MOROZZO DELLA ROCCA, Enrico
– Nacque a Torino il 20 giugno 1807, primo di undici figli ed erede dei titoli di Carlo Filippo, conte di Morozzo e marchese di Bianzè, signore di San Genuario, consignore di Roasio e di Torricella, nobile dei marchesi di Rocca de’ Balbi e dei signori del marchesato di Ceva, e di Gabriella Sofia Cisa Asinari di Gresy, nobildonna savoiarda.
Apparteneva a una delle più antiche casate della nobiltà di spada piemontese (deteneva feudi e dignità signorile tra Cuneo e Asti già dal XII secolo), stabilmente inseritasi tra le grandi famiglie dell’aristocrazia di servizio sabauda in età moderna. Tra gli antenati illustri poteva vantare diversi funzionari di alto rango, tra cui Luigi Ludovico (1549-1611), primo presidente del Senato di Piemonte e governatore di Vercelli, Carlo Filippo (1586-1661), primo presidente del Senato di Piemonte e Gran Cancelliere di Savoia, e Giuseppe (1758-1842), cardinale.
Come d’abitudine tra le famiglie piemontesi più legate alla corte, venne avviato giovanissimo alla carriera militare. Nell’agosto 1816 entrò all’Accademia militare di Torino per diventare sottotenente nell’aprile 1824. L’anno successivo, nominato luogotenente, transitò nello stato maggiore generale dell’armata sarda, dove percorse una brillante (ma non eccezionalmente rapida) carriera: capitano nel febbraio 1831, maggiore nell’aprile 1843, ottenne il grado di colonnello nel marzo 1848.
L’esercito sardo in cui si formò era quello definitivamente epurato degli ultimi quadri napoleonici dopo le rivolte del 1821, che avevano visto aliquote dell’armata regolare promuovere il tentativo di Putsch costituzionale che avrebbe dovuto avere in Carlo Alberto il nume tutelare. In realtà, solo una parte minoritaria del corpo ufficiali aderì al moto liberale, alla testa di una frazione ancora più piccola di truppe, non più di 4000 uomini in tutto. A guidare l’insurrezione militare furono gli ufficiali reduci della Grande Armée, o che si erano arruolati durante la stagione napoleonica, da 200 a 300, una minoranza sopravvissuta alla Restaurazione, tra cui si contavano gli elementi professionalmente più preparati ed esperti delle forze sabaude. La repressione voluta da Carlo Felice costrinse i superstiti all’esilio, privando l’esercito piemontese di un’élite professionale esperta e innovativa, e accentuò la chiusura aristocratica e corporativa del corpo ufficiali, sancita peraltro dalle riforme volute dallo stesso Carlo Alberto a partire dal 1831, con l’esclusione di fatto dalla carriera delle armi dei riservisti e degli elementi di provenienza borghese, a favore dei rampolli dei collegi nobiliari o dei sottufficiali provenienti dalla gavetta.
Fu con questo devoto ma incolto corpo ufficiali che l’armata sarda entrò in guerra nella primavera 1848, campagna che rivelò tutti i problemi di un complesso militare cui faceva difetto (tre le altre cose) una guida competente. Morozzo della Rocca assunse l’incarico di capo di stato maggiore della divisione di riserva, comandata da Vittorio Emanuele duca di Savoia (il futuro Vittorio Emanuele II). Durante la campagna di Lombardia si distinse particolarmente al combattimento di Goito – per il quale fu decorato con medaglia d’argento al valor militare – e a Custoza, avendo assunto temporaneamente il comando della divisione al centro dello schieramento piemontese, dove condusse senza sbandamenti la ritirata nelle ultime fasi della battaglia. Promosso maggior generale, lasciò il suo incarico per assumere alla vigilia della ripresa delle ostilità, nel marzo 1849, il comando della brigata Acqui, inquadrata nella 2a divisione. Partecipò al combattimento della Sforzesca, dove si distinse guadagnandosi un’altra medaglia al valore, e alla battaglia di Novara.
Subito dopo l’abdicazione di Carlo Alberto e la salita al trono di Vittorio Emanuele II, fu chiamato a far parte del ristretto circolo di fedeli a cui il nuovo monarca affidò la gestione del governo in un momento di delicata transizione, mentre la rovinosa situazione politico-militare e lo scoppio dell’insurrezione a Genova minacciavano la tenuta del regime. Assunse il dicastero della Guerra (29 marzo - 7 settembre 1849), che rappresentò tuttavia un’esperienza breve e non particolarmente significativa, durante la quale si limitò a riorganizzare l’esercito, congedando i riservisti, sciogliendo i reparti meno fidati e ciò che restava delle truppe volontarie e lombarde. Del resto, pur essendo molto vicino al nuovo re (che lo nominò in aprile aiutante di campo), non poteva considerarsi un membro della cerchia degli amici più intimi di Alfonso La Marmora, l’influente ‘cupola’ che avrebbe retto i destini militari sardi nei successivi undici anni, gran parte dei quali trascorsi dallo stesso La Marmora alla guida del ministero. Dopo aver espletato diversi incarichi consultivi ed essere stato inviato in missione in Sassonia, nel febbraio 1852 Morozzo della Rocca assunse il comando del Corpo reale di stato maggiore, responsabilità che tenne per cinque anni, durante i quali, tra l’altro, istituì l’Ufficio militare, antenato dell’Ufficio storico di stato maggiore (ordine del giorno n. 712 del 16 luglio 1853).
Il Corpo reale di stato maggiore, erede del Corpo di stato maggiore generale e della topografia reale fondato nel 1814, non era, come sarebbe stato a partire dal 1882, con la creazione della carica di capo di stato maggiore dell’esercito, il vertice e la guida effettiva delle forze armate in tempo di guerra quanto, piuttosto, un organismo di studio e preparazione, in cui confluivano servizi diversi (ivi compreso il primo nucleo del servizio segreto militare). Negli anni Cinquanta, il vero responsabile della vita militare del Regno di Sardegna rimase La Marmora che riformò fortemente l’esercito, trasformandolo in un complesso solido ed efficiente.
Nel luglio 1857 fu promosso tenente generale, assumendo contemporaneamente l’incarico di primo aiutante di campo del re. In tale veste funse da inviato personale di Vittorio Emanuele II presso Napoleone III quando, dopo l’attentato di Felice Orsini nel febbraio 1858, venne messa in dubbio la politica di avvicinamento tra Francia e Regno di Sardegna. Scoppiata la seconda guerra di indipendenza (aprile 1859), mentre il re assumeva il comando supremo dell’esercito, Morozzo della Rocca fu nominato capo di stato maggiore generale, ancora una volta rappresentando l’‘uomo del re’ in alternativa, se non in aperta opposizione, a La Marmora, ‘ministro al campo’. Si replicava così, anche per la campagna del 1859, il dualismo nella linea di comando (Vittorio Emanuele II e Morozzo della Rocca, da un lato, La Marmora, in accordo con Cavour, dall’altro) che aveva già provocato molti danni nel 1848-49 e che si sarebbe rivelato fatale nel 1866. L’arrivo di Napoleone III, fautore di un personale accentramento della guida degli eserciti alleati, depotenziò tuttavia per il momento il rischio di confusione provocato da questa rivalità.
L’anno successivo, Morozzo della Rocca tornò a rivestire un comando operativo, guidando il V Corpo d’armata (su due divisioni) che, insieme al IV agli ordini del generale Enrico Cialdini, costituiva il nerbo dell’armata sarda di invasione nello Stato pontificio comandata dal generale Manfredo Fanti. Il V Corpo non prese parte al combattimento di Castelfidardo, dove fu sconfitto l’esercito mobile papalino, ma risalì la valle del Tevere, occupò Perugia e si ricongiunse infine al resto dell’armata ad Ancona, che venne occupata alla fine di settembre. In seguito a questo ciclo di operazioni, Morozzo della Rocca fu promosso generale d’armata, grado con il quale prese parte all’invasione del Regno delle Due Sicilie. Con una divisione del V Corpo, e rinforzato da reparti garibaldini posti provvisoriamente sotto il suo comando, investì la piazzaforte di Capua che cinse d’assedio e costrinse alla resa in tre giorni (28-30 ottobre 1860), eliminando o catturando 10.000 soldati borbonici, impresa che gli valse la medaglia d’oro al valor militare. Il 20 gennaio 1861 fu nominato senatore.
La sua carriera militare, giunta al culmine, si concluse con la campagna del 1866, durante la quale ebbe il comando del III Corpo inquadrato nell’armata del Mincio agli ordini del re e di La Marmora. Durante la giornata di Custoza ebbe pesanti responsabilità, per la sua decisione di restare inattivo davanti a Villafranca secondo gli ordini ricevuti in precedenza, rifiutando ostinatamente (nonostante le richieste ricevute) di impegnare le proprie forze fresche in un contrattacco che avrebbe probabilmente evitato la sconfitta italiana.
Di fronte all’evolversi inaspettato della battaglia, Morozzo della Rocca diede in realtà prova di quella mancanza di iniziativa che contraddistinse tutto l’alto comando italiano e che, insieme al policentrismo del comando e alle gelosie tra generali, segnarono la sorte della terza guerra di indipendenza. Nonostante ciò, scrivendo molti anni dopo le proprie memorie (che sarebbero uscite postume), cercò di autoassolversi, indicando nell’insufficiente capacità di comando e coordinamento di La Marmora la vera causa dell’insuccesso e attribuendo piuttosto a se stesso il ruolo di chi aveva esortato il proprio (impreparato) comandante a resistere.
Morì nella sua residenza di Luserna San Giovanni (Torino) il 12 agosto 1897.
Opere: Autobiografia di un veterano, 2 voll., Bologna 1897-98; Id., Relazione sulle operazioni del Quinto Corpo d’Armata nella campagna dell’Umbria e delle Marche a S.E. il Generale Fanti, s.l. (estr. dalla Gazzetta Ufficiale del Regno, 1860, n. 253).
Fonti e Bibl.: E. Morozzo della Rocca - P. Pieri, Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni, Torino 1962, ad ind.; W. Bruyère-Ostells, La Grande Armée de la Liberté, Parigi 2009, ad ind.; Enc. Militare, s.v.; Enc. biografica e bibliogr. «Italiana», A. Malatesta, Ministri, deputati e senatori d’Italia dal 1848 al 1922, vol. II, s.v.