MORTE
di Maurice Bloch
Tutte le culture attribuiscono un'importanza centrale all'interpretazione dei processi dell'esistenza umana. Un rilievo particolare assumono al riguardo le rappresentazioni del processo riproduttivo e della morte, con le pratiche a esse associate; per questo motivo spesso si è indotti a credere che in tutte le culture il trattamento del cadavere (inumazione, cremazione, ecc.) abbia un grande rilievo. Sebbene ciò non sia sempre vero, come attestano gli studi sulle società di cacciatori e raccoglitori africane (v. Woodburn, 1982), tuttavia è innegabile che i riti funebri costituiscano un elemento significativo nelle culture della maggior parte delle civiltà.Questa circostanza è stata messa in evidenza sin dagli albori dell'antropologia, in parte perché tale disciplina ai suoi inizi comprendeva anche l'archeologia, che si è sempre interessata ai sepolcri e ai monumenti funerari, i quali costituiscono una parte tanto significativa dei reperti delle culture preistoriche. Gli inizi di un approccio antropologico alla morte e ai riti funebri più orientato in senso culturale o sociale si possono far risalire probabilmente all'antropologo svizzero Jacob Bachofen, il quale nel 1859 pubblicò uno studio dal titolo Versuch über Grabersymbolik der Alten, in cui metteva in luce, tra le altre cose, un aspetto che avrebbe affascinato gli antropologi per la sua apparente stranezza, ossia il legame tra riti funebri e culti della fertilità. I materiali di cui Bachofen si servì in questo studio erano attinti in prevalenza da fonti classiche, come ad esempio i culti misterici e i giochi funebri dell'antichità greca e romana.
In seguito autori quali Edward Tylor e James Frazer si interessarono anch'essi al tema della morte, ma più che sulle pratiche funerarie incentrarono la loro attenzione sulle credenze relative alla vita dopo la morte. In particolare, Tylor sostenne che la credenza nell'aldilà, a sua volta riconducibile al tentativo di comprendere il fenomeno dei sogni, è all'origine della religione.Tuttavia fu solo col famoso saggio dell'antropologo francese Robert Hertz, Contribution à une étude sur la représentation collective de la mort (v. Hertz, 1907), che venne formulata per la prima volta una vera e propria teoria generale sulle pratiche funerarie. Hertz era membro della "Année sociologique" diretta da Émile Durkheim, e sua preoccupazione principale fu di affermare il carattere non già individuale bensì sociale delle pratiche associate alla morte. Hertz seguiva in questo modo la paradossale tesi sostenuta dal maestro in Le suicide, secondo cui il suicidio, che spesso viene considerato il più privato degli atti, può essere in realtà studiato come un fatto sociale. Secondo Hertz lo stesso vale per le pratiche funerarie; ogni morte, infatti, comporta una rottura nell'ordine della società, e i riti funebri hanno il compito di sanare tale rottura, in parte attraverso il trasferimento e la redistribuzione delle posizioni di status e delle proprietà appartenute al defunto. I riti funebri inoltre contribuiscono a riordinare la memoria e a lenire il dolore, in quanto rappresentano in una storia coerente il viaggio dei defunti che si dipartono dai vivi. Tale viaggio è spesso concepito come lungo e complesso, e ciò si riflette anche nel fatto che i funerali spesso non si esauriscono in un unico rito, ma comportano un complesso di cerimonie che vanno dall'inumazione del cadavere alla mummificazione e alla decomposizione parziale. In questo saggio relativamente breve Hertz formula gran parte delle principali questioni di cui si occuperanno gli antropologi successivi.
La tesi di Hertz, secondo la quale la morte spesso non viene considerata come un evento che si verifica istantaneamente bensì come un lungo processo, può sembrare strana al lettore europeo, abituato a considerare la vita e la morte come due stati opposti in modo categorico, senza vie di mezzo. D'altro canto, in quei sistemi di idee tipici delle società tradizionali del Sudest asiatico che Hertz porta ad esempio, la morte è considerata essenzialmente solo una fase di un lungo processo che ha inizio prima che si verifichi l'evento 'morte' e continua molto dopo di esso. Così in uno studio intitolato in modo suggestivo A Bornean journey into death, che ha come oggetto una delle popolazioni del Borneo citate da Hertz, Peter Metcalf (v., 1982) dimostra che tutta una serie di riti funebri, alcuni dei quali si svolgono molto tempo dopo la morte e comportano la manipolazione del cadavere e altre pratiche, come ad esempio la caccia alle teste, hanno il compito di portare a compimento il viaggio del defunto, che si trasforma gradualmente in un'anima sempre più eterea e immateriale.
La complessità delle credenze relative al 'viaggio dentro la morte' e al suo legame con il processo opposto della vita può essere illustrata dalle credenze tradizionali dei Merina del Madagascar. Questi ritengono che l'individuo cambi gradatamente nel corso dell'esistenza. Dapprima, nell'infanzia, il corpo è umido e molle, le ossa sono ancora flessibili, la fontanella è "come una pozza d'acqua". Con la crescita, che avviene grazie alla benedizione degli antenati sepolti nella tomba di famiglia, si sviluppano gli elementi duri e asciutti del corpo, che per i Malgasci sono associati alla dimensione morale della persona e la attestano. Così l'individuo adulto è una mescolanza di elementi duri e asciutti, costituiti principalmente dalle ossa, e di elementi molli e umidi, costituiti principalmente dalla carne. Gradualmente, col passare del tempo, i primi acquistano la preponderanza, ma non in modo definitivo finché l'individuo è in vita. Al momento della morte, quindi, il corpo avrà sviluppato una grande quantità di materia asciutta e dura, ma avrà ancora alcuni elementi molli e umidi. Questi ultimi sono destinati a scomparire qualche tempo dopo la morte, con la putrefazione, e in questo modo si completerà il processo iniziato in vita. Per i Merina pertanto le trasformazioni del corpo nel corso dell'esistenza e dopo la morte sono parte di un unico processo più generale, rispetto al quale ciò che chiamiamo 'morte' non è che un episodio.Questa concezione della morte si riflette nelle cerimonie funebri dei Merina, che comportano una prima sepoltura temporanea del cadavere, immediatamente dopo la morte, affinché le parti umide e molli possano definitivamente asciugarsi; successivamente, trascorsi due anni o più, le parti asciutte, ossia le ossa, vengono esumate e seppellite nella tomba di famiglia, con una elaborata cerimonia di seconda sepoltura. I due funerali quindi segnalano e sanciscono il compimento del processo che ha avuto luogo in vita. Inoltre, il fatto che gli elementi duri e asciutti vengano deposti nella tomba di famiglia, come accade anche presso altri popoli, indica anche un altro cambiamento: il cadavere perde ogni individualità e il defunto va a fondersi con l'intera famiglia in un monumento destinato a durare in eterno (v. Bloch, 1971 e 1986), che diventerà fonte della benedizione degli antenati. Le ossa dei morti quindi generano quelle dei vivi, in una sorta di parziale reincarnazione; il processo attraverso il quale il cadavere si libera progressivamente della carne, delle parti molli e umide, è parte del processo di sviluppo del giovane, che segna la sua trasformazione in un individuo morale con una quantità crescente di elementi rigidi e asciutti, ossia di ossa, nel corpo (v. Bloch, 1986).
Il tentativo dei Merina di conservare determinate parti del corpo dei morti e di eliminarne altre dimostra in che misura le pratiche funerarie siano strettamente connesse alle concezioni relative alla natura del corpo. Nella Cina meridionale ad esempio, dove si crede che gli spiriti degli antenati sopravvivano, esercitando la loro benefica influenza, sotto forma di una tavoletta collocata nel tempio di famiglia, la disposizione del cadavere riveste una grande importanza, in quanto il posto esatto in cui esso sarà collocato influenzerà la sorte dei discendenti in modo neutro dal punto di vista morale (v. Watson e Rawski, 1988). Anche in Europa il trattamento riservato ai cadaveri degli antenati molto tempo dopo la morte può assumere una notevole importanza; in Grecia, i crani degli avi vengono riesumati e ripuliti, per essere conservati in speciali ossari di famiglia.
Oltre a queste pratiche di conservazione dei cadaveri ne esistono altre, prima fra tutte la cremazione, che sembrano avere esattamente il fine opposto. Le motivazioni che sono alla base di tali pratiche tuttavia possono essere molto diverse. Gli indù e i buddhisti considerano la cremazione l'ultimo stadio della rinuncia all'attaccamento al corpo e alle sue passioni, cui deve aspirare l'uomo pio e che, se riesce, porterà a una reincarnazione più positiva, o, meglio ancora, alla liberazione dal ciclo delle esistenze terrene e dalle sue inevitabili sofferenze. Nei funerali indù i corpi dei defunti vengono bruciati su una pira funebre; la persona più colpita dal lutto tra quanti partecipano al funerale deve spaccare il cranio del defunto mentre il cadavere brucia, al fine di liberare l'anima da ogni impedimento materiale. Nella città santa di Banaras in India migliaia di corpi vengono portati sulle sponde del Gange per essere cremati; le ceneri vengono poi disperse tra le acque del fiume come ulteriore atto di annullamento, nella speranza che il defunto raggiunga la liberazione finale dal ciclo delle rinascite (v. Parry, 1994).
La cremazione tuttavia può essere effettuata per motivi quasi opposti. Per gli antichi Greci, che coltivavano l'ideale di forza e di bellezza della gioventù, l'indebolimento del corpo non significava liberazione, come in India, bensì decadenza e ridicolo. Nell'Iliade, ad esempio, la morte ideale è perire in battaglia, nel fiore della giovinezza, senza che però il corpo resti sfigurato; perciò il nemico mira a profanare il cadavere dell'avversario, come ben illustra l'episodio di Achille che trascina col suo carro il corpo di Ettore tra il fango e le pietre attorno alle mura di Troia. In Grecia gli eroi fortunati che avevano trovato la morte in battaglia venivano cremati, affinché la memoria dei loro corpi perfetti non fosse contaminata dall'immagine del loro progressivo decadimento (v. Vernant, 1982).
In altre parti del mondo il trattamento riservato ai cadaveri riflette concezioni diverse. In Melanesia si crede che all'origine di ogni individuo vi sia uno scambio di doni di cui fanno parte anche i matrimoni e i pagamenti nuziali. Così i Gimi della Nuova Guinea (v. Gillison, 1993) credono che ogni persona sia il risultato di una combinazione tra le ossa, derivate dai membri del suo clan d'origine, e la carne, derivata dalle donne che appartengono invece a un clan estraneo. È a questa combinazione che si deve la vita di ogni individuo; con la morte, ossia con il disfacimento della persona, si ha una separazione tra gli elementi derivati dal padre e quelli derivati dalla madre. Questa credenza era alla base di una pratica cannibalistica: le donne erano obbligate a mangiare la carne dei morti in modo da liberare le ossa appartenenti ai membri del clan del coniuge. Così facendo esse si riprendevano ciò che avevano portato e ponevano fine all'alleanza tra clan incarnata dal corpo vivente. Questa fine dello scambio tuttavia segnava solo l'inizio della possibilità di nuovi scambi; il cannibalismo delle donne Gimi faceva sì che le ossa e la carne degli uomini potessero essere in ultimo simbolicamente 'riutilizzati' per creare i membri futuri del clan, attraverso nuove alleanze con altre donne.
Assai spesso, come abbiamo visto nel caso dei Merina e dei Greci moderni, la tomba non è tanto il luogo di sepoltura del singolo individuo quanto piuttosto il sito in cui vengono riunite le spoglie dei membri di una grande famiglia o di un intero lignaggio. Le tombe, in questo caso, diventano spesso simbolo dell'unità familiare. Inoltre, per il loro carattere permanente, le tombe possono diventare il punto focale del legame tra i vivi e una particolare area o territorio o paese, attraverso la presenza dei defunti che vi sono sepolti. Si tratta di un tema che ricorre in molte regioni dell'Europa e dell'Africa. Questo legame spiega anche l'importanza cruciale che assumono i luoghi di sepoltura per i movimenti nazionalistici: la loro riconquista può essere presentata come una motivazione delle lotte per l'indipendenza, e viceversa la distruzione delle tombe dei precedenti abitanti può costituire un modo teatrale di abolirne la memoria stessa.
Per motivi analoghi gli emigranti assai spesso attribuiscono grande importanza al fatto che i loro corpi vengano restituiti ai luoghi d'origine. Così gli immigrati dalla Corsica nelle Americhe spendono somme ingenti per costruire grandiose tombe di famiglia, spesso situate al centro delle terre dei loro avi anziché in cimiteri consacrati come richiederebbe la Chiesa cattolica. Questa pratica ha trasformato certe zone della Corsica in vere e proprie necropoli.Spesso l'aspetto delle tombe segnala lo status sociale del defunto. Nell'Ottocento e nel Novecento le grandiose cripte della borghesia francese avevano la funzione di attestare il successo sociale di chi vi era sepolto; per contro, il timore di finire nella fossa comune dei poveri diventava una vera e propria ossessione. Per questa ragione in tutta Europa, e specialmente in Inghilterra, le cooperative e le compagnie di assicurazione si proposero sin dall'inizio di assicurare una sepoltura decorosa ai propri affiliati proletari.
Al vertice della scala sociale i potenti sono celebrati col massimo fasto in grandiosi monumenti, quali il Taj Mahal in India o le Piramidi nell'antico Egitto, nella cui costruzione sembra sia concentrata la maggior parte delle risorse della società. Arrivando al vertice dell'ordinamento sociale, di solito, come nei due casi menzionati, i monumenti funerari non ospitano gruppi familiari ma singoli individui. Ciò annulla il carattere spersonalizzante di molti riti funebri, e l'individualità di una particolare persona viene trasformata in un aspetto durevole del paesaggio politico e sociale. I funerali in questo caso non sono più diretti a trasformare il corpo in qualche altra entità, bensì a preservarlo come parte del monumento, spesso mediante l'imbalsamazione. Ne sono un esempio le piramidi dei faraoni, ma anche monumenti funebri quali il mausoleo di Lenin. Una conseguenza inevitabile di questa pratica è che la reputazione politica successiva di tali personaggi può influenzare il modo in cui vengono trattati i monumenti in cui sono sepolti.
I funerali non sono solo cerimonie in cui si dispone dei resti materiali dei defunti; in molte culture sussiste la credenza che dopo la morte permanga un elemento immateriale, ciò che siamo soliti chiamare 'anima'. Le credenze relative al destino dopo la morte sono spesso assai incerte e contraddittorie. Alcuni ritengono che i morti passino in un altro mondo, ma continuino a tormentare i vivi sotto forma di fantasmi. Gli Indiani del Sudamerica, come del resto molte altre popolazioni, credono che i morti abitino un mondo che è un'immagine speculare di quello dei vivi, sicché ad esempio i defunti coltivano la terra esattamente nei mesi che i vivi dedicano al riposo. In alcune culture si crede nell'esistenza non di una singola anima, ma di una pluralità di anime, che sopravvivono tutte alla morte in modi differenti e avranno diverse destinazioni. La funzione dei riti funebri può essere quella di guidare le anime - o l'anima se si crede nell'esistenza di una singola anima - verso tali destinazioni. Molte comunità melanesiane (v. Damon e Wagner, 1989) credono che le anime si reincarnino nei futuri membri del gruppo, e le elaborate cerimonie funebri hanno come scopo principale quello di assicurare la riuscita di tale processo. In altre culture i riti funebri hanno la funzione di guidare l'anima in un lungo e pericoloso viaggio, spesso verso una qualche sorta di paradiso. Il famoso Libro tibetano dei morti è precisamente la descrizione di tale viaggio e una guida per l'anima che lo affronta. Non di rado però i riti funebri non hanno tanto lo scopo di assicurare un approdo sicuro delle anime nell'aldilà, quanto piuttosto quello di evitare che esse disturbino i vivi. In effetti molte delle offerte nelle cerimonie funebri sono destinate a scongiurare il pericolo che l'anima indugi tra i vivi sotto forma di spirito, o che causi altri tipi di disagio (v. Goody, 1962). Ciò vale non solo per i riti funebri, ma anche per molte di quelle pratiche che vengono definite 'culto degli antenati'. Questo può configurarsi come richiesta di benedizione da parte degli avi, o di invocazione di una punizione per le cattive azioni commesse dai discendenti; tuttavia questi aspetti del culto degli antenati non rivestono l'importanza che, influenzati dall'ottica giudaico-cristiana, siamo portati ad attribuire loro, dimenticando che spesso le anime dei defunti sono considerate capricciose e invidiose dei vivi e dei loro piaceri. Il culto degli antenati diventa allora una reazione al ricatto da parte dei morti, cui vengono offerti sacrifici affinché si allontanino. Questa componente si ritrova anche in alcune religioni universali, come ad esempio il buddhismo. Nel buddhismo Bon, diffuso in Giappone, esiste una festa annuale in cui si invitano le anime dei defunti a visitare le dimore dei discendenti presentando loro una serie di offerte; ma dopo tre giorni tali offerte vengono portate presso un torrente che scorre lontano dall'abitazione dei vivi, in modo che i defunti si allontanino per seguire i doni, almeno sino alla prossima festa.
Anche nei paesi in cui non esiste il culto degli antenati il rapporto con i morti può essere estremamente ambiguo. Spesso si crede che sussista uno stretto rapporto tra lo stato del corpo e il destino dell'anima. Così, ad esempio, in molti paesi europei l'odore gradevole o sgradevole emanato dal cadavere dopo la morte viene considerato un segno sicuro del fatto che l'anima andrà in cielo oppure all'inferno. Ancora, l'assenza di fenomeni di putrefazione in un cadavere era spesso interpretata in passato come un segno dell'assenza di corruzione (sia fisica che morale) del defunto; questi allora veniva considerato un santo la cui anima era andata diritta in cielo. In Portogallo, tuttavia, lo stesso fenomeno poteva anche significare che il defunto era stato un gran peccatore la cui anima era rimasta attaccata al corpo; ciò dava luogo ad accese discussioni che spesso venivano risolte mediante la bizzarra pratica di frustare il cadavere: se il corpo si decomponeva significava che si trattava di un peccatore, in caso contrario di un santo (v. Pina-Cabral, 1980).
Altrettanto varie quanto le credenze relative all'anima e al suo destino sono quelle relative alle cause della morte. Molte culture, soprattutto quelle in cui dominano le religioni semitiche, hanno miti che parlano di un tempo in cui la morte non esisteva, e ne spiegano la comparsa con un peccato originale compiuto da un antenato - anche se non è mai ben chiaro in che misura questi miti vengano ritenuti veri, o costituiscano invece una sorta di speculazione intellettuale. Più direttamente legata a preoccupazioni pratiche è la credenza, diffusa in Africa e in Sudamerica, che la morte sia da attribuire alla malevolenza degli uomini, spesso a una stregoneria. Alla morte di ogni individuo deve far seguito una pratica divinatoria per individuare il responsabile, oppure un atto di vendetta. In altre culture invece la morte è sempre causata da un dio che agisce come una forza impersonale, e di conseguenza non richiede pratiche del genere.
Anche il suicidio viene interpretato in modi assai diversi nelle varie culture. Nella Francia medievale ad esempio la morte per suicidio era ritenuta talmente immorale che per essa non veniva officiato alcun rito funebre in chiesa. In Giappone per contro il suicidio era considerato un atto onorevole in molte circostanze. In altri paesi esso è ritenuto la conseguenza inevitabile di determinate condizioni sociali e fisiche (v. Catedra, 1992). In India le vedove che si sacrificano sulla pira funebre del consorte sono spesso ricordate e celebrate come sante, e il luogo in cui si è consumato quest'atto di devozione coniugale è fonte non solo di ispirazione, ma anche di guarigione.
In molte culture la morte dei bambini, degli anziani e delle persone senza figli è considerata in modo diverso rispetto alla morte di altre categorie di individui. In varie parti del mondo, come ad esempio nella Cina rurale, i bambini non vengono considerati esseri umani compiuti, e di conseguenza l'infanticidio è largamente tollerato; uccidere un bambino è ritenuto ben diverso che uccidere un adulto. L'infanticidio in genere riguarda le figlie femmine, e ciò può determinare significativi squilibri tra i due sessi nella popolazione adulta. Sempre legato alla credenza che i bambini non siano esseri umani pienamente sviluppati è il fatto che in molte culture, come ad esempio quelle dell'Africa subsahariana, la morte dei neonati non è segnata da particolari riti. Lo stesso accade in molti casi per le persone senza figli, che si ritiene non abbiano raggiunto un pieno status sociale. In queste stesse società, per contro, la morte degli anziani che hanno avuto molti figli è spesso occasione di elaborate cerimonie in cui alle manifestazioni di dolore per la morte della persona si accompagna la gioiosa celebrazione dei suoi successi.
La diversità delle emozioni manifestate nei differenti tipi di riti funebri solleva il problema centrale del rapporto tra morte ed emozioni. Sarebbe un errore pensare che i funerali siano solo un'occasione di tristezza. Spesso i riti funebri, oltre che celebrare la fine della vita, hanno la funzione di organizzarne e illustrarne la continuazione e rigenerazione. Ciò spiega perché l'idea della fertilità e della crescita sia spesso intrecciata alla rappresentazione della morte e della corruzione (v. Bloch e Parry, 1982).In tutte le culture la morte è causa di dolore, ma non sempre questo viene manifestato pubblicamente. In Madagascar la morte dei figli può suscitare un intenso dolore nei genitori, ma questo non viene manifestato in forme istituzionalizzate. In altri luoghi sembra che, in certe situazioni, la morte dei figli non sia necessariamente causa di dolore. Nancy Sheper-Hughes (v., 1992) ad esempio ha sostenuto che nelle favelas brasiliane i genitori sono così avvezzi alla morte dei figli che esternamente non manifestano alcuna emozione, e forse non ne provano affatto. La manifestazione pubblica del dolore per contro può essere organizzata secondo schemi obbligati, ma non è dato sapere quali effetti abbia tale istituzionalizzazione sulle emozioni individuali. Certe manifestazioni emotive che in Europa sono considerate spontanee e individuali, come ad esempio il pianto, possono essere orchestrate - come avviene nei paesi mediorientali e in molte altre parti del mondo - e affidate a un particolare gruppo, in genere di donne. Lo stesso discorso vale per l'usanza di segnalare il lutto attraverso l'aspetto esteriore. Radersi il capo o al contrario lasciarsi crescere disordinatamente i capelli, oppure ancora indossare particolari capi di vestiario per un determinato periodo sono alcuni dei modi di segnalare il lutto. In molti casi sembra che ciò che si richiede a chi è in lutto sia non solo di mostrare esteriormente il proprio dolore, ma anche di prendere su di sé parte della contaminazione comportata dalla decomposizione. In molte parti della Melanesia, ad esempio, alle vedove non è consentito lavarsi per un certo periodo dopo la morte del coniuge.
Di frequente nei riti funebri si osserva un netto contrasto tra il comportamento improntato al dolore e alla tristezza che ci si aspetta dai parenti più stretti del defunto, e quello dei parenti più lontani, il cui ruolo non è tanto quello di condividere tali sentimenti, quanto piuttosto di mostrare solidarietà. Ciò spiega perché le veglie funebri, per quanti non sono direttamente colpiti dal lutto, siano un'occasione in cui si canta, si danza e si gioca d'azzardo - attività, quest'ultima, stranamente associata al lutto.
La morte influisce sui vivi anche in altri modi. Lo status sociale e le proprietà del defunto devono essere trasmessi a un successore, e i funerali possono essere la cerimonia che sancisce tale trasferimento. Ciò vale in particolare per i funerali dei sovrani, i quali spesso comportano lunghi rituali che sono parte integrante dell'incoronazione del successore. Nell'antica Roma si usava bruciare in pubblico effigi in cera dell'imperatore defunto, ma nello stesso tempo veniva liberata un'aquila per simboleggiare l'ascesa in cielo dell'anima del morto, primo stadio della sua trasformazione in divinità. In certe società africane i funerali del sovrano sono occasione di cerimonie a livello nazionale durante le quali si inscenano drammi cosmici in cui tutti i sudditi e la natura sembrano morire con il loro re, per poi rinascere con il successore; tali cerimonie coinvolgono a intervalli tutta la popolazione per periodi spesso assai lunghi, a volte per più di un anno (v. Adler, 1982).
Più concreti e assai più comuni sono i problemi comportati dall'eredità, che tuttavia si presentano solo in alcune società e solo per alcuni beni; la distruzione delle proprietà del defunto infatti è altrettanto comune della loro trasmissione agli eredi. Spesso la distruzione degli oggetti personali e della casa del defunto segna la fine dei riti funebri. Ciò vale in particolare, a quanto sembra, per i gruppi marginali quali le società di cacciatori e raccoglitori dell'Africa e dell'Asia, o gli zingari europei, tra i quali vi è l'usanza di distruggere o perlomeno di evitare le proprietà del morto. Così, nel suo studio sugli zingari francesi Patrick Williams (v., 1993) descrive come questi distruggano parte delle proprietà del defunto e, paradossalmente, ne mantengano viva la presenza evitando ostentatamente altre cose che gli erano appartenute, ad esempio astenendosi dal cantare le sue canzoni favorite o dal menzionare la sua persona.
Il trasferimento dei beni può essere effettuato prima della morte del proprietario, come avviene in alcune famiglie contadine, in cui la terra viene trasmessa ai figli quando gli anziani non sono più in grado di lavorarla. Più di frequente tuttavia la trasmissione ereditaria avviene dopo la morte, a volte molto dopo di essa, come nel caso delle famiglie congiunte indiane, in cui la divisione tra gli eredi può essere procrastinata il più a lungo possibile al fine di mantenere uniti i fratelli. Possono esistere regole precise in merito alla successione ereditaria, che stabiliscono se l'eredità spetti a tutti i figli o solo ad alcuni di essi. A volte un certo tipo di beni è riservato ai figli maschi e un altro tipo alle femmine. In molti paesi tuttavia, come ad esempio nel Madagascar, non esistono regole precise; in questo caso hanno valore vincolante le ultime volontà del defunto, espresse in un testamento o con le 'ultime parole'.
In diverse società i problemi legati all'eredità acquistano un peso notevole; le liti per la successione ereditaria possono creare inimicizie che coinvolgono tutti i parenti del morto, bloccando altresì importanti risorse che restano a lungo inutilizzate. In alcune parti del mondo si attribuisce importanza non tanto al valore materiale dei beni ereditati, quanto piuttosto al loro valore simbolico. Così ad esempio in molte società del Sudest asiatico i beni trasmessi agli eredi - in genere si tratta di ceramiche e oggetti in rame - diventano il simbolo stesso della continuità del lignaggio o della famiglia, e rappresentano pertanto il legame tra i vivi e i morti.
Gli atteggiamenti nei confronti della morte nel XX secolo sembrano aver conosciuto una duplice evoluzione. Da un lato i massacri su vasta scala della prima guerra mondiale e la razionalizzazione della macchina di sterminio nei campi di concentramento nazisti del secondo conflitto mondiale sembrano aver conferito un'importanza centrale ai luoghi di commemorazione dei defunti, tanto che i monumenti ai caduti occupano uno spazio privilegiato in molte città e villaggi, e diventano il centro di cerimonie simboliche a livello locale e nazionale.
Dall'altro lato in alcune società industrializzate - soprattutto negli Stati Uniti e nell'Europa occidentale - sembra si sia andata affermando la tendenza a evitare il contatto con la morte. Si preferisce non essere presenti quando questa si verifica, e i moribondi vengono allontanati negli ospedali e negli ospizi, dove a prendersi cura di loro sono anonimi professionisti anziché i parenti. Analogamente i medici, spesso con la connivenza dei familiari, cercano di nascondere al moribondo l'imminenza della morte, e ciò a volte dà luogo a complicate finzioni in cui tutti sanno come stanno realmente le cose, ma nessuno lo ammette. Questa rimozione della morte si estende anche a chi per professione si trova ad avere a che fare quotidianamente con essa. Un recente studio antropologico, ad esempio, ha dimostrato che gli studenti di medicina si abituano alla vista dei cadaveri che devono dissezionare, ma nello stesso tempo attuano una forma di rimozione facendoli oggetto di macabri scherzi.
Non solo si cerca di ignorare il processo della morte, ma i parenti del morto si mostrano anche restii a vedere i cadaveri a meno che non siano stati in qualche modo imbalsamati, così da non dover assistere ai fenomeni della decadenza e della corruzione del corpo. Ciò spiega la diffusione della cremazione nei paesi dell'Europa settentrionale e negli Stati Uniti, in cui tale pratica ha soppiantato quasi interamente la sepoltura. Un caso estremo sono i tentativi di conservare il corpo attraverso l'ibernazione, nella vana speranza che i futuri progressi della scienza medica rendano possibile una qualche forma di resurrezione. Tali pratiche sono state ben descritte nel libro per certi versi divertente di Nancy Mitford, The American way of death, e sono stati studiati nel più ampio contesto della storia occidentale da Philippe Ariès.
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di Carlo Alberto Defanti
Se la bioetica è, come recita la definizione dell'opera staminale della disciplina, l'Encyclopedia of bioethics (v., 1978-1982), "lo studio sistematico della condotta umana nell'ambito delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta è esaminata alla luce di valori e di principî morali", può essere legittimo domandarsi se la riflessione sulla morte appartenga a pieno titolo al campo della bioetica. Infatti, mentre è ovvio che i problemi connessi alle ultime fasi della vita, cioè al processo del morire, sono per la bioetica di rilievo capitale (si pensi solo alla questione delle cure palliative, dell'accanimento terapeutico e dell'eutanasia), non è altrettanto evidente l'importanza dell'analisi del concetto di morte per la disciplina. In realtà la riflessione teorica sulla morte ha svolto nel processo di fondazione e di sviluppo della bioetica un ruolo cruciale, come brevemente si mostrerà in questa trattazione.
Contrariamente a un'opinione abbastanza diffusa, i dubbi sul momento della morte non sono nati in questo secolo, con lo sviluppo della rianimazione, ma sono assai antichi. Se ripercorriamo i cinque secoli che hanno visto lo sviluppo della medicina moderna, vediamo che per un periodo abbastanza lungo, sia in ambito medico che in seno all'opinione pubblica, sono persistiti gravi dubbi riguardo alla possibilità di riconoscere tempestivamente la morte senza attendere i fenomeni putrefattivi. In particolare verso la metà del Settecento si era diffusa in Europa una vera e propria ondata di timor panico della morte apparente e del seppellimento prematuro, in seguito alla quale furono decise dalle autorità politiche misure come l'osservazione prolungata dei cadaveri in luoghi appositi, gli obitori, e più tardi l'introduzione del certificato medico di morte obbligatorio. I racconti terrificanti di Edgar Allan Poe, scritti alcuni decenni dopo, testimoniano bene questi sentimenti.La paura della morte apparente si attenuò poi gradualmente nel corso dell'Ottocento, man mano che le conoscenze mediche progredivano e cresceva la fiducia nei medici e nella medicina, senza peraltro mai scomparire del tutto, e si ripresentò sotto altra forma quando, sul finire del secolo e poi nel primo Novecento, vennero messe a punto le prime, rudimentali tecniche di respirazione artificiale. Queste tecniche infatti resero a tutti evidente che l'arresto del respiro, uno dei capisaldi della diagnosi tradizionale di morte, non era una condizione irreversibile. Il timore della morte apparente rinacque così con forza: risale a questo periodo la fondazione, in ambito anglosassone, di movimenti quali la Società per la prevenzione del seppellimento prematuro.
Alla fine degli anni cinquanta nei reparti di rianimazione si cominciò a osservare una situazione clinica del tutto nuova: soggetti colpiti da lesioni gravissime del cervello, sottoposti a terapia intensiva, cominciarono a sopravvivere per qualche giorno alla cessazione definitiva e totale delle funzioni encefalitiche. In questi pazienti non vi era più alcun segno di attività cerebrale, pur persistendo la respirazione (assistita dal ventilatore meccanico) e la circolazione. Si trattava di un quadro clinico mai osservato prima di allora, in quanto erano mancate in precedenza le condizioni perché esso si manifestasse, vale a dire la possibilità di sostituire, almeno per qualche tempo, il controllo che l'encefalo normalmente esercita sulle funzioni vegetative (e in particolare sulla respirazione). Alcuni anni dopo la prima descrizione di questo stato peculiare, denominato nell'articolo originale (v. Mollaret e Goulon, 1959) "coma dépassé", cioè stato al di là del coma, un autorevole comitato di medici dell'Università di Harvard (v. Ad hoc Committee of..., 1968) propose di considerare questo stato, definito "coma irreversibile o sindrome della morte cerebrale", come il nuovo criterio di morte.Tale proposta incontrò negli anni seguenti un crescente favore negli ambienti medici e fu poi recepita nella legislazione dei maggiori paesi dell'Occidente, mentre trova tuttora resistenze in culture diverse, come quelle del Medio ed Estremo Oriente. Va detto però che l'accettazione da parte degli organismi medici ufficiali e degli organi legislativi non significa necessariamente che non vi siano state e non persistano anche oggi, in diversi ambienti sociali, dubbi o franca ostilità. Sembra quasi che l'antico timore della morte apparente e del seppellimento prematuro si sia ora trasformato nel timore di essere dichiarati morti prima del tempo e di non essere quindi più assistiti o, peggio, di essere usati come sorgente di organi da trapiantare: una paura che ricorda il panico per il fenomeno del furto di cadaveri (bodysnatching) nell'Inghilterra del primo Ottocento.
Uno dei primi a cogliere la novità della situazione creata dallo sviluppo medico, ancor prima del lavoro di Mollaret e del documento del Comitato di Harvard, era stato papa Pio XII, che aveva affermato: "Ci si domanda allora se si debba, o se si possa, proseguire il tentativo di rianimazione, benché l'anima abbia forse già abbandonato il corpo" (v. Pio XII, 1957). In questa frase del pontefice si trova espressa una questione fondamentale che possiamo così riformulare: se possiamo intervenire attivamente ed efficacemente nel processo del morire, talora contrastandolo e restituendo l'organismo alla vita, ma talaltra solo prolungandolo nel tempo, inevitabilmente dobbiamo interrogarci sulla liceità di intervenire o di proseguire l'intervento quando ci rendiamo conto che nel processo in atto non vi sono margini di reversibilità.
Quanto al documento del Comitato di Harvard, da una sua rilettura attuale emerge chiaramente che esso propose un punto di vista, certo assai autorevole, ma non presentò, in senso stretto, alcun nuovo dato scientifico. È sorprendente il fatto che in molti ambienti, specie medici, sia tuttora diffusa la convinzione che il concetto di morte cerebrale sia un mero portato dello sviluppo scientifico. In realtà il Comitato propose una scelta di ordine squisitamente etico, in base a considerazioni pragmatiche chiaramente esplicitate. Basti citare questo passo del documento: "Due sono le ragioni per cui è necessaria una definizione: 1) gli avanzamenti nelle tecniche di rianimazione e di mantenimento in vita hanno condotto a crescenti sforzi per salvare coloro che sono stati colpiti in modo disperato. Talvolta questi sforzi hanno solo un successo parziale, così che accade di avere un individuo il cui cuore continua a battere anche se il cervello è irreversibilmente danneggiato. Il sacrificio è grande per i pazienti che hanno permanentemente subito la perdita dell'intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali e per coloro che aspettano che si liberi un letto nei luoghi di degenza; 2) i criteri obsoleti per la definizione della morte possono portare a controversie per quanto riguarda il reperimento degli organi" (v. Ad hoc Committee of..., 1968).
Malgrado il suo successo 'pratico', la proposta di Harvard ha suscitato un vivace dibattito sul piano teorico-filosofico in ambito internazionale. La mancanza di riferimenti a tale discussione costituisce una lacuna di gran parte della letteratura italiana, che sembra dare per scontata un'unanimità sull'argomento che invece di fatto è inesistente. Infatti, nonostante la tesi del Comitato di Harvard sia ben argomentata e difendibile, bisogna riconoscere la legittimità di opinioni diverse in materia. A questo proposito il dibattito internazionale vede gli autori fondamentalmente schierati su tre posizioni.Secondo la prima, che possiamo definire 'conservatrice', non è opportuno modificare il concetto tradizionale di morte (basato sull'arresto del circolo e del respiro o, detto in altri termini, sull'arresto della circolazione dei fluidi corporei) per diverse ragioni: anzitutto si introdurrebbero margini di incertezza, in un campo in cui deve invece esserci il massimo di verificabilità e di sicurezza; in secondo luogo non sembra lecito accertare la morte dell'uomo con criteri diversi da quelli che valgono per tutte le altre forme viventi; si teme infine che la nuova definizione della morte apra la via all'uso strumentale del cadavere o delle sue parti (come di fatto è avvenuto con la pratica del trapianto). La definizione, cioè, sarebbe fittizia e intesa unicamente a facilitare il prelievo di organi. Questa posizione è stata autorevolmente sostenuta, tra gli altri, dal filosofo Jonas (v., 1982) e più di recente da Seifert (v., 1993). Anche un filosofo di impronta utilitaristica, radicalmente favorevole alla pratica del trapianto, come Harris (v., 1992), ha sostenuto che il problema della reperibilità degli organi va affrontato individuando il momento in cui l'espianto non nuoce più alla persona (e questo momento corrisponde secondo lui all'arresto definitivo delle funzioni dell'encefalo) piuttosto che cambiando la definizione della morte.Le altre due posizioni sono invece favorevoli al cambiamento del concetto di morte, ma si distinguono fra loro per il tipo di motivazione: secondo il primo punto di vista, che è stato argomentato in modo esauriente dal neurologo Pallis (v., 1983) e dal filosofo Lamb (v., 1985) e che può essere caratterizzato come teoria della morte del tronco encefalico (brainstem death), la morte cerebrale si identifica con la morte dell'individuo, in quanto il cervello è il centro integratore dell'intero organismo e la sua distruzione rappresenta la definitiva perdita della capacità dell'organismo di funzionare come un tutto. Secondo Pallis e Lamb, il fatto decisivo è l'arresto di una vita fisiologica integrata e il locus specifico della morte è il tronco encefalico, sede di integrazione delle attività vegetative. La posizione alternativa, nota come teoria della morte corticale, argomenta invece che il 'nocciolo' della morte è l'irreversibile perdita della capacità di coscienza e il locus specifico della morte sono gli emisferi, o meglio la corteccia cerebrale.Entrambe le teorie concordano sull'opportunità di stabilire l'equazione morte = morte cerebrale, ma differiscono radicalmente tra loro secondo il livello (rispettivamente fisiologico e psicologico) che ritengono decisivo. Un'importante conseguenza della teoria della morte corticale è che in base a essa si può considerare morto non solo l'individuo che ha subito la distruzione totale del cervello (morte cerebrale totale), ma anche chi è stato vittima di una lesione distruttiva degli emisferi cerebrali con risparmio del tronco encefalico. Questi soggetti sono definitivamente privati di ogni capacità mentale, mentre conservano le funzioni vegetative, e in particolare il respiro, il cui substrato anatomico è il tronco. Si tratta dei pazienti che si trovano nel cosiddetto 'stato vegetativo persistente'. Tra i fautori di questa concezione ricordiamo alcuni filosofi americani, quali Engelhardt (v., 1986) e Veatch (v., 1989²). Essi propongono di spostare l'accento sulla morte della persona, intesa come cessazione definitiva della sua attività psicologica.Va detto che esiste poi una quarta versione della teoria della morte cerebrale, sostenuta dalla Commissione presidenziale degli Stati Uniti (v. President's Commission..., 1981), versione che accoglie le istanze delle due precedenti e probabilmente per questo motivo ha trovato ampio seguito in Occidente. Essa può essere descritta come teoria della morte cerebrale totale (whole brain death) e richiede come criterio la cessazione completa di tutte le funzioni dell'encefalo. Il locus della morte diviene così l'encefalo in toto. Su questa concezione si basano i criteri pratici di accertamento della morte nella maggior parte dei paesi, compreso il nostro.
Coloro che propongono il concetto di morte cerebrale ritengono che essa è del tutto equivalente alla morte tout court basandosi essenzialmente su due argomentazioni.
Secondo la prima, la morte cerebrale equivale alla morte in quanto in essa si realizza la distruzione irreversibile del 'sistema critico' dell'organismo, cioè dell'encefalo; viene ritenuto critico il sistema che è insostituibile e al tempo stesso fondamentale per le caratteristiche comportamentali dell'individuo. L'encefalo è un buon candidato a questo ruolo, in quanto provvede a integrare sia le funzioni vegetative, sia le funzioni della vita di relazione. La seconda argomentazione sostiene invece che la morte è perdita del funzionamento integrato dell'organismo (e in particolare del tripode cuore-polmoni-encefalo); il venir meno della funzione cerebrale, in un contesto rianimatorio, è segno di morte, così come lo è il venir meno della funzione cardiopolmonare nei contesti 'ordinari'. Un'obiezione forte che si può avanzare contro questo argomento è la seguente: non solo la funzione cardiaca e quella respiratoria, ma (in un futuro non lontano) anche una parte delle funzioni dell'encefalo, e precisamente le funzioni omeostatiche del tronco encefalico, saranno probabilmente sostituibili. Quando ciò avvenisse, quale sarebbe il 'segno di morte'? Secondo entrambe le argomentazioni il fenomeno morte nella sostanza non è cambiato: la sostituzione funzionale, operata dalla moderna tecnologia, ha svelato qualcosa che stava 'nascosto', la centralità del cervello (nella prima tesi) oppure il suo ruolo di 'segno' del tutto (nella seconda tesi). Altri studiosi, cioè i sostenitori della morte corticale, affermano invece che il fenomeno e il concetto di morte sono cambiati: la tecnologia ha permesso la sostituzione (integrale) delle funzioni cardiorespiratorie e promette la sostituzione delle funzioni omeostatiche del tronco encefalico; dunque assicura (o assicurerà) il permanere del funzionamento dell'organismo come un tutto anche dopo la distruzione dell'encefalo, e ciononostante non potrà impedire la morte della persona. Diventa chiaro, secondo questa prospettiva, che il problema della definizione/ridefinizione della morte assume una dimensione fondamentalmente etica: si tratta di decidere se ciò che realmente conta sia il livello fisiologico oppure il livello psicologico dell'uomo. Secondo questo punto di vista, il 'nocciolo' della morte cerebrale non è la perdita del sistema critico o del funzionamento integrato dell'organismo, bensì la perdita irreversibile e completa di ciò che caratterizza l'uomo come tale, cioè la capacità di coscienza.
Alla tesi della morte corticale sono state mosse obiezioni di diverso tipo che possono essere così riassunte.
1. Vi sono attualmente considerevoli difficoltà (sia teoriche, sia empiriche) a diagnosticare con certezza la perdita completa e definitiva della capacità di coscienza. In effetti notevoli sono ancor oggi le incertezze sulla precisa localizzazione corticale delle funzioni mentali, e anzi non è chiaro neppure il ruolo rispettivo della corteccia e delle strutture diencefaliche; la coscienza non può essere considerata funzione di un centro nervoso ben definito. Un altro problema di ordine empirico riguarda la difficoltà di dimostrare, in maniera inequivocabile, che l'arresto funzionale è irreversibile (in pratica si rende necessario, attualmente, un lungo periodo di osservazione, dell'ordine di diversi mesi).
2. Un'obiezione non meno forte al concetto di morte corticale è quella secondo cui questo concetto potrebbe costituire uno slippery slope (una china pericolosa). Infatti, sostengono gli oppositori, una volta abbandonato il terreno biologico, non sarebbe difficile estendere il concetto di morte dallo stato vegetativo persistente (in cui l'assenza delle funzioni mentali è completa) ad altri stati psicologici anormali, quali la demenza avanzata o il ritardo mentale profondo.
Alle diverse obiezioni i teorici della morte corticale replicano con argomenti che non possono essere sviluppati in questa sede, salvo per quel che attiene al pericolo di una indebita estensione del concetto: a questa obiezione essi rispondono che l'estensione del concetto di morte corticale ad altri stati non discende per nulla da una definizione rigorosa della morte (cessazione completa e irreversibile di ogni attività corticale), ma potrebbe essere solo una conseguenza perversa nella prassi qualora la concezione fosse accettata a livello giuridico senza adeguate garanzie di accertamento e senza adeguate sanzioni in caso di travisamento.
Gli argomenti pro e contro il concetto di morte corticale indicano l'esistenza di un dibattito vivace che non può considerarsi concluso. Sembra comunque che, allo stato attuale delle conoscenze, tale concetto non sia introducibile nella pratica, sia perché non si è per ora raggiunto un ampio consenso su di esso, sia perché vi sono notevoli problemi di accertamento diagnostico. Tali problemi sono stati invece completamente risolti per quanto riguarda il concetto di morte cerebrale 'totale' ed è questa una delle ragioni principali del suo successo pratico.
Abbiamo visto come, nella storia della bioetica, il dibattito sulla definizione della morte dell'uomo abbia fatto emergere importanti risvolti morali. In una definizione di ordine generale, non ristretta all'ambito medico, la morte è equiparata alla cessazione della vita, dell'esistenza.La morte è dunque definita, per negazione, in rapporto alla vita. Questa opposizione rischia però di farci cadere in un errore di circolarità, se solo si pensa che alcune definizioni della vita, come quella di Bichat (v., 1800), si basano proprio sul contrasto con la morte: "La vita è l'insieme delle funzioni che contrastano la morte". Orbene, la definizione della vita è estremamente sfuggente e rappresenta un problema classico, sempre irrisolto, della filosofia. Infatti, mentre non è difficile intendersi quando si parla di oggetti concreti e si distinguono i viventi dai non viventi, sorgono gravi difficoltà quando si cerca una definizione che non soffra di eccezioni. Basti accennare al caso dei virus, particelle relativamente semplici, incapaci di attività metabolica e di riprodursi se non nell'ambito di una cellula estranea: essi mancano di alcune proprietà che normalmente si ritengono indispensabili ai viventi, quali appunto il metabolismo e la capacità riproduttiva.
È stato da molti suggerito, per superare le difficoltà, di rinunciare a una definizione generale, 'forte', di vita. Da questa rinuncia discende però la correlativa difficoltà o impossibilità di definire la morte in generale. Probabilmente l'unico modo di uscire dall'impasse sta nel riconoscere che il concetto di morte non è definibile in modo rigoroso, sulla base di condizioni necessarie e sufficienti, bensì appartiene alla famiglia dei concetti che Wittgenstein chiama 'aperti' e che sono essenzialmente 'strumenti' (tools) da usare nel discorso sociale e nelle interazioni umane.
Se tentiamo di enucleare alcuni elementi fondamentali di una corretta definizione di morte dell'uomo, seguendo in parte l'analisi di Ladd (v., 1979), tre sembrano essere in primo piano: due di essi hanno carattere formale, il terzo attiene alla sostanza. Il primo è quello dell'irreversibilità del fenomeno (non ci può essere reversibilità della morte; se apparentemente questa si verifica, come in molti casi di arresto cardiaco, ciò significa solamente che l'arresto cardiaco non costituisce l'essenza del fenomeno). Il secondo è quello della sua natura 'puntiforme' o istantanea: la morte è un evento che deve essere possibile situare (più o meno esattamente) nel tempo: ciò non significa negare che vi sia in realtà un processo, talora lungo e complicato, attraverso il quale si giunge alla morte (il processo del morire), ma semplicemente che è necessario poter individuare, almeno teoricamente, un 'punto di non ritorno'. Il terzo requisito è che la definizione, per quanto imprecisa, colga il nocciolo del concetto così come esso è impiegato nell'uso corrente. È soprattutto quest'ultimo il requisito problematico, quello su cui nascono le divergenze.
Se non è possibile giungere a una definizione generale e ampiamente condivisa della morte, vi sono tuttavia diversi usi particolari del termine, su alcuni dei quali l'accordo è più agevole. Ad esempio, si possono individuare diversi livelli del fenomeno-morte: a) un livello cellulare: si conoscono diverse forme di morte cellulare, tra le quali ricordiamo 'la morte cellulare programmata' (detta anche apoptosi) nel corso dello sviluppo ontogenetico, e la morte cellulare patologica, caratterizzata da alterazioni microscopicamente riconoscibili e causata da processi morbosi (necrosi); b) un livello degli organi: si può parlare di morte di un organo quando esso va incontro a un arresto non reversibile della sua funzione (ad esempio l'insufficienza renale totale); l'arresto funzionale non richiede la morte di tutte le cellule dell'organo, ma solo la distruzione di un numero critico di esse (e/o il sovvertimento anatomico dell'organo); c) un livello dell'organismo: a questo livello si tratta di individuare quando intervenga l'incapacità irreversibile dell'organismo di funzionare come un tutto integrato (morte sistemica); d) un livello dell'individuo umano: la morte dell'individuo, almeno secondo alcuni studiosi, consiste nella perdita completa e definitiva delle caratteristiche che sono essenziali per esso. Veatch (v., 1989²) per esempio ha sostenuto che queste caratteristiche sono la coscienza e la capacità di interazione sociale.
È chiaro che vi possono essere (e anzi sono la regola) dissociazioni fra i diversi livelli; in particolare, come abbiamo detto, la morte di un organo può avvenire senza che siano morti tutti i suoi elementi cellulari e così pure la morte di un organismo avviene prima della morte di tutti i suoi organi (e a maggior ragione di tutti i suoi tessuti e cellule). Nella concezione di Veatch e dei teorici della morte corticale, la perdita irreversibile della coscienza equivale alla morte dell'individuo, anche se l'organismo (di quell'individuo) può essere considerato vivente.
È ragionevole sostenere, in accordo con i teorici della morte corticale, che la morte cerebrale (intesa nell'accezione corrente) sia un fatto del tutto nuovo, un paradigma degli sconvolgimenti che la 'rivoluzione biologica' sta apportando nella nostra civiltà. Lo sviluppo scientifico-tecnologico ha dotato la medicina di mezzi potenti per intervenire nel processo del morire; questi mezzi hanno messo in crisi uno dei requisiti che abbiamo considerato indispensabili a ogni concetto di morte che si voglia candidare al pubblico consenso: l'irreversibilità.
A partire dagli anni cinquanta è diventato possibile sostituire le funzioni cardiopolmonari, che da sempre erano state considerate centrali nel meccanismo della morte, e in un prossimo futuro sarà probabilmente realizzabile la vicariazione delle funzioni omeostatiche (vegetative) dell'encefalo. Il locus della morte si sposta così dapprima dal cuore all'encefalo intero e poi agli emisferi cerebrali, substrato materiale della nostra attività mentale. L'irreversibilità sembra oggi identificarsi con l'impossibilità di una sostituzione (ad esempio mediante un trapianto) degli emisferi cerebrali, sostituzione che al tempo stesso mantenga le memorie e le disposizioni proprie della persona. Ora, la rianimazione è doverosa ogniqualvolta il soggetto è colpito da una malattia dalla quale ci sono possibilità di guarigione o di recupero in condizioni accettabili. Purtroppo non si dispone oggi di strumenti di prognosi talmente potenti da far prevedere con buona verosimiglianza se un intervento rianimatorio avrà o no un esito favorevole. Spesso si deve intervenire con questa incertezza e, nei casi sfortunati, le terapie possono causare il quadro clinico della morte cerebrale (oppure dello stato vegetativo persistente). Come scrissero Mollaret e Goulon (v., 1959), questa situazione appare come "una rivelazione e uno scotto da pagare": s'intende al progresso della medicina.
A coloro che si oppongono al concetto di morte cerebrale e ritengono opportuno non abbandonare la tradizionale definizione cardiorespiratoria si può ribattere con questo argomento: è vero che ciò che si intende con morte cerebrale non è un fatto 'naturale', nel senso che non si determina se non attraverso l'intervento dell'uomo (in questo senso ha una componente culturale), ma non è meno vero che non è lecito ai medici assistere alla morte degli uomini senza ricorrere a tutti i mezzi disponibili per evitarla, ovviamente quando vi siano ragionevoli prospettive di una sopravvivenza di qualità accettabile. Se ne deduce che in molti casi è doveroso per il medico iniziare quelle terapie che, se hanno esito sfavorevole, possono condurre alla morte cerebrale. Qualora essa si verifichi, la questione si complica, in quanto può nascere un altro obbligo, o meglio un conflitto di obblighi: infatti da un lato diviene da questo momento non solo lecito, ma doveroso sospendere la rianimazione, costosa per la società e poco rispettosa della dignità della persona, dall'altro si accende una nuova istanza etica, di giustizia. Sappiamo infatti che è oggi possibile curare molte malattie mediante il trapianto di organi, garantendo una sopravvivenza in condizioni accettabili a persone altrimenti condannate. Ora la maggior parte di questi organi, e precisamente quelli riccamente vascolarizzati, debbono essere prelevati prima dell'arresto circolatorio per conservare la loro integrità. Di qui deriva l'opportunità di continuare per qualche tempo l'intervento rianimatorio anche dopo il momento della morte cerebrale, qualora entri in considerazione la donazione di organi.
Non c'è dubbio che la possibilità tecnica del trapianto sia stata tra i fattori che più hanno contribuito all'elaborazione del concetto di morte cerebrale, come del resto è detto esplicitamente nel documento del Comitato di Harvard (v. Ad hoc Committee of..., 1968). Gli studiosi contrari al concetto di morte cerebrale sostengono che tale preoccupazione è stata determinante e ha inficiato l'elaborazione del concetto stesso. Si può però dimostrare che questa obiezione è fallace. Infatti la situazione clinica descritta come morte cerebrale esisterebbe certamente anche se non fosse possibile o non più necessario eseguire trapianti a scopo terapeutico. Del resto i primi autori che la descrissero non erano in alcun modo coinvolti in attività di trapianto; il problema dell'espianto di organi da individui in morte cerebrale si pose solo alcuni anni dopo. Inoltre, e soprattutto, ogni definizione di morte socialmente accettabile ha in sé un aspetto pratico-valutativo. La stessa decisione di identificare la morte con l'arresto cardiocircolatorio irreversibile è in qualche modo arbitraria: infatti determinate attività biologiche continuano a svolgersi nel cadavere per diversi giorni e la vita non si spegne del tutto se non al compiersi del processo putrefattivo. Ora nessuna società accetta la completa putrefazione come criterio di morte per ragioni squisitamente pratiche (etiche e igieniche in primo luogo). Riprendendo un'affermazione di Lachs (v., 1988), si può dire che "la morte è un costrutto morale con una base biologica".
È utile infine fare un cenno agli argomenti di coloro che, pur contrari al concetto di morte cerebrale, non si oppongono ai trapianti. Da parte di autori come Jonas (v., 1982) l'accento viene posto sull'inopportunità di cambiare un concetto antico e 'naturale'; egli preferirebbe che l'eventuale prelievo di organi (consenziente il donatore) fosse considerato un prelievo da vivente in condizioni terminali. Nello stesso senso si è espresso recentemente il Comitato etico danese (v. Danish Council of ethics, 1989), secondo il quale il soggetto comunemente definito in morte cerebrale non è ancora morto, ma solo entrato nel processo irreversibile del morire. Qualora il soggetto abbia espresso in vita un'opzione a favore della donazione di organi, il prelievo è lecito e non può essere considerato causa della morte, il cui processo si era comunque già avviato. (V. anche Aborto; Etica; Eutanasia; Malattie; Mortalità; Suicidio).
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