Etica
'Etica' è parola di derivazione greca (da ἔθοϚ, che significa 'costume', 'carattere') equivalente al termine di derivazione latina 'morale' (da mores, che significa 'costumi'): la tradizione latina chiama 'morali' le virtù di carattere che Aristotele chiama 'etiche' e distingue da quelle intellettuali. Nell'uso corrente tuttavia i termini di derivazione greca entrano di solito nel gergo delle professioni colte, dei medici come dei letterati e dei filosofi, e questo ha fatto sì che si usi spesso 'etica' solo in relazione allo studio dei costumi, mentre 'morale' può riferirsi tanto allo studio dei costumi quanto ai costumi stessi. In questo senso parliamo di Etica o di Morale per indicare delle discipline, ma parliamo delle 'morali' per indicare comportamenti come la 'morale corrente', la 'morale cristiana', la 'morale islamica', ecc. Ne è nata l'impressione che 'morale' si riferisca direttamente a qualcosa di reale, qualcosa come l'oggetto dell'etica, la quale pertanto sarebbe un'attività di secondo grado rispetto a quell'oggetto. Per questo 'etica' è usata spesso per indicare le considerazioni sui principî che ispirano una morale: in questo senso si usano espressioni come 'etica della responsabilità'.
Questa sistemazione trae origine dal fatto che l'etica come disciplina specializzata è stata 'inventata' dai Greci o, meglio, dai filosofi greci. Nei Topici Aristotele dice che in una scuola filosofica si potevano discutere questioni logiche, fisiche o etiche, e spesso nelle proprie opere fa dell'etica una scienza pratica che, a differenza delle scienze teoretiche rivolte alle cose necessarie, sulle quali non si può intervenire, verte sulle azioni umane. Come attesta Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi, gli antichi ritenevano che la distinzione tra logica, fisica ed etica fosse nata nell'Accademia, cioè nella scuola di Platone, e che fosse condivisa da tutte le scuole filosofiche successive. Nell'interpretazione corrente della nostra storia intellettuale, dominata dal primato della civiltà greca, la nascita della filosofia presso i Greci è considerata la scoperta di una forma universale di sapere, e la comparsa dell'etica quale disciplina autonoma è spesso vista come uno stadio successivo a quello in cui la morale si esprime più primitivamente in leggi, in massime e nella letteratura religiosa o poetica, come accade nelle civiltà diverse da quella greca o nella civiltà greca arcaica.
In Grecia, prima e fuori delle scuole filosofiche, poeti e oratori avevano parlato delle qualità che rendono un uomo pregevole, delle virtù, come si diceva. A quella letteratura si rifecero i filosofi greci, ma senza assumerne il contenuto e anzi proponendo, in modi più o meno radicali, tipi di vita alternativi a quelli che ritenevano propri dei loro concittadini. Per questo i cristiani trovarono nei filosofi pagani un imbarazzante precedente alla propria pretesa di opporsi alla società pagana. Ma essi ritenevano di disporre della grazia, e così confinarono l'etica dei filosofi al piano della natura. Solo dopo un lungo travaglio la cultura cristiana smise di vedere nella natura un'espressione del disordine e del peccato, come aveva fatto Agostino, e vi scorse un momento anteriore a quello della grazia. Così la virtù dei pagani, nell'immagine costruita dai filosofi, potè diventare il prodotto della ragione naturale, anch'essa un comando divino, sia pure non assistito dalla grazia. In questa sistemazione, diventata canonica con Tommaso d'Aquino, ebbe una parte importante la teoria etica di Aristotele che, pur essendo una delle dottrine filosofiche meno radicali, era rimasta abbastanza inattiva nell'antichità. Nell'Etica Nicomachea Aristotele ammetteva, oltre alle virtù intellettuali (o dianoetiche), principalmente proprie dei filosofi, le virtù morali (o etiche), proprie del cittadino, che consistono nel giusto mezzo, cioè nell'abito a praticare la moderazione di fronte agli eccessi ai quali possono indurre la ricerca del piacere e la fuga dal dolore.Ma il cristianesimo mise anche d'accordo la virtù con la legge. La cosa non era facile per i filosofi antichi, che spesso consideravano le leggi delle città convenzioni più o meno arbitrarie, delle quali coloro che praticavano le virtù autentiche non avevano bisogno. Platone nella Repubblica e nelle Leggi aveva escogitato città immaginarie per trovare una legislazione adatta ai filosofi, e gli storici avevano parlato di una legge naturale, l'unica che il sapiente, indipendente dalla città reale, debba seguire. Anche i cristiani avevano problemi con le leggi: la loro Chiesa, erede del popolo ebraico che pretendeva di aver ricevuto direttamente da Dio la propria legge, si era dovuta adattare alle leggi pagane e da ultimo a quella romana. La cultura cristiana medievale utilizzò l'idea della legge di natura, articolandone i contenuti e facendone l'espressione dell'ordine naturale, lo stesso che si realizza anche nella virtù naturale.
Il miraggio della cultura antica come espressione della razionalità naturale continuò ad agire nell'Europa dei conflitti religiosi, nel mondo della Riforma come in quello della Controriforma e negli scrittori liberi, non collegati alla cultura ecclesiastica; in particolare la letteratura morale continuò a essere modellata sui manuali costruiti sull'impalcatura scolastica. Anche autori come Cartesio, Hobbes, Spinoza o Locke, che sono considerati filosofi moderni tipici, continuarono a ritenere che gli uomini per natura fossero spinti ad agire in primo luogo dal piacere e dal dolore. Lo avevano sostenuto i filosofi classici, che pure avevano svolto in modi diversi questo tema. Per i filosofi moderni diventarono particolarmente interessanti gli epicurei, che sembravano aver inteso la morale come una semplice amministrazione razionale dei piaceri e dei dolori. Anche gli epicurei però avevano poi finito con il proporre un'etica ascetica perché, come quasi tutti gli altri filosofi antichi, avevano sostenuto che bisogna evitare i piaceri mescolati ai dolori. E poiché quasi tutti i piaceri lo sono, bisogna soprattutto evitare il dolore, scartando anche i piaceri derivanti dalla soddisfazione di desideri non necessari. Sulla base dell'ascetismo filosofico antico filosofi come il Cartesio delle Passions de l'âme del 1649 e lo Spinoza dell'Ethica more geometrico demonstrata del 1677 poterono creare una teoria che faceva della conoscenza intellettuale pura lo strumento per godere delle emozioni senza restarne prigionieri.
Questa teoria reintroduceva il contrasto tra i 'filosofi' e gli uomini comuni, che si orientano sulle emozioni del momento e che solo premi e punizioni possono sottrarre alla pressione del piacere e del dolore immediati. Quando aveva scritto il Discorso sul metodo (1637) Cartesio, dopo aver cercato la verità esercitando il dubbio su tutte le conoscenze ricevute, aveva trovato qualche difficoltà a ripetere la stessa operazione con le regole di comportamento; e in attesa di trovare una morale definitiva, si era accontentato della cosiddetta morale provvisoria. Per il momento avrebbe accettato le usanze e le credenze del paese in cui aveva scelto di vivere, e le avrebbe seguite con costanza, cercando di cambiare se stesso piuttosto che le cose. La costanza, una tipica virtù stoica, era quella che doveva contraddistinguere l'atteggiamento del filosofo cartesiano da quello degli altri uomini con i quali ha in comune leggi e fede religiosa. Ma a differenza degli stoici Cartesio non riteneva che ci fosse qualche rispondenza tra l'ordine della natura e la vita del sapiente. Le virtù dei filosofi antichi rimangono una buona guida solo perché liberano completamente dalle emozioni e sanciscono il primato dell'anima sul corpo. Infatti l'ordine dei corpi è completamente diverso dall'ordine del quale l'anima fa parte, e le emozioni servono in primo luogo soltanto a mettere in guardia contro i pericoli che minacciano il corpo: perciò è un bene per l'anima liberarsi da esse. Ma le emozioni possono essere recuperate se vengono collegate a stati non del corpo ma dell'anima. In questo aiuterà la conoscenza, che permetterà di andare oltre l'orizzonte ristretto delle cose con le quali si viene a contatto, e soprattutto rivelerà che l'anima non è messa in pericolo dalle cose che minacciano il corpo. Il saggio cartesiano perciò non ritiene che le cose rientrino in un ordine buono, che mira a un fine, ma piuttosto che esse non hanno in se stesse un significato, se non come occasioni per l'esercizio della superiorità dell'anima.
Si dice di solito che Cartesio abbia sentito l'influenza di una vasta letteratura rinascimentale, rappresentata in modo esemplare dai Saggi (1580-1588) di Montaigne, sulla varietà e vanità delle credenze umane. Ma su questa letteratura Cartesio costruisce una morale che consiste nell'accettazione di un ordine del mondo non finalistico, un'accettazione che dovrebbe produrre quel piacere intellettuale del quale erano andati in cerca Platone e Aristotele. Questa idea sarà sviluppata in modo radicale dall'Ethica di Spinoza. Un'interpretazione delle emozioni analoga a quella cartesiana, tuttavia, produceva effetti anche nel modo di intendere la vita associata. Ugo Grozio nel De jure belli ac pacis (1625) aveva cercato di trovare nello stato di natura l'origine e la giustificazione delle diverse forme politiche. Originariamente gli uomini vivono in comunità naturali, dalle quali escono dando vita a forme politiche diverse, che però devono mantenere alcune delle relazioni già presenti nello stato naturale, rendendole più stabili. Grozio immaginava lo stato di natura soprattutto attraverso schemi giuridici, derivati dal diritto romano e dal diritto delle genti, cioè il diritto che regola le relazioni tra uomini che non appartengono alla medesima società politica. Thomas Hobbes, seguendo un cammino per certi versi parallelo a quello che aveva portato Cartesio a scorgere nel piacere e nel dolore i moventi fondamentali dell'uomo e partendo da un netto rifiuto del finalismo, nel De cive (1642) e nel Leviatano (1651) interpretava lo stato di natura in termini ben diversi da quelli di Grozio. Nella condizione naturale gli uomini vedono negli altri uomini una minaccia costante. Ma nello stato di natura tutti gli uomini sono uguali, hanno tutti la medesima forza e una conoscenza limitata, e non c'è nessuno che possa imporre una disciplina: per questo lo stato di natura è uno stato di guerra continua ed è ragionevole ritenere che in esso nessuna intesa è sicura. Solo l'istituzione di un'autorità permette di costruire una vita ordinata e di dare un significato agli stessi concetti morali: le valutazioni dei comportamenti sono tutti modi per designare ciò che produce piacere o dolore, ma danni e vantaggi sono determinabili in modo preciso solo dopo che si è istituito un ordine politico sicuro abbandonando lo stato di natura. Come Cartesio, anche Hobbes cercava di recuperare l'etica dei filosofi antichi accolta dalla tradizione cristiana, ma anche lui la reinterpretava assumendo che piacere e dolore sono gli unici moventi dell'azione umana e senza supporre che la realizzazione della virtù fosse il fine di tutta la realtà. Ma a differenza di Cartesio riteneva che gli uomini, più che le cose, fossero all'origine di ciò che può nuocere o giovare.
Nell'interpretazione hobbesiana dell'etica le norme sono costrutti artificiali, esattamente come sono entità artificiali le società politiche nelle quali gli uomini vivono e nelle quali pregi morali e istituzioni giuridiche hanno senso. Il carattere artificiale di tutti gli apparati normativi era venuto in luce con l'interpretazione giuridica della società politica data da Grozio, che distingueva l'interpretazione moderna, giusnaturalistica, da quella medievale della legge di natura. Ma all'interpretazione giuridica groziana Hobbes aveva sostituito una specie di 'antropologia filosofica', secondo la quale gli uomini sono ossessionati soprattutto dalla minaccia rappresentata dai loro simili e subordinano tutto, anche le regole morali, alla rassicurazione contro questa minaccia. Numerosi saranno i tentativi di correggere la teoria hobbesiana, accettando la sua antropologia ma evitando di trarne conclusioni radicali. Per Samuel Pufendorf (De jure naturae et gentium, 1672) come per John Locke (Trattati sul governo civile, 1690) la società politica è sì una costruzione artificiale prodotta da contratti, che serve ad assicurare agli uomini il godimento dei beni esterni, ma lo stato di natura non è quella condizione di guerra totale, di tutti contro tutti, disegnata da Hobbes. Già nello stato di natura si profila la possibilità che gli uomini pratichino comportamenti compatibili: e questo permette la costruzione di società che, pur dovendo tutelare soltanto i beni esterni, sono del tutto conformi alle regole morali, anche se queste impegnano soprattutto la coscienza degli individui. E le regole morali sono interpretate in gran parte secondo i canoni della tradizione filosofica e scolastica.
Dalla discussione sulla legge di natura, dalla reinterpretazione dell'etica antica attraverso un'antropologia fondata sul piacere e sul dolore e dalla distinzione tra i compiti della società, deputata a proteggere i beni esterni, e gli obblighi individuali di coscienza deriva gran parte dell'assetto della teoria etica settecentesca. Da un lato essa cercherà di sviluppare soprattutto l'idea di artificialità della morale, facendo regredire l'interesse per la legge di natura e il contratto. Dall'altro riprenderà la distinzione tra le regole che presiedono le relazioni esterne tra gli uomini e quelle che vincolano solo la coscienza, approfondendo la distinzione tra le leggi giuridiche e la virtù morale, lungo una direttiva che condurrà a Kant.Lungo la prima linea Anthony Shaftesbury (Ricerca sulla virtù e il merito, 1699), Francis Hutcheson (Saggio sull'origine delle nostre idee di bellezza e di virtù, 1725), David Hume (Ricerca sui principî della morale, 1751), Adam Smith (Teoria dei sentimenti morali, 1759) attenueranno l'importanza di stimoli come piacere e dolore e porranno nel sentimento il principio speciale dell'azione morale. Ma soprattutto meriti e virtù diventeranno qualità artificiali, assai più vicine alle belle maniere, alla buona letteratura e alle arti raffinate che alle arcigne virtù filosofiche antiche, alla sospettosa morale cristiana o all'ossessione per la pace sociale dei filosofi seicenteschi, e Bernard de Mandeville nella Favola delle api (1705) parlerà del lusso e della ricerca dei piaceri, che i filosofi antichi consideravano vizi, come di "pubblici benefici", cioè di fattori di benessere collettivo. Se lo stato di natura, anteriore alla formazione delle società politiche, poteva essere assimilato alla vita dei popoli 'selvaggi', la società artificiale, delle belle maniere, della benevolenza e del lusso, era la società civilizzata. Società artificiali nel grado più alto sono le grandi monarchie moderne, che riescono a farsi sentire dai loro sudditi solo attraverso complessi apparati simbolici, a differenza dalle comunità originarie, che sono piccole e sono tenute insieme da rapporti di benevolenza. Per questo le grandi monarchie moderne possono anche essere intese come una degenerazione, alla quale occorre porre rimedio con un qualche 'ritorno alle origini'. Oppure, proprio perché sono un corpo artificiale, le monarchie possono essere riformate, in quanto gli uomini si possono correggere e manovrare, come si fa con una macchina. Le leggi sono lo strumento delle riforme, leggi efficaci che agiscano sui moventi reali dell'azione umana, servendosi di sanzioni proporzionate ed effettive, capaci di generare benefici che tutti possano apprezzare. L'etica e il diritto tendono ad agire insieme: la morale garantisce il carattere non arbitrario delle leggi e queste traducono in pratica le indicazioni etiche.
Il Settecento conosce anche teorie che contrappongono morale e diritto. Si fa risalire agli stoici l'elaborazione sistematica del concetto di dovere, che permetteva di costruire una morale come un insieme di regole più che come una tavola di prestazioni, quali erano le virtù. Gli stoici avevano semplificato la teoria delle virtù riprendendo un principio caro ai seguaci di Socrate: chi possiede veramente una virtù le possiede tutte, come se si dicesse che solo chi è giusto può dar prova di autentica generosità. Ciò permetteva di essere molto drastici nel distinguere tra comportamenti positivi e negativi. Tuttavia gli stoici dovettero ammettere che c'erano casi apparentemente indifferenti rispetto alle virtù: i doveri indicano appunto quello che un sapiente farebbe in questi casi. Gli stoici stessi finirono per sviluppare una casistica, cioè la discussione di situazioni particolari nelle quali le regole morali sembrano in contrasto tra loro: era celebre il conflitto tra il dovere di rispettare i patti, che impone di restituire i prestiti, e il dovere di impedire un misfatto, che imporrebbe di non restituire la spada avuta in prestito, se si sapesse che essa verrebbe usata per uccidere. La teoria dei doveri si diffuse nella nostra cultura soprattutto grazie al De officiis di Cicerone e fu impiegata nei manuali correnti di etica.
La teoria dei doveri servì a riprendere e riformulare l'idea scolastica di legge di natura. Per Pufendorf il diritto naturale contiene soltanto i doveri verso gli altri, non i doveri verso Dio o quelli verso se stessi, che pure vincolano gli uomini. Per Christian Thomasius (Fundamenta juris naturae et gentium, 1705) non appartengono propriamente al diritto, il quale comporta che ci sia una sanzione e qualcuno deputato a comminarla, neppure i doveri positivi verso gli altri. Egli infatti distingueva i doveri verso gli altri in positivi (che impongono di promuovere il benessere altrui) e negativi (che impongono di non impedire il benessere altrui), e accostava i doveri positivi a quelli interni, che sono doveri verso se stessi. Nella teoria scolastica la legge di natura è il fondamento della legge positiva e ne costituisce la cornice, perché la seconda interviene a determinare ciò che la prima lascia indeterminato. Con Pufendorf, e soprattutto con Thomasius, il diritto naturale è attratto verso la sfera dei doveri, ma non è più un vero e proprio diritto: è piuttosto un consiglio. I teorici seicenteschi ritenevano che tutte le regole dei comportamenti umani fossero accompagnate da sanzioni, implicite o esplicite, collegate al piacere e al dolore; per Pufendorf e Thomasius invece la sanzione qualifica solo il diritto positivo.
La teoria del diritto naturale elaborata da Pufendorf e Thomasius faceva di leggi e doveri tipi diversi di prescrizione, un motivo che diventava centrale nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785), nella Critica della ragion pratica (1787) e nella Metafisica dei costumi (1797) di Kant. Partendo dal primato della prescrizione Kant rifiutava tutte le teorie etiche settecentesche, anche quelle che avevano tentato di 'addolcire' e 'liberalizzare' l'interpretazione hobbesiana della morale attraverso la nozione di sentimento. Per Kant sono sempre il desiderio di ciò che piace e l'avversione per il dolore che spingono all'azione, perché l'uomo ha un rapporto causale con le cose che, proprio in quanto causa di piaceri e dolori, determinano i comportamenti. Ma Kant rifiutava anche la morale della virtù dei filosofi antichi, che erano partiti dal concetto di bene. Anche in questo caso Kant accettava l'antropologia di tipo hobbesiano, secondo la quale ci appare come buono solo ciò che può produrre piacere. Agli occhi di Kant perciò filosofi moderni e filosofi antichi avevano preteso di formulare leggi morali generali partendo dalle relazioni che di fatto si stabiliscono tra le cose e gli uomini. Invece queste sono relazioni molto varie, e non è detto che ciò che piace a una persona o ciò che una persona ritiene buono valga per tutti. La morale non deve stabilire quello che gli uomini generalmente fanno, ma quello che tutti gli uomini devono fare: essa perciò è in primo luogo un atto di obbedienza a un sistema di comandi, di imperativi.
L'impostazione kantiana rappresentava una novità rispetto alle teorie etiche tradizionali. Quelle antiche avevano sempre interpretato i comportamenti attraverso il concetto di fine: il fine costituisce il bene dell'uomo e la virtù garantisce il raggiungimento di quel fine. Quelle moderne si erano invece riferite alla causa dell'azione, cioè alla capacità delle circostanze di produrre piacere o dolore. Causa e fine possono anche essere termini di riferimento dell'azione umana, ma i loro contenuti non sono uniformi. Se si subordinano gli imperativi al fine o alla causa si hanno imperativi ipotetici, che prescrivono mezzi per realizzare un fine, il quale a sua volta è dettato dalle circostanze nelle quali si determina l'azione. 'Se vuoi arricchire, lavora!' è un imperativo ipotetico: la connessione tra lavoro e arricchimento può essere generale, nel senso che generalmente il lavoro produce ricchezza, ma l'imperativo stesso non è universale, perché non è detto che tutti desiderino arricchire. Anzi a rigore se fosse adottato da tutti l'imperativo non si potrebbe realizzare, perché la ricchezza consiste nell'avere più di altri, e se tutti si proponessero di essere ricchi, tendenzialmente tutti avrebbero beni nella stessa misura, e perciò nessuno sarebbe ricco. Propriamente universali sono solo gli imperativi categorici, che sono incondizionati, non vincolati a uno scopo. Proprio perché non sono sottoposti a questo vincolo gli imperativi categorici valgono per tutti, indipendentemente dai desideri di ciascuno. D'altra parte se per qualcuno non vale, l'imperativo non è categorico. Tutti gli imperativi categorici sono imperativi morali e un imperativo che non sia categorico non può essere morale. Se si può rendere universale un imperativo senza generare contraddizioni, si ha la prova che si tratta di un imperativo morale. La menzogna non è moralmente lecita in nessun caso, perché per essere lecita essa dovrebbe configurarsi come caso particolare dell'imperativo universale 'menti!'. Ma se tutti mentissero non esisterebbe più la verità, mentre la menzogna consiste nella presentazione di una proposizione falsa come vera. Neppure un imperativo come 'arricchisciti più che puoi!' potrebbe configurarsi come universale, perché seguendo quel comando qualcuno sarebbe autorizzato a ridurre qualcun altro alla condizione più misera. Kant riteneva perciò che segno della moralità fosse non la rispondenza di una regola alla natura umana o al fine naturale dell'uomo, ma la possibilità di inserirla in una legislazione universale priva di contraddizioni. La formula stabilita da Kant suonava infatti: "Agisci in modo che la massima della tua azione possa valere come legge universale". In un'altra celebre formula Kant reintroduceva il concetto di fine, ma in forma subordinata: "Agisci in modo da trattare l'umanità nella tua persona, come nella persona di ogni altro, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo". Qui non si tratta di trovare quale sia il fine dell'umanità, ma semplicemente di stabilire che la prescrizione universale deve rivolgersi a tutti nello stesso modo. La prescrizione 'arricchisciti più che puoi!' potrebbe condurre a un'umanità collettivamente molto ricca, ma una situazione di questo genere non sarebbe accettabile, perché i poveri diventerebbero solo mezzi per l'arricchimento dell'umanità nel suo complesso. D'altra parte l'imperativo categorico 'non rubare!' suppone che esista la proprietà e questa esige che gli uomini siano anche mezzi, come strumenti di lavoro o perché assoggettati ai vincoli che la proprietà istituisce; ma l'importante è che anche i lavoratori possano essere proprietari, e cioè non siano solo mezzi, come sono gli schiavi.
Alla luce di questa teoria Kant riprendeva l'interpretazione tradizionale dei doveri: sono doveri perfetti quelli verso se stessi, cioè quelli stabiliti da massime universali tali che non si può pensare senza contraddirsi che si dia anche una sola eccezione, mentre sono doveri imperfetti quelli verso gli altri, cioè quelli stabiliti da massime universali tali che non si può volere senza contraddirsi che ci sia anche una sola eccezione. Sono del primo tipo i doveri di non darsi la morte e di non mentire, mentre è del secondo tipo il dovere di promuovere le capacità razionali. Ma la distinzione tra i doveri non coincide con quella tra legge di natura e legge positiva, perché la legalità può essere coestesa con la moralità. La prima, che caratterizza il diritto, deve tutelare la compatibilità delle libertà esterne degli uomini, cioè deve rendere impossibili i comportamenti di un individuo che ledano la libertà degli altri, ma consiste nella semplice conformità di atti a regole, indipendentemente dalla motivazione, mentre la moralità esige l'esecuzione del dovere 'per il dovere'.
Kant contrapponeva drasticamente il mondo del dovere a quello della società politica e riteneva che solo un 'regno dei fini', erede del 'regno di Cristo' e retto anch'esso sulla fede nell'esistenza di Dio, potesse dar senso al comportamento morale. La società politica, che i filosofi del Seicento e del Settecento avevano sempre considerato teatro dell'azione umana, è confinata nel mondo della legalità, che solo in una prospettiva infinita può convergere con la moralità. Kant si poneva così su posizioni affini a quelle di autori come Rousseau (Discorso sulle scienze e le arti, 1750, e Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, 1755) e Herder (Ancora una filosofia della storia per l'educazione dell'umanità, 1774), critici radicali della società moderna, vista come il prodotto dell'intelligenza tecnica. Rousseau come Hume usava tesi filosofiche che risalivano ad Aristotele: che solo la volontà può spingere all'azione e che la volontà è in sé sempre buona, ma può essere ingannata da false immagini del bene. Questo è accaduto quando l'umanità ha abbandonato lo stato originario e si è affidata allo sviluppo delle arti. È vero che gli uomini sopravvivono solo in stati artificiali, ma le arti e le tecniche hanno preso il dominio sulla volontà e sono diventate strumenti con i quali gli uomini combattono gli uni contro gli altri per appropriarsi della terra e delle cose: anziché essere strumenti della volontà la ingannano con false immagini del bene, che mettono le volontà particolari in contrasto tra loro. Nel Contratto sociale (1762) la salvezza è additata in una volontà generale che può essere la volontà di tutti. Kant interpreta la volontà generale di Rousseau quando dice che la moralità è costituita da imperativi universali. Utilizzando strumenti scolastici e filosofici tradizionali Kant esprimeva la rottura di un miraggio che si era creato con l'assorbimento delle teorie morali dei filosofi antichi entro la credenza cristiana: non è vero che la moralità è iscritta nella natura o che può essere costruita artificialmente amministrando i moventi naturali ai quali l'uomo è soggetto. La realizzazione della moralità si pone in una prospettiva religiosa all'infinito.
Spesso gli scrittori seicenteschi e settecenteschi avevano interpretato la morale come un sistema di regole alle quali la società contemporanea doveva essere ricondotta: l'impresa poteva poi essere presentata come il passaggio da condizioni 'naturali' e primitive a forme 'civilizzate' e come la prosecuzione di un processo di 'liberazione' da tradizioni arbitrarie, che rendevano gli uomini incapaci di vivere felici, oppure come un rifiuto radicale della società contemporanea, che aveva voltato le spalle alla natura. Una parte della cultura ottocentesca, evitando la contrapposizione tra natura e civiltà, tra desideri e regole, rifiutò la pretesa di dettare norme alle società reali e cercò di mostrare che esse erano il prodotto dello sviluppo del 'genere umano' o dello 'spirito'. Per Hegel le leggi e le regole morali di un popolo traggono la loro forza non dalle sanzioni né da un'autorità esterna che le imponga, ma dal suo ethos, dalla storia interna del suo 'spirito': quello che si deve o non si deve fare non è ricavabile con formule di tipo kantiano, né tanto meno si può determinare con un ragionamento, ma deriva dalla posizione che un popolo ha nel corso della storia. Secondo la dottrina hegeliana esposta nei Lineamenti di filosofia del diritto (1821), l'eticità è costituita dalla sintesi di moralità e legalità che Kant aveva separato, e in essa le stesse norme della legge positiva ricevono un'adesione interna, quando sono espressione della storia di un popolo. Se Hegel riteneva di poter conciliare la morale con la storia attraverso il recupero delle istituzioni tradizionali tedesche, Claude-Henri Saint-Simon (Introduzione ai lavori scientifici del secolo XIX, 1808, e Del sistema industriale, 1820-1822), Auguste Comte (Corso di filosofia positiva, 1830-1842) o Herbert Spencer (Principî di etica, 1879-1892) utilizzavano quelle che sembravano figure nuove della società ottocentesca, come l'organizzazione industriale e il sapere scientifico.Le filosofie ottocentesche della storia ripresero un tema già presente nella cultura settecentesca: Herder, Lessing (L'educazione del genere umano, 1780) e Kant avevano additato nell'umanità stessa lo scopo della morale, e ciascuna delle filosofie ottocentesche della storia indicò la via per realizzare i fini dell'umanità. Così si poteva conciliare l'universalità della morale con la determinatezza storica dei suoi contenuti. Ogni idea di morale puramente universale appariva astratta: un atteggiamento largamente condiviso anche dalla tradizione socialista, che univa componenti derivanti sia dalla filosofia 'industrialistica' sia dalla filosofia hegeliana.
Platone e Aristotele avevano considerato la volontà come una tendenza fondamentalmente orientata verso il bene, che solo false conoscenze potevano sviare. Ma fin dagli inizi dell'età moderna autori come François de La Rochefoucault (Sentenze e massime morali, 1665) o Mandeville avevano suggerito che la volontà non tende di per sé al bene e che le virtù sono finzioni, tuttavia utili alle comunità reali. Quasi mai però quella letteratura aveva proposto una teoria della morale, anche se aveva contribuito all'analisi etica elaborata dalla filosofia settecentesca. Schopenhauer (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819; Sulla libertà del volere, 1839; Sul fondamento della morale, 1840) fece dello smascheramento dell'etica tradizionale una dottrina filosofica, riprendendo l'interpretazione classica della volontà come causa dell'azione umana. Ma la considerò una forza impersonale che non garantisce affatto la libertà né il perseguimento del bene: la volontà non è scelta tra alternative, ma effetto della motivazione più forte. Schopenhauer ereditava l'interpretazione tradizionale dei moventi come tendenze egoistiche ma, come Hume, riteneva che la ragione non potesse correggere l'egoismo dall'interno, attraverso la conoscenza, che è essa stessa un modo con il quale la volontà si afferma. Alla volontà ci si può soltanto sottrarre attraverso la compassione o simpatia. Mentre per Shaftesbury o Hume o Smith la simpatia si rivolge a ciò che è utile agli altri, per Schopenhauer essa nasce dalla considerazione della sofferenza altrui: la sofferenza accomuna, perché tutti soffrono, spinti dalla volontà all'affermazione egoistica e alla cattiveria. È come se nella compassione la volontà si rivolgesse a se stessa e si potesse cogliere quel momento per liberarsi dalla propria individualità, e con ciò dalla volontà stessa. È stato Schopenhauer a costruire l'immagine della società occidentale come frutto della volontà egoistica e dominatrice: anche le forme moderne di protezione sociale, dallo Stato burocratico al socialismo, sono effetti delle stesse forze egoistiche che dovrebbero neutralizzare.
Schopenhauer pensò di aver trovato nel buddhismo un'alternativa alla tradizione occidentale. Dopo di lui Nietzsche, che vedeva (La nascita della tragedia, 1872) nella filosofia greca e nelle grandi religioni dell'Occidente il disegno di incorporare l'etica nelle istituzioni, si sarebbe inventato una religione dionisiaca e una religione persiana (Così parlò Zarathustra, 1883-1885), alternative a quella greca classica, a quella ebraica e a quella cristiana, e le avrebbe interpretate come modi di "dire sì alla vita" e di accettare l'affermazione della volontà, una "volontà di potenza" dalla quale sarebbe nato il "superuomo" (Ecce homo, pubblicato postumo). Di qui passava la liberazione dal risentimento dei deboli contro le forti individualità, che aveva condotto al dominio della massa imbelle sugli individui eminenti (Al di là del bene e del male, 1886; Genealogia della morale, 1887). A temi di questo genere si collega l'interpretazione della società contemporanea come società di massa, la cui unità è assicurata da miti e da immagini più che da regole esplicite. Pertanto l'individuo eccezionale può deviare dalle regole collettive esplicite, che sono soltanto finzioni, liberarsi dai vincoli che la massa pretende di imporgli e anzi esercitare su di essa il proprio dominio. In questa prospettiva si colloca anche quella che è stata chiamata 'critica della cultura', cioè il movimento che ha interpretato la cultura come 'occultamento' delle regole reali della vita collettiva.
La critica della cultura e della società di massa è stata formulata utilizzando, e talvolta deformando, concetti emersi dalla tradizione filosofica, ma soprattutto negando l'esistenza di una morale naturale o la possibilità di una teoria morale, fondata sulla ragione o sul sentimento, più o meno in accordo con la morale naturale. Dall'idea di questa frattura ricavò una teoria che pretendeva di essere 'scientifica' Sigmund Freud (Introduzione alla psicanalisi, 1915-1917), per il quale la morale è un compromesso tra il Super-Io, qualcosa di simile alla ragione della teoria morale classica, e l'istinto, una forza impersonale come la volontà di Schopenhauer: un compromesso che le regole morali tendono a celare, insieme con la repressione alla quale il Super-Io tenta di sottoporre l'istinto. Pertanto i comportamenti vanno interpretati non come realizzazioni di regole, ma come espressioni delle forze in gioco nelle forme consentite dal compromesso, e le trasgressioni permettono di risalire ai fattori originari che non possono rivelarsi direttamente. La psicanalisi non dà una teoria normativa, e anzi suggerisce che il meccanismo normativo in generale, e quello morale in particolare, vanno tradotti in un linguaggio diverso da quello tradizionale. Freud indicava nella sessualità la forma fondamentale dell'istinto, accogliendo stimoli dal movimento noto come 'rivoluzione sessuale' e a sua volta influenzandone la pretesa di rivendicare la libertà del comportamento sessuale rispetto alle regole tramandate.
In quasi tutte le etiche filosofiche ottocentesche si trova una critica all'utilitarismo. A chi si sentiva figlio del corso storico che aveva prodotto la società moderna l'utilitarismo sembrava un tentativo inadeguato, lascito della filosofia riformatrice settecentesca, di piegare la storia a modeste finalità umane; chi rifiutava la società moderna considerava il suo progetto di una morale 'razionale' come un prodotto, tipicamente moderno, della scienza e della tecnica. Di fatto dalla cultura settecentesca l'utilitarismo ereditava l'idea che la società fosse perfezionabile e che, attraverso una legislazione adeguata, si potesse assicurare la felicità e il benessere dei cittadini: bastava costruire un calcolo, come quello che la scienza economica aveva sviluppato per studiare i rapporti di produzione e di scambio. Per Jeremy Bentham (Introduzione ai principî della morale e della legislazione, 1789) le leggi sono comandi, espressione della volontà di chi governa, e operano se sono associate con sanzioni che provocano piaceri e dolori, i soli moventi per i quali gli uomini agiscano e l'unico vero contenuto delle nozioni di 'bene' e di 'male'. Anche per la società nel suo insieme bene e male sono la somma dei piaceri e dei dolori provati dai suoi membri. La legislazione non ha il compito di cambiare ciò per cui i governati provano piacere e dolore, ma anzi deve tener conto dei loro gusti. Se la somma algebrica dei piaceri e dei dolori prodotti dalle leggi e dalle loro sanzioni ha il maggior valore positivo possibile, il legislatore ha beneficato la società. Bentham riprendeva una formula ben nota nella cultura settecentesca, a Hutcheson, a Helvétius (De l'esprit, 1758), a Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764), secondo la quale compito dei governanti è quello di produrre 'il massimo benessere per il maggior numero di persone'. Soprattutto Beccaria utilizzava quella formula per costruire una scienza del diritto penale nella quale ci fosse un criterio certo per misurare le pene e i reati; e questo era forse l'uso che ne faceva anche Bentham, per il quale non la legge di natura, ma le stesse sanzioni pongono un vincolo alle leggi positive, che debbono produrre il massimo piacere con la minima sofferenza.
Bentham aveva posto la condizione che nel calcolo del benessere nessuno potesse contare per più di una unità: sarebbe così stato impossibile aumentare il benessere di una persona a scapito di quello di un'altra, anche se questo avesse prodotto un incremento del benessere totale. John Stuart Mill (Principî di economia politica, 1848) riteneva invece che il benessere collettivo si potesse aumentare intervenendo sulle porzioni individuali di benessere. È vero che la giustizia è una forma di uguaglianza, ma questa può essere intesa come uguaglianza assoluta o proporzionale. Con la prima interpretazione (quella assoluta) si giustifica una tassazione ad aliquote costanti, mentre con la seconda (quella proporzionale) si introduce una tassazione nella quale le aliquote siano proporzionali alla ricchezza tassata. È evidente che questa seconda procedura produce una ridistribuzione di ricchezza. Questa poteva essere la soluzione più conforme alla filosofia utilitaristica, se piacere e dolore non sono considerati quantità costanti, perché il piacere che un affamato prova quando riceve il primo tozzo di pane è maggiore di quello che prova quando, dopo essersi sfamato, riceve ancora un tozzo di pane: infatti l'incremento marginale del piacere e del dolore tende ad annullarsi. Non era l'unico punto della dottrina di Bentham che entrava in crisi: per Mill (Utilitarismo, 1863) i piaceri non sono neppure qualitativamente uguali tra loro, perché quelli connessi ad attività spirituali sono superiori agli altri. La differenza tra piaceri inferiori e piaceri superiori è un prodotto della storia, generato dalla trasformazione delle società, e non è contrario all'etica utilitaristica promuovere le trasformazioni che conducono all'apprezzamento delle forme superiori di piacere.
Le complicazioni introdotte da Mill nella teoria del piacere rendevano impossibile ridurre il calcolo utilitaristico a una semplice somma algebrica dei piaceri e dei dolori di chicchessia, o almeno occorreva un calcolo assai più complicato di quello immaginato da Bentham. F.Y. Edgeworth (Mathematical psychics. An essay on the application of mathematics to the moral sciences, 1881) ne propose uno modellato sull'analisi infinitesimale, sull'esempio di quello che Maxwell aveva fatto per la teoria fisica dei campi. Applicando questo strumento raffinato si sarebbe potuto tener conto della diminuzione dell'incremento marginale di piacere, ma il calcolo utilitaristico avrebbe dato risultati diversi dal calcolo economico: quest'ultimo infatti vale in un mercato perfetto, nel quale gli scambi sono tutti istantanei e l'informazione è completa, mentre il calcolo utilitaristico si può applicare nei mercati reali. Esso garantisce la massima efficienza allocando le risorse nel modo più vantaggioso, ma sancisce le maggiori ineguaglianze, perché assegna le maggiori ricchezze a chi è in grado di trarne i massimi godimenti e carica le maggiori quote di lavoro su chi è in grado di sostenere la massima fatica fisica. In una situazione del genere deve intervenire la giustizia ad alleviare le condizioni estreme, ma la giustizia risulta in contrasto con l'utilità. Se pareva che l'ispirazione benthamiana originaria dovesse condurre a una conciliazione di considerazioni etiche e considerazioni economiche, l'interpretazione di Edgeworth non solo contrapponeva utilitarismo ed economia, ma faceva del calcolo utilitaristico uno strumento il quale, anziché correggere la società, ne irrigidiva le differenze.
Dal calcolo utilitaristico di Edgeworth vennero ricavati non progetti di ridistribuzione delle ricchezze, ma la convinzione che le società reali abbiano una forma non correggibile: si può aumentare la quantità totale della ricchezza, ma non la sua distribuzione. Se davvero l'utilitarismo vuol restare fedele al suo programma di costruire il benessere collettivo a partire dai benesseri individuali, si può dire che una società è migliore di un'altra non se sono diversi i soggetti che in esse hanno quote diverse di ricchezza, ma se nella seconda nessuno sta peggio che nella prima e qualcuno sta meglio.Il rispetto della libertà nel senso di Mill (Sulla libertà, 1859), per cui non si possono imporre ai singoli comportamenti che essi non accettino, neppure in base alla presunzione che sarebbero vantaggiosi alle persone alle quali venissero imposti, sembrava sancire la necessità di conservare la forma della società, contro gli stessi programmi di riforma sociale che Mill aveva introdotto nell'utilitarismo. In generale le ideologie, socialiste o riformistiche che fossero, cercavano di accrescere il benessere collettivo non semplicemente aumentando la quantità di beni prodotti rispetto alla popolazione, ma anche correggendo la distribuzione interna dei beni tra i membri della società. Ma così non garantivano un aumento del benessere collettivo partendo dalle preferenze di ciascun membro della società in merito al proprio benessere individuale. L'utilitarismo sembrava stretto tra due alternative non previste: o generare il progetto di una società efficiente ma ingiusta o giustificare la forma delle società reali. Solo fino a un certo punto era poi un'alternativa, perché si poteva dire che le società reali che riescono a mantenersi sono società efficienti: e così l'utilitarismo poteva diventare una difesa a posteriori dello stato di fatto.
Contro quello che sembrò il progetto utilitaristico, di subordinare la morale alla scienza, venne rivendicata l'originalità di oggetti e procedure dell'etica. Era stato Mill a sollevare in Utilitarismo la questione della conoscenza etica. Secondo Mill tutti i moralisti ritengono che la morale sia costituita da leggi generali, ma gli intuizionisti pensano che esse siano evidenti, mentre gli induttivisti ritengono che si ricavino dall'esperienza, anche se poi le due scuole riconoscono in gran parte le medesime regole. Mill ammetteva che regole e principî sono riconoscibili nel comportamento effettivo della gente, ma riteneva che essi non fossero assoluti, e anzi di fatto venissero valutati e corretti in base alla felicità che possono produrre. È questa la "moralità del senso comune", come avrebbe detto Henry Sidgwick in The methods of ethics (1874), fatta di norme e principî anche in contrasto tra loro. Il principio di utilità può risolvere quei contrasti e presentarsi così non come una generalizzazione empirica, ma come una regola per dirimere conflitti. Era la strada battuta per respingere l'interpretazione strettamente edonistica dell'utilitarismo e per conciliare l'utilitarismo con la teoria etica kantiana. Naturalmente qualcosa di importante cambiava: Sidgwick sosteneva che le regole del senso comune sono semplicemente generali e faceva della universalità kantiana un tratto della moralità esistente di fatto.
L'utilitarismo aveva diffuso non poca diffidenza per il formalismo kantiano e per la morale del dovere, tanto che nei Principia ethica del 1903 George Edward Moore riprendeva le posizioni di Sidgwick sostenendo che le leggi morali indicano soltanto comportamenti che 'generalmente' non producono conseguenze negative. Ma Moore cercava soprattutto di togliere le innovazioni che Mill aveva apportato all'utilitarismo dalla loro cornice edonistica: il bene non va identificato con il piacere, anzi il bene non va identificato con nulla, perché l'aggettivo 'buono' è un termine che si riferisce a un oggetto assolutamente semplice, non scomponibile in elementi costitutivi di una possibile definizione. Di molte cose si può dire che sono buone, ma 'buono' non può essere identificato con ciò che di volta in volta viene considerato buono, come del colore prodotto da una vibrazione con una lunghezza d'onda determinata si può dire che è giallo, ma il 'giallo' non consiste in quella vibrazione. Qualcosa del programma utilitaristico restava. Il piacere è un ingrediente necessario del bene, anche se deve trattarsi del godimento di un oggetto appropriato, e il dolore è sempre un male che va assolutamente evitato. Con questi criteri si possono confrontare oggetti ("totalità organiche" dice Moore) e stabilire una scala tra essi. I migliori sono quelli nei quali c'è piacere per cose per le quali vale la pena di provarne, come le cose belle realmente esistenti e i rapporti tra persone reali, in assenza di dolore: perciò si può assegnare il primo posto ai piaceri sociali ed estetici, purché questo non comporti sofferenze per qualcuno. Alle motivazioni 'egoistiche' degli utilitaristi Moore non contrapponeva temi ispirati a filosofie della storia e non escogitava programmi di educazione dell'umanità attraverso l'arte e la letteratura, come aveva fatto Mill ispirandosi ai filosofi tedeschi, ma spostava l'attenzione dagli aspetti pubblici a quelli individuali e privati dell'etica.
La tesi di Moore, che il bene non si identifica con un tratto di realtà, ebbe successo, e molti teorici dell'etica spesero grandi fatiche per evitare quella che Moore aveva chiamato la "fallacia naturalistica". Si disse che la sua teoria era, secondo la terminologia di Mill e Sidgwick, una forma di intuizionismo. La cosa non è sicura, ma teorie intuizionistiche svilupparono nella cultura inglese autori come Harold Arthur Prichard in Does moral philosophy rest upon a mistake? (1908, ripubblicato in Moral obligation del 1949) e William David Ross in The right and the good (1930). Anche per loro i termini primari della morale sono non cose ma obbligazioni, che compaiono in ogni occasione nella quale si profili una possibilità di agire. Ma esse non costituiscono necessariamente sistemi coerenti e possono entrare in conflitto tra loro; ci sono sì obbligazioni prevalenti, che Ross chiama "doveri prima facie", e tuttavia non è possibile darne una lista completa, valida per tutti e disposta in una precisa gerarchia, sicché quando più doveri prima facie entrano in conflitto essi vanno confrontati e 'soppesati'.
A differenza dall'utilitarismo, questa teoria non riteneva che si dovessero prendere in considerazione solo le conseguenze, e perciò nel gergo delle teorie etiche veniva classificata come deontologica, in opposizione al conseguenzialismo utilitaristico. Come quella di Moore l'etica dell'obbligazione era insensibile alla filosofia della storia, non presupponeva un sistema di credenze o gerarchie precise, né cercava di farle emergere riformulando il linguaggio morale in un complesso apparato teorico: le obbligazioni si rivelano nei modi correnti con i quali le persone si esprimono.
Nella polemica contro l'utilitarismo in Germania si adoperò soprattutto Kant. Nel Microcosmo (18561864) Hermann Lotze, scolaro di un kantiano rigoroso come Herbart, aveva presentato piacere e dolore come prime manifestazioni della valutazione, che è diversa dalla conoscenza delle cose e si riferisce non a una totalità determinata da leggi meccaniche, ma a una totalità ideale, interpretata da giudizi di valore. Sono questi che danno un significato alle cose. Questa dottrina fu sviluppata soprattutto da Wilhelm Windelband (Preludi, 1884) e da Heinrich Rickert (Scienze della cultura e scienze della natura, 1899; I limiti nella formazione dei concetti delle scienze della natura, 1902): essi scorsero nella storia la presenza di valori, intesi come termini ideali e assoluti, che assumono contenuti specifici proprio nel corso della storia. A questa, più che alla "morale del senso comune" o alla scienza economica, guardavano quei filosofi interessati più a fare dei valori i principî di spiegazione delle scienze della cultura o dello spirito e a ricavare dalla storia la giustificazione di una specie di liberalismo universalistico kantiano, che a formulare progetti di riforma sociale, come quelli ai quali lavoravano gli utilitaristi. Ben radicata nella cultura accademica e nel liberalismo politico-culturale della Germania tra Ottocento e Novecento, la teoria dei valori dava della cultura moderna in genere, ma soprattutto di quella tedesca, un'immagine opposta a quella elaborata dalla critica della cultura che, da Schopenhauer in poi, metteva in luce distorsioni e dissidi. La distinzione tra la validità formale assoluta dei valori e la relatività dei loro contenuti storici era un modo per eliminare i conflitti e dare un quadro generale della storia umana al centro del quale la libera volontà umana traduceva i valori in realtà concrete.
Da Wilhelm Dilthey (I tipi dell'intuizione del mondo, 1911) a Rickert (Sistema di filosofia, 1921), nella teoria dei valori acquistava una posizione importante il concetto di 'visione del mondo' (Weltanschauung): le credenze, la religione, l'arte, i sistemi politici e le stesse conoscenze rientrano in quadri unitari di tutta la realtà dominati da valori. Bastava insistere sulle differenze tra i contenuti storici dei valori rispetto alla loro assolutezza, effettivamente un po' esangue, proclamata dai kantiani più puri, per fare delle visioni del mondo sistemi incomunicabili e generare dottrine relativistiche che, da Georg Simmel (Problemi fondamentali della filosofia, 1910) a Karl Jaspers (Psicologia delle visioni del mondo, 1919) e a Oswald Spengler (Il tramonto dell'Occidente, 1918-1922), esasperavano la differenza e l'irriducibilità tra i sistemi di valori. Con il relativismo non più un soggetto, interpretato formalisticamente alla maniera kantiana, provvedeva all'ingresso dei valori nella storia, ma la vita stessa (Simmel, L'intuizione della vita, 1918; Spengler, L'uomo e la tecnica. Contributo a una filosofia della vita, 1931). Proprio a partire dalla vita e dai valori vitali, Max Scheler (Il formalismo nell'etica e l'etica materiale dei valori, 1916) costruì un'"etica materiale dei valori", rompendo il legame originario tra teoria dei valori e formalismo etico kantiano. Scheler elaborò in sostanza un'etica religiosa, ma fondò la propria apologetica sui valori vitali, come la sessualità e l'amore (Essenza e forme della simpatia, 1903), per 'aggiornare' in qualche modo l'apologetica religiosa, ma anche per mostrare che solo un esito religioso poteva 'salvare' dal nichilismo e dal relativismo. In questa difesa andarono perduti l'universalismo kantiano e l'apprezzamento per l'oggettività del sapere: si preferì esaltare la fedeltà alle tradizioni, messe in pericolo dallo sviluppo della scienza e della tecnica, e cercare le radici dell'uomo nelle forme originarie della vita o nel rapporto con l'essere.
Chi tentò una sintesi di motivi utilitaristici con temi della teoria dei valori fu Max Weber. Egli interpretò (L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904; Economia e società, 1922) la società moderna come risultato di un processo di razionalizzazione, che aveva introdotto regole formali nella vita economica, amministrativa e politica, e considerò il capitalismo come il sistema che era riuscito a selezionare i modi più efficaci per aumentare il profitto e produrre ricchezza. Propose anche (La scienza come professione e La politica come professione, 1919) un'etica della responsabilità (contrapposta a un'etica dell'intenzione) nella quale le decisioni andrebbero adottate prendendo in considerazione soltanto le loro conseguenze: una fiducia davvero ottimistica nella tecnica di decisione elaborata dall'utilitarismo. Ma nello stesso tempo Weber riconobbe che la società moderna era sorta per l'azione di valori religiosi, morali, ecc. e che, accanto alla crescita della burocrazia e all'adozione sempre più estesa delle regole formali di amministrazione, le società moderne di massa hanno posto le premesse per il culto dei capi carismatici.
Gli utilitaristi adoperavano gli strumenti delle scienze naturali (o credevano di farlo) per costruire un'etica razionale, che da un lato si configurava come una prosecuzione della morale corrente e dall'altro si poneva in netta opposizione alle 'idee morali' tradizionali, considerate frutto di ignoranza. Le filosofie della storia ottocentesche cercarono di mettere le cose in altri termini; contrapposero le società 'civili' moderne a società 'naturali' dalle quali le prime si sarebbero sviluppate attraverso il processo storico. Spesso, come nel caso di Hegel, questa vicenda era pensata utilizzando l'immagine che una cultura nazionale veniva costruendo di se stessa. Altre volte, come nel caso di Saint-Simon, di Comte o di Spencer, si collocava al centro della storia la nascita della scienza e dell'industria. La ricostruzione del tragitto dalle società naturali a quelle civili era un lascito settecentesco, ma nell'Ottocento Comte pretese di assegnare quel compito a una scienza, alla quale diede anche un nome, la "sociologia": essa avrebbe scoperto che i modi di vita dipendono dalle credenze e che, quando le credenze arbitrarie sono sostituite dalla scienza, la società che ne risulta è più solidale e generosa di quella dominata da forme di sapere rudimentale. Spencer vedeva invece nell'evoluzione il meccanismo attraverso il quale si trasformano anche i modi di vita individuali e collettivi che, se non si cerca di perturbare il corso naturale degli eventi, sono sempre adeguati allo stato in cui si trova la società. E le società industriali sono il risultato di una selezione nella quale hanno prevalso modi di vita collaborativi e gli interessi privati tendono a coincidere con quelli pubblici. Tra il 1906 e il 1908 Edward Westermarck in Origine e sviluppo delle idee morali e L. T. Hobhouse in La morale in evoluzione svilupparono l'interpretazione evoluzionistica elaborata da Spencer, considerando le idee morali non in se stesse, ma in relazione alla storia evolutiva dell'umanità.
La scienza della società serviva non a costruire direttamente una morale razionale, ma a mostrare come una morale razionale nasca dallo sviluppo della società prodotto dall'applicazione della scienza alla natura. Tuttavia i contenuti delle teorie comtiane o evoluzionistiche venivano abbandonati o modificati via via che l'attenzione della sociologia si spostava dallo sviluppo della scienza, inteso come asse principale delle trasformazioni storiche, all'organizzazione sociale, che emergeva come oggetto autonomo di indagine. Émile Durkheim in De la division du travail social (1893) affrontava direttamente le forme della solidarietà sociale, senza collegarle alla storia dello sviluppo della conoscenza. I comportamenti morali potevano così trovare riconoscimento come prodotti di regole che hanno il compito specifico di promuovere collaborazione e solidarietà all'interno dell'organizzazione sociale. Anche per effetto della teoria dei valori, e dell'abbondante letteratura filosofica sull'impossibilità di applicare direttamente i metodi naturalistici ai fatti sociali, lo 'spostamento' dell'indagine sociologica verso l'organizzazione sociale condusse all'elaborazione di un metodo che pretendeva di essere scientifico quanto quello delle scienze naturali, ma solo perché applicava generiche regole formali (o paraformali), ritenute comuni a entrambi i tipi di indagine. E quando Max Weber nei primi vent'anni di questo secolo studiò le forme del potere e dell'organizzazione economica, potè assegnare ai valori la funzione esplicativa che filosofi come Windelband e Rickert avevano pensato che essi potessero esercitare. Fin dopo la seconda guerra mondiale, nelle opere di Talcott Parsons (da La struttura dell'azione sociale, 1937, a Teoria sociologica e società moderna, 1967, e oltre), che hanno costituito il modello di tanta sociologia americana profondamente influenzata da Weber e dalla cultura tedesca, le alternative qualificanti dei sistemi sociali (universalismo-particolarismo, realizzazione-attribuzione, ecc.) sono rimaste alternative di 'valore', a conferma del fatto che la rivendicazione dell'autonomia della sociologia coincideva con il riconoscimento del carattere originario delle componenti morali dell'agire sociale.Nonostante tutte le sue trasformazioni, la sociologia suggeriva che le regole sociali, comprese quelle morali, vanno interpretate non attraverso i loro contenuti espliciti, 'letterali', ma tenendo conto della 'funzione' che svolgono all'interno del sistema sociale; e anche Weber aveva ritenuto che le scienze sociali dovessero impiegare i valori solo come strumenti di spiegazione, ma senza prendere posizione di fronte a essi. Sembrava conservarsi così l'interpretazione fondamentalmente funzionalistica che i fondatori della sociologia, da Comte a Spencer, avevano proposto. E al di là di tutte le precisazioni ricompariva perfino il programma utilitaristico, ché le società industriali dell'Occidente continuavano a essere presentate come il prodotto della modernizzazione e della razionalizzazione. La sociologia manteneva infatti la polarità tra società arcaiche o tradizionali e società moderne e, magari implicitamente, l'assunzione che queste sono superiori a quelle. Per giunta dava di queste ultime un'immagine sostanzialmente armonica. Anche se inquietudini non mancavano: Durkheim aveva parlato della distanza che isola la società moderna dai suoi membri, e Weber non era sordo alle preoccupazioni sugli aspetti irrazionalistici del mondo contemporaneo e sulla possibile fine del capitalismo. Era stato però Ferdinand Tönnies a dare, fin da Comunità e società (1887), un'interpretazione negativa della società moderna, insistendo sulla sua natura individualistica, fatta di legami esclusivamente esterni, dei quali è un indizio la stessa pretesa della morale di costituirsi come disciplina razionale. Nella comunità, in cui i legami sono fondati sul sangue, ci si richiama al cuore e non alla ragione.
Modelli di società non travagliate da scissioni interne erano stati cercati nei molti miraggi presenti nella tradizione occidentale, dal popolo di Israele alle comunità cristiane originarie, dalla città antica ai popoli barbarici. Questo tema assumeva però un diverso aspetto attraverso le polarità arcaico-moderno, primitivo-progredito, naturale-artificiale, che avevano agito nella formazione della sociologia. Gli schemi funzionalistici permettevano di non prendere alla lettera neppure i codici morali delle società primitive: così essi non apparivano più semplicemente gratuiti o irrazionali, e si poteva supporre che esercitassero una precisa funzione in quelle società, esattamente come le morali 'razionali' la esercitavano nelle società progredite. Questo condusse a riconoscere nelle società primitive non tanto e non solo uno stadio anteriore rispetto alle società progredite, ma soprattutto un'alternativa, contrassegnata da una propria mentalità. Lo sosteneva nel 1922 Lucien Lévy-Bruhl in La mentalità primitiva, attribuendo ai primitivi una mentalità "prelogica", giudicata inferiore a quella logica, ma che consentiva rapporti di partecipazione non del tutto assenti neppure nelle società civilizzate, sebbene difficili da cogliere. Richiamarsi alle società primitive diventava così importante per scoprire aspetti delle stesse società secondarie, che queste nella loro cultura esplicita, compresa quella sociologica, occultano. Questa operazione fu condotta soprattutto dagli antropologi di cultura inglese, da Edward Burnett Tylor (Cultura primitiva, 1871) a Bronislaw Kaspar Malinowski (Delitto e costume nelle società primitive, 1926; Magia, scienza e religione, 1930; Il gruppo e l'individuo, 1939) e Alfred Reginald Radcliffe-Brown (Sul concetto di funzione nelle scienze sociali, 1935; Struttura e funzione nella società primitiva, 1952) che, evitando il ricorso alla 'mentalità', costruirono spiegazioni funzionalistiche e applicarono alle società primitive il concetto di sistema sociale, che stava emergendo in sociologia.
Gli antropologi culturali respinsero con decisione il presupposto della superiorità delle società secondarie. I tratti universali, formalmente comuni a tutte le società, non erano quelli che si erano espressi nei valori espliciti delle società progredite. Le società primitive erano centrate soprattutto sulla famiglia (assai diversa da quella delle società moderne) e sulla struttura di parentela. Erano tratti non trasferibili alle società secondarie, ma la cosa, anziché apparire come una deficienza delle società primitive, era usata contro l'universalismo che i sociologi attribuivano alle società occidentali. Furono gli antropologi strutturalisti, soprattutto Claude Lévi-Strauss (Antropologia strutturale, 1958), che cercarono di esporre le strutture astratte che si potevano ricavare dallo studio delle società primitive. Ed esse risultarono non confrontabili con le regole generali che l'etica filosofica aveva preteso di enunciare: l'ordine sociale non coincide con quello che le società secondarie credono di realizzare e di esprimere in termini di valori.
Per suo conto la sociologia viveva una crisi parallela. Gli stessi sociologi ritennero di aver costruito un sapere che in realtà era soprattutto una giustificazione della società occidentale contemporanea e si resero conto di aver applicato ai fenomeni sociali non tanto l'equivalente effettivo delle spiegazioni della natura, quanto un'imitazione verbale del loro metodo. Inoltre studiosi come Theodor Wiesengrund Adorno e i suoi collaboratori di Personalità autoritaria (1950) contribuirono a introdurre nella sociologia motivi tratti dalla filosofia critica di matrice hegeliana e marxiana. Infine lo strutturalismo metteva in luce la possibilità di descrivere i sistemi sociali in termini assai meno intuitivi di quelli impiegati da Talcott Parsons.Lo stesso strutturalismo finì però con il mostrare una notevole povertà esplicativa. C'era anche la possibilità di applicare direttamente alla descrizione dell'etica (e non alla sua costruzione, come pretendevano di fare gli utilitaristi) i metodi naturalistici, e non solo le loro pretese regole metodologiche. I tentativi principali in questo senso sono stati la sociobiologia e l'etologia. La prima, proposta da E. O. Wilson (Sociobiologia: la nuova sintesi, 1975), riprende le teorie darwiniane, depurate dall'evoluzione sociale che vi aveva collegato Spencer, e pone il problema dei fattori ereditari del comportamento morale, nel quale vede un prodotto dell'evoluzione. L'etologia - proposta fin dal 1937 da Konrad Lorenz, che la rese popolare con opere come L'anello di re Salomone (1963) o Il cosiddetto male (1963), ma riformulata da Nikolaas Tinbergen (Studio dell'istinto, 1951; Il comportamento sociale degli animali, 1953) - cerca invece di collegare la morale al controllo dell'aggressività, che agisce anche nelle specie non umane. Entrambi i tentativi hanno sollevato problemi importanti, talvolta hanno generato estensioni affrettate, ma in generale sono stati accolti con diffidenza e sono stati accusati di naturalismo e di riduzionismo, se non peggio.
C'è un certo parallelismo tra quel che è accaduto nelle scienze sociali e quel che è accaduto nella teoria etica. Come da Mill in poi, attraverso la critica della fallacia naturalistica di Moore e la teoria dei valori, l'originalità delle regole rispetto ai fatti diventava un problema centrale della teoria etica, così le scienze sociali cercarono costantemente di definire il proprio oggetto distinguendolo da quello delle scienze naturali. Lo stesso Weber, tanto prudente nel contrapporre la conoscenza delle faccende umane a quella dei fatti naturali, ritenne che il riferimento ai valori desse alle scienze sociali la capacità di 'comprendere' l'azione umana. La distinzione tra regole o valori e fatti dovette però essere riformulata quando la scienza della natura fu intesa non tanto come la descrizione di un sistema meccanico, quanto come una teoria costituita da proposizioni o analitiche o verificate empiricamente. Allora molti sociologi pensarono di aver trovato una formulazione sufficientemente generale del metodo scientifico che si poteva adattare anche alle scienze sociali, ma ai moralisti venne meno il bersaglio contro il quale fino a tutti i primi vent'anni del Novecento si erano esercitati e si profilò una minaccia per le teorie etiche formulate nella polemica contro il determinismo meccanicistico. Nel Tractatus logico-philosophicus del 1922 e in una Lecture on ethics degli anni trenta Ludwig Wittgenstein poteva dire che le espressioni etiche, che non possono essere né vere né false, non hanno significato e Alfred Jules Ayer poteva sostenere in Language, truth and logic (1936) che esse non hanno "significato letterale", cioè, prese alla lettera, non significano nulla. Le argomentazioni etiche sono perciò apparenti e le valutazioni esprimono soltanto stati psicologici soggettivi, emozioni, come le interiezioni.
A partire di qui incominciarono però i tentativi di costruire una teoria etica che, pur compatibile con il riconoscimento che solo le proposizioni scientifiche sono vere o false, fosse tuttavia sensata. Charles Leslie Stevenson in Ethics and language (1944) fece del carattere emotivo attribuito al discorso morale un vero e proprio significato emotivo, che si aggiunge a quello descrittivo delle parole: con questo si suscitano credenze, con quello atteggiamenti. Le "definizioni persuasive" tentano di correggere l'atteggiamento di una persona modificando il significato descrittivo delle parole. Se una persona approva un programma di assistenza che va a scapito di un programma di investimenti, perché ritiene che sia bene aiutare i poveri, la si può persuadere ad approvare il secondo programma mostrandole che esso di fatto sarà un aiuto più efficace per i poveri. Un ragionamento morale consisterà perciò soprattutto nella discussione sui tratti descrittivi che servono a orientare gli atteggiamenti valutativi. Questa interpretazione si richiamava al pragmatismo (J. Dewey, Esperienza e natura, 1925; Logica, teoria dell'indagine, 1938; Teoria della valutazione, 1939), per il quale anche la conoscenza è la ricerca di mezzi per l'azione, più che la riproduzione dell'ordine delle cose o del discorso, e perciò è sempre guidata dalla tonalità emotiva. Né i mezzi sono subordinati a un fine ultimo, perché non c'è fine che non sia controllato dai mezzi disponibili: fini e mezzi sono inseriti in un circolo nel quale gli uni rimandano continuamente agli altri. I pragmatisti accettavano la negazione utilitaristica dei principî ultimi evidenti, ma estendevano questa tesi alla stessa conoscenza scientifica, ricostituendo quell'unità stretta di natura e morale, di conoscenza e azione che era stata propria delle sintesi filosofiche unitarie come l'idealismo e il positivismo.
L'interpretazione emotivistica faceva della morale non un corpo unitario di valori o regole, ma un campo di credenze e valutazioni in conflitto, e si limitava a indicare come si potessero condurre i conflitti senza fare ricorso a imposizioni e a confusioni tra significati descrittivi e significati emotivi. Quest'ultimo punto divenne centrale in tutti i tentativi di costruire un'etica senza ricavarla da conoscenze fattuali, ricadendo nella fallacia naturalistica (S. Toulmin, Esame del posto della ragione nell'etica, 1950; P.H. Nowell-Smith, Etica, 1954), e di elaborare una metaetica che, in analogia con le teorie metalogiche e metalinguistiche nate dall'analisi del discorso scientifico, chiarisse le regole con le quali si fanno ragionamenti etici. Richard M. Hare (The language of morals, 1952; Freedom and reason, 1963; Moral thinking, 1981) distingueva i significati descrittivi, con i quali ci si riferisce alle cose, da quelli con i quali si prescrivono comportamenti. In base alla regola per la quale la conclusione di un ragionamento deduttivo non può introdurre ciò che non sia già assunto nelle premesse, non si può pretendere di derivare una conclusione prescrittiva da premesse puramente descrittive e bisogna enunciare le prescrizioni che si assumono in un ragionamento etico. Tuttavia questo non basta per mettere alla prova le prescrizioni di partenza e per identificare quelle qualificabili come morali. Certi predicati, come 'buono', sembrano descrittivi, come 'rosso', ma sono valutativi, perché implicano sempre degli imperativi universali: quando si dà una valutazione positiva, per esempio dicendo "è bene chiudere le porte", si prescrive un certo tipo di comportamento per un certo tipo di situazioni, cosa che non accade con gli imperativi del tipo "chiudi la porta!". Le generalizzazioni possono essere vincolate, come quando si prescrive un mezzo per raggiungere uno scopo ("è bene chiudere le porte per non prendere il raffreddore"), ma sono regole morali solo quelle che possono essere sottoposte alla prova di universalizzazione, che è una generalizzazione massima, non vincolata al raggiungimento di uno scopo e impegnativa anche per chi propone la norma. Un ragionamento etico è allora quello che con un semplice processo deduttivo ricava un comando o una regola da regole più generali e universalizzabili, mantenendo costanti i significati descrittivi. Da un procedimento razionale di questo genere usciva giustificata una morale, kantiana nella forma, che dovrebbe rendere possibile la convivenza di regole di vita anche diverse sotto la protezione di principî formali universali.
Sulla natura delle norme in generale si è ampiamente discusso: sul rapporto tra norme, imperativi e termini valutativi, oltre che sull'esistenza di una 'logica delle norme', dotata di regole proprie rispetto alla logica delle proposizioni descrittive (Hector Neri Castañeda, Un sistema general de lógica normativa, in "Dianoia", 1957, III; Arthur Norman Prior, Essays in moral philosophy, 1958; Georg Henrik von Wright, Norm and action, 1963; Chaïm Perelman, Études de logique juridique, 1966-1971; Nicholas Rescher, The logic of commands, 1966; Alf Ross, Directives and norms, 1968). Ma uno dei principali vanti del prescrittivismo +-la cura con la quale aveva evitato di cadere nella fallacia naturalistica - gli fu imputato a colpa dalle dottrine etiche che vi videro una concezione ristretta dei fatti, ereditata dall'interpretazione neopositivistica della scienza. Fatti sarebbero anche quelli nei quali si inseriscono le norme, i comportamenti e gli impegni che si assumono, e il linguaggio non avrebbe solo la funzione di enunciare qualcosa o di imporre un comportamento. John Langshaw Austin aveva mostrato (in lavori raccolti postumamente in volumi, tra cui Come agire con le parole, 1955) che, oltre agli atti linguistici illocutori, con i quali si agisce su qualcuno pronunciando parole, come quando si minaccia, si consiglia, si ingiunge, esistono atti linguistici perlocutori, con i quali parlando si esegue qualcosa, come quando si promette. E la nozione di gioco linguistico usata dal secondo Wittgenstein andava nella medesima direzione. J. R. Searle (Speech acts, 1969) sviluppò questi motivi sostenendo che il prescrittivismo aveva misconosciuto l'uso perlocutorio del linguaggio in virtù del quale promesse, impegni, responsabilità, diritti diventano fatti primari: e da questi si possono fare inferenze eticamente rilevanti, senza che intervengano valutazioni o prescrizioni come le intendevano i prescrittivisti. Anche negli Stati Uniti D. Davidson (Inquiries into truth and interpretation, 1984), muovendo dalla critica della filosofia neopositivistica, sviluppò una teoria dell'azione fondata sul primato del carattere comunicativo del linguaggio.Già tra i suoi scolari diretti le idee di Wittgenstein ricevettero un'interpretazione tradizionalistica e religiosa (G. E. M. Anscombe, Collected philosophical papers, vol. III, Ethics, religion and politics, 1981). Ma nel corso del tempo la rivalutazione degli aspetti comunicativi del linguaggio è sembrata sempre di più qualcosa di analogo all'elaborazione dell'ermeneutica filosofica proposta in Germania da Hans-Georg Gadamer (Verità e metodo, 1960), nella quale la tradizione diventava l'oggetto di una conoscenza interpretativa superiore alla conoscenza scientifica e tecnica. La morale poteva così liberarsi dalla condizione di 'inferiorità conoscitiva', della quale aveva sofferto rispetto alla conoscenza scientifica della natura, e rivendicare anzi una superiorità nei confronti di quest'ultima. Su questi presupposti si innesta la cosiddetta filosofia pratica (Manfred Riedel, Rehabilitierung der praktischen Philosophie, 1972-1974), che pretende di riallacciarsi a una tradizione che andrebbe da Aristotele a Hegel e che proclama l'indipendenza della morale dalla conoscenza delle cose. Nell'ermeneutica come nella filosofia pratica e nella scuola di Wittgenstein si è manifestato una sorta di tradizionalismo filosofico che ha riscoperto nozioni come quelle di virtù e di bene, riportate alle loro origini aristoteliche (oltre le opere citate sopra, P.T. Geach, The virtues, 1977; A. MacIntyre, After virtue, 1981). Le teorie etiche che rifiutano la metaetica prescrittivistica sono anche tentativi di prendere 'alla lettera' i contenuti delle regole morali: proprio il contrario della loro interpretazione a suo tempo formulata da Ayer. Da questa il prescrittivismo era pur partito; e aveva conservato un'interpretazione 'funzionalistica' delle regole morali, che vanno considerate per quello che producono, più che per quello che dicono. C'è in questo un certo parallelismo tra la metaetica prescrittivistica e il funzionalismo sociologico. E infatti, al di là delle differenze tecniche, spesso la critica alla metaetica prescrittivistica parte dal rifiuto dell'immagine positiva della società moderna, che sembrava presupposta dalla metaetica prescrittivistica come dalle teorie sociologiche dominanti. È la valutazione negativa del mondo moderno che permette di collegare il tradizionalismo filosofico recente a posizioni radicali come quelle espresse a suo tempo dalla Scuola di Francoforte, dal marxismo dialettico e dai continuatori della critica della cultura. Originariamente questi filoni culturali attribuivano un valore positivo alla trasgressione sociale, intesa come rifiuto dell'ordine vigente. Il tema aveva radici lontane, sia illuministiche sia romantiche, ma era stato riproposto dalle ideologie politiche rivoluzionarie. Dal punto di vista sociologico esso era anche stato analizzato, come "anomia", da Durkheim, che vi aveva visto un fattore di innovazione sociale; e non era estraneo all'interpretazione della funzione conservativa della "morale dell'obbligazione", che Henri Bergson in Le due sorgenti della morale e della religione (1932) collegava alle "società chiuse".
Dopo gli anni sessanta, con le ribellioni giovanili in Occidente e la stagnazione politica nei paesi socialisti, le filosofie che avevano elaborato soprattutto un rifiuto della società industriale moderna incominciarono a cercare nella tradizione filosofica un'alternativa positiva al capitalismo occidentale e al socialismo reale. Più o meno nello stesso periodo in cui la sociologia viveva la propria crisi e l'antropologia strutturalistica cercava nelle società primitive le strutture profonde della vita sociale, si fece ricorso alla tradizione kantiana, immaginando 'nuovi bisogni' cui la liberazione dal dominio del capitalismo avrebbe permesso di farsi sentire e che sarebbero stati in accordo con la razionalità che il kantismo aveva delineato (Ágnes Heller, Sociologia della vita quotidiana, 1970; La filosofia radicale, 1978). Sempre partendo dal marxismo e dalla Scuola di Francoforte si rifaceva a Kant anche Jürgen Habermas, per costruire in numerose opere, tra le quali Teoria dell'agire comunicativo (1981) ed Etica del discorso (1983), una teoria della comunicazione. A questo fine recuperava l'ermeneutica filosofica ma ne respingeva il tradizionalismo. Una teoria della comunicazione non deve trasformarsi in un'apologia della tradizione, e deve riferirsi a una società universale libera dal dominio come a un ideale regolativo, con il quale giudicare e ricostruire le società reali. Temi analoghi ha ripreso Karl Otto Apel (Trasformazione della filosofia, 1973), presentandoli però più marcatamente come una riformulazione della filosofia kantiana, nella quale la teoria del trascendentale viene interpretata nei termini di una teoria della comunicazione tra soggetti.
Molte dottrine filosofiche, quella di Hegel per esempio, e molte ideologie politiche hanno sostenuto e sostengono che nella società moderna la moralità, intesa come imposizione di regole, ha termine, perché i cittadini si riconoscono nella comunità della quale fanno parte. Per l'utilitarismo il cosiddetto 'Stato moderno', più che dalla coincidenza tra morale e diritto, era caratterizzato dalla presenza di un'autorità sovrana che ha il monopolio dell'emanazione delle leggi e della forza con la quale si possono comminare le sanzioni. Ma anche fuori dell'utilitarismo si fece strada l'idea che il diritto fosse costituito solo dalle regole validamente emanate e accompagnate da sanzioni, e che la certezza del diritto esigesse la sua rigorosa separazione dalla morale. La cosa fu reinterpretata in termini kantiani dai sostenitori della 'teoria pura del diritto' (Hans Kelsen, Dottrina pura del diritto, 1933): si poteva considerare la legalità come il valore proprio di un ordinamento giuridico, emancipando le leggi positive dalla subordinazione alla legge naturale, e sciogliere il nesso tra giustizia e legislazione, che aveva ancora gravato sull'interpretazione kantiana della legalità come una specie di degradazione della moralità.
Questa teoria, conosciuta come positivismo giuridico, che fondava la legittimità delle leggi sulla possibilità di ricavarle attraverso una norma fondamentale, era ispirata dall'esigenza di difendere le leggi dalle influenze politiche e dalle convinzioni morali di chi detiene la sovranità. Ma essa era anche il prodotto dello stereotipo culturale che faceva dello Stato moderno il titolare del monopolio della forza. Carl Schmitt (Dottrina della costituzione, 1928; Legalità e legittimità, 1932) poteva così sostenere che l'atto fondamentale istitutivo della legalità risiede in una decisione. Per contro H. L. A. Hart (Il concetto di diritto, 1961) riteneva che la norma fondamentale di un ordinamento giuridico dovesse essere riconosciuta come regola di convivenza di una comunità e potesse essere rintracciata nella costituzione scritta o in quella consuetudinaria, e non soltanto essere ricavata attraverso la ricostruzione formale di un ordinamento. Infine i sociologi del diritto (Niklas Luhmann, Sociologia del diritto, 1972) hanno mostrato che l'importanza data all'applicazione delle sanzioni dal positivismo giuridico è eccessiva, perché le leggi non si limitano a reprimere comportamenti, ma hanno anche una rilevante funzione comunicativa che genera comportamenti originali, diversi da quelli vietati e sostitutivi di essi.
D'altra parte gli atti internazionali successivi alla seconda guerra mondiale e al processo di Norimberga, il programma dell'Organizzazione delle Nazioni Unite a favore dei diritti dell'uomo, le vaste campagne di difesa dei diritti umani, sia in sede internazionale sia all'interno di molti Stati, hanno indebolito l'idea che la sovranità nazionale debba essere considerata la fonte suprema della legalità. Perciò nella pratica sociale e politica, ma anche nella prassi giudiziaria, si è introdotta la convinzione che possa essere insufficiente giustificare una decisione giuridica riportandola a regole dell'ordinamento vigente. E questo ha sollevato dubbi sulla possibilità di separare le argomentazioni morali da quelle giuridiche. Già le teorie metaetiche avevano illustrato l'affinità 'formale' dei procedimenti, anche se si potevano mantenere separati i rispettivi 'principî'. La contrapposizione tra principî morali e principî giuridici diventa meno netta se si intendono i principî non come assiomi di tipo logico-matematico, perfettamente esplicitabili, ma come ciò cui si rifanno, nei processi argomentativi ai quali ricorrono, giudici, amministratori, avvocati e cittadini di fronte a una corte di giustizia o anche quando devono prendere una decisione per proprio conto. La distinzione tra morale e diritto tende a diventare una distinzione significativa - se non altro perché il diritto ha le proprie istituzioni e i propri ufficiali - ma non assoluta, perché il ragionamento giuridico è dello stesso tipo del ragionamento morale e non è del tutto precluso il passaggio da un campo all'altro. Partendo da queste esperienze giuridiche R. Dworkin (I diritti presi sul serio, 1977) ha formulato una teoria etica dell'uguaglianza per la quale un ordinamento è giusto solo se assicura "uguale rispetto e considerazione" per tutte le concezioni della vita, una teoria diversa da quella, in fondo comune all'utilitarismo e al positivismo giuridico, che assicura ai cittadini soltanto un 'trattamento uguale' per tutti. E si è delineata la figura del 'titolare di diritti', che non hanno bisogno di essere sanciti da una legislazione positiva, ma sui quali semmai si misurano e si valutano gli ordinamenti vigenti (A. Gewirth, Human rights, 1982).
Nonostante la separazione tra diritto e morale sancita dall'immagine canonica dello Stato moderno, la convinzione che lo Stato dovesse provvedere al benessere dei cittadini aveva introdotto nella legislazione e nell'applicazione del diritto una prassi utilitaristica ispirata al criterio del 'trattamento uguale'. Ma a partire dagli anni sessanta la crescita continua delle economie capitalistiche e la costruzione del Welfare State hanno dato segni di crisi. L'opposizione all'utilitarismo, costante nelle dottrine filosofiche, non era mancata neppure all'interno della cultura economica (L. Robbins, An essay on the nature and significance of economic science, 1932; F. A. von Hayek, Law, legislation and liberty, vol. II, The mirage of social justice, 1976): si rimproverava all''economia del benessere' di prospettare un tipo di felicità uguale per tutti. Già la formula benthamiana del massimo benessere per il maggior numero di persone era un errore matematico, perché conteneva la massimizzazione contemporanea di due funzioni come il benessere e il numero delle persone (J. von Neumann e O. Morgenstern, Theory of games and economic behavior, 1944). Ma neanche la massimizzazione del benessere collettivo, inteso come la somma dei beni individuali, cioè come qualcosa che si delinea a partire dalle preferenze dei singoli, era facile: anche osservando i vincoli richiesti dalla costruzione di una funzione di utilità collettiva come somma delle funzioni di utilità individuale, non era possibile disporre le preferenze in un ordine tale che permettesse di ricavare una preferenza collettiva unica da una sequenza di preferenze individuali (K. J. Arrow, Scelte sociali e valori individuali, 1951).
Di fronte a questa situazione l'utilitarismo contemporaneo ha ripreso con John Harsanyi (Essays in ethics, social behavior, and scientific explanation, 1976) una formula classica fin dai tempi di Adam Smith, distinguendo tra l'atteggiamento di chi provvede alla soddisfazione massima del proprio interesse e quello di "un osservatore simpatetico ma imparziale" che persegua il pubblico interesse. Questi valuterebbe ogni situazione sociale in termini di livello medio di utilità, e il suo sarebbe un giudizio morale che terrebbe nel medesimo conto gli interessi di tutti. Un giudizio del genere si può presentare come la massimizzazione di una funzione di utilità, che assegni a chi giudica la medesima probabilità di chiunque altro di esser collocato in una qualsiasi delle posizioni, dalla migliore alla peggiore, previste nella società. Il quadro globale della società, con le diverse funzioni e livelli, dovrebbe non essere delineato a priori, ma essere costituito tenendo conto delle preferenze effettive, cioè rispettando il principio di accettazione o della sovranità del consumatore. Tuttavia non tutte le preferenze possono essere ammesse: non si devono prendere in considerazione quelle antisociali, che contrastano con i giudizi fondamentali di valore, per esempio le preferenze sadiche. Inoltre, in base alla prescrizione dell'utilitarismo della regola (proposto da R. F. Harrod, Utilitarianism revised, in "Mind", 1936, XLV, anche se l'espressione fu coniata da R. B. Brandt, Ethical theory. The problems of normative and critical ethics, 1959), bisognerebbe designare non direttamente i comportamenti, bensì le regole dall'osservanza delle quali essi derivano.
La revisione dell'utilitarismo assorbiva molto universalismo kantiano, eppure era ritenuta ancora insoddisfacente. La costruzione di una funzione di utilità collettiva sulle preferenze effettive degli altri, e non solo sulle proprie, presuppone la possibilità di confronti interpersonali. A parte il problema filosofico generale - se esistano leggi psicologiche uniformi - i confronti interpersonali potrebbero restringere le procedure utilitaristiche a società culturalmente uniformi. Inoltre il neoutilitarismo continuerebbe a presupporre un'organizzazione sociale soprattutto efficiente, che mira alla massima produzione di un benessere medio uniforme per tutti, e a questa condizione esso subordinerebbe l'ammissione di modi di vita nella società e l'accesso a essi.In parte si tratta di critiche già rivolte all'idea di società del benessere, che non consentirebbe ai cittadini di condurre la propria vita secondo le proprie preferenze effettive e presupporrebbe uniformità sociali inesistenti, realizzando così gradi di libertà e uguaglianza inferiori a quelli possibili. L'utilitarismo classico aveva affrontato il problema dell'uguaglianza ammettendo processi ridistributivi, che oltre a tutto sarebbero stati necessari anche per la migliore allocazione possibile dei beni. Ma era risultato difficile immaginare ridistribuzioni stabili, che non fossero dettate dalla massimizzazione dell'utile. L'economia del benessere aveva supposto che la ridistribuzione potesse essere effettuata in modo non diseconomico per via legislativa, solo per quel tanto per cui la società reale si scosta da una situazione di mercato perfetto. La critica all'economia del benessere mostrava come fosse impossibile trovare una misura oggettiva di quello scostamento e del benessere da produrre per via legislativa.
La stabilità della ridistribuzione poteva dunque essere garantita solo da un criterio diverso da quello economico. La teoria della giustizia elaborata da John Rawls (A theory of justice, 1971) la affidava a un criterio morale, ma riteneva che si potesse ricostruire la condotta morale come scelta razionale, nel senso che anche i neoutilitaristi davano a questo concetto. Il neoutilitarismo aveva presentato il giudizio morale come imparziale, cioè come quello che formulerebbe un essere razionale senza sapere quale posizione occuperà nella società. Anche la teoria della giustizia immaginava una situazione originaria nella quale, prima di entrare a far parte di una società, individui razionali debbano stipulare un ipotetico contratto "sotto un velo di ignoranza", cioè senza sapere esattamente quale posizione occuperanno nella società. In questa situazione essi accetterebbero di vivere "secondo giustizia come equità", il che si specifica attraverso due principî fondamentali: 1) ciascuno deve aver diritto al più ampio sistema di libertà fondamentali compatibili con il godimento del medesimo diritto da parte di tutti gli altri; 2a) le disuguaglianze sociali ed economiche devono giovare ai meno avvantaggiati; 2b) esse devono essere connesse a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa uguaglianza. Le diseguaglianze sociali sono computate in termini di "beni sociali primari", cioè di quei beni che - come diritti e libertà fondamentali, possibilità di mutare occupazione, istruzione, ricchezza, reddito, ecc. - sono strumentali per realizzare i progetti più diversi.
Secondo alcuni critici questa teoria della giustizia rinunciava alla massima efficienza globale e sostituiva il criterio della massima efficienza media con la massimizzazione dei livelli minimi (maximin), cioè con la massima protezione dei meno avvantaggiati. Ma soprattutto rinunciava a ricavare la moralità dal calcolo del proprio interesse, sia pure in condizioni di ignoranza, e preferiva indicare principî che esseri razionali accetterebbero in una stipulazione ipotetica. In questo senso essa è una teoria etica normativa perché, a differenza dal calcolo utilitaristico e dalla metaetica prescrittivistica, non si limita a indicare procedure, ma formula contenuti.
Ricavare dalla supposizione che ci fosse un contratto istitutivo della società il contenuto della morale poteva sembrare arbitrario alle teorie etiche prescrittivistiche, timorose della fallacia naturalistica; ma era un procedimento classico dei filosofi dell'età moderna, da Hobbes a Locke e Rousseau. Tuttavia nella cultura contemporanea, come in quella moderna classica, lo schema contrattuale è stato riempito di contenuti diversi, perfino opposti. È sembrato che una società come quella disegnata dalla teoria della giustizia ispirata al maximin dovesse imporre notevoli trasferimenti di poteri alla comunità, mentre la vera alternativa all'economia del benessere sarebbe dovuta consistere nel progetto globale di una società che potesse nascere da trasferimenti limitati di potere nel rispetto dei diritti di proprietà degli uomini sulle cose. Ispirandosi a questi motivi R. Nozick (Anarchy, State and utopia, 1974) proponeva l'idea di "uno Stato minimo", che deve garantire a ciascuno la possibilità di coltivare i propri progetti di vita, le proprie 'utopie' personali.Al di là dell'attribuzione di contenuti diversi al contratto originario, quel che cambiava era l'impostazione delle teorie etiche. Quelle tradizionali avevano trattato del rapporto tra gli uomini e il mondo, le cose, perfino la divinità, considerando tutti i termini del problema come dati e stabili. Anche la metaetica prescrittivistica, come l'utilitarismo, aveva considerato stabili gli interessi degli uomini e le tecniche per soddisfarli. Invece le teorie contrattualistiche ponevano il problema del rapporto tra le condotte di più uomini, supponendo che queste possano variare le une in vista delle altre. Situazioni di questo genere erano affrontabili, già secondo von Neumann che vi aveva visto un'alternativa alle teorie utilitaristiche classiche, con la teoria dei giochi. Facendo ricorso a essa si è cercato di individuare casi nei quali strategie cooperative permettessero di raggiungere soluzioni ottimali in giochi competitivi (J. Buchanan, The limits of liberty, 1968; J.C. Harsanyi, Rational behavior and bargaining equilibrium in games and social situations, 1977; D. Gauthier, Morals by agreement, 1986; B. Barry, Theories of justice, 1989). Se fosse possibile ottenere soluzioni univoche di questo tipo si potrebbe costruire una teoria etica razionale che soddisferebbe le richieste di molte dottrine morali classiche: la cooperazione sarebbe infatti una condotta non supererogatoria e non in contrasto con il perseguimento del proprio interesse.
Non disponiamo di conoscenze dirette significative sulle basi biologiche dei comportamenti che la tradizione ha qualificato come 'morali', sicché i tentativi di trovare un fondamento naturalistico dell'etica rischiano di risolversi per ora in pure speculazioni. A parte i pregiudizi culturali che le hanno colpite, oggi sociobiologia ed etologia umana non sembrano promettere nulla di più delle estrapolazioni che sono già state tentate. Né si nutre gran fiducia che le discipline storico-sociali possano offrire la base per la costruzione di teorie etiche. La filosofia della storia è spesso servita in passato a ricavare morali dalla ricostruzione del corso storico; ma né la storiografia sembra capace di produrre sintesi ampie delle vicende storiche, né la filosofia della storia riscuote grande successo. Per altro la sociologia ha perso molta fiducia negli schemi funzionalistici che avevano permesso di costruire spiegazioni simili a quelle delle scienze naturali, e lo strutturalismo antropologico si è rivelato uno schema concettualmente troppo povero per essere soddisfacente.In questa situazione il ricorso alle teorie delle decisioni e dei giochi è apparso il modo più attendibile per costruire una teoria etica che abbia una qualche base scientifica. L'itinerario indicato dalla tradizione utilitaristica, per stabilire un rapporto tra la morale e la conoscenza oggettiva, sembra essere sopravvissuto ai tentativi in questo senso compiuti in nome del positivismo, del naturalismo evoluzionistico, della filosofia della storia o delle scienze sociali. E si capisce anche perché. L'utilitarismo classico partiva da presupposti fattuali abbastanza onerosi, ma poi via via li ha attenuati, e in ogni caso le dottrine utilitaristiche li enunciano esplicitamente e li valutano, mentre quasi tutte le altre prospettive fanno assunzioni anche più onerose, spesso senza neppure darne conto. Inoltre le teorie etiche utilitaristiche non pretendono di descrivere in modo completo i comportamenti morali effettivi, ma propongono tipi possibili di comportamenti morali, e li valutano come soluzioni di problemi assai ben formulati. In questo modo esse non peccano, o non peccano troppo gravemente, contro il divieto della fallacia naturalistica che è rimasto un tabù della nostra cultura etica. Ma soprattutto rendono possibile un confronto tra soluzioni diverse abbastanza ben distinguibili.
L'uso di queste tecniche concettuali ha stabilito un rapporto speciale tra l'etica e l'economia. Al di là della tradizione utilitaristica, sta il fatto che anche l'economia è una disciplina con un importante contenuto normativo, che affronta problemi connessi alla compatibilità tra comportamenti non originariamente vincolati alla collaborazione. Inoltre le questioni concernenti benessere, distribuzione di beni, regolamentazione della vita pubblica, comunemente trattate dagli utilitaristi e oggetto proprio dell'economia, sono diventate problemi di tutti nelle società industriali contemporanee, anche sull'onda delle ideologie politiche dominanti.L'applicazione delle teorie delle decisioni e dei giochi non ha dato risultati definitivi, e anzi autori diversi hanno ottenuto risultati discordanti. Le soluzioni più prudenti definiscono una sfera di collaborazione assai ristretta. Le teorie che tendono ad allargarla hanno bisogno di assunzioni speciali che operano o iniettando nell'utilitarismo parecchio universalismo kantiano, come ha fatto Harsanyi, o considerando la cooperazione morale come un fine autonomo che si intende perseguire vincolando a esso il raggiungimento dei propri fini personali, come ha fatto Gauthier. In questi casi sembra che l'etica filosofica tradizionale venga in aiuto alle teorie formali. La cosa è comprensibile. I filosofi hanno sempre costruito la morale come un insieme di regole che garantisce il raggiungimento di qualche cosa: la tranquillità, la liberazione dalle paure, la collaborazione, la sicurezza, il benessere, la benevolenza divina, ecc. A questo scopo hanno spesso semplificato molto la realtà, per garantire l'efficacia delle regole che proponevano. Non è sorprendente che l'applicazione di teorie filosofiche introduca semplificazioni favorevoli al disegno di zone di collaborazione piuttosto ampie.Inoltre i filosofi hanno spesso dato all'etica una posizione 'alta' nella gerarchia del sapere, collegandola direttamente a cose come 'la natura umana' o 'i fondamenti del sapere'. Così si poteva pretendere che le regole di vita predicate dai filosofi avessero titolo al controllo sulle altre attività e forme di sapere. Questa interpretazione spesso agisce anche nelle forme apparentemente più spregiudicate di razionalizzazione dell'etica. Attualmente ha la sua realizzazione più forte nelle teorie etiche che riprendono il trascendentalismo kantiano e pretendono di delineare le condizioni che renderebbero possibile una comunità mondiale. Sono soprattutto le teorie a base comunicativa, come quelle di Habermas o di Apel, che si rifanno all'ermeneutica e costruiscono un quadro tutto sommato ottimistico. Proprio perché si ritiene che l'etica sia così 'fondamentale', si può condannare, come una degenerazione tipica della società di massa, industriale e moderna, tutto ciò che non si adegua alle condizioni poste dalla teoria.
C'è anche un secondo possibile impiego della tradizione filosofica. Le interpretazioni che riducono al minimo la zona di cooperazione ammettono che è possibile concepire una società nella quale i singoli cerchino di realizzare i propri progetti, le proprie utopie. Rispetto a questa prospettiva la descrizione utilitaristica classica dell'individuo autointeressato risulta povera e paiono più adeguate dottrine filosofiche classiche. Non è una cosa limitata all'etica. Via via che nelle discipline cognitive in generale si affrontano situazioni più complesse, non aggredibili con strumenti empirici o formali tradizionali, le concettualizzazioni filosofiche possono apparire più utili, almeno in prima approssimazione, per descrivere i nuovi oggetti di indagine. Su questa prospettiva si inserisce però un'altra interpretazione della morale, lontana dall'universalismo ottimistico. Autori come Thomas Nagel (Questioni mortali, 1979) o Bernard Williams (L'etica e i limiti della filosofia, 1985) insistono sul carattere originario delle questioni morali, ma anche sul fatto che sono questioni personali, che non si possono far sparire entro una teoria generale: fare una cosa per ragioni personali può essere eticamente tanto significativo quanto farla per ragioni universali. Mentre le teorie universalistiche hanno di solito ripreso i contenuti più tradizionali dell'etica filosofica, quelle meno preoccupate dell'universalità hanno proposto contenuti nuovi, come il godimento delle relazioni personali, della vita in sé, della sessualità, il rifiuto del dolore, la libera disponibilità della propria esistenza e così via.
Svincolata da potenti prospettive generali che garantiscano il successo dei comportamenti considerati moralmente positivi, l'etica si presta non tanto ad affrontare la disciplina universale di tipi o famiglie di comportamenti, quanto a illustrare problemi nuovi e anche conflitti, che non è facile introdurre negli ordinamenti normativi formalmente organizzati. Un caso tipico è il suo uso per introdurre i nuovi soggetti di diritti. Oggi si parla spesso non solo di diritti indipendenti da precisi contesti giuridici, per esempio quando si tratta di diritti umani non recepiti in ordinamenti positivi, ma anche di diritti di persone non ancora nate (le generazioni future), di 'non persone' (come gli embrioni o i feti), degli animali, perfino delle piante o delle pietre o dell'ambiente in generale. I giuristi spesso diffidano di queste rivendicazioni, non riferibili a soggetti giuridici tradizionali e nelle quali ci sono diritti senza corrispondenti obblighi ben statuiti. Eppure è una caratteristica delle teorie etiche introdurre diritti da rivendicare, ai quali non corrispondono obblighi previsti dagli ordinamenti. E probabilmente altre dissimmetrie del genere si potrebbero trovare. Esse ovviamente tendono a non emergere nelle dottrine etiche universalistiche, che offrono garanzie al successo dei comportamenti che raccomandano, ma sono ospiti abituali delle dottrine etiche che insistono su problemi e conflitti.Una tipica 'nicchia' per teorie etiche è costituita dalla cosiddetta etica applicata. Essa non è la semplice applicazione di principî morali generali a casi particolari, come la politica, gli affari economici, la medicina e in generale la cura della salute. Questo è sempre avvenuto e si è tradizionalmente riconosciuto che l'applicazione dei principî etici può comportare adattamenti, che è compito della casistica proporre. E non si tratta neppure di quelle che tradizionalmente sono note come etiche professionali: queste sono corpi di regole che devono garantire la correttezza della pratica professionale dei prestatori d'opera, sia nei loro rapporti reciproci sia verso i clienti. Dove esiste un'etica professionale, l'etica applicata incomincia quando l'etica professionale incontra problemi che non ha mezzi per risolvere, perché si tratta di problemi che non nascono dal comportamento di professionisti singoli ma concernono la professione come tale. L'etica applicata sorge anche quando una disciplina giuridica non è ancora intervenuta o non può intervenire per risolvere i casi in modo completo. Due branche dell'etica applicata sono particolarmente significative: l'etica degli affari e la bioetica. Entrambe intervengono in territori fittamente regolamentati da norme tecniche e da norme giuridiche positive. Ma lo spazio propriamente etico è quello lasciato 'scoperto' dalle altre norme o perché è difficile regolamentarlo con interventi legislativi o per il carattere mobile delle prestazioni da regolamentare o perché esistono conflitti che in linea di principio è difficile sanare.
Filosofi, letterati, profeti religiosi hanno spesso condannato l'attività finanziaria ma anche quella commerciale, che sembravano avere come unico scopo la produzione di ricchezza non accompagnata dalla produzione di beni. Poi la condanna fu estesa alla produzione, soprattutto quando questa ebbe acquistato il carattere industriale, che la subordinava al profitto. Molti moralisti hanno sostenuto la necessità di riportare tutte le relazioni economiche sotto il controllo della morale, intesa come un sistema di principî e valori superiori alle regole interne dell'attività economica. Secondo Max Weber il capitalismo moderno nacque quando si riconobbe un valore morale alla ricerca del massimo profitto: certamente lo sviluppo della società industriale ha indotto a vedere nel mercato e nella concorrenza un meccanismo moralmente positivo, che permette ai migliori di emergere e assegna loro i dovuti riconoscimenti. Per molto tempo i moralisti hanno pronunciato condanne, assoluzioni o esaltazioni dell'attività economica pensando all'imprenditore singolo. Qualcosa è mutato quando si è cominciato a considerare l'impresa come l'unità nella quale si svolge l'attività economica caratteristica del mondo industriale contemporaneo. L'impresa però poteva essere ricondotta all'imprenditore individuale classico, se la si intendeva come un'entità caratterizzata da rapporti collaborativi al proprio interno per il raggiungimento di un fine comune, costituito dalla produzione del massimo profitto, da realizzare in un mercato esterno competitivo e da distribuire ai proprietari dell'impresa stessa.
Questa interpretazione è stata tuttavia messa in difficoltà dal modo in cui le imprese si sono di fatto sviluppate. Il proprietario spesso non prende più decisioni nella conduzione dell'impresa, anche perché è stato sostituito dal possessore di azioni. Chi guida l'impresa è un corpo di managers che possono anche non possedere nessuna azione dell'impresa, e sono al servizio dell'impresa e non dei suoi proprietari-azionisti. Essi possono condurre l'impresa in modo da favorirne la durata, la sopravvivenza, la quantità o la qualità degli investimenti, più che il semplice aumento del profitto. Interpretando la propria funzione in questo modo i managers giustificano comportamenti - nei confronti dell'autorità politica, dei poteri locali, dei dipendenti, dei fornitori e dei clienti - che potrebbero non essere approvati dagli azionisti. La funzione indipendente dei managers è andata di pari passo con il riconoscimento della responsabilità sociale dell'impresa. Sull'esistenza di una 'responsabilità sociale dell'impresa' si è svolta una importante discussione, che ha condotto al riconoscimento di coloro che, oltre il proprietario, hanno parte nell'impresa. Managers, appunto, ma anche dipendenti, clienti, fornitori, comunità locale e società politica sviluppano intorno all'impresa aspettative e diritti. I dipendenti sono interessati alla sicurezza del lavoro e al livello delle retribuzioni, i clienti alla qualità del prodotto e alla continuità della sua offerta, i fornitori alla stabilità della domanda, la comunità alla presenza dell'impresa, ma anche alle sue conseguenze sulla vita sociale e sull'ambiente, la società politica agli effetti dell'impresa sull'insieme dell'economia nazionale e internazionale.
Diventava facile per i managers sostenere che essi possono garantire la realizzazione dei veri fini dell'impresa, intesa in senso più largo, come quella che realizza gli interessi di tutti coloro che hanno parte in essa. I managers tuttavia potrebbero condurre l'impresa in modo non economico, per garantire il proprio potere e le proprie retribuzioni, e a questo scopo potrebbero stabilire accordi con alcuni degli aventi parte, per assicurare la propria posizione a scapito degli interessi dell'impresa. Questa potrebbe allora rivelarsi non tanto come il luogo della collaborazione, quanto come il campo di una competizione interna tra gli aventi parte all'impresa; e proprio la competizione tra gli aventi parte dovrebbe produrre la massima efficienza di ciascuno di essi e alla fine dovrebbe collocare l'impresa al livello ottimale anche nel mercato esterno.Poiché è difficile darne un'interpretazione esclusivamente concorrenziale verso l'esterno ed esclusivamente collaborativa verso l'interno, l'impresa è apparsa il punto di riferimento di relazioni che non possono essere considerate esclusivamente economiche. Questo ha fatto sì che le imprese venissero fatte oggetto di richieste o contestazioni alle quali non era possibile rispondere con pure argomentazioni economiche. Si sono così potuti mettere in questione i vincoli imposti dai rapporti di lavoro sui comportamenti personali (la cosiddetta 'fedeltà all'impresa'), le campagne pubblicitarie, i rapporti economici con paesi che praticano discriminazioni razziali o che non riconoscono la libertà di organizzazione dei lavoratori dipendenti, la disparità di trattamento di donne o minoranze razziali, il rapporto con l'ambiente. Sono questi i problemi, difficili da trattare facendo riferimento alla razionalizzazione interna o alle esigenze di mercato, che hanno dato luogo, a partire dagli anni settanta, a quella che ha preso il nome di 'etica degli affari'. Per rispondere alle sfide sopra esemplificate si sono adottati codici di comportamento che dovrebbero indicare condotte da tenere quando diventa difficile prendere decisioni con tecniche adatte a comportamenti puramente competitivi. Codici di questo genere sono stati chiamati 'etici' proprio perché non discendono da criteri di tipo economico e servono ad affrontare i conflitti che possono sorgere tra l'impresa e le sue parti o anche tra l'impresa e il mondo esterno.
L'etica degli affari dovrebbe anche offrire i criteri astratti per la formulazione dei codici, e per questo si è spesso fatto ricorso alle teorie etiche generali. Non è mancato il tentativo di riprendere in questa occasione l'atteggiamento di condanna dell'attività economica e della società industriale moderna, che caratterizza tanta parte della letteratura filosofica, e di assegnare all'etica degli affari il compito di riportare la vita economica contemporanea a una pretesa morale universale o alla morale tradizionale. Ma più vicine al tipo di problemi che l'etica degli affari deve affrontare sono le teorie che hanno costruito modelli di comportamenti morali collaborativi non in contrasto con i comportamenti competitivi, che sono propri dell'attività economica. Si tratta di un compito affine a quello che si sono assegnate le più sofisticate teorie etiche contemporanee, e per questa ragione l'etica degli affari ha impiegato teorie utilitaristiche o contrattualistiche, oppure ha applicato la teoria delle decisioni e la teoria dei giochi. Tuttavia neppure l'etica degli affari, come l'etica generale, ha costruito un corpo teorico relativamente unitario: anche qui sono stati formulati modelli, abbozzi di teorie, estensioni di teorie, analogie, ecc., spesso a partire da teorie economiche o da teorie filosofiche generali. Per questo si è anche sostenuto che l'etica degli affari deve offrire soprattutto schemi di argomentazioni, che possono essere usati quando devono essere elaborati o discussi codici di comportamento o quando le imprese o i loro membri devono affrontare problemi che non sono risolvibili con le tecniche usate per affrontare il mercato. L'etica degli affari perciò non dovrebbe preoccuparsi delle teorie generali e dei loro principî astratti, ma dovrebbe attenersi a principî intermedi, che consentano alle parti interessate la costruzione di argomentazioni efficaci.
Quella medica fu una delle prime professioni colte a darsi regole che dovevano assicurare una certa uniformità nel comportamento del medico di fronte al paziente, ai suoi familiari e ai colleghi. L'esistenza di una corporazione medica ha contribuito a far dire che nella società tradizionale il rapporto tra medico e malato è paternalistico, e perciò autoritario, e che a esso nella società moderna si sarebbe sostituito un rapporto contrattualistico. Ma una svolta importante nella storia della medicina occidentale è stata la trasformazione ottocentesca del medico in figura pubblica e della medicina in scienza di pubblica utilità. Tra Settecento e Ottocento la professione medica fu ridefinita su nuove basi, con una chiusura netta, legalmente sancita, verso le pratiche che sembravano non rispettare i canoni dell'accettabilità scientifica; contemporaneamente fu promosso l'accrescimento delle conoscenze mediche e il loro uso nella regolamentazione della vita pubblica. Su obblighi e responsabilità dei medici dovevano vigilare gli organi della giustizia ordinaria, ma anche associazioni specifiche di categoria, deputate a emanare codici deontologici e a sorvegliare la condotta dei medici. Nacque anche una disciplina specifica, la medicina legale, che tra le altre competenze aveva quella di studiare e insegnare le regole che disciplinano la professione medica.
Si potrebbe pensare che la bioetica sia semplicemente un nuovo modo di designare l'attività normativa che ha sempre accompagnato la medicina, e che la novità del nome si riferisca a una svolta interna dei modi nei quali la medicina si esercita. C'è chi interpreta così la bioetica e tende ad assorbirla nella medicina legale, eventualmente nella sua parte deontologica. Ma questa impostazione mette in ombra le innovazioni che hanno generato la bioetica. Gli ospedali sono diventati il solo luogo nel quale si esercitano le prestazioni mediche più impegnative e si curano tutte le malattie importanti, e l'assistenza medica si è estesa a larghe fasce della popolazione, via via che si è sviluppata l'industrializzazione e lo Stato ha assunto compiti di protezione sociale. Ciò è accaduto soprattutto nell'Europa occidentale e ha condotto all'organizzazione della medicina pubblica, che ha indebolito il profilo professionale del medico.
Sono stati i movimenti di rivendicazione dei 'diritti del malato' che hanno portato alla luce il problema della trasformazione delle regole morali profonde connesse all'esercizio della medicina. Questi movimenti si rifacevano ai diritti dell'uomo e la prima rivendicazione era ovviamente il controllo del paziente sul trattamento medico: di qui discendevano il diritto del malato di disporre della più ampia informazione disponibile, relativa alla situazione particolare e alle conoscenze mediche generali, e di effettuare le scelte rilevanti in luogo del medico, al quale non si riconosceva un'autorità preminente. Ma l'aspetto più importante era il contenuto delle scelte che il malato pretendeva di fare rivolgendo al medico richieste di tipo nuovo. Dal medico si potevano pretendere prestazioni per il controllo della generazione: per limitarla, con la contraccezione o con la sterilizzazione, o per promuoverla, combattendo la sterilità con tecniche di inseminazione. Ma di fronte al medico il malato poteva far valere anche il diritto di porre termine alla vita con l'eutanasia. Il punto centrale che emergeva da questa impostazione era il riferimento alla vita: questo, più che il diritto di intervenire in modo sostanziale nel governo della propria salute, sembrava porre particolari problemi morali. Il medico smetteva di essere una specie di garante della vita, che non costituiva più un limite invalicabile del suo intervento.
La rivendicazione dei diritti del malato fu accolta in settori significativi della cultura protestante, ma fu soprattutto la tradizione utilitaristica, nella quale la sofferenza era stata considerata come un male e si erano giustificati il suicidio, l'aborto e il controllo delle nascite, a offrire le ragioni profonde per il movimento nel suo insieme. Ma mentre l'utilitarismo apprezzava la scienza e la tecnica moderne e aveva promosso l'intervento della medicina nella vita pubblica, i movimenti che si proponevano di rivedere il rapporto tra medico e malato esprimevano anche una specie di rifiuto della medicina e di difesa contro di essa, considerata semplicemente come un prodotto della svolta industriale e tecnologica della società contemporanea. Il nome stesso 'bioetica' nasce in questo ambito. Proponendolo V.R. Potter (Bioethics: bridge to the future, 1971) intendeva non riferirsi all'applicazione dell'etica corrente alla medicina, ma sostenere che le scienze biologiche avrebbero potuto prospettare un diverso rapporto dell'uomo con la natura, evitando che l'uomo, forte del possesso delle scienze fisiche, pensasse soltanto a sfruttarla e a inquinarla. La bioetica doveva perciò essere un'alternativa alle concezioni morali correnti e favorire un inserimento armonico dell'uomo nella natura, per la quale egli non sarebbe più stato "una specie di cancro". Con questo programma si intendeva sì riportare la scienza sotto la morale, ma si riteneva che il cambiamento radicale della mentalità scientifica, dovuto allo sviluppo del sapere biologico, avrebbe prodotto una nuova morale con la quale la medicina si sarebbe spontaneamente conciliata.
La spiccata ostilità per la scienza e per la tecnica ha impregnato una parte importante della bioetica: alla medicina si è imputato di aver assorbito in un linguaggio scientifico apparentemente neutrale precise scelte morali e di aver elaborato un vero e proprio progetto di dominio, di 'medicalizzazione' di tutta la vita umana. Perfino nella descrizione delle malattie si è voluto vedere un tentativo di ridurre fenomeni umani importanti alla dimensione che poteva essere sottoposta alle manipolazioni dei medici.Potter poteva sperare in una 'rivoluzione biologica' che avrebbe affrancato la medicina dalla scienza fisica della natura. La rivoluzione in un certo senso ci fu, ma le innovazioni mediche, dovute proprio alla rivoluzione biologica, anziché produrre un accordo spontaneo di medicina e morale, hanno posto problemi sempre più acuti, di rapporto tra pratiche mediche correnti o possibili e norme etiche. In questa situazione l'idea di riportare la medicina sotto il controllo della morale è parsa assai più importante dell'attesa di un'improbabile palingenesi biologica. La cultura cattolica, che aveva respinto la rivendicazione dei diritti del malato in contrasto con la morale cristiana tradizionale, ha trovato buone ragioni per assegnare alla bioetica il compito di disciplinare sapere biologico e prassi medica applicando quelli che considera principî e valori chiaramente enunciabili con i poteri naturali della ragione e attraverso l'insegnamento della Scrittura e della Chiesa.
Proprio gli sviluppi tecnici della medicina hanno reso sempre più difficile far coincidere i programmi di difesa del paziente dalla medicina stessa e dal medico con la soluzione dei problemi sollevati dalla difesa dei diritti del malato. D'altra parte le nuove possibilità offerte dalla medicina hanno permesso a credenze morali non tradizionali di presentarsi, da un lato, come possibili soluzioni di problemi, dall'altro come programmi di comportamento accettabili. La tecnologia medica ha ottenuto risultati importanti nel prolungamento della sopravvivenza anche in condizioni estreme, soprattutto per gli ammalati di cancro in fase terminale e per quelli colpiti da gravi lesioni cerebrali. In un caso e nell'altro la sopravvivenza è dovuta alla possibilità sia di superare gli episodi che potrebbero accelerare la fine dell'ammalato sia di assistere con mezzi tecnici le funzioni respiratorie e cardiocircolatorie. Ma in questi casi il medico può trovarsi nella condizione di prolungare la vita del paziente senza dargli prospettive di recupero, talvolta imponendogli sofferenze. Le teorie etiche che, come quella cattolica, pensano di poter riferirsi alla natura come alla sorgente di valutazioni morali, sostengono che si può affrontare l'accanimento terapeutico evitando gli interventi che prolunghino artificialmente la vita senza prospettive di recupero. Ma non si possono prendere misure per porre fine alla vita in nessun modo, una volta che questa sia stata prolungata. Questa valutazione considera la vita come un insieme di funzioni fisiologiche (attività cardiorespiratorie e funzioni cerebrali) che l'intervento umano non può interrompere perché sono dovute alla presenza di un'anima immortale, vero soggetto e causa della vita, secondo l'insegnamento del platonismo antico recepito dal cristianesimo; e la vita come unione di anima e corpo è un dono divino, che l'uomo non può restituire.Il concetto di morte ha però ricevuto un'interpretazione diversa da quella tradizionale con il diffondersi della tecnica dei trapianti di organi. Per permettere un prelievo tempestivo degli organi si è dovuto passare dal concetto tradizionale di morte, intesa come arresto delle funzioni cardiorespiratorie, al concetto di morte cerebrale, da accertare per mezzo di encefalogramma. Anche le teorie etiche tradizionali hanno accettato questa interpretazione della morte, sia perché permette i trapianti, cioè il prolungamento della vita di altri esseri, e può quindi essere considerata un atto di generosità, sia perché sposta solo il segno che la vita è finita.Invece le dottrine etiche tradizionali si sono dimostrate fortemente ostili all'accettazione della morte corticale, intesa come compromissione irreversibile della corteccia cerebrale e perciò delle funzioni intellettuali superiori. A parte i pareri sulla possibilità di recupero dal coma profondo, la morte corticale sembra implicare una diversa interpretazione della vita. Chi accetta il concetto di morte corticale ritiene che l'esistenza di una persona consista soltanto nell'esercizio delle funzioni intellettuali superiori, e che quando queste cessano si è morti, oppure che la continuazione dei processi biologici senza il funzionamento della corteccia cerebrale è pur sempre vita, ma questa non è un dono della divinità, e una decisione umana è sufficiente per interromperla.
Il riconoscimento della possibilità di prendere decisioni di fronte alla morte deriva dall'applicazione sistematica del principio di autonomia. In base a esso ogni cittadino può decidere sul modo di affrontare la fase terminale di certe malattie, e può scegliere di non venire sottoposto a cure di complicazioni sopraggiunte quando una malattia principale grave e irreversibile è in fase terminale. Decisioni di questo genere non sollevano problemi bioetici quando vengono prese privatamente, mentre possono farlo quando il malato è ricoverato in un istituto sanitario pubblico. Per affrontare questa situazione si sono diffusi i cosiddetti 'testamenti di vita', nei quali le persone dichiarano di non voler essere curate delle malattie che dovessero sopraggiungere quando fossero in fase terminale e non più in grado di decidere. Di solito in documenti di questo genere si chiede anche che non vengano risparmiati interventi palliativi che potrebbero abbreviare la vita. La validità dei testamenti di vita nelle legislazioni vigenti è dubbia, anche perché in molti ordinamenti la vita è considerata un bene non disponibile ed è reato incitare al suicidio o favorirlo.Spesso si considerano i testamenti di vita pericolosamente vicini all'eutanasia, almeno alla sua forma passiva, che consiste nel non intraprendere nessuna pratica che possa garantire la sopravvivenza di un malato senza prospettive di guarigione, mentre la forma attiva consiste in pratiche che in quella stessa situazione possano intenzionalmente porre fine alla vita. La morale cristiana condanna il suicidio ed è scarsa anche la letteratura filosofica favorevole a esso. L'argomento principale è quasi sempre di carattere religioso e si fonda sulla non disponibilità della propria vita. I sostenitori dell'eutanasia hanno ovviamente applicato il principio di autonomia, per il quale è il singolo che decide della propria vita, e non si può imporre a nessuno di considerarla come un dono. A sostegno dell'eutanasia viene invocato anche il principio della qualità della vita, per il quale solo una vita dignitosa merita di essere vissuta. Il concetto di 'dignità umana' si trova sempre più spesso applicato nei documenti teorici e pratici sui diritti umani, ai quali perciò l'eutanasia potrebbe essere ricondotta.Il testamento di vita e l'eutanasia coinvolgono i medici e mettono in questione l'interpretazione tradizionale della loro professione. Infatti al medico è affidata la funzione di accertare che intervengano le condizioni previste dal testamento di vita e di tradurne in pratica le disposizioni, e il medico è profondamente coinvolto nell'eutanasia: il paziente dovrebbe poter discuterne con lui e a lui toccherebbe di tradurla in atto. L'accettazione dell'eutanasia pone problemi di regolamentazione: la volontà del paziente deve essere espressa in modo sicuro, per essere certi che essa sussista nel momento in cui l'eutanasia dovrebbe essere praticata. Nel caso delle malattie mentali occorre distinguere tra la volontà del paziente e la manifestazione della malattia.
Strettamente collegata al principio di autonomia è la richiesta del consenso libero e informato del paziente. Il terreno più delicato per la richiesta del consenso è la sperimentazione. Documenti internazionali hanno sancito che non si possono proporre esperimenti se non si è ragionevolmente sicuri che essi non rechino danni certi e prevedibili, e che le persone interpellate devono essere in grado di rifiutarsi. Gli esperimenti devono però avere anche un senso dal punto di vista scientifico in generale; più restrittiva e controversa è la clausola che gli esperimenti abbiano fini non puramente conoscitivi e debbano lasciar prevedere un possibile beneficio per il paziente stesso. Questa condizione agisce in modo severo sugli esperimenti con gruppi di controllo e con il placebo. La richiesta del consenso è un punto largamente condiviso nella letteratura bioetica, ma questo principio ha subito limitazioni in relazione ai trapianti di organi. Si è fatta strada in alcune legislazioni la tendenza a considerare il silenzio una forma di consenso implicito al prelievo di organi dal proprio cadavere, salva sempre la possibilità di dichiarare tempestivamente e nelle forme debite il proprio rifiuto. La stessa morale cattolica ha modificato l'atteggiamento di fronte al cadavere, e sulla proprietà di quest'ultimo da parte del vivente o dei suoi familiari si è fatto prevalere il beneficio che altri può trarne attraverso il prelievo di organi. Più discussa è la possibilità di rendere lecito il dono di organi tra viventi, come già avviene in certi casi con il rene.
Perché il consenso sia effettivo occorre che il paziente possa comprendere le informazioni e trasformarle in elementi di scelta. Non è detto che un paziente debba essere informato di tutti i passi di un processo sperimentale cui gli si chiede di sottoporsi, ché anzi troppi dettagli possono compromettere la sua capacità di comprensione del problema e di decisione. La stessa cosa vale per i trattamenti terapeutici ordinari: anche in questo caso il paziente deve disporre delle informazioni rilevanti per prevedere il proprio stato futuro sul quale dovrà decidere. In un caso e nell'altro le informazioni debbono anche essere comprensibili, cioè debbono essere fornite tenendo conto della preparazione culturale e dello stato soggettivo del paziente.
In certi casi il consenso non basta a difendere dall'accanimento terapeutico, perché il paziente non è più in grado di decidere. Allora le convinzioni morali di chi decide al suo posto diventano importanti: un medico potrebbe non prospettare al paziente certe eventualità, per esempio relative allo stato terminale della malattia, perché ritiene che moralmente su di esse il malato non possa decidere. Casi del genere riguardano non solo la morte, ma anche la nascita. La diagnosi prenatale permette oggi di riconoscere tempestivamente, dopo il concepimento e prima della nascita, malattie genetiche gravi, sicché l'aborto diventa un mezzo per evitare la nascita di individui destinati a condizioni di vita difficili. È un altro caso di applicazione del principio della qualità della vita e della dignità umana. Ma qui più che in altri casi è evidente che si tratta di decidere per un altro: qui quei principî non possono più essere applicati in congiunzione con il principio di autonomia e perciò in questi casi si invoca il principio di beneficenza. Ovviamente non è facile applicare questo principio quando entra in gioco la scelta in luogo di un altro, perché non è facile fissare criteri univoci di beneficenza. Le dottrine etiche tradizionali non ammettono l'aborto neppure di fronte a diagnosi prenatali molto gravi, ma spesso si richiamano ai diritti del nascituro per condannare le pratiche di fecondazione con donazione dei gameti, quando i genitori naturali del nascituro potrebbero non coincidere con i suoi genitori legali, o una donna potrebbe generare un figlio dopo la menopausa o senza conoscerne il padre. La ricerca della generazione a ogni costo, per soddisfare il 'desiderio del figlio', rischierebbe di strumentalizzare il nascituro per la soddisfazione dei genitori o, peggio, di una donna sola ed eventualmente anziana, privando il nascituro di una famiglia 'naturale' e del diritto di conoscere entrambi i genitori naturali. Sembra così che le teorie etiche tradizionalistiche invochino qui la qualità della vita del nascituro, rifacendosi a un principio caro alle teorie etiche non tradizionalistiche. I contenuti però sono diversi, perché le teorie non tradizionalistiche per 'qualità della vita' intendono una vita il più possibile priva di sofferenze gravi, prevedibili e senza possibilità di recupero, non impedita nell'esercizio delle attività intellettuali, mentre le dottrine etiche tradizionalistiche fanno dipendere la qualità della vita del nascituro dalla presenza di una famiglia tradizionale.In generale le dottrine etiche tradizionalistiche guardano con diffidenza a ogni forma di intervento nella generazione: per questo sono contrarie alla pianificazione delle nascite attraverso la contraccezione praticata con mezzi meccanici, con somministrazione di farmaci o con sterilizzazione, mentre ritengono che la generazione artificiale vada rigorosamente frenata, anche se essa può essere decisa a ragion veduta. Alla radice di questo atteggiamento c'è la condanna dell'esercizio del sesso disgiunto dalla riproduzione. Le teorie etiche non tradizionalistiche hanno cercato di solito di dissociare sessualità e generazione, e hanno insistito sul valore positivo della sessualità, ora come mezzo di comunicazione tra esseri umani, capace di stabilire rapporti di intimità e di affetto, ora di per se stessa, comunque sempre relativamente indipendente dalla riproduzione.
Esiste in bioetica un programma di lavoro sul quale c'è un consenso abbastanza ampio: esso consiste essenzialmente nella ricerca di casi nei quali le pratiche correnti non siano più in accordo con le credenze morali diventate dominanti. Ciò avviene per esempio quando la tutela del paziente nei confronti delle istituzioni non appare più abbastanza efficace perché sono cambiate sia le aspettative dei pazienti sia le pratiche mediche che si possono compiere su di essi. Un caso tipico è quello del consenso informato: e infatti la letteratura bioetica è abbastanza concorde in proposito e delinea modi sempre più accurati per garantirlo. Programmi bioetici di questo tipo hanno il loro esito naturale in apposite istituzioni: si tratta dei comitati etici, organismi il cui statuto è spesso incerto dal punto di vista legale ma che, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, hanno talvolta autorità effettiva negli ospedali e nelle istituzioni sanitarie. Può tuttavia accadere che i comitati etici debbano affrontare casi che è difficile ricondurre a regole di condotta largamente riconosciute e approvate: a questi casi può collegarsi la parte più originale della riflessione bioetica. Comportamenti generalmente approvati potrebbero sollevare gli stessi problemi sollevati da comportamenti diventati sospetti: per esempio, se si decide di non infliggere sofferenze alle persone perché il dolore va evitato, si possono sollevare dubbi anche sulla sperimentazione con animali. I cultori di bioetica dedicano una parte della propria attività a ritrovare casi problematici, eventualmente per estensione di casi noti o in analogia a essi, o a immaginare conseguenze problematiche di operazioni apparentemente ammissibili. Questo esercizio si collega a un'altra funzione che possono esercitare comitati etici di livello diverso rispetto a quelli che operano presso le singole istituzioni sanitarie. Si tratta dei comitati etici che agiscono presso organi locali o centrali con funzioni genericamente legislative in campo sanitario. In questo caso i comitati possono esercitare una funzione di consulenza nella preparazione di norme generali. La medicina contemporanea richiede ingenti investimenti in persone e attrezzature e impone scelte negli indirizzi di ricerca e nei programmi di prevenzione e cura. Ulteriori problemi pongono la distribuzione sociale dei costi dell'assistenza sanitaria pubblica e l'accesso alle risorse sanitarie disponibili (liste di attesa per ricoveri, per trapianti, organizzazione territoriale della sanità e così via). Sono questioni che affronta l'economia sanitaria per ottimizzare la spesa sanitaria tenendo conto dei costi e dei benefici, ma le scelte di fondo sono spesso condizionate da credenze morali. Non solo la legislazione sull'aborto ne è un caso, ma anche ampiezza e modalità della prevenzione delle malattie genetiche, la regolamentazione delle cure della sterilità, il sostegno alla donazione degli organi e alla pratica dei trapianti e così via. E su questi, come su altri temi del genere, i comitati etici possono discutere e intervenire.
La discussione dei casi dubbi conduce spesso, soprattutto attraverso le generalizzazioni, le estensioni analogiche o il rilevamento di conseguenze, e quando si passa alla formulazione di regole generali, di fronte a veri e propri conflitti morali. Secondo le teorie bioetiche forti esistono principî etici incontrovertibili, e applicandoli si può sempre dire se un comportamento sia o non sia lecito. Sono teorie di tipo tradizionalistico, conformi alla morale religiosa, soprattutto cattolica. Di solito queste teorie risolvono i casi dubbi con divieti rigorosi, che colpiscono molte delle richieste rese possibili dalle nuove tecniche mediche: aborto, eutanasia, fecondazione assistita, ecc. Di contro stanno teorie secondo le quali la bioetica formula anche regole e principî, ma soprattutto mette alla prova le proprie supposizioni, e le conseguenze che ne derivano, tenendo conto delle credenze e delle scelte morali presenti di fatto nella popolazione interessata a un sistema sanitario. Compito della bioetica è non tanto quello di imporre principî morali, quanto quello di proporre regole e correzioni di principî e regole, in modo da permettere alla gente di vivere, nella maggior misura possibile, secondo le proprie credenze.
Questo è un programma che oggi molte teorie etiche generali si propongono, e la bioetica può offrire un interessante banco di prova, anche perché può essere effettivamente difficile far convivere modi diversi di concepire la vita, la morte, i rapporti con i figli e così via, tenendo conto che nell'organizzazione moderna della sanità, che amministra pur sempre risorse scarse rispetto alle aspettative, si incrociano richieste impegnative da parte dei pazienti, prestazioni complicate da parte dei sanitari, interventi pubblici e privati di ampia portata, interessi economici, pregiudizi, pretese di dominio ideologico e religioso. Qui il conflitto tra il medico che ritiene l'aborto moralmente riprovevole e la donna che con l'aborto ritiene di esercitare un proprio diritto, o di evitare la nascita di un individuo che sarà infelice, può diventare drammatico, assai più che negli scritti dei moralisti nei quali i conflitti paiono talvolta esaltati, come se gli aspetti difficili dell'esistenza fossero l'occasione per esercitare le capacità umane più apprezzabili. Ma le discussioni bioetiche rappresentano anche uno dei casi nei quali le società pluralistiche contemporanee stanno offrendo alla riflessione sulle credenze morali una possibilità di intervenire in modo esplicito nella costruzione delle regole della vita collettiva. (V. anche Giusnaturalismo e giuspositivismo; Giustizia; Natura e cultura; Norme e sanzioni sociali; Relativismo culturale; Valori).
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