MOTO
1. Moto assoluto e relativo per gli antichi. - Il senso comune distingue fra moto assoluto e moto relativo, prendendo per quest'ultimo il moto rispetto alla Terra. Ma la questione di definire il moto in sé stesso si pose già agli antichi Greci, tostoché essi ebbero sollevato il pensiero ai problemi generali del cosmo. Anassimandro di Mileto, nella prima metà del sec. VI a. C., riconosceva che ciò che chiamiamo alto e basso ha soltanto un significato relativo alla nostra posizione sopra la Terra: se questa è un corpo sferico, o comunque rotondo, la direzione "verso l'alto" si scambia per continuità con la direzione "verso il basso". Questa osservazione, che dà impulso a una critica relativistica (Senofane, Eraclito), prepara altresì il concetto della relatività del moto, quale appare presso i filosofi della scuola d'Elea (Parmenide e Zenone, intorno al 500 a. C.). Il moto non ha un senso assoluto, di per sé, ma soltanto un significato relativo: di un oggetto isolato non si può dire se si muova o stia in quiete; soltanto di due oggetti si può dire se si muovano ovvero siano in quiete l'uno rispetto all'altro: moto di un corpo significa variazione della sua posizione o della sua distanza da qualche altro corpo.
Questo concetto relativo del moto, con la negativa di un significato assoluto, appare a dir vero paradossale, tanto contrasta col senso comune. Gl'interpreti che lo dileggiano, attribuendo agli Eleati la radicale negazione del moto testimoniano indirettamente della difficoltà di comprendere l'idea nuova che codesti filosofi hanno affacciata. Però il senso dell'idea non è dubbio per chi approfondisca l'esame dei testi (cfr. F. Enriques, La relatività del movimento nell'antica Grecia, in Periodico di Mat., serie IV, I, n. 2, 1921).
Intanto hanno ben compreso il valore della tesi eleatica i naturalisti che speculano sui problemi cosmici nella seconda metà del secolo V a. C.: i sistemi di Empedocle e di Anassagora riuscirebbero incomprensibili senza il presupposto di tale veduta. Ancora più chiaro si scopre l'influsso del concetto relativistico del moto nei sistemi astronomici di Filolao, di Iceta e di Ecfanto; il primo dei quali fa muovere la Terra intorno a un ipotetico fuoco centrale, mentre gli altri due introducono l'ipotesi della rotazione della Terra intorno a sé stessa. Più tardi si affaccia anche l'ipotesi del moto della Terra attorno al Sole, forse già da Eraclide Pontico, ma certo almeno da Aristarco di Samo (verso la metà del sec. III a. C.) e da Seleuco di Babilonia (Schiaparelli).
Già al tempo di Platone il problema dei moti planetarî si poneva agli astronomi come ricerca di leggi di moto atte a "salvare i fenomeni" (σῴζειν τὰ ϕαινόμενα), dove è implicito il riconoscimento che le apparenze visive ci dànno soltanto i moti relativi. Non è detto però che i filosofi si accordassero nel riconoscere che null'altro distingue il moto rispetto ad altri corpi dal moto in sé. Per esempio gli atomisti - Leucippo e Democrito (verso il 400 a. C.) - avevano ritenuto come presupposto necessario per la fondazione di una scienza del moto, che il vuoto fosse qualche cosa, onde avesse senso il moto "rispetto al vuoto" (Aristotele, Phys., IV, 6 [4]). In questa forma si era dunque riaffacciato il vuoto assoluto in un'accezione analoga a quella che si ritroverà nei tempi moderni, presso Galileo e Newton.
Ma contro il relativismo non stanno soltanto le esigenze di intelligibilità di una scienza del moto, sì anche quello spirito di reazione contro la filosofia naturale o la scienza in genere, che sorge da motivi di ordine sociale, in contrasto con la critica dei sofisti. In questo senso deve essere apprezzato l'indirizzo generale del pensiero aristotelico, che tende a restringere, in ogni campo, il relativismo della speculazione anteriore. Per quel che concerne il problema del moto, esso torna, in modo caratteristico, alla veduta del senso comune. Nel mondo finito c'è un luogo naturale per ogni cosa: i corpi terrosi al centro, il fuoco alla periferia; e il moto va riferito al luogo naturale del mobile.
In epoche più tarde l'avversione del senso comune alle speculazioni che oltrepassano la veduta geocentrica e antropocentrica, si collega col sentimento religioso di avversarî fanatici, come lo stoico Cleante d'Asso, che avrebbe voluto promuovere contro Aristarco un processo di empietà. E, nel secolo d'Augusto, Dercillide, platonico pitagorizzante, dichiarava degno di maledizione, quale perturbatore dei principi dell'astrologia, chi osasse mettere in quiete il cielo e muover la Terra.
Ma già assai prima di quest'epoca, l'astronomia geocentrica aveva trionfato, verosimilmente per ragioni scientifiche, nella scuola degli astronomi di Alessandria. Bisogna tener presente che questi astronomi si propongono soltanto di descrivere i moti in guisa da salvare le apparenze, disinteressandosi della questione (che essi ritengono fisica e non astronomica) di assegnare i moti veri. Secondo tale criterio pragmatistico, il sistema di Aristarco avrebbe avuto per loro un significato se vi avessero trovato una legge semplice e uniforme per le orbite planetarie attorno al Sole, cioè se queste fossero risultate esattamente dei circoli, secondo i canoni dell'astronomia pitagorica. Nelle condizioni di fatto, che si rivelano a un esame più accurato, l'ipotesi eliocentrica non presentava vero vantaggio; e Ipparco di Nicea non esitò a riprendere il consueto riferimento geocentrico e ad appoggiare a questa veduta la descrizione precisa dei moti planetarî che egli stabiliva verso la metà del secolo II a. C. Tre secoli dopo Tolomeo portava a compimento questo sistema, in un quadro che esprime la sintesi generale di tutta l'astronomia antica. Il sistema tolemaico sembra concepito da un puro astronomo, che si appaga di salvare le apparenze dei moti celesti in rapporto alla Terra, presa come centro, senza discutere la questione fisica del loro moto vero. In realtà però una delle opere di Tolomeo, la Sintassi, ci mostra anche un Tolomeo fisico che, sulla base dei principî aristotelici, pretende dimostrare l'immobilità della Terra. Ma quest'opera non è stata conosciuta dal Medioevo.
2. Il sistema copernicano e la questione del moto fino a Newton. - Il Medioevo, tornando in contatto con le opere dei Greci, attraverso gli Arabi, trovava in queste la nozione del moto relativo e - implicitamente - la distinzione fra le apparenze del moto geometrico e la realtà del moto naturale o fisico. Del resto anche alcuni testi latini (per es., di Cicerone) davano notizia delle speculazioni dei filosofi antichi, che avevano dubitato dell'immobilità della Terra. Certo è che nel Quattrocento la questione della relatività del moto appare in taluni pensatori, come Nicola di Cusa e Del Pozzo Toscanelli. E pare che tale questione fosse largamente discussa nelle università italiane, dove Nicolò Copernico (v.) fu discepolo, in specie dal maestro ferrarese di questi, Giovanni Maria Novara. Comunque è certo che Copernico era informato dei tentativi fatti dall'antichità per superare la veduta geocentrica; sia delle idee di Iceta (che aveva apprese da Cicerone) sia di quelle di Aristarco. Ma egli non si contentò di riprendere l'antica idea, bensì volle svilupparla in un sistema che inquadrasse tutte le osservazioni note; e come frutto del suo lungo lavoro ci ha dato il trattato De revolutionibus che fu pubblicato nel 1543, l'anno stesso della sua morte.
Quest'opera non produsse subito l'impressione che poteva aspettarsi, in gran parte perché il predicatore Osiander di Norimberga, che ne aveva curato la pubblicazione, l'aveva fatta precedere da una introduzione in cui presentava la teoria copernicana come pura ipotesi matematica, illustrante la relatività geometrica dei fenomeni di movimento.
Soltanto più tardi Giordano Bruno, Kepler e Galileo ne riaffermarono il significato, e Kepler - basandosi sulle sue stesse lettere - potè provare che Osiander aveva scientemente falsato le vedute dell'autore.
Copernico assume infatti, come punto di partenza, che la definizione del moto sia relativa, ma riconosce un sistema naturale di riferimento nella sfera delle stelle fisse: il moto rispetto a questa sfera (che comprende, in qualche modo, la totalità dei corpi popolanti l'universo) si può ben ritenere come assoluto.
Da questo momento tutti i dibattiti intorno alla questione copernicana toccano i seguenti principî:
1. le apparenze visive dei moti dipendono soltanto dai moti relativi;
2. tuttavia, per chi consideri il fenomeno fisico nella sua integrità, ponendo mente alle circostanze dinamiche (forze, ecc.), vi è luogo a distinguere un senso assoluto del moto, e quindi di giudicare che la Terra si muove in confronto al Sole.
Per Kepler sussisterebbe un "principio d'inerzia" esprimente la tendenza dei corpi alla quiete, che darebbe sì un sistema naturale di riferimento per il moto, ma involgerebbe anche difficoltà insuperabili contro il sistema copernicano; giacché la vera intelligenza di questo, guadagnata da Galileo, esige che si comprenda l'inerzia come continuazione indefinita del moto, in guisa da giustificare il principio di relatività: "le leggi della dinamica risultano indipendenti da un moto traslatorio uniforme" (v. inerzia).
Quanto a Galileo, sebbene egli non abbia filosofato sul senso del moto, evidentemente riprende dagli antichi atomisti la supposizione che vi sia un moto assoluto, che - all'infuori del caso traslatorio uniforme - sarebbe discernibile con ragioni dinamiche. Nel processo fattogli dall'Inquisizione, il cardinale Bellarmino si attiene invece al puro relativismo geometrico, ammettendo che un significato assoluto del moto, conforme all'esigenza del senso comune, possa discermersi soltanto in base a ragioni religiose (testimonianza o interpretazione della Bibbia) e non scientifiche.
Cartesio poi, cercando una definizione critica del moto, giunge a considerare il moto come pura variazione (relativa) delle distanze dei corpi: "nulla di più positivo nel moto di un uomo sopra un naviglio, che nella quiete di un altro uomo che lo veda allontanarsi dalla sponda" (Øuvres, V, 348; VIII, 48, 53, 57). E nondimeno il filosofo francese aveva aderito al sistema copernicano, e solo per prudenza tacque le sue idee in proposito! Non è facile comprendere come egli sanasse la contraddizione.
Ora il problema del moto assoluto, quale è posto dal sistema copernicano e dalle esigenze della dinamica, si lascia spiegare in questi termini. Se tutti i fenomeni fisici si possono tradurre in pure relazioni geometriche, non si può riconoscere al moto altro significato che quello relativo (variazione delle distanze dei corpi); se così non è, si deve ammettere che ci sia nella fisica qualche altra cosa oltre la geometria.
Appunto alla pura concezione geometrica della fisica si era fermato Cartesio ("non alia principia in Physica quam in Geometria... a me admitti, nec optari...", VIII, 78). Al contrario Newton si è risoluto decisamente per il partito di ammettere che esiste qualcosa nella fisica che non si traduca in termini geometrici.
Nei Principia mathematica philosophiae naturalis, e precisamente nel cap. 1 sulle Definizioni, Newton introduce in modo esplicito il concetto dello spazio o luogo assoluto e del moto assoluto, come moto rispetto a cotesto spazio. Lo spazio assoluto, spiega in un apposito scolio, deve essere considerato nella sua natura, senza relazione alle cose sensibili, né a nulla di estraneo. La quiete e il moto assoluti e relativi si distinguono per le loro propried, le loro cause e i loro effetti. Il moto vero e assoluto non può essere definito dall'allontanarsi da certi corpi esterni, considerati come in quiete..., ma bisogna che tali corpi si trovino veramente in tale stato. Le cause che permettono di distinguere il moto assoluto dal relativo sono le forze impresse nei corpi per generare il moto. Gli effetti per cui si distingue il moto assoluto dal relativo sono le forze, con cui i corpi girevoli cercano di allontanarsi dall'asse del loro moto. Come esemplificazione di questo criterio, Newton cita l'esperienza di un secchio pieno d'acqua, che egli stesso ha fatto girare sospeso a un filo: il salire dell'acqua lungo gli orli del secchio vale a testimoniare la rotazione (assoluta) del secchio.
Queste idee di Newton presentano agli spiriti filosofici qualcosa di sconcertante. Perché, da un lato, male può soddisfare la definizione metafisica di uno spazio ritenuto come qualcosa d'indipendente dalle cose sensibili; d'altro lato, il criterio sperimentale delle forze centrifughe sembra aggiungere veramente qualcosa al concetto relativo e geometrico del moto: tantoché bisogna arrivare fino a E. Mach, perché si metta in evidenza che anche qui si tratta soltanto della variazione relativa della posizione del corpo rispetto ad altri corpi, cioè all'insieme delle cosiddette stelle fisse.
3. Critiche di Huygens e di Leibniz. - Otto anni dopo la pubblicazione dei Principia (che è del 1686) Huygens e Leibniz discutono sul concetto newtoniano, di cui sono poco disposti ad appagarsi. Nelle lettere di Huygens del 29 maggio e del 24 agosto 1694, pare che l'eminente fisico olandese (che pure aveva riflettuto sul criterio della forza centrifuga) inclini alla tesi cartesiana, riconoscendo incondizionatamente la relatività del moto; a meno che non si voglia scorgere qualcosa in contrario nell'ipotesi che altrove fa di una pressione esercitata sui corpi dall'etere, supporto delle ondulazioni luminose.
Leibniz invece aveva cominciato col criticare la tesi cartesiana: è vero per chi la segua "motus reale esse nullum", ma appunto perciò - aggiungeva - si deve richiedere, non tanto che muti la posizione del corpo rispetto ad altri corpi, bensì che la causa della variazione, forza o azione, sia nel corpo stesso. Questa veduta viene richiamata nella risposta che Leibniz dà alla prima lettera sopra citata di Huygens, il 22 giugno 1694: "Sebbene i fenomeni di moto, qualunque sia il numero dei corpi che si muovono, non fornirebbero, né a noi né agli angeli, ragione infallibile per determinare il soggetto del moto o il suo grado... non si può negare che veramente ciascuno abbia un certo grado di moto o, se si vuole, di forza, nonostante l'equivalenza delle ipotesi. Quantunque tale conseguenza porti che in natura esiste qualche altra cosa oltre ciò che può determinare la geometria". L'equivalenza delle ipotesi, per Leibniz, a differenza di Newton, sussiste anche per i moti circolari.
La questione filosofica essenziale del significato dello spazio viene toccata da Leibniz, oltre vent'anni dopo, nella terza lettera a S. Clarke (1715). "Lo spazio - dice - è alcunché di assolutamente uniforme; e senza le cose che vi si trovano, un punto dello spazio non differisce affatto da un altro. Di qui segue, supposto che lo spazio sia in sé stesso qualcosa oltre l'ordine delle cose tra loro, che non può esservi una ragione perché Dio, conservando le stesse posizioni dei corpi tra loro, abbia situati i corpi così e non altrimenti, e perché tutto non sia stato invece preso a rovescio... Ma se lo spazio non è altro che quell'ordine o rapporto, e non è proprio niente senza i corpi, tranne che la possibilità che ve ne sian posti, quei due stati, l'uno qual'è, l'altro supposto a rovescio, non differiscono punto fra loro...".
Questo argomento ci solleva a una posizione filosofica che non sarà più toccata, se non dalla critica del sec. XIX.
4. Verifiche sperimentali della rotazione della Terra. - I dubbî dei critici di fronte alle idee di Newton, tacciono in seguito al trionfo pratico della nuova astronomia, che risponde sempre meglio alla spiegazione e alla previsione dei fenomeni. Eulero, nella sua Mechanica del 1736, accetta la nozione del moto assoluto, come fondamento della dinamica, rilevando tuttavia che le leggi di essa valgono a caratterizzare il moto soltanto a meno di una traslazione uniforme.
I matematici posteriori hanno seguito il suo esempio.
Si assuma che il moto assoluto - qualunque ne sia il significato - debba soddisfare alle leggi di Galileo-Newton (principio d'inerzia, forza proporzionale all'accelerazione, forze posizionali); allora la questione se un dato corpo sia soggetto a una rotazione, è suscettibile di una risposta sperimentale. Gli sviluppi della dinamica, con la scoperta del piano invariabile di oscillazione del pendolo, o degli assi permanenti di rotazione dei giroscopî, e infine col teorema di Coriolis sulla forza centrifuga composta che appare nel moto relativo, sono riusciti a mettere in evidenza le esperienze possibili. In questo senso appunto si ha una prova sperimentale della rotazione della Terra col pendolo di Foucault (1850), e già con la deviazione orientale dei gravi cadenti, verificata in accordo col teorema di Coriolis da A. Tadini nel 1796, e più precisamente da F. Reich nel 1831. Non si può dare in senso analogo una prova diretta della rotazione della Terra attorno al Sole, ma è lecito scorgere una prova indiretta del fatto nelle perturbazioni del moto della Luna, assimilata a un grave cadente.
5. Revisione critica dei principî della dinamica. - La nuova critica filosofica sui principî della dinamica incomincia con F. Reich nel 1852: il quale esprime nettamente la veduta che il principio d'inerzia non sia un'ipotesi, né un fatto d' esperienza, ma una pura convenzione, e stabilisce i fondamenti di una statica relativistica, che più tardi J. Andrade (1896) doveva prolungare in uno sviluppo formale della dinamica. In una nota dei Comptes rendus del 1869, e più diffusamente ancora nella sua grande opera metodica del 1870, J.-M.-C. Duhamel afferma chiaramente: "Le mouvement absolu généralement admis jusqu'ici est une pure chimère, fondée sur une autre chimère, celle d'un espace éternel et absolu. Nous avons à combattre une conception aussi chimérique que celle d'un espace éternel et absolu, qui fait du temps un être éternel, indépendant de toute création".
Frattanto anche C. Neumann (1870) rilevava che il principio d'inerzia posto a fondamento della dinamica è incomprensibile, se non sia dato uno spazio immobile di riferimento, che bisogna ipostatizzare introducendo un corpo rigido alfa, d'altronde affatto sconosciuto. Altre critiche più approfondite intorno al concetto del moto sono svolte da H. Streintz (1883) e specialmente da E. Mach, in lavori che vanno dal 1872 fino alla classica opera Die Mechanik del 1883.
Il Mach insiste in particolare su ciò che vi è di relativo nella rotazione che la teoria newtoniana considera come assoluta: "Una rotazione relativa alle stelle fisse dà origine in un corpo a certe forze di allontanamento dall'asse. Se la rotazione non è relativa alle stelle fisse queste forze non si producono". Ed è irrealizzabile e priva di senso l'idea di fissare il secchio d'acqua di Newton e di fargli girare attorno il cielo delle stelle fisse, perché i due casi sono indiscernibili nella percezione sensibile. Perciò Mach - collocandosi dal punto di vista della filosofia positiva - considera "questi due casi come ne formassero uno solo, e la distinzione che ne fa Newton illusoria".
La critica del Mach è inconfutabile, e anche altamente suggestiva, perché induce a ritenere che i fenomeni di moto relativo entro una sfera materiale cava debbano essere similmente influenzati dalla presenza di questa sfera (come bene apparirà nella dinamica einsteiniana). Ma, una volta che si sia definitivamente giudicato ogni tentativo di conferire senso trascendente (cioè indipendente dalle cose sensibili) allo spazio e al moto, sembra giusto rilevare che qualche cosa può essere chiamato ancora "assoluto": ciò che è relativo, non a questo o a quel corpo, bensì alla totalità dei corpi celesti, secondo il concetto che già abbiamo veduto affacciarsi da Copernico. E pertanto sarà legittimo parlare di moto assoluto, in quanto si parli di moto che possa mettersi in evidenza rispetto al sistema delle stelle.
Ora si osservi che mentre le distanze delle stelle da noi (almeno nell'ipotesi dell'infinità dell'universo) vanno indefinitamente crescendo, le loro velocità relative, invece, non superano limiti assai ristretti. Di conseguenza gli angoli formati dai raggi visuali che vanno alle stelle più lontane risultano approssimativamente fissi, e tanto più fissi quanto più lontane siano le stelle anzidette; cosicché - in cotesto ordine di approssimazione (ed eventualmente al limite con esattezza) - si può definire un sistema di direzioni cosmiche invariabili, rispetto a cui risulterà definito il moto di rotazione.
Questa considerazione si trova svolta nella critica di F. Enriques (1906), che riesce a stabilire ciò che della dinamica newtoniana rimane vero rispetto a un sistema di riferimento qualsiasi; mostrando che nella dinamica relativistica sussistono sempre le leggi dell'equilibrio e del moto incipiente.
E il sistema ha ricevuto un complemento formale per opera di G. Giorgi (1912). D'altronde quella dinamica che vale rispetto a un sistema di riferimento qualsiasi appare come parte comune a tutte le possibili dinamiche non newtoniane, che si possono costruire surrogando il principio d'inerzia con altra ipotesi, piìu generale, in giusa da rispondere meglio alla spiegazione dei varî fenomeni fisici, che a essa si vogliano subordinare. Perciò i progressi della fisica dovranno indicare la scelta di un'opportuna dinamica non newtoniana. Nel fatto, la teoria elettromagnetica ha condotto qui all'innovazione più radicale, che sbocca nella dinamica relativistica di A. Einstein.
6. Si può porre in evidenza il moto rispetto alla luce? - La ricerca di un "corpo alfa" rispetto al quale valgano le leggi della dinamica di Galileo-Newton, doveva naturalmente suscitare l'idea di prendere come tale l'etere immobile che, secondo la teoria elastica di Huygens (trionfante sull'ipotesi dell'emissione di Newton), viene postulato come supporto delle ondulazioni luminose. Questo concetto assumerebbe un senso positivo se si riuscisse a mettere in evidenza il moto dei corpi rispetto alla luce. E quando fu scoperta da J. Bradley (1725) l'aberrazione della luce delle stelle, si poté credere di avere ottenuto appunto un resultato di tal natura. Ma una critica approfondita ha dovuto riconoscere che il fenomeno rivela, non già il moto della Terra rispetto all'etere o alla luce in sé, bensì il suo moto rispetto alla stella, sorgente della luce.
Tuttavia l'ipotesi fondamentale di un etere immobile, posta a base dell'ottica ondulatoria e poi della teoria elettromagnetica (in cui l'ottica viene a rientrare con Maxwell e Hertz), deve pure rivelarsi nelle conseguenze della teoria, che pe metteranno così di sottometterla al controllo dell'esperienza. Per coloro che, avendo ereditato l'atteggiamento spirituale dei filosofi del moto assoluto, credevano veramente all'etere come a una realtà, la previsione d'una verifica ottica o elettromagnetica del moto assoluto doveva dunque apparire come attendibile. Con tale animo si sono accinti a sperimentare le conseguenze della più elaborata teoria di Lorentz, i fisici A.A. Michelson e Morley (1881, 1887), pervenendo però a un risultato negativo. Allora l'avvertimento dell'esperienza ha promosso il trionfo della veduta critica che ripugna dall'ammettere l'esistenza di un etere indipendente dalla materia. L'ipotesi dell'etere si è conservata, tuttavia, negli sviluppi ulteriori della teoria di Lorentz, in qualche modo, come un postulato formale o una convenzione di comodo, mentre le ipotesi della contrazione dei corpi in moto e del tempo locale venivano a togliere al moto rispetto all'etere ogni senso fisico suscettibile di verifica sperimentale. Finché Einstein, partendo dai principî della sana filosofia positiva (che richiede di ogni ente fisico una definizione mediante esperienze possibili), ha capovolto la situazione, costruendo così la nuova dinamica relativistica che comprende, corregge e supera la dinamica di Galileo-Newton (v. relatività).
Bibl.: F. Enriques e G. Santillana, Storia del pensiero scientifico, I, Milano 1932; E. Dühring, Kritische Geschichte der allgemeinen Principien der Mechanik, Lipsia 1872, 3ª ediz., 1887; L. Lange, Die geschichtliche Entwikelung des Bewegungsbegriffes, Lipsia 1886; P. Duhem, Le système du Monde, Parigi 1913-1917; id., Le mouvement absolu et le mouvement relatif, 1909; I. Newton, Principii di filosofia naturale, con note citiche di F. Enriques e U. Forti, Bologna 1925; J. M.-C. Duhamel, Des Méthodes dans les Sciences de raisonnement, IV, Parigi 1870; C. Neumann, Die Prinzipien der Galilei-Newton'schen Theorien, Lipsia 1870; E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo, tard. ital. della 6ª ed., per cura di D. Gambioli, Roma 1909; F. Enriques, Problemi della scienza, Bologna 1906; G. Giorgi, Il problema del moto assoluto nelle leggi fondamentali della dinamica, in Rend. Circolo mat. di Palermo, XXXIV, 1912.
Le concezioni filosofiche del moto.
Dell'idea di moto, in quanto essa è stata concepita da un punta di vista filosofico, non è facile delineare, sia pure negli aspetti principalissimi, la storia, per le difficoltà che s'incontrano nello stabilire il suo stesso ambito terminologico. Se infatti si applica come criterio, nella ricostruzione di tale storia in seno al pensiero antico, il concetto moderno per cui nel termine "moto" si vede propriamente indicata soltanto la traslazione spaziale, è evidente come essa si restringa in assai angusti limiti, e come divenga impossibile di intendere lo stesso significato che Aristotele attribuisce a quel termine. "Moto", χινσις, è infatti per Aristotele non soltanto quello spostamento spaziale, che con vocabolo già adottato da Platone egli chiama ϕορά ("traslazione"), ma in genere ogni forma di divenire: ed è così che egli può considerare il "moto" come l'aspetto comune di ogni passaggio di potenza in atto, e concepire quale "motore immobile", cioè quale atto che non più diviene ma che attrae a sé le realtà divenienti assetate della sua perfezione, la divinità in cui l'universo culmina. Di conseguenza, anche le antecedenti dottrine, che attraverso la tradizione dossografica aristotelica o derivante da Aristotele ci si presentano come teorie del "moto", sono in realtà concezioni del dimnire delle cose: solo in tale più vasto senso è quindi da intendere, per es., la notizia che Eraclito e Protagora asserissero la "mobilità" dell'universo, e gli Eleati ne sostenessero invece l'"immobilità". Nelle dimostrazioni eleatiche dell'unità e identità dell'ente la negazione del moto, nel senso più proprio di traslazione spaziale, è infatti soltanto un elemento particolare: e lo stesso Zenone di Elea, le cui famose argomentazioni contro la razionale concepibilità del movimento sono state spesso considerate come prove indirette dell'effettiva immobilità del reale, non avrebbe potuto mirare a dimostrare così l'immobilità di un mondo che, essendo particolare e molteplice, sarebbe stato (dal suo punto di vista, parmenideo e non melissiano) contraddittorio anche se stabile; egli quasi certamente intese, con quelle argomentazioni, di dimostrare soltanto un termine delle tante antinomie contraddittorie risultanti per lui dal presupposto della molteplicità del reale.
Una vera e propria risoluzione del divenire in movimento, nel senso specifico della traslazione spaziale, e con ciò una considerazione di quest'ultima come principio universale dell'accadere, s'incontra bensì nella fisica di Epicuro, che rendendo più rigorosa la dottrina democritea concepisce tutto il divenire come determinato del moto atomico, o verticale in forza della gravità o deviante in forza del clinamen (v. epicuro). Ma questo punto di vista si afferma vittoriosamente solo nell'età moderna, con Galileo e con Cartesio: e specialmente quest'ultimo, orientato verso una considerazione del mondo esterno che scorgeva in esso, quale suo principale carattere costitutivo, quello spaziale dell'estensione, contribuisce a determinare la scienza fisico-matematica della natura nell'aspetto d'interpretazione della realtà in funzione di puri rapporti quantitativi di movimento. Ma per ciò stesso il concetto del moto viene a trasferirsi dal campo della filosofia in quello della scienza fisico-matematica della natura: e già in Kant esso non è più una categoria, e neppure una forma trascendentale dell'intuizione come lo spazio e il tempo, ma solo un "concetto a priori condizionato sensibilmente", perché determinato dall'intuizione empirica di una realtà variante nei quadri dello spazio e del tempo. Vero è che, considerato dall'angolo visuale classico onde esso si presenta come forma tipica o universale del divenire, il concetto del movimento accentra ancora su di sé, talvolta, lo stesso più generale problema della concepibilità del divenire; così, per es., Hegel definisce dialetticamente il moto come "morte e risurrezione dello spazio nel tempo e del tempo nello spazio", e Bergson insiste nel far vedere come il movimento reale sia quello che vien colto, nella sua indivisibile unità, dalla concreta intuizione, sottraendosi così a quella divisione quantitativa che ne compie l'astratto metodo scientifico e che finisce per ricondurlo di fronte alle aporie zenoniane. Ma, come si è detto, qui è il generale problema del divenire che, sotto le specie di quello del moto, manifesta la sua superiorità rispetto agli schemi scientifici che vorrebbero imprigionarlo, e la sua esigenza di una trattazione filosofica; e si può quindi riconoscere come, concepito nel senso più proprio di pura traslazione spaziale, il movimento, tema importantissimo d'indagini per la scienza fisico-matematica della natura, non abbia per ciò stesso più alcun significato come argomento di problema filosofico.