissimo, buono → buonissimo; cfr. ottimo).
Per quanto riguarda i pronomi, ci limitiamo a segnalare che essi conservano tracce dell’impiego del ➔ caso, che era correntemente usato nel sistema nominale e pronominale latino.
Tra i pronomi tonici di prima e seconda persona singolare c’è una chiara distinzione fra pronomi soggetto e non soggetto (io / me, tu / te), mentre, per quanto riguarda la terza persona singolare, le distinzioni presenti nella lingua letteraria riassunte nella tab. 2 (che prevedono anche la distinzione relativa al referente umano o non umano) non sono quasi più rispettate nella lingua di uso corrente, a favore dell’uso quasi esclusivo delle forme lui e lei in tutti i contesti. Al plurale i pronomi presentano un minor numero di distinzioni.
Tra i pronomi atoni (detti anche ➔ clitici) c’è una distinzione di forma fra pronomi con funzione di complemento diretto e indiretto, con una differenziazione di genere per i pronomi di terza persona, come mostra la tab. 3.
La forma dei pronomi subisce variazioni importanti secondo la posizione che essi occupano: ad es., la vocale -i (di mi, ti, ecc.) cambia in -e se il pronome è seguito da un altro clitico:
(7) ti porto una lettera → te la porto
(8) ti porto un libro → te lo porto
(9) gli porto una lettera → gliela porto.
Il verbo è la parte del discorso dell’italiano che presenta una maggiore ricchezza flessiva.
La flessione dei verbi si articola secondo cinque categorie: persona, numero, tempo, modo, aspetto. Si distinguono quattro modi finiti (➔ indicativo, ➔ congiuntivo, ➔ imperativo, ➔ condizionale; ➔ coniugazione verbale) e tre modi indefiniti (➔ infinito, ➔ gerundio, ➔ participio). Infinito e gerundio sono non declinabili, mentre il participio è declinabile in genere e numero così come gli aggettivi: il participio presente come gli aggettivi della seconda classe (sing. -e / plur. -i), il participio passato come gli aggettivi delle prima classe a quattro terminazioni (sing. masch. -o, sing. femm. -a, plur. masch. -i, plur. femm. -e).
I modi finiti, a eccezione dell’imperativo, distinguono tre persone al singolare e tre al plurale (l’imperativo prevede solo la seconda persona singolare e plurale). L’indicativo è il modo con una più ricca articolazione temporale e aspettuale: distingue, infatti, tre tempi (presente, passato e futuro), e nel passato distingue l’➔ aspetto continuativo dal perfettivo, grazie rispettivamente all’imperfetto e al passato remoto. La tab. 4 riporta un prospetto dei modi e dei tempi del verbo italiano, distinti in tempi semplici (formati solo con affissi) e composti (formati anche con ausiliari).
I principali verbi ausiliari (➔ ausiliari, verbi) sono essere e avere; entrambi, specialmente il primo, sono molto irregolari. Nei tempi composti l’ausiliare serve a esprimere persona, numero, tempo, modo, mentre il participio del verbo flesso può essere usato nella forma di citazione (sing. masch.) o accordato in genere e numero con il soggetto (nel caso di verbi con l’ausiliare essere: per es., i calzini sono riapparsi, ma le scarpe sono sparite) o con l’oggetto (in alcuni impieghi dei verbi con ausiliare avere: per es., hai mangiato le banane? sì le ho mangiate).
Si è soliti distinguere tre coniugazioni verbali secondo la prima vocale della terminazione dell’infinito: si hanno così verbi che terminano in -are, -ere, -ire (➔ coniugazione verbale). La vocale che precede l’affisso flessivo dell’infinito -re è detta vocale tematica, in quanto caratterizza alcune forme di ciascuna delle coniugazioni senza svolgere altra funzione che non quella di segnalare la coniugazione di appartenenza di un verbo.
La coniugazione in -are (prima coniugazione) contiene i successori dei verbi latini terminanti all’infinito in -āre, è quella con la più alta percentuale di verbi regolari, e la sola pienamente produttiva, incrementata dalla derivazione con i suffissi -izz-a-re, -ific-a-re, -eggi-a-re (➔ denominali e deaggettivali, verbi), oltre che dalla ➔ conversione.
La seconda coniugazione, in -ere, è formata quasi esclusivamente da verbi di origine latina terminanti all’infinito in -ēre o -ĕre, da cui derivano rispettivamente in italiano verbi con accento sulla penultima (temére, volére) o sulla terzultima sillaba (crédere, prèndere) della forma dell’infinito, oltre che forme sincopate (pórre, trarre). In ragione di tali differenze, alcuni studiosi preferiscono distinguere due diverse coniugazioni in base alla posizione dell’accento (sulla radice o sulla vocale tematica all’infinito). Non è possibile formare nuovi verbi in -ere, e molti di quelli in uso presentano irregolarità.
La terza coniugazione (verbi in -ire) deriva dagli omofoni latini, oltre che da alcuni metaplasmi, cioè da mutamenti di classe flessiva nel passaggio dal latino all’italiano (per es., lat. capĕre «prendere» > it. capìre). All’interno della coniugazione si possono distinguere due gruppi a seconda della presenza o meno dell’infisso -isc- (cfr. sentire → sento, finire → finisco). Si tratta di una coniugazione debolmente produttiva: si può arricchire, infatti, di nuovi verbi solo tramite la parasintesi (per es., appiattire, innervosire; ➔ parasintetici).
Anche nella coniugazione regolare dei verbi in -are, le forme flesse del verbo presentano molte tipiche caratteristiche fusive: in primo luogo il cumulo di funzioni in un singolo affisso e la conseguente non corrispondenza fra morfi e morfemi. Ad es., nella forma amo, le informazioni prima persona, singolare, presente, indicativo sono concentrate nell’affisso -o, unico elemento aggiunto alla radice am-. D’altro verso, anche la terminazione -rebbero, che caratterizza la terza persona plurale del condizionale presente (amerebbero, canterebbero, ecc.), a dispetto della sua forma composita, non permette una segmentazione lineare in elementi dotati di autonomo significato (Matthews 1970).
Il confronto della coniugazione dei verbi regolari delle tre classi principali nel presente indicativo, qui riportato nella tab. 5, permette di evidenziare l’omonimia affissale (la vocale tematica è ben individuabile solo nella seconda plurale) e il già menzionato cumulo di funzioni degli affissi.
La vocale tematica subisce variazioni allomorfiche (➔ allomorfi) in tutte le coniugazioni: nella coniugazione in -a- è rimpiazzata da -e- nell’indicativo futuro (amerò) e nel condizionale presente (amerei), nella coniugazione in -i- da -e- nel participio presente (aprente) e nel gerundio (aprendo), nella coniugazione in -e- da -u- nel participio passato (voluto) e da -i- nella derivazioni di nomi e aggettivi deverbali (cedere → cedibile, temere → temibile, battere → battitura).
Il tempo che permette una migliore segmentazione lineare è l’indicativo imperfetto (tab. 6), in cui la vocale tematica è espressa in tutte le persone, le categorie tempo e modo sono espresse dall’affisso -v-, mentre persona e numero sono espressi da affissi solo in parte corrispondenti a quelli del presente indicativo.
La maggior parte delle forme irregolari si concentrano nel presente indicativo e congiuntivo, nel passato remoto e nel participio passato.
La tab. 7 riporta in trascrizione fonetica dati (tratti da Pirrelli & Battista 2000) che mostrano come gli esempi di coniugazione irregolare possano essere disposti lungo un continuum che va da modifiche fonologiche parziali al ➔ suppletivismo. I casi di modificazione della base riportati vanno dalla palatalizzazione di fronte a vocale anteriore (nascere), alla modificazione della vocale della radice (udire), alla sua dittongazione (sedere), all’inserimento dell’infisso -isc- e alla palatalizzazione della consonante velare (finire), alla modificazione della vocale della radice, alla labializzazione e all’allungamento della consonante finale (dovere), al suppletivismo della radice (andare).
È interessante notare che i fenomeni fonologici responsabili delle variazioni allomorfiche non sono più produttivi, e soprattutto che essi, sebbene si tratti di fenomeni di tipo diverso, si distribuiscono secondo uno schema ricorrente nei diversi verbi (prima, seconda, terza sing., terza plur. / prima, seconda plur.), che corrisponde anche alla distribuzione della posizione dell’accento nella coniugazione regolare.
È possibile individuare una distribuzione ricorrente, anche se secondo uno schema diverso (prima, terza sing., terza plur. / seconda sing., prima, seconda plur.), anche nella coniugazione irregolare del passato remoto (cfr. tab. 8). Le alterazioni di forma più comuni riguardano l’allungamento della consonante finale della base (venire), la sostituzione della consonante finale con -s- (perdere → perso), e altri fenomeni più complessi che includono la modificazione della vocale della radice, l’inserzione o la cancellazione di consonanti (fondere → fuso). Sebbene la maggioranza delle forme irregolari possa essere spiegata dall’intervento di fenomeni fonologici, la improduttività di tali fenomeni e soprattutto la regolarità di distribuzione delle forme irregolari conduce ad ipotizzare che la loro distribuzione venga determinata dall’organizzazione morfologica dei paradigmi.
La ➔ formazione delle parole è un insieme di processi che permette di arricchire il lessico in maniera economica ed efficiente utilizzando: (a) affissi specifici aggiunti alle basi lessicali secondo schemi ricorrenti; (b) la combinazione di più parole. Il risultato consiste in parole morfologicamente complesse, derivate o composte.
Una parola derivata o composta al momento della sua formazione consente l’agevole identificazione dei suoi componenti, i quali sono organizzati in una struttura che permette di predire il significato composizionale della parola risultante. Le parole derivate e composte sono formate secondo procedimenti che si ripetono in maniera regolare dal punto di vista sia semantico che formale.
I casi di distorsione del significato rispetto a quello composizionalmente atteso possono dipendere da processi di ‘deriva’ semantica comuni a tutti i lessemi (per es., trasmissione, dirigibile nel senso rispettivamente di «programma radiofonico o televisivo», «aerostato», e non quello prevedibile di «azione di trasmettere», o «che può essere diretto») o, per quello che riguarda specificamente le parole complesse, dalla perdita di produttività degli affissi o dei procedimenti compositivi. La perdita di produttività di norma determina un oscuramento dei rapporti fra gli elementi costitutivi della parola morfologicamente complessa, e di conseguenza l’imprevedibilità del significato della parola.
La produttività, cioè la possibilità di un affisso o di un determinato processo di formazione delle parole di essere utilizzati per la formazione di parole nuove, è una proprietà graduale. A un momento dato della storia di una lingua un affisso può perdere progressivamente la capacità di formare parole fino a diventare improduttivo. La piena composizionalità semantica si ha solo con affissi produttivi, mentre la perdita di produttività provoca una frammentazione semantica e successivamente la difficoltà di identificare non solo il significato, ma gli stessi affissi anche dal solo punto di vista formale. Ad es., non è facile né particolarmente utile per l’uso corrente della lingua, cercare di individuare il contributo semantico di un suffisso improduttivo come -ido, presente in parole quali acido, arido, limpido, pallido, putrido, timido. D’altro canto l’individuazione di affissi ancora produttivi (per es. -mento, -zione, -aggio, pre-, ri-) in parole ereditate dal latino può indurre il parlante alla scomposizione di parole quali detrimento, ovazione, massaggio, preciso, precoce, presumere, ricevere, ripetere, risultare, in cui la mancanza di un lessema di base non derivato impedisce la possibilità di attribuire un preciso significato composizionale alla parola complessa.
La formazione delle parole avviene secondo processi a cui sono associate proprietà categoriali e semantiche stabili e dunque predicibili. Ad es., le parole terminanti in -zione sono di norma nomi femminili derivati da verbi che indicano l’azione espressa dal verbo di base (circolazione, comunicazione, nutrizione, punizione). Le parole derivate si prestano all’aggiunta di altri affissi derivazionali, in sequenze che danno luogo a parole con categoria lessicale e caratteristiche semantiche predicibili a partire dalla struttura (per es., pedone → pedonale → pedonalizzare → pedonalizzazione). Non è frequente che la base di una parola derivata possa essere un composto (crocerossa ← crocerossina, fotocopia ← fotocopista), eccezionale che sia un sintagma (menefreghismo, una iniziativa anti-Presidente della Repubblica). Casi sporadici di alterazione della struttura composizionale possono essere dovuti alla sostituzione di affissi invece che alla normale aggiunta: esempi di sostituzione di suffisso si hanno in simpatia → simpatico, difterite → difterico, televisione → televisivo, comprensione → comprensivo; esempi di sostituzione di prefisso si hanno in dissacrare da consacrare, posticipare da anticipare, postfazione da prefazione.
I principali processi di formazione delle parole sono di tipo additivo: suffissazione, prefissazione, composizione. Ad essi si aggiunge un processo non additivo piuttosto diffuso: la conversione, che consiste nel cambiamento della parte del discorso senza l’aggiunta di affissi derivazionali (per es., copiare → copia, arrivare → arrivo). Tra i fenomeni di riduzione, il più importante è la retroformazione (➔ retroformazioni), che consiste nella formazione di una parola nuova a partire da una parola già esistente tramite la cancellazione di affissi o di segmenti interpretati come tali: televendere da televendita, acquisire da acquisizione. Altri processi minori riconducibili a fenomeni di riduzione sono: gli accorciamenti (foto da fotografia, tele da televisione, Samp da Sampdoria, zoo da giardino zoologico; ➔ abbreviazioni), le ➔ sigle (CD da Compact Disc, CGIL da Confederazione Generale Italiana del Lavoro, RAI da Radio Audizioni Italiane), e le cosiddette ➔ parole macedonia, formate con parti di parole (Confindustria da Confederazione Generale dell’Industria Italiana, Federcalcio da Federazione Italiana Giuoco Calcio, colf da collaboratrice familiare).
Gli accorciamenti, più che a parole nuove, danno luogo a varianti meno formali o decisamente informali di altre parole esistenti (Elisabetta → Betta, professore → prof). Le sigle e le parole macedonia si differenziano dagli altri processi di formazione delle parole anche per il fatto di essere il più delle volte il risultato di creazioni intenzionali, mentre di norma la formazione delle parole avviene spontaneamente nel corso dell’attività linguistica dei parlanti.
L’arricchimento del lessico può avvenire anche mediante processi non morfologici. In primo luogo tramite la ➔ lessicalizzazione di sintagmi (nominali: ordine del giorno, carne in scatola, corpo del reato, motore di ricerca, campo di accoglienza; aggettivali: a posto, fatto in casa; verbali: mettere in luce, mettere alle corde, andare via, portare fuori), ➔ prestiti (account dall’inglese, geisha dal giapponese, parquet dal francese, ecc.), ➔ calchi (fine settimana dall’ingl. week end, ferrovia dal ted. Eisenbahn).
4.1.1 Derivazione. La ➔ derivazione è un processo che consiste nella formazione di una parola nuova mediante l’aggiunta di un affisso (➔ affissi) a un lessema. A seconda della posizione, gli affissi si distinguono in ➔ prefissi (aggiunti all’inizio della parola) e ➔ suffissi (aggiunti alla parte finale della base). L’impiego simultaneo di un prefisso e di un suffisso può determinare la formazione di morfi discontinui (detti circonfissi). Si tratta di un processo formativo piuttosto raro e instabile, ma produttivo in italiano e nelle altre lingue romanze per la derivazione di verbi a partire da nomi (abbottonare, imbrigliare) o da aggettivi (addolcire, indebolire). Viene di solito inclusa nella derivazione anche la conversione.
(a) Suffissazione. Il processo più usato nella formazione delle parole dell’italiano è la suffissazione.
La maggior parte delle parole derivate presenta un solo suffisso (fiduci-oso, segn-ale, fior-aio); le parole con due suffissi derivazionali sono abbastanza numerose e frequenti (fals-ifica-bile, modern-izza-zione), mentre le parole con tre o più suffissi sono poche, di bassa frequenza e di norma limitate ai registri più formali (man-eggia-bil-ità).
Una delle funzioni principali dei suffissi è quella di modificare la parte del discorso della base. Tramite suffissi si possono formare aggettivi denominali (polo → polare, università → universitario), deverbali (cantare → cantabile, lodare → lodevole), nomi deaggettivali (fresco → freschezza, moderno → modernità; ➔ deaggettivali, nomi), nomi deverbali (coltivare → coltivazione, ingrandire → ingrandimento), verbi denominali (scandalo → scandalizzare, persona → personificare), verbi deaggettivali (vivace → vivacizzare, intenso → intensificare; ➔ denominali e deaggettivali, verbi), avverbi deaggettivali (veloce → velocemente, eroico → eroicamente).
Come si può notare dagli esempi, nomi, aggettivi e verbi possono essere sia la base che il risultato della suffissazione che cambia parte del discorso (in termini tecnici, eterocategoriale), mentre gli avverbi sono derivati da aggettivi, e di norma non possono essere ulteriormente suffissati. Ciascun suffisso derivazionale produce di norma parole appartenenti a una specifica parte del discorso e attribuisce i tratti flessivi. Ad es., il suffisso deverbale -tura forma nomi femminili appartenenti alla categoria flessiva -a/-e, mentre il suffisso deverbale -aggio forma nomi maschili appartenenti alla categoria flessiva -o/-i.
Quanto alla suffissazione che non determina un cambiamento nella parte del discorso, solo nel caso dei nomi i suffissi possono determinare un importante mutamento semantico (ad es., modificando il tratto di ‘animatezza’, da inanimato a animato: violino → violinista e, all’inverso, uccello → uccelliera). Nel caso degli aggettivi e dei verbi la suffissazione che non determina cambiamento di parte del discorso riguarda la sola ➔ alterazione: cattivo → cattivello → cattivone → cattivaccio, correre → corricchiare, lèggere → leggiucchiare). Tale procedimento riguarda anche i nomi, per i quali l’alterazione è più comune e conta un maggior numero di suffissi diversi (per es., ragazzo → ragazzino / ragazzaccio / ragazzone / ragazzastro / ragazzetto / ragazzuccio), mentre gli avverbi sono solo marginalmente interessati alla suffissazione alterativa (bene → benino / benone, male → malino / malaccio).
L’alterazione, oltre a produrre parole della stessa categoria della base, si distingue per il fatto di impiegare affissi che descrivono proprietà graduabili, quali la dimensione per i referenti concreti o l’intensità di una qualità per i referenti astratti. Inoltre, invece che per indicare caratteristiche intrinseche dei referenti, l’alterazione è usata soprattutto per esprimere valutazioni da parte del parlante. I suffissi alterativi possono cambiare la classe flessiva della base (coltello → coltellone, ridere → ridacchiare), raramente il genere dei nomi (forca → forcone, fontana → fontanone / fontanona, villa → villino / villetta).
(b) Prefissazione e parasintesi. In italiano i prefissi esprimono solo valori derivazionali e, a differenza dei suffissi, non si usano per le forme flesse. Formano inoltre parole che appartengono alla stessa parte del discorso della base, basi che sono selezionate secondo criteri solo in parte riconducibili alla distinzione in parti del discorso. La grande maggioranza dei prefissi si può infatti premettere produttivamente a due o tre categorie lessicali fra nomi, verbi e aggettivi (disonore, disabile, disfare; inesperienza, incapace; stragrande, stravedere), mentre non sono molti i prefissi che si premettono a basi appartenenti a una sola categoria lessicale. Un ruolo importante nella selezione delle basi è svolto da criteri semantici e, nel caso di basi predicative, da caratteristiche azionali e argomentali.
A differenza dei derivati suffissali, i tratti morfosintattici della parola prefissata (per es., categoria lessicale, genere, categoria flessiva, animatezza) sono gli stessi della parola di base. La prefissazione non ha conseguenze neanche sulla posizione dell’accento primario di parola.
Quasi tutte le parole prefissate dell’italiano ammettono un solo prefisso. In quelle in cui sono identificabili più prefissi, in genere il prefisso interno non contribuisce in modo regolare al significato della parola: in-de-terminato, ri-pro-gettare. Casi particolari consistono nell’impiego ripetuto di uno stesso prefisso (ri-ridiscutere).
I principali significati espressi sono: la localizzazione spaziale (anteporre, premettere, Prealpi, retrovisore, interdentale, superstrato, sottomarino) e temporale (prefabbricare, postbellico, interregno); la negazione (antieroe, controattacco, controfestival, smacchiare, inesperto, disonorare, decongestionare); la ripetizione (ricostruire; ➔ iterazione, espressione della); la dimensione quantitativa (multietnico, pluricampione, megafesta, miniabito, maxicondanna, maxisconto, sovrappeso, sottoesporre) e qualitativa (ipercritico, superidratante, superlatitante, ultrarapido, megaofferta, strapieno, sopravvalutare, surgelare, sottogoverno, subnormale); il valore comitativo (copilota); la riflessività (autoritratto, autogestione); la reciprocità (interagire, interscambio). I prefissi impiegati in un maggior numero di neoformazioni sono: anti-, auto-, contro-, de-, iper-, maxi-, mega-, micro-, mini-, neo-, post-, pre-, ri-, s-, sotto-, stra-, super-, ultra-.
I prefissi possono concorrere a formare verbi ➔ parasintetici. I verbi formati a partire da basi aggettivali esprimono il valore ingressivo parafrasabile con «far diventare, rendere (più) A» (per es., allentare, ammorbidire, incurvare, inumidire, scaldare, svilire); quelli formati a partire da basi nominali possono esprimere, oltre al valore ingressivo (affettare, ammuffire, incenerire, spezzare, affascinare, impaurire), anche valore spaziale (imburrare, accerchiare, infornare) e strumentale (addentare, impallinare, sforbiciare).
(c) Conversione. Nella conversione si ha la formazione di una parola appartenente a una parte del discorso diversa rispetto alla parola di base, senza però che il cambio di categoria sia segnalato da affissi derivazionali. I più evidenti fenomeni di conversione dell’italiano riguardano la formazione di nomi da verbi (valicare → valico) e di verbi da nomi (martello → martellare) o da aggettivi (stanco → stancare), dato che in tali casi si determina una chiara differenziazione semantica e funzionale fra base e derivato, oltre che il passaggio da una classe flessiva all’altra.
La conversione di nomi a partire da aggettivi e viceversa è un fenomeno comune ma meno evidente e più sfumato, dato che gli aggettivi e i nomi sono inquadrati in classi flessive omologhe (comico, ferrarese, socialista) e le differenze semantiche e funzionali sono minori. La formazione di nomi per conversione richiede l’assegnazione di genere: (agg.) statale → (la) statale; (agg.) detergente → (il) detergente; conquistare → (la) conquista; parcheggiare → (il) parcheggio (nei deverbali prevalgono i nomi maschili). La conversione in verbi forma produttivamente solo verbi in -are. Per quanto riguarda la semantica, i nomi formati per conversione da verbi sono in maggioranza nomi di azione (arrivo, ricerca; ➔ azione, nomi di), che possono presentare le usuali estensioni semantiche e quindi esprimere:
(i) risultato dell’azione (disegno, traccia; ➔ risultato, nomi di);
(ii) strumento (cambio, frusta; ➔ strumento, nomi di);
(iii) luogo (incrocio, stiva).
Scarsamente produttiva la formazione di altri tipici nomi deverbali, quali i nomi di agente (guida).
4.1.2 Composizione. La composizione consiste nell’unione di due (o più) morfemi lessicali. I composti dell’italiano sono formati tipicamente da due parole autonome; la relazione fra i costituenti del composto non è di norma segnalata da marche morfologiche.
I composti di nuova formazione dell’italiano appartengono per lo più alla categoria dei nomi. La ‘testa’ dei composti produttivi (l’elemento più importante, quello che ne determina la parte del discorso, i tratti flessivi, e contribuisce in maggior misura a quelli semantici) è di norma l’elemento iniziale: aereo-spia, annuncio truffa, approvazione-lampo, buono sconto, libro-confessione, pesce spada, capostazione, cassaforte, vagone letto, elemento chiave, parola chiave, cassa comune, famiglia allargata, prezzo civetta. Ci sono però anche composti di tipo coordinativo, in particolare formati da due aggettivi, in cui i due costituenti concorrono in pari modo al significato del composto (cassapanca, caffelatte, chiaroscuro, sociopolitico, nazionalpopolare, neroazzurro), e composti detti esocentrici (pellerossa, casco blu, toga rossa), caratterizzati dal fatto che nessuno dei due elementi contribuisce in modo prevalente a determinare i tratti semantico-sintattici del composto.
Un interessante fenomeno innovativo della composizione italiana riguarda la formazione di composti nominali con testa a destra (agopuntura, autonoleggio, biocibo, bioabitazione, calciomercato, computergrafica, ecomafia, fotomontaggio, motosega, psicofarmaco, risoterapia, telegiornale; cioccolatomania, concorsopoli, internettologo; personal computer, videogame, droga party, baby gang), la cui diffusione è stata favorita dall’accoglimento nel lessico comune di composti esogeni, provenienti sia dalle terminologie tecnico-scientifiche (che impiegano ➔ elementi formativi e ➔ suffissoidi) sia dalle lingue germaniche, in primo luogo dall’inglese (➔ anglicismi). I composti formati da uno o più elementi formativi sono quelli che meglio si prestano ad essere ulteriore base di derivazione: fotocopia → fotocopiare → fotocopiatore / fotocopiatrice / fotocopiatura; cicloamatore → cicloamatorismo / cicloamatoriale).
Un altro tipo compositivo caratteristico dell’italiano (e delle altre lingue romanze) è costituito dai composti verbo + nome (asciugamani, scolapasta, cantastorie, guardalinee), attualmente utilizzati principalmente per la formazione di nomi di apparecchiature, macchine e strumenti (lavastoviglie, paraurti, portachiavi, contapasseggeri); è in declino per la formazione di nomi di agente denotanti per lo più mestieri e professioni (guardamacchine, guardaporte, portaborse, spaccavetrine; ➔ agente, nomi di). Le attività di maggior prestigio sono attualmente indicate per mezzo di composti cosiddetti neoclassici, o contenenti un elemento formativo (foniatra, internauta, trapiantologo).
Non produttivi o scarsamente produttivi i tipi aggettivo + nome (altopiano, bassorilievo, gentildonna, maleducazione; rosso porpora, verde bottiglia), avverbio + aggettivo (sempreverde), avverbio + verbo (benedire, maledire), verbo + verbo (leccalecca, saliscendi).
La grafia dei composti non segue una norma stabile: uno stesso composto può essere scritto come parola unica (prendisole, tagliaerba), con i due elementi separati da un trattino (porta-finestra) o solo giustapposti (dieta punti). Di norma i composti più antichi e quelli il cui significato tende verso l’opacizzazione sono scritti uniti (➔ univerbazione). Per quanto riguarda la pronuncia, l’accento principale del composto di norma coincide con quello del costituente di destra (➔ accento).
La combinazione fra i diversi processi di formazione delle parole avviene secondo modalità complesse e non ancora studiate in modo completo. Possiamo distinguere fra la riapplicazione di uno stesso processo, di uno stesso affisso, e la combinazione fra diversi processi di formazione.
La riapplicazione di uno stesso processo è normale solo nel caso della suffissazione: parole con due suffissi derivazionali sono correnti (fest-eggia-mento, ment-al-ità), meno frequenti quelle con tre suffissi (ann-ual-izza-zione, mond-ial-izza-zione), mentre quelle con quattro sono possibili nel sistema ma praticamente assenti nell’uso corrente (istitu-zion-al-izza-bile). Solo una piccola minoranza di parole prefissate ha due prefissi. Di norma solo il prefisso esterno contribuisce in modo regolare al significato della parola (de-con-gestionare, ri-de-finire). Sono comunque attestate parole con più di un prefisso la cui semantica composizionale è del tutto regolare (mini-de-fibrillatore, de-sur-ri-s-caldare). La composizione con elementi endogeni prevede normalmente due soli elementi (fra le pochissime eccezioni tergi-lava-lunotto).
Nella composizione con elementi formativi è invece possibile utilizzare più elementi, in particolare per la formazione di parole appartenenti a terminologie tecnico-scientifiche (oto-rino-laringo-iatra, epato-spleno-grafia, idro-benzo-amm-ide). La conversione è di norma impiegata una sola volta; costituisce un’eccezione il passaggio da nome (corallo) ad aggettivo (un maglione corallo) e successivamente al nome del colore (il corallo si accosta bene con il nero).
La riapplicazione di uno stesso affisso è fortemente limitata dal fatto che la grande maggioranza dei suffissi cambia la categoria lessicale della base: quindi, ad es., un suffisso che forma nomi da verbi, come -zione, non può essere ripetuto se non intervallato da altri suffissi, e a condizione che il derivato finale sia semanticamente distinto dall’omologo che lo precede nella catena derivazionale (per es., costituzionalizzazione). Costruzioni di tale tipo implicano un numero di suffissi che ne rende molto improbabile l’uso.
La ripetizione di uno stesso suffisso è invece possibile, e nell’uso corrente piuttosto frequente, nei suffissi alterativi, i quali non modificano la categoria lessicale della base, e il cui cumulo può essere utilizzato a fini espressivi (piccolissimissimo, bruttacciaccio). La proprietà di non modificare la categoria lessicale della base rende possibile l’uso ricorsivo di uno stesso prefisso (anti-anti-missile, ex-ex-marito, micro-micro-spia, ri-ri-copiare, sotto-sotto-commissione). Tali costruzioni sono usate più nella comunicazione informale e nella lingua dei media che non nello scritto formale. Restano escluse le combinazioni di prefissi semanticamente incompatibili, come quelli che esprimono privazione (*a-a-morale, *in-incapace). L’interpretazione semantica della reiterazione di uno stesso affisso può sia rispettare la normale natura composizionale della derivazione (meta-meta-linguaggio «metalinguaggio che ha come oggetto un metalinguaggio») o assecondare un principio di iconicità, che fa corrispondere all’aumento di forma un’intensificazione del significato dell’affisso (per es., mini-minibikini «bikini ridottissimo»).
La combinazione fra diversi processi di formazione subisce forti limitazioni nel caso sia implicata la composizione, anche se è possibile usare parole prefissate e suffissate come elementi di composto (portabiancheria, portaimmondizia), come pure derivare un composto per mezzo di prefissi o suffissi (anti-portaerei, crocerossina). Il numero di formazioni con tali caratteristiche è molto ridotto. Una parziale eccezione è costituita dalla possibilità di suffissare composti contenenti elementi formativi (biodegradabile, biodegradabilità, biodegradatore, biodegradazione).
La combinazione di prefissazione e suffissazione produce moltissime parole di uso corrente: è possibile prefissare parole suffissate (guardabile → inguardabile, accessoriato → superaccessoriato), come pure suffissare parole prefissate (ripulire → ripuli-tura, detassare → detassa-zione); è piuttosto comune anche la sequenza suffissazione, prefissazione, suffissazione (credere → credibile → incredibile → incredibilmente). Non è invece di norma possibile utilizzare parole suffissate come base dei verbi parasintetici, mentre la suffissazione di verbi parasintetici non presenta restrizioni particolari (indurire → indurimento; incoronare → incoronazione).
La formazione di parole nuove avviene principalmente tramite suffissazione. Qui di seguito elencheremo i principali tipi di significato in cui sono raggruppabili i ➔ neologismi morfologici della lingua italiana di uso corrente, e indicheremo quali sono i suffissi più usati per l’espressione di ciascun significato insieme ad altri eventuali processi morfologici che concorrono allo stesso fine (per una più ampia documentazione, cfr. Iacobini & Thornton 1992; Matracki 2006). Per maggiori indicazioni sulle distinzioni di significato e di uso dei diversi suffissi e processi formativi si rimanda alle voci che trattano in dettaglio l’argomento.
4.3.1 Nomi d’agente e di strumento. I nomi di persone che svolgono un’attività (specialmente in modo abituale, e quindi anche una professione) possono essere derivati da:
(a) verbi che esprimono il tipo di attività svolta;
(b) nomi che indicano un oggetto usato per svolgere l’attività, il risultato dell’attività, o qualcosa o qualcuno in qualche modo coinvolti.
Il suffisso più usato per la formazione di neologismi è il denominale -ista (banchista, convegnista, salutista, sondaggista, vespista), con cui si possono formare anche nomi che indicano il seguace o il fautore di una posizione politica o ideologica, spesso collegati ai corrispettivi nomi in -ismo (abortista; bipolarista ← bipolarismo). Altri suffissi denominali produttivi sono -aio, usato specialmente per mestieri modesti o associati alla produzione artigianale (cuscinaio, giostraio, vongolaio), -aro (fumettaro, panchinaro), -ante (politicante), -ino (bagnino), usato talvolta per la denominazione di aderenti a movimenti specialmente politici (girotondino), anche a partire da sigle (diessino).
Fra i suffissi deverbali, oltre al più usato -tore (presentatore, riabilitatore), ricordiamo -ino (attacchino, imbianchino), e -one (guardone, piacione), di solito usato con connotazione peggiorativa. Si possono formare nomi d’agente anche sostantivando il participio presente (badante) e passato (abbonato), oppure con composti neoclassici (audioleso, foniatra, istologo, museologo); meno frequentemente, e in particolare per occupazioni non prestigiose, con composti verbo + nome (strizzacervelli, trovarobe).
I suffissi che formano nomi di strumento (➔ strumento, nomi di) coincidono in parte con quelli usati per formare nomi d’agente. I suffissi deverbali più usati sono -tore (catalizzatore, climatizzatore, condizionatore), -trice (lavatrice), -ino (frullino, passino). Il processo più impiegato attualmente per la formazione di nomi di strumento è forse la composizione neoclassica, specialmente grazie all’impiego di elementi formativi in combinazione con parole (applausometro, audiolibro, esposimetro, parcometro, spettrografo), ma anche la composizione con elementi nativi è ben rappresentata (musicassetta, portacipria, portapatente, tergicristallo, tosaerba, tritaimballaggi).
4.3.2 Nomi d’azione e altri nomi astratti. Si tratta di parole che esprimono sotto forma di nomi il significato del verbo da cui derivano. Spesso il significato del derivato può estendersi e indicare anche lo stato risultante astratto o un referente tangibile, meno spesso il luogo dove l’azione si svolge, o qualche altro elemento ad essa connesso. Il suffisso più produttivo è -zione, la cui fortuna è connessa a quella del suffisso verbale -izzare, che ne costituisce la base ideale di derivazione (elasticizzazione, familiarizzazione). Molto usati anche i suffissi -aggio (attacchinaggio, monitoraggio) e -mento (accorpamento, scongelamento), meno produttivo -tura (sbullonatura). Il processo di conversione è impiegato specialmente per formare nomi maschili (abbraccio, acquisto, arrivo, lancio) o femminili da participio passato (corsa, letta, guardata, pulita, surfata).
I nomi di attività tecniche e discipline specialistiche o scientifiche possono essere assimilati a quelli di attività, ma sono formati con suffissi a partire da nomi (impiantistica, incidentistica), o più spesso tramite composizione neoclassica (agrobiologia, immunoematologia, implantologia, sitografia, termografia).
Tra i nomi astratti vanno ricordati anche i denominali derivati con -ismo, dal momento che si tratta di uno dei suffissi più produttivi dell’italiano. Concorre principalmente a formare nomi di tendenze ideologiche, culturali o simili (ambientalismo, comportamentismo, conciliarismo), o a fenomeni che hanno rilevanza sociale (abusivismo, consumismo).
4.3.3 Nomi di qualità. Sono nomi deaggettivali che esprimono la qualità indicata dall’aggettivo di base, formati soprattutto con i suffissi -ità/-età (comunicatività, genitorialità, residenzialità; aleatorietà, visionarietà) ed -ezza (smodatezza, sofisticatezza). Il suffisso -ia, presente in parole di uso comune (allegria, pazzia), è molto produttivo nella derivazione di parole terminanti con un elemento formativo (anglofobia, endogenia, fonologia).
4.3.4 Nomi di luogo. I nomi di luogo possono essere derivati a partire da nomi concreti (animati o inanimati), per indicare uno spazio delimitato in cui vivono o sono allevati animali, o sono conservati, prodotti, venduti o consumati determinati oggetti. Il suffisso più produttivo e dal significato più ampio è -eria (biglietteria, pizzeria, tabaccheria); -ificio indica di preferenza un luogo dove si fabbrica quanto denotato dal nome di base (calzaturificio, pastificio). L’elemento formativo -teca è usato in particolare per i nomi di esercizi commerciali (discoteca, paninoteca, videoteca). Meno frequente la derivazione deverbale, usata per indicare il luogo in cui si svolge una data attività (spogliatoio, stireria).
4.3.5 Aggettivi. Si possono formare aggettivi sia da nomi che da verbi. A partire da nomi, i principali tipi semantici sono aggettivi di relazione (➔ relazione, aggettivi di), possessivi (➔ possessivi, aggettivi e pronomi), ➔ etnici e deantroponimici.
I suffissi più usati per formare aggettivi di relazione sono: -ale/-iale (generazionale, gestionale, imprenditoriale, nutrizionale), -are (assembleare, cedolare), -ario (orbitario, tariffario), -ico (filmico, radiofonico), -ivo (arbustivo, televisivo), -istico (calcistico, evoluzionistico; molte delle basi di quest’ultimo suffisso sono nomi in -ismo o -ista). I due suffissi più usati per indicare il significato possessivo parafrasabile con «pieno, dotato di N» sono -oso (omertoso, pedicelloso) e -ato (mansardato, titolato). A partire da nomi di luogo si possono formare aggettivi e nomi etnici che indicano gli abitanti e le lingue parlate in quel luogo. I suffissi più usati in ordine di importanza sono -ese (cinese, bolognese), -ano (africano, romano), -ino (parigino). Gli aggettivi deantroponimici si formano in prevalenza con i suffissi -iano (berlingueriano, lippiano), -esco (pavarottesco).
A partire da verbi si possono formare da un lato i numerosissimi aggettivi derivati con il suffisso -bile (appaltabile, cartolarizzabile, privatizzabile, rimandabile), caratterizzati da valore passivo e parafrasabili con «che è o che può essere V», dall’altro gli aggettivi parafrasabili con «che (tipicamente) V, che serve a V», formati produttivamente con i suffissi -torio (pacificatorio, separatorio), -tivo (consociativo, svalutativo), e con le forme del participio presente (cineseggiante, performante, struccante).
4.3.6 Verbi. Il procedimento più produttivo per la formazione di verbi è la conversione a partire da nomi e da aggettivi. I verbi appartengono tutti alla classe in -are (messaggiare, schedare, chattare).
Appartengono alla stessa classe flessiva anche i derivati con i suffissi -izzare (il più usato fra i suffissi: alfabetizzare, atomizzare), -ificare (mercificare), -eggiare (diveggiare), e la maggior parte dei verbi parasintetici (accorpare, sbandierare). Tale processo è l’unico che permette di mantenere vitale la classe flessiva in -ire (addolcire, insatirire).
4.3.7 Avverbi. L’unico processo produttivo è la suffissazione con -mente a partire dalla forma femminile singolare dell’aggettivo (curiosamente, rischiosamente), salvo i casi di aggettivi in -le o -re (abissalmente, malleabilmente; ➔ maniera, avverbi di).
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