Motivazione
Il termine 'motivazione', pur nella varietà delle definizioni che ne sono state date, viene abitualmente usato per indicare i motivi che spingono gli individui ad agire. Le diverse teorie tendono a interpretare, in modo qualche volta esclusivo, qualche volta privilegiato, tali fattori come spinte 'a tergo' - utilizzando i concetti di istinto, bisogno e pulsione - oppure come sollecitazioni poste 'davanti' all'individuo, utilizzando i concetti di meta, scopo o incentivo. Studiare la motivazione significa quindi cercare di rispondere all'interrogativo: perché gli individui pensano e agiscono nel modo in cui lo fanno? agiscono sospinti da necessità interne o attirati da obiettivi che identificano nella realtà o nella loro immaginazione? Si tratta di un interrogativo che non si pongono solo gli scienziati ma che interessa anche l'uomo comune: nell'interazione quotidiana con il nostro prossimo non ci contentiamo, infatti, di assistere alle azioni altrui, ma cerchiamo di dare loro un senso e cioè di attribuire a ciascun comportamento un'intenzione e una finalità: "L'uomo comune - affermò Fritz Heider (v., 1958; tr. it., pp. 80-81) - [...] non si contenta di registrare quanto vi è di osservabile attorno a lui, ma sente la necessità di riferirlo per quanto è possibile alle invarianze dell'ambiente [...]. Esiste una gerarchia di consapevolezza cognitiva che inizia dalla ricognizione dei fatti [...] e gradualmente si approfondisce sino alle cause di tali fatti".
Si tratta di un'esigenza conoscitiva irrinunciabile che ci consente di dare ordine all'esperienza, di stabilire correlazioni causali, di attribuire responsabilità e anche, almeno entro certi limiti, di prevedere il futuro. Conoscere i motivi che spingono le persone ad agire - nei rapporti di convivenza sociale e in quelli politici, nelle relazioni affettive, nello studio o nel lavoro - ci consente infatti di compiere inferenze su come si comporteranno in futuro: analogamente, essere consapevoli delle motivazioni del nostro stesso agire ci permette di controllare meglio il nostro comportamento.Indagare scientificamente la motivazione significa quindi costruire delle ipotesi (e cercare di validarle) attorno ai fattori che muovono il comportamento e lo orientano verso il raggiungimento degli obiettivi. La natura e il peso dei singoli fattori e il ruolo dei diversi obiettivi o scopi ai quali il comportamento è finalizzato sono diversamente valutati dalle singole teorie della motivazione. Le varie interpretazioni, infatti, accentuano, volta a volta, il ruolo dei motivi interni (biologici o psicologici) oppure degli incentivi esterni, così come attribuiscono importanza preminente alle motivazioni individuali spontanee - siano esse episodiche e transitorie o disposizionali (cioè connesse stabilmente alla personalità) - oppure alla pressione esercitata dal condizionamento sociale, e ritengono infine più rilevante l'intenzionalità consapevole oppure la motivazione inconscia.
Lo studio della motivazione segue quindi approcci diversi a seconda della teoria psicologica che sta a suo fondamento e della concezione della personalità che ne deriva.
Anche i metodi di studio e di ricerca possono variare in relazione all'obiettivo specifico che si persegue nei vari campi applicativi: ad esempio, indagare la motivazione allo studio o al lavoro, la motivazione di un atto di solidarietà o quella di un atto criminale, la motivazione delle scelte politiche o di quelle economiche. Diverso sarà evidentemente il progetto di indagine e il metodo adottato nel caso in cui si tratti di valutare i motivi di un singolo atto isolato oppure quelli di una condotta ripetuta, i motivi di un comportamento messo in atto da un individuo singolo oppure quelli di un comportamento che avviene nel contesto di un gruppo o di una folla. Secondo alcuni studiosi (v. Weiner, 1985) è possibile ricondurre i vari approcci di ricerca a due impostazioni fondamentali. La prima impostazione è 'sperimentale' e 'astorica', mira a identificare le cause immediate del comportamento, a specificare e quantificare le relazioni che intercorrono fra le diverse variabili in gioco e a costruire così dei modelli di comportamento. La seconda impostazione, che possiamo definire 'clinica', mira invece a ricostruire più globalmente il senso dell'esperienza individuale, attuale e passata, a identificare le modalità secondo cui un individuo persegue il suo adattamento sociale e la sua realizzazione personale, a cogliere i motivi che lo spingono ad agire ed eventualmente il senso che egli vi attribuisce.
Sia l'una che l'altra impostazione possono inoltre seguire un modello di riferimento 'omeostatico' o 'anti-omeostatico': il primo muove dall'ipotesi che il fine generale di ogni motivazione sia quello di preservare o ricostruire una condizione di equilibrio fra l'individuo e il suo ambiente, consentendo la soddisfazione di un bisogno o lo sfogo di una tensione; il secondo muove invece dalla convinzione che l'uomo tenda a trascendere l'equilibrio costituito per aprirsi a nuove esperienze, per costruire progetti e anticipare mentalmente la realtà. È la tesi esposta da Nuttin (v., 1959) quando afferma che il bisogno di percepire e di conoscere è prevalente nella motivazione dell'uomo contemporaneo. A sostegno della sua tesi Nuttin cita un saggio di Woodworth nel quale è detto che il nostro rapporto con l'ambiente è dominato da motivi "come il desiderio di vedere, di capire, di vedere chiaramente, di capire distintamente, di mettere in chiaro o di capire quel che si vede e che si comprende a ogni istante" (v. Woodworth, 1947). Persino gli animali - sostiene ancora Nuttin - "hanno una tendenza spontanea a esplorare il loro ambiente e certi oggetti in assenza di ogni bisogno omeostatico".
Il termine 'motivazione' è relativamente recente: esso è infatti assente dal lessico filosofico e anche da quello psicologico sino ai primi decenni di questo secolo. In compenso è divenuto molto frequente nei decenni successivi, perché la psicologia, nelle sue varie scuole, ha dedicato un'attenzione tale al problema della motivazione individuale e sociale che qualche studioso (v. Cofer, 1972; tr. it., p. 7) si è spinto ad affermare che "in psicologia e in molte altre scienze comportamentali il secolo XX o per lo meno la sua prima metà può essere definito come periodo motivazionale". Di motivazione si sono occupate infatti le teorie psicologiche che proprio in questo periodo hanno dominato la scena culturale e scientifica: in primo luogo il behaviorismo, nelle sue varie e successive teorizzazioni, e poi la psicanalisi, anch'essa nelle diverse scuole in cui si è andata articolando e differenziando nel tempo. A queste due teorie prevalenti si è aggiunta in seguito la psicologia 'umanistica' che, pur nella diversità delle posizioni dei vari autori che a essa si richiamano, ha proposto una rivalutazione delle motivazioni coscienti, dell'intenzionalità e della responsabilità individuale. Più recentemente la psicologia cognitiva ha arricchito il dibattito sulla motivazione sottolineando il ruolo attivo del soggetto quale elaboratore e mediatore delle informazioni che gli provengono dal mondo esterno e il ruolo decisivo dei processi mentali nell'orientare il comportamento.
Le diverse concezioni dell'agire umano - sia quelle formulate in termini dicotomici, sia quelle che propongono modelli intermedi (volti a conciliare le opposizioni presenti nelle prime) - sono state trasmesse dalla filosofia alla psicologia: esse sono quindi presenti, implicite o esplicite, nelle varie teorie psicologiche che si sono succedute nei poco più di cent'anni di esistenza della psicologia come disciplina scientifica autonoma.I primi studi psicologici sulla motivazione risalgono alla fine del secolo scorso e sono dovuti a due distinte scuole di ricerca. In Europa tali studi vengono sviluppati dalla Scuola di Würzburg, il cui principale esponente, Oswald Külpe, nelle sue ricerche sull'"introspezione sistematica", arrivò a identificare la presenza di elementi inconsci e a ipotizzare il concetto di "condotta inconsapevole", che anticipa la teorizzazione psicanalitica (v. Odgen, 1951). In America, invece, le prime ricerche sulla motivazione coincidono con gli inizi della cosiddetta 'teoria funzionalistica', sulla quale non furono irrilevanti gli influssi del darwinismo ripresi da William James. Secondo la teoria evoluzionistica di Darwin l'adattamento degli organismi al proprio ambiente è il presupposto della sopravvivenza per l'individuo e per la specie: l'adattamento si fonda sulla dotazione biologica e sulle variazioni che essa subisce nel corso delle generazioni; gli istinti sono l'espressione caratteristica di tale dotazione. Anche il comportamento umano, nella concezione evoluzionistica, utilizza varie modalità istintive, così come, peraltro, il comportamento animale può utilizzare anche strategie 'intelligenti'. Il problema è di stabilire se la dotazione istintiva umana sia da considerarsi o meno comparabile a quella animale e soprattutto quale ruolo abbiano gli istinti nella motivazione del comportamento umano. James, pur attribuendo agli istinti il significato di regolatori della condotta umana, si preoccupò di stabilire alcune differenze fra gli istinti animali e quelli umani, affermando che nell'uomo gli istinti sono più numerosi e soprattutto più duttili di quelli degli animali. Egli elencò un numero piuttosto elevato di istinti relativi a vari aspetti generali del comportamento, quali il movimento o la parola, ma anche ad aspetti specifici - quali la combattività, il gioco e la pulizia - e a condizioni emotive - quali la socievolezza, la gelosia, l'amor filiale -, non escludendo, peraltro, anche particolari stati intellettuali, quali la curiosità e l'apprendimento (v. James, 1890). Anche Mc Dougall - lo psicologo inglese fondatore della cosiddetta 'psicologia ormica' (dal greco ὁϱμή, impulso) - sostenne che gli istinti sono la causa del comportamento e che non solo le azioni, ma anche i pensieri degli uomini derivano dagli istinti. A ognuno dei tredici istinti principali è strettamente associata, secondo Mc Dougall, un'emozione: così ad esempio l'istinto di fuga è associato alla paura, l'istinto di repulsione al disgusto, l'istinto di riproduzione alla tenerezza, e così via. Il sentimento costituirebbe una sorta di limitazione socioculturale all'espressione naturale dell'istinto e anche una sua modulazione che lo rende meno rigido e stereotipato di quello animale. Pertanto se l'istinto va considerato il "propulsore psicologico" del comportamento, il sentimento è il principale organizzatore della vita affettiva (v. Mc Dougall, 1908).
Le teorie motivazionali fondate sugli istinti persero gradualmente credito e furono sostituite da modelli di ricerca e di interpretazione meno globali e più rigorosi, influenzati dalle sperimentazioni fisiologiche e dalla concezione behavioristica del comportamento inteso come risposta agli stimoli.
I nuovi modelli sostituirono al concetto di istinto quello di 'bisogno', per sottolineare l'origine biologica di certi stati motivazionali quali la sete o la fame, la fuga dal dolore o la ricerca della soddisfazione sessuale. Il bisogno nascerebbe da una carenza e verrebbe placato dalla soddisfazione e cioè dall'apporto di quel tipo di oggetto (cibo, bevanda, ecc.) che prima mancava.Il modello del bisogno raccolse sulle prime molti consensi, ma in seguito cominciò a essere criticato quando le ricerche rivelarono che non era dimostrabile una correlazione diretta fra carenza oggettiva e bisogno soggettivo, e che addirittura quest'ultimo era presente anche quando gli organi fisiologici che avrebbero dovuto rappresentare la sede normale del bisogno (ad esempio lo stomaco o gli organi sessuali) venivano rimossi o isolati dalle loro normali connessioni nervose. Cominciò a imporsi l'ipotesi di una genesi multifattoriale dei comportamenti che venivano prima interpretati come risposte a bisogni specifici: le ricerche neurofisiologiche riuscirono a identificare dei centri nervosi superiori, localizzati nell'ipotalamo e in altre strutture cerebrali, responsabili di una regolazione integrata centrale che media un generico stato di bisogno (di cibo, di bevande, di soddisfazione sessuale) con stimoli interni ed esterni più specifici, relativi a stati emozionali o a esperienze cognitive e di apprendimento.Il rapporto fra motivazione e apprendimento è stato indagato molto approfonditamente dalla ricerca comportamentistica che, come già abbiamo accennato, ha recato un grande contributo sperimentale allo studio della motivazione.
Le prime sperimentazioni di Thorndike (v., 1911) dimostrarono che gli animali apprendono più facilmente quei comportamenti che sono seguiti da una soddisfazione: qualche decennio più tardi Hull propose una sua teoria generale del comportamento nella quale motivazione e apprendimento sono strettamente integrati: l'adattamento dell'organismo all'ambiente non può fondarsi solo su meccanismi innati ma deve acquisire nuove strategie di comportamento più duttili e più idonee a soddisfare i bisogni. Dai bisogni (needs) nascono spinte all'azione (drive) che rappresentano le energie motivazionali specifiche che inducono l'individuo ad agire e ad apprendere nuovi comportamenti, acquisendo e consolidando in tal modo nuove abitudini (v. Hull, 1943 e 1951).Una prospettiva molto diversa è stata proposta da un altro studioso del comportamento, Tolman, il quale sin dagli anni trenta sostenne che il comportamento è motivato non tanto dal rapporto meccanico fra il bisogno e la sua soddisfazione, quanto dallo scopo a cui tende. Il concetto di purposive behavior (comportamento motivato) sviluppato da Tolman si fonda sull'ipotesi che l'anticipazione o l'attesa del risultato sia il motivo principale nell'orientare la condotta: il risultato atteso rappresenta la meta desiderata (v. Tolman, 1932).Altri studiosi accentuarono in diverso modo il ruolo delle variabili personali nella motivazione: ricordiamo fra i tanti Murray (v., 1938) - che descrisse una serie di bisogni stabili della personalità, fra cui spiccava il need for achievement, che spinge l'individuo ad agire con efficacia nel suo ambiente - e Mc Clelland, che sottolineò il ruolo dei fattori affettivi come creatori di aspettative nei riguardi di certe mete, le quali, a loro volta, agiscono come incentivi esterni della motivazione (v. Mc Clelland, 1951).
La psicanalisi è la teoria che ha esercitato l'influsso maggiore per l'adozione del termine 'motivazione' e per lo sviluppo di ricerche cliniche su questo argomento. Freud affermò che ogni comportamento, anche il più futile o assurdo, non è mai gratuito, perché risponde a una precisa motivazione, il cui significato e il cui movente, tuttavia, spesso sfuggono alla comprensione non solo degli estranei, ma anche dello stesso soggetto agente. Questa affermazione si regge su due distinte ipotesi: la prima è che nella mente nulla avviene casualmente e quindi ogni evento mentale deve derivare da un preciso antecedente causale; la seconda è che molti eventi psichici sfuggono alla consapevolezza individuale perché si svolgono a livello inconscio. L'esistenza di un inconscio spiega l'apparente discontinuità fra eventi psichici, giustifica i lapsus, le dimenticanze, i sintomi nevrotici e dimostra l'esistenza di quelle 'ragioni che la ragione non intende', cioè delle motivazioni inconsapevoli.
L'origine inconscia di tali motivazioni può spiegare le caratteristiche che frequentemente esse rivelano: la vivacità e la labilità emozionale, la contraddittorietà, l'ambivalenza, l'irrazionalità, la resistenza al cambiamento.Secondo la teoria freudiana, il comportamento ha un fondamento 'pulsionale' e cioè una carica energetica che produce uno stato di tensione psichica, il quale a sua volta spinge l'individuo ad agire per ridurre la tensione stessa. Ogni rappresentazione mentale - relativa a persone, oggetti o situazioni - viene 'investita' di una certa energia pulsionale: maggiore la carica energetica, maggiore l'importanza soggettiva della rappresentazione. La tensione energetica tende a scaricarsi nell'azione: se la scarica è impedita, l'energia si accumula e pone l'individuo in uno stato di disagio; se invece la scarica avviene regolarmente l'individuo prova una sensazione di appagamento. Il principio su cui l'apparato psichico tende a regolarsi è di tipo 'economico', vale a dire rivolto a mantenere al proprio interno uno stato minimo di eccitazione. Alle motivazioni pulsionali che originano dal fondamento inconscio della personalità (l'Es, nella terminologia psicanalitica) Freud affiancò altri due tipi di motivazioni: quelle che originano dall'Io e quelle che originano dal Super-Io. L'Io rappresenta un'istanza derivata dall'Es e destinata a gestire il rapporto con la realtà, a svolgere un'opera di mediazione fra gli impulsi e il mondo esterno, a regolare lo scarico delle pulsioni dell'Es attraverso la percezione, il ricordo, il ragionamento, la progettualità intenzionale. Il Super-Io rappresenta invece l'istanza sociale e morale, introducendo nella motivazione i principî di carattere assiologico che rappresentano le norme sociali, culturali ed etiche che il soggetto ha acquisito nel corso del suo sviluppo per identificazione con le figure genitoriali ed educative.Le diverse motivazioni - che potremmo schematicamente definire come 'principio del piacere', 'principio di realtà', 'principio normativo' - sono spesso in conflitto fra loro: ciò attiva nell'Io (data la sua funzione centrale di mediazione) una serie di difese volte a ridurre l'ansia conflittuale, difese che divengono anch'esse ulteriori motivazioni inconscie del comportamento. Così, ad esempio, il meccanismo di difesa della 'razionalizzazione' indurrà il soggetto a creare una giustificazione logica di un comportamento socialmente errato o moralmente condannabile, così come il meccanismo della 'proiezione' lo indurrà ad attribuire ad altri la responsabilità o la colpa di quel comportamento. Il caso limite della motivazione inconscia lo si ritrova nel comportamento nevrotico: il soggetto nevrotico infatti esprime con i suoi sintomi - spesso assurdi, ma comunque invincibili e incontrollabili razionalmente - una situazione di conflitto motivazionale non risolto.Non meraviglia che l'interpretazione psicanalitica della motivazione abbia suscitato tante resistenze e tante critiche; come ebbe a dire lo stesso Freud (v., 1917) l'ipotesi psicanalitica dell'inconscio coincide con "l'asserzione che l'Io non è padrone in casa propria" e rappresenta quindi una umiliazione per l'autostima dell'individuo che presume di poter controllare pienamente la sua volontà.Nel corso degli anni molte revisioni parziali sono state apportate all'originale teorizzazione freudiana. Nelle pagine che seguono ci limiteremo a presentare solo alcune posizioni paradigmatiche, rinviando, per un'informazione completa sulle varie correnti riformatrici della psicanalisi, alla relativa letteratura specialistica.
Già dopo poco tempo dalla nascita della psicanalisi, due studiosi ritennero opportuno distinguersi dalla teorizzazione freudiana ed elaborare proprie teorie autonome. Il primo, Carl Gustav Jung, fondò la cosiddetta 'psicologia analitica', secondo la quale l'inconscio non ha soltanto una dimensione individuale, ma anche collettiva, che è rappresentata da una sorta di patrimonio comune al genere umano, ove si ritrovano gli stessi elementi simbolici che sono rintracciabili nella tradizione mitica, storica e religiosa dell'umanità. "A queste immagini o motivi - affermò Jung - ho dato il nome di 'archetipi' [...]; gli archetipi non sono solo [...] tracce di esperienze tipiche sempre ripetute ma [...] agiscono anche [...] come forze o tendenze a ripetere le stesse esperienze" (v. Jung, 1917).
La motivazione fondamentale del comportamento - nella concezione junghiana - è l'affermazione di sé ottenuta mediante la conquista di un equilibrio fra tendenze opposte: ad esempio fra la tendenza maschile e quella femminile, tra l'introversione e l'estroversione (v. Jacobi, 1940).
Un altro studioso che si distaccò dalle dottrine freudiane fu Alfred Adler, la cui teoria della motivazione è fondata sull'ipotesi che ogni comportamento origini dalla tendenza a compensare i sentimenti di inferiorità che nascono, in ogni fase della vita, dal confronto con le difficoltà che ostacolano le nostre azioni. La chiave interpretativa di ogni condotta sarebbe quindi nel riconoscimento del significato di compensazione delle, e rivincita sulle, proprie debolezze che l'uomo inconsciamente attribuisce alle proprie azioni. La ricerca della superiorità è comune a tutti gli uomini e agisce lungo tutta la vita: "la spinta dal basso verso l'alto non si esaurisce mai [...] costituisce una categoria fondamentale del pensiero, la struttura della nostra ragione" (v. Adler, 1930⁴).Un'altra allieva di Freud - Karen Horney - focalizzò la sua indagine sul rapporto fra il bambino e i genitori e identificò la motivazione umana prevalente nella ricerca di sicurezza in un ambiente vitale potenzialmente precario e ostile (v. Horney, 1945). Se l'ambiente si rivela come comprensivo e affettuoso, l'ansia viene contenuta e la ricerca di sicurezza costituisce una motivazione normale; se invece l'ambiente familiare è inadeguato, il bambino rimane preda dell'angoscia e la sua esasperata ricerca di sicurezza dà luogo alla formazione di 'bisogni nevrotici' rigidi e persistenti.
Un autore di formazione psico-sociologica approdato in seguito alla psicanalisi è Erich Fromm, il quale approfondì il rapporto individuo-società e sostenne che l'uomo moderno tende a fuggire dalla libertà verso una condizione più rassicurante di dipendenza (v. Fromm, 1941). La società, secondo Fromm, non offrirebbe all'individuo la possibilità di soddisfare i suoi bisogni di identità, di appartenenza e di orientamento assiologico; ne consegue un sentimento di isolamento e di insicurezza da cui nasce la motivazione alla dipendenza.
Un contributo interessante allo studio della motivazione viene dalla psicologia sociale attraverso la 'teoria del campo' elaborata da Kurt Lewin, che propone un'interpretazione fondata sull'interazione dinamica fra motivi individuali e stimoli ambientali. Secondo questa teoria, che si rifà alla concezione 'olistica' della scuola della Gestalt (cui Lewin apparteneva prima del suo trasferimento dalla Germania agli Stati Uniti), il comportamento può essere spiegato analizzando la situazione attuale del cosiddetto 'campo psicologico immediato'. Lewin definisce cos ì quel costrutto psicologico che comprende a un tempo la persona, con le sue motivazioni, e l'ambiente esterno, con le sue 'valenze' positive e negative. Motivazioni personali e valenze ambientali entrano così in un rapporto di continua interazione dinamica e il gioco mutevole dei loro rapporti influisce sul comportamento. L'approccio di Lewin è essenzialmente 'antistorico', perché ignora volutamente i fattori genetici o la storia precedente dell'individuo (che è invece fondamentale nell'interpretazione freudiana), e considera la situazione attuale del campo psicologico 'immediato'. In ogni momento, infatti, possono essere identificate, nel campo psicologico individuale, le varie forze presenti che influenzano la motivazione e il comportamento. Secondo la terminologia proposta da Lewin, all'interno del campo psicologico sono identificabili 'regioni', 'confini', 'barriere', 'vettori' - vale a dire 'realtà' psicologiche molteplici e differenziate che corrispondono a persone, interessi, difficoltà, tendenze.Il senso della teoria del campo di Lewin, con la sua terminologia originale, consiste nell'interpretazione del comportamento come frutto, in ogni momento, dell'equilibrio di forze presenti nel campo psicologico di ogni persona: un equilibrio da intendersi non come statico, ma piuttosto come 'quasi stazionario', perché da un lato viene continuamente turbato dagli stimoli subentranti (soggettivi e obiettivi) che si succedono nel campo, mentre dall'altro è continuamente ripristinato - sia pure a livelli diversi da quello precedente - dall'interazione e combinazione delle varie forze in atto.
Le ricerche impostate secondo la teoria del campo di Lewin hanno esplorato molti temi psicologici di grande interesse. Un primo tema è quello del conflitto, e cioè del contrasto o della concorrenza di motivazioni diverse, che si viene a creare quando nel campo psicologico sono presenti obiettivi egualmente interessanti - opposti o inconciliabili fra loro - oppure quando sono presenti ostacoli o pericoli egualmente temibili. Un altro tema molto studiato è quello della frustrazione, cioè del blocco che impedisce il raggiungimento di un obiettivo: in questi casi la tensione motivazionale, ostacolata nella realizzazione dell'obiettivo primario, può cercare uno sfogo sostitutivo sotto forma di manifestazione aggressiva. Un altro tema che la scuola di Lewin ha indagato è quello del 'livello di aspirazione': anche in questo caso la dinamica motivazionale appare complessa e conflittuale. Il soggetto combattuto fra la motivazione al successo e il timore dell'insuccesso può infatti fissare il suo livello di aspirazione verso i diversi obiettivi a quote non rispondenti alle sue reali capacità.Tutte queste ricerche, pur così diverse fra loro, presentano un elemento comune: l'idea della circolarità del rapporto causale fra individuo e ambiente. La motivazione, secondo la teoria del campo, nascerebbe sostanzialmente dall'interazione fra propositi individuali e forze ambientali, le cui valenze, positive o negative, si configurano come forze motivanti o demotivanti (v. Lewin, 1935, 1938 e 1951).
Sulle orme di Lewin - ma utilizzando anche i contributi di Hull, Murray e Mc Clelland - si è posto John W. Atkinson, che ha sviluppato una teoria volta a sottolineare le differenze individuali nella motivazione. A differenza dell'ipotesi lewiniana, secondo cui sono le condizioni attuali (e quindi mutevoli) del campo psicologico a influenzare la motivazione individuale, Atkinson ipotizza che la motivazione (e, in modo particolare, la motivazione al successo) rappresenti un tratto stabile della personalità, diverso - nella sua consistenza e nella sua influenza sulla condotta - da individuo a individuo. Il comportamento volto al successo è interpretato come la risultante di un conflitto fra due opposte tendenze: quella a impegnarsi nella riuscita e quella a evitare il fallimento.
Abbiamo accennato all'inizio alla corrente di studi denominata 'psicologia umanistica'. Gli studiosi che vi si riconoscono tendono a rifiutare le spiegazioni deterministiche (pulsionali o culturali) della motivazione, sottolineando invece il ruolo dei propositi individuali e dell'intenzionalità. Alcuni di questi studiosi occupano un posto di rilievo nella storia della psicologia. Il primo di essi è Gordon W. Allport, lo studioso della personalità che sostenne l'"autonomia funzionale" dei motivi, e cioè rifiutò l'ipotesi di una derivazione diretta dei motivi superiori da quelli biologici e pulsionali e affermò che la motivazione umana è fondata soprattutto sull'intenzionalità e sulla consapevolezza (v. Allport, 1937). Un altro studioso - Abraham H. Maslow -, impegnato a disegnare una teoria generale della politica e dell'etica, propose una gerarchia di motivi disposti secondo cinque livelli: al primo livello si pongono i motivi di carattere fisiologico, al secondo quelli volti alla sopravvivenza; si succedono quindi i motivi affettivi, quelli di stima e infine quelli di autorealizzazione. I motivi inferiori sono più urgenti e irrazionali, quelli superiori (volti a raggiungere la giustizia, la bellezza, la perfezione, la creatività) sono più liberi e mirano a espandere gli orizzonti umani (v. Maslow, 1954). Altrettanto noto è Carl Rogers, lo psicologo clinico che ispirò il metodo non direttivo in psicoterapia: egli pose a fondamento della sua teoria la motivazione all'auto-realizzazione a cui concorrono sia l'autostima che la stima altrui, connesse da un rapporto di reciprocità. Dobbiamo a un altro autore, George A. Kelly, la teoria dei "costrutti personali" che sottolinea la posizione attiva dell'individuo nel controllo degli eventi e anche nella loro predizione. Nell'ipotesi di Kelly ogni individuo è una sorta di scienziato intuitivo e l'attività cognitiva è centrale nella dinamica della motivazione.
Anche la psicologia cognitiva contemporanea, come abbiamo accennato, ha rivalutato il ruolo attivo del soggetto e l'importanza della consapevolezza e dell'intenzionalità nella progettazione e nella guida del comportamento. L'elemento volizionale - assente o ridotto nelle concezioni deterministiche - viene rivalutato e interpretato come responsabile non solo della scelta intenzionale dell'obiettivo, ma anche della continuità dell'impegno sino alla meta. Come affermano due autorevoli psicologi cognitivisti americani, le ricerche contemporanee di social cognition tendono a recuperare la considerazione degli scopi del soggetto: "il percipiente non è più visto come un risparmiatore di energie cognitive [...] ma piuttosto come un tattico che sceglie attivamente e deliberatamente, nell'ambito di diverse strategie cognitive, in funzione dei suoi obiettivi" (v. Fiske e Taylor, 1991, p. 12). Le diverse strategie cognitive, proprio perché guidate dalla motivazione, mirano qualche volta a promuovere l'accuratezza conoscitiva, qualche volta invece la rapidità. Anche un altro studioso, A.W. Kruglanski (v., 1990), descrive motivazioni epistemiche che mirano ad anticipare o, al contrario, a rimandare la 'chiusura' percettiva e conoscitiva. È la motivazione, in sostanza, che determina l'inizio, la durata e la fine del processo conoscitivo, difendendolo dalle informazioni distraenti, corroborandolo con informazioni a favore e controllando il tono emotivo necessario a sostenere la motivazione. Molte ricerche cognitive hanno indagato in particolare il rapporto fra aspetti intellettuali e aspetti emozionali nella formazione di opinioni e atteggiamenti - intesi quali prerequisiti motivazionali del comportamento - e hanno anche cercato di precisare la connotazione sociale di tali costrutti che si applicano al rapporto dell'individuo con il suo ambiente (v. Schmalt, 1971).
Su di una linea analoga si pone la cosiddetta 'psicologia dell'azione' che riafferma l'importanza dell'intenzionalità, sottolinea il carattere di 'azione diretta allo scopo' della condotta e ne indica i tre elementi costitutivi: il comportamento manifesto, la cognizione cosciente, il significato sociale (v. Von Cranach e Harré, 1985). Alcune ricerche di quest'area dedicano particolare attenzione al ruolo svolto dalle emozioni all'interno dei processi che motivano e controllano l'azione.
La problematica della motivazione - che, in questi ultimi anni, si è ulteriormente arricchita di numerosi contributi - è a un tempo vecchia e nuova: alcuni temi di riflessione e di ricerca riecheggiano questioni di carattere generale - antiche e non risolte - che riguardano la libertà e la consapevolezza dei motivi dell'azione. La contrapposizione o, almeno, la distinzione è fra concezioni deterministiche e antideterministiche, monofattoriali o plurifattoriali, organicistiche o mentalistiche. Altri temi, più specifici e più concreti, riguardano le motivazioni particolari che determinano il comportamento nei vari contesti e in rapporto ai vari problemi della convivenza sociale: il lavoro, il successo, l'appartenenza, il riferimento culturale. A questi temi la psicologia contemporanea - nei suoi diversi ambiti di ricerca, dalla psicologia dello sviluppo alla psicologia sociale, dalla psicologia del lavoro e dell'organizzazione alla psicologia clinica, sino alla psicologia giuridica - dedica un interesse molto rilevante; la motivazione individuale e collettiva rappresenta infatti una sorta di cerniera fra persona e ambiente, particolarmente delicata in un momento di grandi trasformazioni culturali. È la motivazione, infatti, che orienta il comportamento, dirige le scelte e, in ultima analisi, condiziona l'adattamento normale o deviante alla realtà.
Non va dimenticato, a conclusione di questa rassegna, un tema di ricerca e di teorizzazione che è, per così dire, complementare a quello della motivazione: è il tema dell'attribuzione. La teoria dell'attribuzione - nei vari modelli interpretativi che sono stati proposti successivamente da diversi studiosi - si pone il problema di spiegare il comportamento e di attribuirlo alle diverse cause possibili. Fritz Heider - che abbiamo citato in apertura - assume che ogni persona si comporti come una sorta di 'scienziato ingenuo' che tende spontaneamente a suddividere i fattori dell'azione in cause ambientali o esterne e motivi personali o interni. La tendenza attribuzionale è tanto maggiore quanto più il comportamento osservato ha 'rilevanza edonica' e cioè appare rilevante per il soggetto che lo osserva. Quanto più il soggetto intravede nel comportamento altrui la possibilità di un coinvolgimento dei suoi interessi personali, tanto più tende ad attribuire a tale comportamento un'intenzione e a valutarla in modo estremo, positivo o negativo (v. Jones e Davis, 1965). Il giudizio attributivo varia anche in rapporto al ruolo del soggetto giudicante: se il soggetto è 'osservatore' esterno del comportamento, egli tenderà a sopravvalutare i motivi personali in caso di insuccesso e le cause esterne in caso di successo; il contrario avverrà quando il soggetto giudicante è anche 'attore' del comportamento, giacché egli tenderà allora a sopravvalutare i motivi personali del successo e le cause esterne dell'insuccesso.Un modello assai interessante per i rapporti fra attribuzione e motivazione è stato proposto da Weiner (v., 1985): l'ipotesi, corredata da ricerche sperimentali, è che il giudizio attributivo, se riguarda il soggetto che lo esprime, possa influire sulla futura motivazione. Un giudizio che enfatizza il ruolo personale nel successo non solo appaga il sentimento di autostima, ma rinforza la motivazione al comportamento futuro; il contrario avviene, naturalmente, se il giudizio attributivo svaluta l'impegno personale. (V. anche Bisogni; Comportamentismo; Emozioni e sentimenti; Istinto).
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