Morte
Dal punto di vista biologico, la morte si può considerare come l'estinzione dell'individualità corporea, non tanto dei singoli elementi che la compongono, quanto delle necessarie correlazioni tra organi e funzioni. Nella storia della medicina la diagnosi di morte ha subito, nel corso del tempo, profonde revisioni sia in rapporto alla conoscenza di nuove situazioni cliniche, sia in relazione all'obbligo di chiarezza, tempestività e sicurezza, imposto dalle pratiche di espianto e trapianto di organi. Anche l'atteggiamento nei confronti della morte e il modo di affrontarla hanno conosciuto e conoscono profonde modificazioni, legate al contesto sociale e alle caratteristiche psicologiche dell'individuo.
di Carlo Alberto Defanti
Per quanto possa sembrare strano, non esiste una definizione soddisfacente di morte. Nei più noti dizionari della lingua italiana generalmente viene definita "cessazione della vita", detto di uomo, animale o pianta. L'Oxford dictionary parla analogamente di "ending of life". È chiaro da questi esempi che l'approccio più corrente è basato, per negazione, sulla definizione di vita. Ma anche quest'ultima è estremamente sfuggente e rappresenta un problema classico, ancora oggi irrisolto, della filosofia della scienza. Mentre per lo più non è difficile intendersi sulla distinzione fra esseri viventi e non viventi, gravi difficoltà nascono quando si cerca una definizione di vita che non ammetta eccezioni. Alcuni studiosi, consapevoli delle difficoltà incontrate dai loro predecessori, hanno proposto di rinunciare del tutto all'ambizioso progetto di definire la vita in termini generali. Ciò non significa che la vita sia indefinibile in sé, ma vuol dire semplicemente che allo stato attuale delle conoscenze il problema non è stato risolto in maniera soddisfacente.
È chiaro che, se la morte è cessazione della vita, l'impossibilità di giungere a una definizione generale di vita ne implica una simmetrica per la morte. Da questa impossibilità, tuttavia, non discende che il concetto di morte, come quello di vita, perda la sua utilità quando sia usato in contesti ben precisi; per es., prescindendo dal problema generale, si possono individuare diversi livelli del fenomeno.
a) Livello cellulare. - Si conoscono varie forme di morte cellulare, tra le quali la cosiddetta necrosi, che si osserva in corso di malattie ed è causata da insulti di diverso ordine, e la morte cellulare programmata (apoptosi), che colpisce gruppi di cellule nel corso dello sviluppo embrionale ed è indispensabile allo sviluppo stesso. La distinzione fra le circostanze in cui si verificano la necrosi e l'apoptosi non è così semplice e netta; per es., fenomeni di apoptosi sono osservabili anche nel corso di molti processi morbosi. Resta il fatto che i due tipi di morte cellulare avvengono secondo diversi meccanismi e sono riconoscibili in base a peculiari alterazioni microscopiche e biochimiche (v.necrosi).
b) Livello degli organi. - C'è meno accordo fra gli studiosi nell'usare il termine morte a proposito degli organi. Nel rapporto del Comitato ad hoc della Scuola medica di Harvard (1968), in cui fu avanzata la proposta teorica della 'morte cerebrale', si dice: "un organo (sia esso il cervello o un altro) che non funziona più e non ha più alcuna possibilità di riprendere la sua funzione, si può considerare morto a tutti gli effetti pratici" (p. 337). Secondo questa definizione, ciò che appare decisivo è l'arresto non reversibile della funzione (un esempio può essere l'insufficienza renale totale); questo arresto funzionale irreversibile non richiede la necrosi di tutte le cellule dell'organo, ma solo la distruzione di un numero critico di esse (o il sovvertimento anatomico dell'organo).
c) Livello dell'organismo. - A tale livello, il problema sta nell'individuare quando intervenga e sia irreversibile l'incapacità dell'organismo di funzionare come un tutto integrato. A questa condizione si può attribuire il nome di morte dell'organismo o sistemica.
d) Livello della morte umana. - Individuare in che cosa consista la morte dell'essere umano è il problema che più ci interessa in questa sede. Prima di approfondire l'analisi è opportuno ricordare che in molta letteratura recente sul concetto di morte non è ben chiara la distinzione fra analisi del concetto di morte, da un lato, e ciò che possiamo chiamare ricerca del criterio di morte, dall'altro. Su questa distinzione ha insistito in modo particolare R.M. Veatch (1989). Quando cerchiamo un criterio di morte, il nostro scopo è essenzialmente pratico: vogliamo individuare un indicatore attendibile di morte (e possibilmente un indicatore facilmente rilevabile), allo scopo di riconoscere tempestivamente la morte avvenuta. Ciò vale soprattutto per la morte dell'uomo, in quanto essa comporta una serie di conseguenze di ordine medico, sociale e giuridico, che impongono il suo riconoscimento certo e sollecito. Diverso è lo scopo quando ci accingiamo ad analizzare il concetto di morte: in questo caso l'obiettivo è il raggiungimento di una verità di valore universale. Se riuscissimo in tale impresa, otterremmo un risultato di valore generale e permanente nel tempo. Al contrario, un criterio ritenuto valido oggi potrebbe cambiare (come in effetti è già avvenuto) in seguito all'affinarsi delle tecniche diagnostiche. Inoltre un criterio è oggetto di stipulazioni consensuali e legislative, mentre nulla di simile può avvenire per un concetto. Una differenza ulteriore sta nel fatto che, mentre il concetto di morte si applica a tutti gli esseri viventi, un criterio di morte è di necessità limitato a certe categorie di viventi. Tornando ai diversi livelli del fenomeno morte, è chiaro che vi possono essere (e sono anzi la regola) dissociazioni fra di essi; in particolare, come la morte di un organo può avvenire senza che siano morti tutti i suoi elementi cellulari, così la morte di un organismo avviene generalmente prima della morte di tutti i suoi organi (e a maggior ragione di tutti i suoi tessuti e delle sue cellule). Non è altrettanto ovvio se si possa verificare una dissociazione tra il livello della morte umana e il livello della morte dell'organismo, vale a dire se un soggetto possa dirsi morto prima che lo sia il suo organismo: diverse sono le tesi a questo proposito (v. oltre).
Nel corso dello sviluppo della medicina moderna, la fiducia del pubblico nella capacità dei medici di riconoscere tempestivamente la morte ha conosciuto fasi alterne. Nel Settecento e nell'Ottocento si svolse una lunghissima querelle a proposito della morte apparente (se essa fosse un evento possibile, con quale frequenza si verificasse e come la si potesse riconoscere) e si diffuse un vero e proprio terrore di essere sepolti anzitempo. Solo l'introduzione in clinica dell'elettrocardiogramma, metodo obiettivo e sicuro per riconoscere l'arresto del cuore, nei primi decenni del Novecento, sembrò aver fugato questo timore. La morte fu così identificata con l'arresto cardiocircolatorio o, per dir meglio, l'arresto cardiocircolatorio fu considerato un sicuro criterio di morte. A partire dagli anni Trenta del 20° secolo è venuta inoltre a maturazione una serie di nuove tecniche di sostegno delle funzioni vitali dell'organismo, come il massaggio cardiaco e la ventilazione assistita, che nell'insieme prendono il nome di rianimazione. Tali nuove possibilità hanno realizzato in certo modo il sogno di tutti coloro che fino ad allora avevano temuto la morte apparente e la sepoltura intempestiva: è diventato possibile, per così dire, il trattamento o la cura della morte, per lo meno in alcuni casi. Parlando in termini rigorosi, si è reso possibile arrestare le fasi iniziali del processo del morire, quando la funzione del cuore può essere ripristinata. Molti pazienti, grazie alla rianimazione, possono essere salvati e restituiti a una vita normale o comunque di qualità accettabile, ma in un numero non piccolo di casi accade qualcosa di imprevisto. Alcuni individui colpiti da gravissime lesioni cerebrali, per es. dovute a traumi, a emorragie massive, una volta sottoposti a ventilazione meccanica, anziché andare incontro rapidamente all'arresto cardiaco, rimangono in uno stato di completa incoscienza e non presentano più segni di attività nervosa. Essi non danno alcuna risposta agli stimoli esterni, non respirano spontaneamente, sono privi dei meccanismi omeostatici, ossia quelli che provvedono a mantenere costante l'ambiente interno. La prima descrizione di questa condizione risale al 1959, a opera dei clinici francesi P. Mollaret e M. Goulon. La dizione da loro proposta per descrivere questo stato è coma dépassé, traducibile come "stato al di là del coma", oppure "coma oltrepassato". Pur rendendosi ben conto della novità e dello straordinario significato di tale osservazione, essi non posero l'equivalenza di questo stato con la morte. Il passo fu compiuto invece nove anni dopo, nell'agosto 1968, dal Comitato ad hoc della Scuola medica di Harvard, in un celebre articolo intitolato Una definizione del coma irreversibile. In esso il Comitato propose di considerare il coma dépassé degli autori francesi, ridenominato in inglese irreversible coma, come un nuovo criterio di morte e si parlò per la prima volta di sindrome della morte cerebrale.
Le caratteristiche di questo stato vennero così precisate: il soggetto non dà alcun segno di responsività e di recettività, non presenta alcun movimento, non respira spontaneamente una volta disconnesso dal ventilatore, non conserva alcun riflesso e l'elettroencefalogramma non rivela alcuna attività elettrica. Inoltre i segni sopra elencati debbono mantenersi invariati per un periodo di 24 ore. È pleonastico, ma forse non inutile, sottolineare che in questo stato l'attività cardiaca persiste, purché venga proseguita la ventilazione meccanica. Dunque la proposta della Scuola medica di Harvard fu di considerare morto un individuo che si trova nelle condizioni suddette, anche se il suo cuore continua a battere. Negli anni successivi tali criteri sono stati modificati in alcuni dettagli, ma nella sostanza rimangono tuttora validi e sono stati largamente accettati sia dalla comunità medica, sia dalla maggior parte delle legislazioni dei paesi occidentali, che hanno fatto proprio il criterio di morte cerebrale. Riprendiamo ora il discorso sulle possibili dissociazioni fra i diversi livelli del fenomeno morte. Considerando un individuo in morte cerebrale, sembra di poter dire che in esso si verifica una dissociazione tra il livello della morte umana e il livello della morte dell'organismo: l'organismo (artificialmente sostenuto) continua a vivere, mentre il cervello ha perso irreversibilmente le sue funzioni e, di conseguenza, l'individuo ha perso le sue caratteristiche personali. Si pone a questo proposito un difficile problema sul quale ha recentemente attirato l'attenzione J. McMahan (1995): il problema della relazione fra noi e il nostro organismo o, in altri termini, fra la nostra mente e il nostro corpo. Due sono le tesi principali che si possono sostenere al riguardo: secondo la prima, noi come persone ci identifichiamo con il nostro organismo, mentre in base alla seconda, dualistica, come persone siamo strettamente associati con il nostro organismo, ma non ci identifichiamo con esso. Secondo McMahan, la descrizione dualistica rende meglio conto delle situazioni osservate, senza peraltro che essa obblighi a sostenere una concezione cartesiana della mente come sostanza immateriale. È necessario cioè distinguere la persona dall'organismo e riconoscere che la più corretta descrizione della morte è dualistica; in altre parole, che esistono due tipi di morte, di solito - ma non necessariamente - coincidenti: la morte della persona e la morte dell'organismo. Questa distinzione è ancor più pregnante se pensiamo a un'altra, nuova situazione clinica che si è cominciata a osservare negli ospedali dopo l'avvento della moderna rianimazione.
Grazie agli sviluppi della terapia intensiva, alcuni pazienti che hanno subito un danno gravissimo degli emisferi cerebrali sopravvivono, dopo un periodo più o meno prolungato di coma, in uno stato caratterizzato dall'assenza completa delle funzioni degli emisferi cerebrali (e in particolare della corteccia), malgrado un relativo risparmio delle funzioni del tronco encefalico (centro principale della vita vegetativa). A questa condizione morbosa si dà il nome di 'stato vegetativo'. Esso può essere transitorio, anche se è possibile che si protragga per diverse settimane; il suo perdurare però fa nascere il sospetto di irreversibilità. Quando la sua durata supera i 30 giorni, si parla di 'stato vegetativo persistente'; invece, per indicare i casi di stato vegetativo irreversibile è stata proposta la locuzione 'stato vegetativo permanente'. Lo stato vegetativo è caratterizzato dal fatto che l'individuo colpito appare vigile, ma privo di qualsiasi consapevolezza di sé e del mondo esterno. Gli individui in stato vegetativo hanno gli occhi aperti per una parte del tempo e presentano fasi di sonno, non rispondono in modo appropriato agli stimoli ambientali e non hanno alcuna attività gestuale. Gli occhi non seguono gli oggetti esterni, ma è possibile evocare alcuni movimenti oculari riflessi (cioè automatici). La respirazione, la circolazione e il controllo della temperatura corporea sono più o meno normali, senza bisogno di sostegno artificiale. Il quadro clinico dello stato vegetativo è molto diverso da quello della morte cerebrale. In quest'ultima vi è un danno massivo dell'intero encefalo (emisferi e tronco encefalico): l'individuo non reagisce agli stimoli, non respira spontaneamente e solo il proseguimento della ventilazione artificiale permette di evitare l'arresto cardiaco, che del resto sopraggiunge di regola dopo pochi giorni. Al contrario, negli individui in stato vegetativo solo gli emisferi cerebrali, come già detto, hanno cessato di funzionare, la respirazione spontanea e le altre funzioni vegetative sono conservate; essi possono 'sopravvivere' per mesi e anni anche al di fuori dei reparti di terapia intensiva. Nello stato vegetativo permanente la dissociazione fra morte della persona e morte dell'organismo è ancor più evidente che nel caso della morte cerebrale: l'individuo colpito è privo di caratteristiche personali, mentre il suo organismo è ben vivo, con minimo supporto di assistenza. Va detto tuttavia che, mentre esiste un largo consenso sull'equivalenza morte cerebrale-morte tout court, non ne esiste oggi uno simile sull'equivalenza fra lo stato vegetativo permanente (che alcuni definiscono morte corticale) e la morte, anzi questa tesi è attualmente minoritaria, sebbene un numero crescente di studiosi tenda a farla propria. La maggiore difficoltà di questa posizione è di ordine pratico. È contrario alle intuizioni del senso comune considerare morto un individuo che respira autonomamente, ha gli occhi aperti e presenta alcune reazioni agli stimoli ambientali (anche se sappiamo che si tratta di reazioni riflesse, non mediate dalla consapevolezza). Va detto però che non è neppure facile, se si visita un reparto di rianimazione, considerare morto un soggetto in morte cerebrale, che è sì privo di coscienza ma che respira (per effetto del ventilatore), ha una valida circolazione, è caldo al tocco, secerne urina ecc. Dobbiamo renderci conto di un fatto che talora sfugge al pubblico: la medicina moderna ci pone ogni giorno di fronte a situazioni totalmente inedite che mettono alla prova convinzioni e atteggiamenti plasmati dall'educazione. La proposta teorica della morte cerebrale e ancor più quella della morte corticale sono espressione dei profondi cambiamenti che lo sviluppo della medicina ha introdotto nella nostra vita e nella nostra cultura. Il progresso tecnologico ha realizzato mezzi potenti per modificare il processo del morire e ha così messo in crisi uno dei requisiti basilari di ogni definizione di morte, l'irreversibilità. Per quanto concerne il significato di irreversibilità nel nuovo contesto, attualmente esso sembra identificarsi con l'impossibilità di sostituire, per es. tramite un trapianto, l'encefalo di una persona mantenendone, al contempo, i ricordi e le disposizioni. Questa impossibilità vale certamente per il presente e verosimilmente varrà anche per il futuro. La frontiera si è così spostata dalla morte cardiaca a quella cerebrale. Alcuni rifiutano di prendere atto di questi cambiamenti e propongono di mantenere la definizione tradizionale (cardiaca) di morte. Probabilmente è invece necessario riconoscere che ogni definizione accettabile possiede in sé una componente valutativa e pratica; anche la decisione di identificare la morte con l'arresto cardiaco era in certo modo arbitraria. Si sa bene che molte attività biologiche persistono nel cadavere e che soltanto la putrefazione segna il termine del processo, ma nessuna società accetta la putrefazione come unico criterio di morte. Dunque la moderna definizione di morte cerebrale, sia pure con le difficoltà teoriche cui si è accennato, sembra pienamente accettabile.
di Giovanni Carlo Zapparoli
La concezione della morte e quella del modo per affrontarla hanno subito e subiscono modificazioni dipendenti dal contesto sociale e culturale e dalle caratteristiche dell'individuo. Nel corso del tempo, due condizioni fondamentali hanno esercitato una decisiva influenza su entrambi. Da una parte, l'affermarsi di un ideale acritico di rappresentazione di sé, in cui prevalgono finalità espansive e in cui l'esperienza tende a essere ristretta al presente o all'immediato futuro e a evitare l'anticipazione dei propri limiti nel tempo, e inoltre il diffondersi di un'unilaterale inclinazione edonistica, per cui hanno un significato la giovinezza e la vita in una condizione il più possibile di piacere e benessere, mentre è priva di senso, se non negativo, ogni situazione legata al declino psicofisico e al dolore, quali la malattia, la vecchiaia e soprattutto la morte. Dall'altra, in seguito a un processo di individualizzazione piuttosto marcato, il progressivo diminuire delle fantasie collettive e istituzionalizzate di immortalità a favore di quelle soggettive e relativamente private (Elias 1982). Questi due principali fattori rendono particolarmente complesso il problema della morte e gli conferiscono alcune connotazioni specifiche.
Un primo rilievo riguarda uno dei più importanti elementi che sottende molte difficoltà vissute dall'essere umano nei confronti della morte, cioè l'esistenza di un'atmosfera riconducibile a un estremo rifiuto del limite, che si manifesta nel perseguimento di una sempre maggiore affermazione personale e nel tentativo di superare i propri confini, a livelli nei quali si confondono e si oscurano i criteri che definiscono o hanno definito nel passato i limiti 'naturali'. Da questa atmosfera deriva, anzitutto, una particolare concezione dell'esistenza che tende a negare e sfidare il suo carattere di corso e di processo con un inizio e una fine, dando origine a una convinzione e a un'emozione particolari per cui la morte è considerata non un evento, la conclusione di un episodio che è la vita, ma un fenomeno di deficit, un danno causato da una disfunzione dell'esistenza. Sentimenti di disperazione e impotenza si accompagnano quindi alla convinzione che morire sia subire un'ingiustizia e alimentano una ribellione che si esprime nella pretesa che, come è sempre più possibile guarire la malattia grazie alle conquiste in campo medico, così sia sempre più possibile 'guarire' la morte. Essa è una specie di summum malum imposto da una forza superiore e ostile, è inesorabile, non perdona l'uomo e non può essere da lui perdonata. 'Perdonare la morte', tuttavia, è compito in ogni caso assai difficile e penoso, ma anche unica condizione che occorre realizzare per ridurre i sentimenti altrimenti intollerabili di sterile ribellione e di impotenza. Dal momento che la morte continua a essere, al di là di ogni rifiuto e negazione, parte inevitabile dell'esistenza, è necessario capire quali condizioni possano permettere all'individuo di arrivare a una conciliazione con essa. Una prima condizione essenziale consiste in un cambiamento nel modo di pensare la morte e nella preparazione del suo accadere. K.R. Eissler (1995) ha proposto il concetto di 'ortotanasia', per indicare la condizione intellettuale ed emotiva che consente di morire in maniera adeguata alla realtà della morte, in quanto permette un'integrazione della morte nella vita e una sua comprensione nel contesto della realtà umana. È un concetto che si contrappone sia a quello di eutanasia sia al modo di considerare la morte come danno e ingiustizia, in quanto favorisce lo spostamento della concezione della morte verso il principio di realtà: e ciò significa sottrarla a un giudizio in termini di bene e di male, riportandola alla sua condizione di evento naturale, meta finale della vita umana. Il passaggio dalla ribellione alla morte a un processo di pacificazione con essa ha inevitabili ricadute sul modo di vivere l'esistenza. Infatti, la pretesa di una vita senza fine, rientrando nell'area delle istanze impossibili, inevitabilmente determina un senso di impotenza e origina una serie di modalità di evitamento che influenzano atteggiamenti e comportamenti finalizzati a difendersi dalla morte e a negarla. Gran parte della vita viene di conseguenza impostata non sulla vita medesima e sulle possibilità di realizzare il proprio potenziale, ma, paradossalmente, proprio sul problema che si vuole evitare ed eliminare, quello del morire. Il discorso, peraltro, non è generalizzabile; l'esperienza anzi ci insegna che esistono, di fronte alla morte, atteggiamenti diversi ben classificabili. Molti trovano in sé stessi le capacità e le risorse per affrontarla con saggezza e serenità; molti invece hanno bisogno di un aiuto e lo trovano, quando rientra nella loro prospettiva, in sistemi filosofici o religiosi che forniscono risposte in grado di attenuare l'angoscia suscitata dal senso della propria vulnerabilità e del proprio limite o il panico evocato dall'ignoto e dall'inconoscibile. Per coloro infine, e sono sempre più numerosi, per i quali questo non è possibile, sono necessari altri strumenti forniti da 'laici', individui cioè che hanno una preparazione professionale in grado di offrire un aiuto efficace a chi deve affrontare la morte, preparazione che differenzia l'accudimento generico del morente dal prendersi cura di lui rispondendo alla specificità dei suoi bisogni. L'ortotanasia è alla base di tale preparazione, in quanto indica l'atteggiamento che contribuisce ad aiutare il morente a sviluppare la capacità di servirsi di tutti i mezzi che possano alleviare le angosce caratteristiche e inevitabili di questa fase. Se prescinde quindi nella sua essenza e nella sua struttura da apporti di pensiero filosofici e religiosi, non ne esclude però l'utilizzazione, come quella di ogni altra risorsa adeguata ai bisogni di quel particolare individuo in quel momento. Questo atteggiamento permette lo sviluppo di alcune capacità fondamentali per svolgere la difficile funzione di assistere coloro che stanno per morire. Non è semplice infatti identificarsi con essi. Si conosce assai poco della morte e poco dei bisogni dei morenti, al di là della sensazione che non c'è nulla da fare, da controllare, da combattere, da distruggere. È facile quindi che si determini una condizione di impotenza assoluta, la quale tuttavia, accettando la morte secondo natura, può trasformarsi in una di potenza relativa che consente di trovare il modo di vivere con la minor sofferenza possibile questa difficile fase. Su tale base, infatti, chi assiste il morente riesce in primo luogo a identificarsi con lui, imparando a riconoscere nel modo più sereno possibile i bisogni specifici e le risorse dell'altro. In secondo luogo, può sviluppare uno stato di compassione e partecipazione senza le componenti di paura o disperazione che sono spesso presenti nei familiari. In terzo luogo, si struttura la capacità di offrire una solidarietà basata su una condizione di uguaglianza, realizzabile solo tramite una profonda consapevolezza che la propria differenziazione dal morente è transitoria e che il destino di morte è comune a tutti, in quanto esseri umani. Uno dei bisogni fondamentali dell'uomo di fronte alla morte è quello di vivere senza terrore lo spazio intermedio tra uno stato, la vita, e un altro, la morte, quindi tra presente e futuro, e soprattutto tra ciò che è familiare e conosciuto e ciò che è ignoto; spazio nel quale i dubbi, le ansie, le paure sono infinite. La prima funzione di chi assiste il morente è allora quella di intermediario tra queste due dimensioni, cioè di colui che struttura 'riti di passaggio' in tutti quei casi in cui il soggetto non sia in grado di arrivare a una soluzione personale, né di utilizzare i riti di passaggio collettivi: per es., aiutandolo a riconoscere il buono e il positivo nella sua esistenza, sia in rapporto alla sua vita passata sia all'eredità che può lasciare come segno e ricordo di ciò che ha costruito e realizzato e continua a vivere anche dopo di lui e negli altri dopo di lui. In tale modo si favorisce la possibilità di raggiungere un diverso equilibrio tra perdita e acquisizione, in quanto la perdita non è più assoluta e si attenua il senso della propria impotenza.
Altra importante fonte di aiuto è la possibilità di utilizzare la dimensione inconscia e irrazionale, evocando un'area atemporale in cui passato, presente e futuro hanno la stessa realtà: un'area privata nella quale i propri bisogni e desideri possono essere riconosciuti e trovare non solo un'espressione, ma anche un'opportunità di realizzazione attraverso la libera immaginazione e la fantasia creativa. È un'area, infine, che consente la comunicazione con la sfera emotiva più profonda, con un patrimonio di risorse interne che indicano all'individuo l'esistenza di aspetti non legati alla tragica realtà della propria fine e la possibilità di scoprire modalità di difesa nei confronti delle angosce a essa legate. Stabilire una comunicazione con l'inconscio significa infatti favorire un'interazione tra ciò che è conscio e ciò che non lo è. Un processo del genere è una fonte di arricchimento, non solo perché aumenta l'area di consapevolezza, ma anche perché permette di utilizzare i messaggi e i contenuti, provenienti dall'inconscio, per la strutturazione di una dimensione più completa, dove bisogni, desideri, speranze si costituiscono come realtà, lontane da quelle della vita concreta, ma dotate anch'esse di una vita effettiva: la stessa che hanno i sogni, le fantasie e tutte le produzioni creative che da sempre arricchiscono l'esistenza umana. È quindi una parte vitale e attiva che si oppone alla passività connessa al deterioramento del corpo, al dolore e alle cure che spaventano, alle angosce della fine imminente; che dà cioè l'opportunità di trascendere gli aspetti spaziotemporali restrittivi dell'esistenza umana e realizza un passaggio da una posizione di impotenza e di perdita assoluta a una di attività, di acquisizione e di potenza relativa, che consente di riconoscere e accettare ciò che è possibile per superare l'angoscia e la disperazione, abbandonando la pretesa impossibile di sconfiggere la morte. È una dimensione connessa con l'area delle illusioni, area marginale tra fantasia e realtà, che continuamente l'uomo insegue, che arricchisce la sua esistenza e rende maggiormente tollerabili gli aspetti più difficili di essa, primo fra tutti quello connesso con il problema del limite, che nella morte trova la sua espressione più esplicita e il suo simbolo estremo. La storia e l'esperienza ci insegnano che la sfida al limite e il tentativo di superarlo stimolano la parte più vitale dell'essere umano, ma anche che contengono una potenzialità distruttiva. È assai importante, quindi, individuare la linea di demarcazione tra il possibile e l'impossibile, che si identifica con il confine tra la valenza positiva della sfida al limite e la sua potenzialità distruttiva.
Ciò che qui interessa è quella particolare area di illusione nella quale gli interrogativi sulla morte e sul limite trovano una specifica espressione: 'l'illusione di eterno'. Questa particolare area 'illusionale', nella quale si esprime la dinamica determinata dalla polarità limite/eterno, sapere/non sapere, conosciuto/ignoto, alimentata dal desiderio di sopravvivere alla propria finitezza di esseri mortali, ha agito come potente stimolo ad alcune delle più elevate realizzazioni dell'uomo. È un'area quindi nella quale si esprime la volontà di affermazione di sé dello spirito umano, che nella libertà e nella creatività trova il mezzo per esprimere la propria potenza e la possibilità di un arricchimento contro l'impotenza, la passività, la perdita. Ci si può chiedere che cosa può rendere quest'area illusionale efficace per aiutare l'individuo che ne ha l'esigenza, e ogni volta che ha tale esigenza, ad affrontare le intollerabili sensazioni di passività, impotenza e disperazione di fronte al proprio essere finito, ossia, in altre parole, come può la speranza di trascendere i limiti costituire un mezzo per arrivare a svilupparne la tolleranza. L'illusione di eterno permette una trasformazione dell'esperienza subita passivamente in una di attività e padronanza, mediante la creazione di una realtà che contraddice la propria passività e il proprio essere finito. Ma questo è possibile solo se l'area illusionale è priva delle estreme distorsioni che la renderebbero sostitutiva della realtà e se rimane in continua interazione con essa, cioè se resta ancorata alla dialettica tra due parti di sé, quella capace di vivere l'illusione e quella capace di riconoscerla, e tra una dimensione attiva e una passiva che si temperano reciprocamente. Quando cioè interagisce con la realtà, l'area illusionale diviene, durante tutta la vita, un rifugio consolatorio nel quale trascendere le leggi costrittive del reale, e consente di tollerare la frustrazione, la perdita, l'impotenza, e di contrapporsi all'inesorabile, cioè la morte nel futuro, gli errori, i fallimenti le colpe nel passato, mediandone l'impatto e permettendo di trovare ciò che di positivo e di possibile ancora esiste per contrastare il senso della propria fragilità. È possibile allora non sconfinare nelle posizioni estreme, da una parte della disperazione e della passività 'totale' e, dall'altra, dell'onnipotenza e dell'attività 'totale', nella quale l'illusione non interagisce con la realtà ma la nega e varca i confini di ciò che è possibile, nell'estremo tentativo di difendersi dal panico suscitato dalla non accettazione della propria vulnerabilità e del proprio limite. Un'ultima condizione, parte integrante della modalità qui descritta come ortotanasia, è la capacità di una visione comprensiva della persona umana, che includa cioè la sua realtà fisica, psicologica e sociale, evitando di frammentarla nelle sue componenti e garantendo la comprensione globale dei suoi bisogni. In una situazione complessa come è quella dell'essere umano di fronte alla morte, specie se complicata da una condizione di malattia e di sofferenza, e soprattutto quando questa è grave e prolungata, solo una prospettiva integrata consente di rilevare quali siano i bisogni del morente e quali i bisogni delle persone che gli sono vicine. Un loro corretto rilevamento evita una definizione dell'individuo solo in termini di parametri somatici o psicologici o sociali e permette di utilizzare tutti gli interventi a lui necessari, biologici, psicologici o di assistenza, nessuno dei quali singolarmente può alleviare il dolore, il disagio o le angosce del morente e delle persone che a lui sono legate.
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