Movimenti di risveglio religioso cattolico nelle realtà regionali
Uno degli effetti inattesi della riforma teologica introdotta dal Concilio Vaticano II (1962-65) è stato il superamento del principio che regolava il rapporto fra l’istituzione Chiesa e le diverse forme di aggregazione e di partecipazione del laicato alla vita interna della Chiesa stessa.
Il passaggio da una visione organicista e territorialmente uniforme della rete associativa cattolica alla coesistenza di modelli organizzativi, a volte molto differenti fra loro, costituisce il punto di partenza per analizzare in generale il fenomeno dei nuovi movimenti di risveglio e in particolare per comprendere uno dei tratti che più interessa mettere in luce, cioè il loro rapporto ineguale con il territorio e con le diverse realtà regionali. Un tempo, le principali associazioni cattoliche, per loro stessa vocazione, o saturavano un segmento sociale o erano diffuse su tutto il territorio nazionale, non fosse altro perché, in molti casi (Azione cattolica italiana, Scout, Federazione universitaria cattolica italiana-FUCI, Associazioni cristiane lavoratori italiani-ACLI e così via), trovavano nell’unità di base dell’organizzazione cattolica, le parrocchie, il punto di aggregazione. È la forma organizzativa stessa che è mutata, infatti, non più affidata al principio della divisione del lavoro religioso fondato sulla differenza di genere, di età e di professione. Era una forma, quella, che rifletteva fedelmente le diverse articolazioni e pieghe della società civile e i ritmi biosociali che scandivano la vita del buon cristiano. Certo esistevano differenze regionali – la Lombardia e il Veneto e in quest’ultima regione, alcune diocesi rispetto ad altre – ma esse erano riassorbite facilmente da un’organizzazione relativamente compatta, guidata dai vescovi, affiancati da sacerdoti, e sostenuta da un nucleo di militanti attivi.
Tutto ciò entrò in crisi nella seconda metà degli anni Sessanta, per ragioni culturali e sociali, nonché politiche più ampie dell’evento conciliare. Tuttavia quest’ultimo ha rappresentato la narrazione collettiva che una parte del mondo cattolico – quando ancora tale formula aveva senso pieno – ha utilizzato per immaginare possibile una riforma della Chiesa.
La novità che si afferma dal Concilio Vaticano II in poi è, invece, la progressiva accettazione (a volte obtorto collo), da parte della gerarchia ecclesiastica, della differenziazione per carismi e specializzazioni funzionali, che superano le divisioni tradizionali, proprie di un modello organicista. In quest’ultimo caso, infatti, la società è vista dalla Chiesa (nella sua dottrina e nella sua prassi ecclesiale) come un organismo vivente e ordinato naturalmente da Dio, composto di corpi intermedi (dalla famiglia agli enti di governo locale, dalle associazioni degli imprenditori a quelle professionali e così via) e di tante parti quante sono le naturali morfologie del sociale stesso. Ogni segmento della società, così rappresentato, costituiva una cellula periferica che poteva essere valorizzata per far vivere il corpus organizzativo della Chiesa cattolica. L’appartenenza alla Chiesa era determinata in base al doppio criterio della credenza di fede, per un lato, e della comunanza di legami socioeconomici o di ordine naturale (età, sesso, generazioni ecc.) per un altro.
Così facendo, l’istituzione-Chiesa poteva strutturare la società stessa, sforzandosi di rifletterne tutte le sue caratteristiche e le sue pieghe interne. La cattolicità era, allo stesso tempo, valore universale e marcatore della specificità professionale della categoria sociale che veniva organizzata sotto la guida di santa madre Chiesa: il segno che, al di là delle molteplici differenziazioni proprie di una società moderna, la Chiesa era in grado di fornire senso d’appartenenza collettiva (il beneficio simbolico) e incentivi morali individualizzati per categoria professionale, segmento d’età e corporazioni sociali.
Tutto ciò entrò gradualmente in crisi fino a non esistere più. Non solo perché la teologia stessa del Vaticano II criticava alla radice la concezione organicista del rapporto Chiesa-mondo, ma anche e soprattutto perché il modello non reggeva il confronto con un ambiente sociale che andava trasformandosi profondamente, differenziandosi e sottraendo sfere dell’agire sociale all’influenza della religione. A un certo punto è venuto meno il legame fra universale e particolare: la capacità del primo d’informare il secondo delle tante specificità sociali che lo caratterizzavano si è indebolita progressivamente. L’essere cattolico non è apparso più necessariamente collegato con l’essere un buon medico o un buon scolaro, un adulto o un ragazzo, un laureato o un lavoratore dei campi e delle officine. La cultura organizzativa, cui il modello organicista s’ispirava, si è gradualmente volatilizzata. Sia perché i fedeli organizzati per corporazione non riuscivano più a trovare un senso nell’appartenenza per comparti d’interessi o suddivisioni sociobiologiche, sia perché il messaggio unificante religioso non era in grado di offrire loro lumi e indicare le scelte concrete che ogni individuo – in quanto tale – desiderava compiere in autonomia, agendo nelle diverse sfere della vita. Le province di significato erano diventate, nel frattempo, plurime e relativamente autonome. La pretesa da parte della Chiesa di ricondurle a un senso unitario non era più socialmente plausibile, nemmeno fra i suoi fedeli.
Quando vennero formalmente istituite le regioni, dunque, il processo appena descritto iniziò a manifestarsi e i legami fra ciò che storicamente aveva costituito la formazione della classe dirigente (sia a livello locale sia a livello nazionale) del partito dei cattolici (la Democrazia cristiana) e il retroterra organizzativo e formativo assicurato dalla Chiesa cattolica attraverso le sue tante associazioni universalistiche e corporative, cominciarono ad allentarsi, sino a diventare sempre più evanescenti man mano che la crisi del sistema politico, nel 1990-92, non portò alla luce nuovi gruppi politici che del retroterra cattolico non sembravano più aver bisogno (come per es. la Lega Nord o Forza Italia nella sua prima maniera).
Prima di entrare nel dettaglio dell’analisi di alcuni nuovi movimenti di risveglio cattolico, seguendo le linee di frattura territoriale che essi hanno introdotto rispetto alle precedenti grandi organizzazioni cattoliche di massa, vale la pena descrivere più da vicino il nuovo modello che tali movimenti hanno espresso e che si è venuto assestando, per prove ed errori, a partire dagli anni Ottanta del 20° sec., dopo un periodo turbolento di conflitti e crisi interne ed esterne al mondo cattolico, e vale la pena, in un secondo tempo, cogliere la nuova cultura organizzativa che anima tale modello. Tutto ciò al fine di comprendere se e fino a che punto esista una qualche affinità elettiva fra alcune aree territoriali (più ampie a volte dei confini amministrativi delle singole regioni) e alcuni movimenti.
Che cosa hanno in comune fra loro Comunione e liberazione (CL), Azione cattolica, Rinnovamento nello Spirito (RnS), il Cammino neocatecumenale (CNC), le Comunità di ascolto della Bibbia, i Focolarini e così via? Coloro che aderiscono sono dei credenti che vivono in modo differente l’appartenenza alla Chiesa cattolica. Militare in un gruppo o in un altro non è la stessa cosa. Per ragioni non puramente estrinseche: perché, per es., si è entrati, nell’ambiente sociale in cui si vive, a contatto con un’associazione piuttosto che con un’altra o perché una delle sigle appena ricordate è più presente in una parrocchia e meno in un’altra.
I motivi della diversa militanza sono in realtà più seri: essi hanno a che fare con una differente concezione dell’essere cristiano e di sentirsi parte della Chiesa cattolica. Mettendo per ora tra parentesi la storia del riconoscimento – in alcuni casi, faticosa e complessa – di queste nuove associazioni da parte dell’autorità ecclesiastica, non è la stessa cosa aderire a CL o percorrere il cammino di riconversione, proposto dal movimento neocatecumenale.
I confini fra le diverse aggregazioni, presenti nel panorama ecclesiale, sono ben tracciati e marcano distanze teologiche e forme di azione socioreligiosa di non poco conto. Nell’esempio appena fatto, il credente che intraprende il CNC compie la scelta di ‘tornare alle origini della comunità cristiana’, mentre chi si riconosce negli ideali di CL si sforza di rianimare sfere della vita sociale, come l’economia e la politica, che hanno perso l’impronta cattolica. Allo stesso modo, il seguace del RnS è talvolta percepito dal militante di Azione cattolica come una persona borderline, aderente a una sorta di libera Chiesa all’interno della grande Chiesa cattolica. Il fatto che i militanti dei vari gruppi si sentano parte della Chiesa non significa che tutti esprimano in modo omogeneo tale sentimento: la diversa struttura organizzativa, infatti, riflette una differente visione teologica del rapporto Chiesa-mondo, diversi stili di vita liturgica, forme non univoche di legittimazione della leadership, minore o maggiore declericalizzazione del principio d’autorità e, infine, relativa indipendenza nei confronti della gerarchia ecclesiastica, sia a livello periferico (i parroci) sia rispetto alla Chiesa di Roma. È come se il sistema avesse visto crescere nell’ambiente socioreligioso di riferimento una complessità non più riducibile secondo lo schema organicista, ben temperato e collaudato nel passato.
Il presupposto teorico, da cui si parte, è che l’ambiente socioreligioso sia divenuto molto più complesso rispetto al sistema di credenza: si è prodotta una sorta d’inflazione religiosa nell’ambiente non più governabile con le politiche pastorali tradizionali. La domanda religiosa si è orientata altrove e si è diversificata in conformità a bisogni di senso che non potevano essere più soddisfatti dalle forme organizzative storiche del sistema di credenza.
La storia del Movimento pentecostale cattolico, per es., divenuto poi Rinnovamento nello Spirito, è, per molti versi, esemplare. Nato in un ambiente sociale statunitense, dove i confini fra cattolici e protestanti non erano netti e in una fase d’effervescenza ecumenica, il movimento si presenta alle origini come l’interprete di un bisogno di religiosità immediata, criticamente in tensione con le tradizionali mediazioni sacre ed ecclesiastiche (‘lo Spirito soffia dove vuole’), ricercata non tanto nella dottrina cattolica, quanto piuttosto nella tradizione pentecostale protestante e nella teologia dello Spirito delle Chiese ortodosse. Allo stesso modo, se si analizza la genesi del movimento neocatecumenale, fondato da due giovani ex militanti di Azione cattolica della Spagna, allora ancora dominata dal franchismo, si può notare che l’idea ispiratrice nasceva dal bisogno di una proposta religiosa più forte e radicale di quella tradizionalmente rappresentata da un’organizzazione laicale come Azione cattolica. La scelta di tornare alle origini della comunità cristiana, sottoponendosi a un intenso e severo percorso di riscoperta dei fondamenti della propria fede, cela la critica implicita a ogni forma di religione di nascita: non basta più nascere cattolico, si sente il bisogno di uscire dalla tradizione. Ciò significa entrare in sintonia con il movimento evangelico del born-again che caratterizza una parte del panorama socioreligioso contemporaneo degli Stati Uniti. Quasi che si trattasse, paradossalmente, di una scelta post-tradizionalista e, per un certo verso, postcattolica, nel senso che rivelava la stanchezza di appartenere a una società che continuava a dirsi e a rappresentarsi come cattolica, ma non lo era più da tempo, nei comportamenti molecolari propri della vita individuale e collettiva.
Nei due casi appena ricordati, la tensione a riformare il mondo è molto bassa; il problema è ricreare la comunità fuori dei recinti istituzionali. In altri esempi, invece, la riforma del mondo occupa un posto strategico decisivo. Si tratta di movimenti relativamente nuovi, che, tuttavia, riprendono motivi e temi classici o dell’integrismo cattolico o del cattolicesimo sociale, nati rispettivamente nella seconda metà del 19° secolo. La riforma mundi è, infatti, un tema caro sia a CL (Abbruzzese 1989) sia all’Opus Dei, così come, con diversità notevoli, si ritrova in tutte le associazioni del volontariato cattolico impegnate nel sociale in un’attività compassionevole. CL e Opus Dei guardano alle opere come investimenti politici ed economici volti a reclutare, selezionare e determinare i gruppi dirigenti (da quelli intermedi ai vertici del comando politico), in tutte quelle società dove trovano spazio e riconoscimento; per RnS e catecumenali, invece, le opere sono intese come forme dell’azione solidale, ispirata religiosamente, capace di dare rappresentanza a ceti sociali sfavoriti economicamente o a gruppi d’individui considerati dalla società come marginali (povertà estrema, immigrati clandestini, esseri umani ridotti in schiavitù e così via). Nel primo caso funziona una logica organizzativa che si può racchiudere nella formula della religione come impresa sociopolitica di riconquista cattolica del mondo secolarizzato; nel secondo caso si afferma il principio d’organizzazione dei non-garantiti e degli esclusi, che nessun sindacato o raggruppamento politico è in grado di rappresentare e che si collocano al di fuori degli apparati del welfare. In quest’ultimo caso possiamo usare la formula della religione come impresa sociale compassionevole.
Se si abbandona la casistica e ci si sforza di identificare i diversi tipi-ideali d’organizzazione che è dato riscontrare nell’ambiente cattolico, i criteri che consentono d’individuarli sono nell’ordine: a) la via spirituale proposta; b) la struttura della leadership e la divisione dei poteri e dei saperi all’interno dell’organizzazione; c) la relazione fra scelta religiosa e impegno attivo nella società e nella polis (direttamente o indirettamente nella vita politica); d) l’atteggiamento nei confronti della virtù dell’obbedienza (cioè, nei confronti dell’autorità del magistero ecclesiastico).
Le possibili combinazioni fra queste quattro dimensioni sono teoricamente non illimitate, se si pensa di utilizzarle per mettere ordine a una realtà che, altrimenti, si presenterebbe molto differenziata e, in linea di massima, con conflitti latenti non facilmente riducibili. Se questi oggi appaiono meno visibili e non rappresentati nella sfera religiosa pubblica, nel passato, invece, le tensioni e le differenti posizioni tra i vari gruppi, movimenti e associazioni sono emerse con nettezza. La congiuntura storica della presenza di un leader carismatico a capo della Chiesa di Roma, sotto il papato di Giovanni Paolo II (1978-2005), ha occultato differenze e conflitti, senza però che, per questo, la contesa per contare di più nella Chiesa, da parte dei vari gruppi cattolici con orientamenti teologici ed ecclesiologici diversi, si sia ridotta. Anzi la competizione ha raggiunto vette elevate, se è vero che, nella corsa alla legittimazione interna, alcune organizzazioni cattoliche hanno puntato alla santificazione del loro capo fondatore per accreditarsi in modo definitivo come pilastro dell’istituzione-Chiesa cattolica. Ciò è avvenuto recentemente, per es., con l’Opus Dei che è riuscito a far canonizzare il suo leader, Jose María Escrivá de Balaguer (1902-1975) in tempo utile prima della fine del pontificato di Karol Wojtyła.
Un processo di pillarization, di costruzione di enclave territoriale di potere, che altri in passato hanno seguito: molti movimenti di riforma religiosa, infatti, nati laici o poco coerenti con le politiche pastorali imperanti in determinati momenti storici, sono divenuti poi ordini religiosi, grazie sia alla forza delle loro idee sia al valore aggiunto, che il loro carisma di fondazione riusciva a portare in dote alla Chiesa universale. La competizione si è spinta, in alcuni casi, al punto che un movimento ha cercato di affermare una propria autonomia e, al tempo stesso, egemonia – religiosa e politica – mettendosi in gioco direttamente in campo politico, sostenendo a livello comunale e regionale propri uomini, fornendo, dunque, una nuova leva di dirigenti cattolici, non più legati – sta qui la differenza con il passato, nei rapporto complessi fra associazioni cattoliche e Democrazia cristiana – a un a strategia complessiva della Chiesa italiana, bensì riflesso ed espressione di una particolare interpretazione del cattolicesimo sociale e militante. La vicenda di CL, a tal proposito, come si vedrà oltre, è esemplare; non è casuale che il suo insediamento, tramite anche la Compagnia delle opere, sia avvenuto a macchia di leopardo e abbia trovato i propri punti di forza solo in alcune regioni e non in altre, sino al punto da riuscire a esprimere una classe dirigente che ininterrottamente ha governato per quasi un ventennio una grande regione come la Lombardia.
Si possono parafrasare le parole di Carl Schmitt, nel suo saggio Cattolicesimo romano e forma politica (1925) dedicato alla complexio oppositorum che caratterizzerebbe la Chiesa di Roma, per comprendere meglio quanto appena detto. Laddove un’associazione o gruppo, nato sul terreno cattolico, dentro o ai margini della Chiesa, riesce a tradurre l’idea religiosa in opere (culturali, sociali, caritative, politiche, educative ecc.), essa può aspirare a essere riconosciuta dal magistero e occupare una determinata posizione nella scala delle preferenze, che di volta in volta stabiliscono e delimitano la vicinanza o la lontananza relative dal centro delle decisioni, dove vengono elaborati gli indirizzi delle politiche pastorali esterne e delle discipline organizzative interne. La Chiesa possiede una cultura organizzativa per definizione complessa, che non può essere racchiusa nei confini regionali o diocesani, proprio perché il sapere organizzativo, accumulatosi lungo la sua storia bimillenaria, le ha insegnato che c’è posto per tutti, anche per aggregazioni di credenti che si trovano su posizioni diverse e che, tuttavia, si autorappresentano come appartenenti alla Chiesa. È l’appartenenza più che la credenza a essere decisiva, in tal caso, per comprendere la convivenza conflittuale e plurale di organizzazioni, che si ispirano a modelli teologici ed ecclesiologici diversi. Fin tanto che il conflitto non riguarda il principio d’autorità, la tolleranza è assicurata per gruppi, movimenti e associazioni che nascono e si riproducono nel tempo. La storia della dissidenza cattolica, che recentemente si è sviluppata a partire dal Concilio Vaticano II, dimostra proprio quanto appena detto: quando, infatti, i gruppi del dissenso hanno messo in discussione la virtù dell’obbedienza, essi sono stati progressivamente espulsi ed emarginati dalla Chiesa ufficiale.
Ciò precisato, se si esercita l’ars combinatoria sociologica sulle quattro dimensioni sopra enunciate (via spirituale, leadership, atteggiamento verso il mondo e obbedienza) e la si applica alla morfologia delle associazioni presenti nel mondo cattolico, i tipi-ideali, che si possono disegnare per orientarsi e mettere ordine alla realtà, si polarizzano secondo due distinti modelli spirituali.
Un primo modello spirituale, incentrato sulla conversione (il born-again) e la rifondazione della comunità dei credenti, ha una prevalente caratterizzazione laica della leadership (e sua declericalizzazione), con conseguente sviluppo di modelli d’organizzazione che, a fianco delle liturgie canoniche, favoriscono forme di partecipazione e performance liturgiche che rendano trasparente la comunità dei santi in cammino verso la rinascita spirituale del cristianesimo delle origini. Secondo tale modello, la tensione spirituale verso il mondo moderno, inteso come luogo dove predicare il Vangelo, è da ricondurre allo spirito evangelico, prima di tutto nelle coscienze più che nelle istituzioni mondane.
Un secondo modello spirituale neoidentitario, che si esprime nell’idea della difesa dell’identità cattolica (defenders of God), minacciata dall’individualismo moderno e dal relativismo etico, vede la guida suprema affidata al clero, con un’organizzazione gerarchica che riproduce le classiche divisioni del lavoro religioso proprie della Chiesa cattolica (clero-laici; uomo-donna; intellettuali-popolo e così via). Il mondo va riconquistato, soprattutto in tutte quelle sfere della vita che si sono sottratte all’influenza del pensiero cattolico (dall’economia alla politica, dalla cultura al sistema educativo, dai media alla sfera dell’amore e dell’eros); l’obbedienza come virtù non è assolutamente in discussione, perché la sua esibizione pubblica è considerata dai movimenti di questo tipo come credenziale per legittimarsi e accedere alle posizioni più ‘vicine’ al cuore dell’istituzione-Chiesa.
Fra questi due poli, si possono trovare tipi-ideali di organizzazioni cattoliche intermedie. Si tratta o delle associazioni strutturate conosciute storicamente o delle aggregazioni spontanee di più recente formazione. Tutte possono essere classificate come gruppi di complemento. Nel gergo militare, gli ufficiali di complemento sono coloro che servono a completare e mantenere l’efficienza numerica e quantitativa di un esercito. Sono importanti, ma non fanno parte della truppa attiva. Possono, a volte, in certe circostanze, diventare residuali. Si allude a tutti quei gruppi di antica tradizione (come l’Azione cattolica) o di più recente formazione (come i Focolarini o i gruppi di volontariato che fanno capo a quella vera e propria holding della solidarietà sociale che è diventata la Caritas, il cui modello complessivo andrebbe studiato a parte, come esempio d’innovazione della cultura stessa dell’organizzazione in campo cattolico) che appaiono caratterizzati da alcuni tratti, che abbiamo individuato nei due tipi-ideali precedenti, e che, però, si combinano in modo differente. In alcuni gruppi, infatti, l’impegno nel mondo fa parte dell’universo di senso che orienta l’azione dei loro militanti, senza che, tuttavia, questo si traduca in un progetto di riconquista cattolica del mondo. La teologia e l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II appare interiorizzata: si è interessati di più a impegnarsi nel mondo in nome della giustizia, perché convinti che, così facendo, l’ispirazione religiosa che li anima diventerà trasparente; molto meno al progetto di costruire presidi sociali (pillars) dove l’identità cattolica sia in grado di marcare visibilmente l’azione svolta, di volta in volta, in campo economico, politico, culturale o educativo. Tali presidi, com’è noto, sono stati costruiti soprattutto in quelle che un tempo si chiamavano le regioni bianche e che, anche dopo il collasso del sistema dei partiti nel 1990-92, hanno continuato in qualche modo a funzionare come memoria e capitale sociale cui attingere da parte delle élites politiche che sono riuscite a salvarsi dalla frana che ha travolto la Democrazia cristiana.
Allo stesso modo, altri gruppi o movimenti sono animati da una tensione spirituale così forte che li spinge a considerare di scarso rilievo proiettare il modello spirituale cui ci s’ispira nella vita activa: nel mondo si agisce adeguandosi laicamente alle leggi che regolano funzionalmente i diversi subsistemi di cui si compone la società moderna. Il modello d’organizzazione informale, a reticolo a maglie larghe, senza veri leader carismatici e senza alcuna gerarchia interna, che si riscontra nei gruppi di meditazione biblica (nati e diffusisi in gran numero nelle parrocchie e fuori di esse) o nei gruppi di spiritualità familiare (dove il centro di aggregazione è la famiglia, fuori, dunque, dei circuiti istituzionali, ma non contro di essi), spinge a collocare questo tipo di gruppi in un’area prossima al primo tipo-ideale che è stata tracciata poco sopra, senza riprodurne integralmente i tratti. Né la dimensione delle liturgie parallele né l’interesse a rifondare la virtù dell’obbedienza, attraverso il risveglio dei carismi, sono presenti, infatti, nei casi appena descritti.
Come si può spiegare la moltiplicazione di modelli organizzativi fra loro diversi in un’istituzione di salvezza, come la Chiesa cattolica? Non è sufficiente ricordare che la storia del cattolicesimo è segnata da cicliche ondate di movimenti che progressivamente hanno finito per istituzionalizzarsi, dopo magari una fase iniziale di incertezza e di diffidenza da parte dell’autorità ecclesiastica. Il Concilio Vaticano II ha prodotto, in verità, effetti inattesi di lunga durata, una vera e propria rottura epistemologica nella cultura organizzativa della Chiesa nel suo complesso. Non si sta parlando, beninteso, dei cambiamenti teologici e liturgici introdotti dai Padri conciliari. Ciò che interessa osservare è com’è cambiato il modo di concepire l’esistenza di diverse forme organizzative all’interno della Chiesa: per tutti gli attori socioreligiosi, da chi quelle forme le ha create e animate fino a coloro che svolgono il ruolo di pastori e di rappresentanti dell’autorità sacra. Il fatto che per questi ultimi oggi non costituisca più un problema riconoscere che esistano diverse (e a volte conflittuali) forme di organizzazione socioreligiosa nella Chiesa, può voler dire che qualcosa è accaduto in ciò che Mary Douglas definisce ‘il pensiero delle istituzioni’ (How institutions think, 1986; trad. it. 1990).
Ci si può chiedere, perciò, in particolare come valuta un’istituzione di salvezza, forte di una secolare capacità di regolare il conflitto simbolico che ciclicamente si sviluppa al suo interno, la differenziazione interna che si vede crescere senza che essa l’abbia effettivamente promossa? In tal caso l’istituzione di salvezza è posta di fronte a un dilemma organizzativo: o rinunciare a ricondurre a unità quanto di vario e molteplice si muove nel suo ambiente socioreligioso di riferimento, oppure assecondare la crescita del pluralismo delle forme organizzative interne, perché esse vengono considerate i necessari terminali per riuscire a sintonizzarsi con un ambiente socioreligioso sempre più differenziato. In questo secondo caso l’accettazione del pluralismo interno significa che il sistema di credenza (cattolico) cerca di trasformare la complessità esterna a esso in complessità interna. Non potendo più imbrigliarla dall’alto, secondo il codice-autorità, la Chiesa cattolica si limita a vagliare se esistono le condizioni minime di compatibilità perché un’organizzazione religiosa possa trovare spazio e cittadinanza in seno alla Chiesa stessa, senza mettere in discussione frontalmente il principio della virtù dell’obbedienza. Tutto ciò significa per il tema che si sta trattando – il rapporto fra cattolicesimo e le realtà regionali – rinunciare ad avere una strategia complessiva, da affidare a organizzazioni di laicato capaci di muoversi compatte o quanto meno allineate sulle stesse posizioni nell’agire non solo religioso, ma su quello che più ci interessa, sociale e politico. Le linee di differenziazione fra i diversi movimenti di risveglio cattolico, nati dal Concilio Vaticano II, possono perciò sovrapporsi alle linee di forza o di debolezza delle diverse classi dirigenti regionali.
Ora si dà il caso che la congiuntura storica sia stata favorevole allo sviluppo di tanti gruppi e movimenti religiosi, con vocazioni diverse e portatori di differenti carismi specializzati, e che, d’altro canto, soprattutto sotto il papato di Giovanni Paolo II, il potere dell’autorità religiosa abbia funzionato prevalentemente come comunicazione. È come se la Chiesa di Roma, apparentemente tornata a essere governata dal centro, avesse compreso che le era diventato impossibile governare, come per il passato, un ambiente socioreligioso divenuto nel frattempo altamente differenziato. La storia di molti nuovi movimenti religiosi nati all’interno della Chiesa, dopo il Concilio Vaticano II, mostra come, per quanti sforzi l’autorità ecclesiastica abbia fatto per riportarli all’ordine, alla fine essi sono stati riconosciuti come l’espressione di un risveglio religioso che non poteva essere catalogato e organizzato secondo lo schema tradizionale centro-periferia. Molti di questi movimenti in realtà sono autocentrati: hanno un loro leader, proprie liturgie e teologie, modi differenti di intendere il rapporto fra clero e laicato, mossi da un impulso creativo che mal si adatta alle routine organizzative tradizionali (Diotallevi 1999; 2002).
Il pluralismo dei modelli organizzativi in seno alla Chiesa cattolica costituisce un caso interessante di passaggio di paradigma (Garelli 1991). I vari gruppi e movimenti religiosi, presenti nella loro diversità nella Chiesa, non sono considerati motivo di potenziale disordine da parte dell’autorità religiosa, ma come una modalità di funzionamento del sistema stesso. Se per un lato la Chiesa italiana ha conosciuto, a partire dagli inizi degli anni Ottanta, un processo di centralizzazione che ha visto la trasformazione della Conferenza episcopale italiana (CEI) in un vero e proprio soggetto di governo delle diocesi italiane, dall’altro la spinta al rinnovamento, presente nel mondo laicale e in una parte del clero, si è incanalata verso forme di aggregazione che non hanno più trovato solo nelle parrocchie il luogo naturale di radicamento e crescita. Da qui l’apparente paradosso di una Chiesa che ha riposizionato al centro della scena la figura del presidente della CEI – più che dei vescovi, singolarmente presi come rappresentanti delle chiese locali ‒, mentre alla base il laicato cattolico si disperdeva in una varietà di movimenti di risveglio spirituale, di gruppi biblici, di associazioni di famiglie, senza più un riferimento organizzativo e pastorale comune. L’impatto che tutto ciò ha sulla tradizionale forma organizzativa della Chiesa cattolica italiana è già stato detto; si può solo aggiungere che, di conseguenza, la capacità da parte della Chiesa di aggregazione capillare di tante persone, dalle grandi città ai piccoli villaggi delle zone interne del Paese, si è ridimensionata, dal momento che i movimenti sono strutturalmente translocali, non si identificano con l’organizzazione territoriale di base della parrocchia e tendono a considerarsi agganciati a un movimento più vasto di respiro transnazionale. L’analisi qui svolta, concentrata per motivi di spazio su tre movimenti di risveglio spirituale e di attivismo sociale (e politico), ha lo scopo di mostrare come il revival cattolico abbia molti volti: uno del neopietismo, di un risorgente bisogno di spiritualità e di esperienze dirette della presenza del soprannaturale; l’altro della ripresa della terza via cattolica alla modernità. In entrambi i casi le diverse tendenze appena descritte mostrano o gradi di vitalità differenti da regione a regione oppure una capacità di incidere profondamente sulle politiche stesse di alcune regioni rispetto ad altre. Per tutte le considerazioni appena fatte, si preferisce parlare di un movimento di movimenti che ha, di conseguenza, un impatto territoriale differenziato, come risulterà chiaro fra poco.
Con il Concilio Vaticano II il fenomeno dei movimenti è emerso, dunque, manifestandosi all’insegna della pluralità e della differenziazione. La grande eco che la presenza di questi nuovi attori collettivi suscita ha, indubbiamente, a che fare con la scoperta della varietà, della mutevolezza e adattabilità che la ‘forma movimento’ ha mostrato di avere su molteplici fronti: dalla tipologia dei suoi membri (chierici o laici), ai contenuti delle loro agende (di tipo spirituale, ecclesiastico, politico o assistenziale), passando anche per la loro collocazione rispetto alla soglia di ufficialità stabilita dalla Chiesa cattolica. Tuttavia, se da un lato è pur vero che nel Novecento questo fenomeno ha assunto forme e dimensioni fino a prima sconosciute, è altrettanto vero che se si guarda all’elemento movimentista in sé, esso in realtà si rivela consustanziale allo sviluppo stesso del cattolicesimo, se considerato nel lungo periodo.
Pur rimanendo indubbia l’importanza cruciale che il Concilio ha avuto per i movimenti (sia dove le istanze innovatrici di cui è stato portatore sono state accolte, sia dove invece sono state rigettate), secondo alcuni studiosi sarebbe infatti un grave errore di prospettiva circoscrivere la genesi della complessa realtà movimentista al solo periodo postconciliare, privilegiando di fatto una periodizzazione esclusivamente novecentesca che tende a porre tale realtà sulla ribalta della scena occidentale come un fenomeno di assoluta novità (Faggioli 2008).
Per dirlo con una formula di Émile Poulat, nella Chiesa cattolica «c’è sempre stato del movimento, così come c’è sempre stato del cambiamento. Ci sono sempre stati dei movimenti nella chiesa, così come ci sono sempre stati dei cambiamenti» (cit. in Faggioli 2008). È quello che è accaduto con gli ordini carismatici del Duecento e dell’Ottocento (si pensi, per es., all’esperienza di san Francesco), con la differenza però che ora non si tratta quasi esclusivamente più di movimenti religiosi, bensì di movimenti guidati da laici in cui gruppi di cristiani seguono un impegno stabile e una regola di vita che può essere consuetudinaria o scritta.
Tuttavia, se da un lato i movimenti ecclesiali contemporanei sono stati definiti e ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa come «una concreta realtà ecclesiale a partecipazione in prevalenza laica, un itinerario di fede e di testimonianza cristiana che fonda il proprio metodo pedagogico su un carisma preciso donato alla persona del fondatore in circostanze e in modi determinati» (Giovanni Paolo II, Discorso ai movimenti ecclesiali e alle nuove comunità, in I movimenti nella Chiesa. Atti del IV Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali, Roma 1998, Città del Vaticano 1999), dall’altro lato la disomogeneità che caratterizza questo fenomeno pone una serie di difficoltà nel trovare degli schemi generali nei quali inserire l’ampia varietà dei movimenti stessi. Per tale ragione si può parlare di una rete a maglie larghe di movimenti, di un movimento di movimenti caratterizzati da una comune passione di tornare alle origini del cristianesimo.
Ma non solo. Quello dei movimenti di risveglio religioso si profila anche come un fenomeno per sua stessa natura fortemente mutevole, nel tempo e nello spazio. Infatti, le caratteristiche, le dimensioni e la diffusione che esso aveva agli inizi degli anni Sessanta-Settanta, quando le prime realtà ecclesiali di movimento cominciavano ad affacciarsi nel panorama religioso nazionale e internazionale, non corrispondono più o non più completamente a quelle con cui si presenta attualmente, a distanza di quasi un quarto di secolo.
I dati ufficiali dicono che in Italia i cattolici che prendono attivamente parte a gruppi, movimenti o associazioni religiose sono circa il 10% sul totale dei praticanti definiti regolari (28-30% della popolazione).
Ma com’è distribuita questa minoranza attiva del cattolicesimo nel territorio nazionale? E questa presenza com’è mutata nel tempo? Quale andamento ha seguito la nascita, la crescita e lo sviluppo dei movimenti in Italia? Ci sono differenze tra una regione e l’altra, tra Nord e Sud? Dove questo genere di esperienze riesce a trovare maggiore possibilità di riscuotere proseliti? In altre parole: per i cattolici più dinamici su quali aree sembra concentrarsi maggiormente la possibilità di vivere la propria fede in maniera più forte, intensa e comunitaria? Quali e dove sono le aree cattoliche più aperte, attive e dinamiche? Che rapporto intercorre tra territorio e queste nuove forme di risveglio religioso? È possibile rilevare delle tendenze territoriali di maggiore apertura o chiusura alla religiosità proposta da questi nuovi attori del panorama religioso contemporaneo?
Nonostante il grande interesse e i numerosi interrogativi che la presenza di tali realtà suscita, la geografia in costante mutamento/movimento di questo fenomeno è uno tra gli aspetti meno documentati del suo evolversi. Ancora non esistono, infatti, molti studi che abbiano esplorato da un punto di vista sincronico e diacronico l’andamento della vitalità dei movimenti cattolici, fornendo un quadro generale della loro diffusione e distribuzione sul territorio nazionale.
Quello che qui si propone, dunque, è un primo e parziale tentativo di tassonomia religiosa attraverso la mappatura di alcuni tra i principali movimenti di risveglio religioso presenti in Italia. Poiché non esistono dati ufficiali forniti dalla Chiesa o da altri enti riconosciuti, quelli qui utilizzati sono i dati forniti dagli stessi movimenti. L’unità di misura delle mappe sono i gruppi.
Se da un lato attraverso queste mappe è possibile abbracciare con un solo sguardo l’estensione e la distribuzione generale dei casi trattati come esempio, dall’altro negli approfondimenti dedicati a ciascuno di essi si cercherà di cogliere più da vicino anche alcuni degli elementi che più li caratterizzano.
Tra i movimenti di risveglio religioso nati a ridosso del Concilio Vaticano II, il CNC si pone senz’altro tra i meno facili da definire.
I suoi stessi aderenti, a cominciare dal fondatore, non amano che questa esperienza di fede venga ricondotta entro le classiche categorie di movimento o associazione, sostenendo che: «Non si tratta di un gruppo spontaneo, né di una associazione cattolica, né di un movimento di spiritualità, né di un gruppo di élite all’interno della parrocchia» (K. Argüello, Le comunità neocatecumenali, «Rivista di vita spirituale», 1975, 2, p. 195). ‘Il Cammino è il Cammino!’ sono, infatti, soliti ribadire ai loro interlocutori. Quindi, scostandosi da qualsiasi altra forma organizzativa strutturata su modelli già noti e volendo piuttosto spostare l’attenzione sull’idea di un ‘percorso’ d’iniziazione alla fede, il CNC si definisce e si presenta nella sua dichiarazione statutaria come un ‘itinerario di formazione cattolica’, finalizzato alla preparazione spirituale degli adulti che vogliano giungere a una piena e consapevole (ri)scoperta del battesimo. Il termine neocatecumenale si rifà, infatti, a quello più antico di ‘catecumenato’: il percorso di crescita personale e spirituale che le prime comunità cristiane facevano fare a coloro che volevano essere battezzati per prepararsi a ricevere il sacramento.
Ispirandosi al modello della Chiesa primitiva, il CNC ha così sviluppato un proprio particolare metodo di catechesi, che ripercorrendo le principali fasi dell’iniziazione cristiana (precatecumenato, catecumenato ed elezione) si articola in varie tappe e passaggi che, a loro volta, segnano e seguono la crescita spirituale degli individui che ne fanno parte e delle loro comunità. A differenza di quanto accadeva nella Chiesa delle origini però, l’itinerario proposto dal CNC non si rivolge solo a coloro che da adulti non hanno ancora ricevuto il battesimo, ma anche – e soprattutto – a chi, già battezzato, nel corso della propria vita si è allontanato dalla chiesa e desidera intraprendere un cammino postbattesimale di conversione e di educazione-formazione permanente alla fede adulta.
Il neocatecumenato viene vissuto nella parrocchia all’interno di piccole comunità, di non più di cinquanta persone di ogni età ed estrazione sociale, istituite con il consenso del parroco e guidate, in comunione con lui e con il Vescovo della diocesi, da un’équipe di catechisti.
Dopo cinquant’anni dalla sua nascita e un’espansione pressoché globale, il CNC dichiara di essere presente in 110 Paesi dei cinque continenti, con oltre 20.000 comunità, in più di 6000 parrocchie, numerosi seminari (Redemptoris Mater) con più di 2000 seminaristi, 1600 presbiteri già ordinati e 300 suore di clausura e oltre 800 famiglie partite in missione per evangelizzare varie parti del mondo (389 in Europa, 189 in America, 113 in Asia, 56 in Australia, 46 in Africa e 15 in Medio Oriente).
In Italia i neocatecumenali sono circa 100.000, distribuiti in 5000 comunità dislocate, con varia densità, su tutta la penisola (fig. 1). La mappa permette di visualizzare almeno due aspetti del movimento sul territorio nazionale.
In primo luogo, la forte diffusione nelle regioni del Centro (Lazio, Marche e alcune aree della Toscana) e soprattutto del Sud (nell’ordine, rispettivamente, Sicilia, Puglia e ampie zone della Campania). In secondo luogo, il differente andamento del Veneto rispetto alle altre regioni sia del Nord-Ovest sia del Nord-Est. Ciò che si può inferire – andrebbero fatti approfondimenti e ricerche ad hoc per dire qualcosa di più convincente – è che i processi di secolarizzazione che interessano la nostra società sono contrastati o dalla forza di resistenza del capitale socioreligioso accumulatosi nel tempo oppure da forme non conformistiche di religiosità, come quelle espresse, per es., dal CNC. Le regioni del Sud, in ogni caso, come si è già visto parlando del pluralismo religioso, non sono più identificabili, dal punto di vista religioso, con forme di cattolicesimo devoto, tradizionalista o popolare (semmai esse siano state sempre così), dal momento che, al contrario, esse sono interessate a processi di mobilità religiosa elevata, sia verso l’esterno (conversione ad altre chiese o movimenti non cattolici: dalle Assemblee di Dio ai Testimoni di Geova) sia, pur restando nel perimetro cattolico, verso movimenti di risveglio che non hanno avuto sempre vita facile a livello diocesano o parrocchiale, essendo stati considerati sovente come semisette, più propense piuttosto a far vita a parte che a integrarsi nella vita delle parrocchie.
Si vedrà se ricostruendo il profilo culturale e religioso del CNC, si possano ricavare utili indicazioni per comprendere la diffusione del fenomeno qui analizzato.
Quanto alle sue origini, la narrazione trasmessa dagli stessi iniziatori racconta che il CNC è nato nel 1964, in Spagna, più precisamente a Palomeras Altas, una baraccopoli alla periferia di Madrid, quando Francisco Argüello, un giovane pittore spagnolo, noto con il nome d’arte di Kiko e Carmen Hernández una giovane, anche lei spagnola, formatasi all’istituto Misioneras de Cristo Jesús, s’incontrarono dopo esservi giunti seguendo strade diverse per evangelizzare i più poveri e lontani da Dio. Il primo, inizialmente ateo, dopo una crisi esistenziale avvenuta in età adulta, si era convertito alla fede cristiana e attratto da una parola di Giovanni XXIII («Cristo è presente tra i poveri») aveva lasciato tutto per andare a vivere tra i baraccati di Palomeras, con l’ideale di Charles de Foucault di essere un povero tra i poveri e l’intento di convertire anche loro. La seconda, figlia di una ricca famiglia madrilena, era stata colta dal desiderio di diventare missionaria e dopo aver lavorato per un certo periodo di tempo nel villaggio di Nazareth, aveva scelto quelle stesse baracche come sua principale destinazione. Fu così che i due si conobbero e per tre anni con la Bibbia e una chitarra in mano annunciarono il Vangelo, finché quest’annuncio (o kèrigma) si concretizzò nell’elaborazione di una sintesi catechetica fondata sul connubio tra Parola di Dio, liturgia ed esperienza comunitaria. Erano così state gettate le basi dottrinali portanti dell’itinerario di formazione su cui il CNC cominciava pian piano a prendere forma.
Questa nuova esperienza incontrò presto l’interesse e la curiosità di monsignor Casimiro Morcillo, eletto arcivescovo di Madrid nel 1964, che invitò gli iniziatori del Cammino a divulgarlo anche presso alcune parrocchie della capitale. Tuttavia, diversamente da quanto era accaduto tra i poveri e gli emarginati, i cittadini generalmente più benestanti non vivevano le catechesi come reali occasioni di conversione, ma piuttosto come ordinarie conferenze dal carattere puramente teologico e intellettuale. Da qui Kiko e Carmen cominciarono a pensare a un percorso più strutturato di riscoperta del battesimo, volto alla preparazione spirituale degli adulti che fosse in grado di rispondere meglio alle istanze di cambiamento provenienti dalla società moderna. Con questa nuova configurazione il Cammino cominciò a diffondersi nell’arcidiocesi di Madrid e in altre diocesi della Spagna e da lì a poco anche in Italia, a cominciare da Roma dove nel 1968 furono fondate le prime comunità. Dalla capitale il CNC si diffuse poi anche in molte altre diocesi italiane e quindi del mondo, finché qualche anno più tardi la Congregazione del culto divino convocò i due iniziatori per consentire loro di presentare il particolare itinerario di riscoperta del battesimo di cui si erano fatti così attivamente promotori. Risale, tra l’altro, proprio a questo periodo la proposta avanzata dalla stessa Congregazione di denominare tale itinerario Cammino neocatecumenale.
Iniziò così il lungo iter di osservazione, valutazione e riconoscimento del CNC. Nel 1997 fu papa Giovanni Paolo II a chiedere ai responsabili di dotare la loro esperienza di fede di una regolazione statutaria, la cui prima versione presentata due anni più tardi nel 1999 venne però respinta. Il nuovo statuto fu poi accettato ad experimentum dal Pontificio consiglio per i laici il 29 giugno 2002 per un periodo di cinque anni, ma la sua approvazione in forma definitiva arrivò soltanto sei anni più tardi, l’11 maggio del 2008, con decreto del Pontificio consiglio per i laici. Da allora il CNC è una realtà ecclesiale pienamente riconosciuta dalla Chiesa cattolica e dotata di personalità giuridica pubblica (Statuto del Cammino neocatecumenale, art. 1, § 3).
Piuttosto articolata è la sua struttura organizzativa, basata su una scala gerarchica molto rigida e precisa. Al vertice vi è l’équipe dei responsabili a livello internazionale, composta da Kiko Argüeillo e Carmen Hernández, affiancati da un sacerdote, padre Mario Pezzi, ex comboniano incardinato nella diocesi di Roma, che dal 1970 segue il CNC, rappresentandone la figura garante dell’ortodossia ed ecclesialità. Vi sono inoltre le équipes dei ‘catechisti itineranti’ (circa 700), che per conto dell’équipe internazionale sono responsabili del Cammino nelle diverse regioni e nei Paesi del mondo. Infine, le équipes dei catechisti sono responsabili delle comunità locali e hanno il compito di tenere le redini del gruppo, da un punto di vista sia organizzativo sia di condotta. Il percorso del neocatecumenato è piuttosto lungo e la durata prevista per compierne tutte le tappe va dagli otto ai dieci anni, ma questo periodo di tempo può variare in base all’iter personale del soggetto, che deve sostenere uno scrutinio con i catechisti per poter passare da una tappa a quella successiva. Terminato il percorso, i membri della comunità non escono dal Cammino ma, anzi, dall’interno della comunità sono finalmente pronti a testimoniare al mondo ciò che, grazie all’itinerario neocatecumenale compiuto, hanno appreso.
Nella prassi del CNC, come abbiamo già detto, la possibilità di vivere la vita cristiana recuperando il modello ecclesiale delle prime comunità si pone come il principio ispiratore e, si potrebbe anche dire, ‘performatore’ per eccellenza di tutta la proposta religiosa di cui esso è portatore. Un principio che, di fatto, si è tradotto tanto nell’organizzazione di un tipo di vita comunitaria ascetica strutturata in piccoli gruppi, quanto nella creazione di un preciso schema celebrativo della liturgia eucaristica, basato sulle indicazioni tratte da un antico testo del II sec. d.C. risalente a san Giustino martire. A partire da quanto sostenuto in questo documento, insieme alle istanze di rinnovamento del Movimento liturgico con cui gli iniziatori sono entrati fin da subito in contatto, il Cammino infatti ha ideato e realizzato un modello di liturgia del tutto proprio.
Rispetto al modello del rito romano, per es., da un lato inizialmente sono state eliminate alcune parti ritenute superflue e di eccessivo appesantimento, mentre dall’altro si è proceduto all’introduzione di alcuni elementi non espressamente contemplati dallo schema del rito classico, ma reputati dai fondatori del movimento comunque importanti poiché rispondenti all’esigenza di vivere una celebrazione eucaristica più piena, attiva e consapevole, secondo uno spirito e uno stile maggiormente in sintonia con l’esperienza cristiana delle origini (almeno secondo quanto è possibile ricostruire dalle testimonianze giunte sino ai nostri giorni). Nelle comunità neocatecumenali, la messa si celebra sempre il sabato, dopo i primi Vespri della sera e non la domenica; ogni comunità, in base alla tappa del Cammino a cui è arrivata, generalmente si riunisce per celebrare la messa tra sé, cioè tra membri della stessa comunità, ma separatamente dagli altri gruppi neocatecumenali presenti nella medesima parrocchia e da questa nel suo insieme. Quando su discrezionalità del parroco non viene loro concesso di poter usufruire dello spazio sacro interno alla chiesa, i neocatecumenali si riuniscono per svolgere le loro liturgie in luoghi diversi, ma sempre adiacenti all’edificio principale, come le stanze del patronato; l’altare rettangolare viene trasformato e/o sostituito con una mensa quadrata posta al centro della sala e addobbata con candide tovaglie ricamate, colorati fiori freschi, disposti accuratamente in piccoli mazzetti lungo tutto il suo perimetro e bianche candele accese di solito supportate da un candelabro a nove braccia simile alla channukkiah ebraica; le sedie, che in genere sono preparate per essere dello stesso numero dei partecipanti, vengono disposte di fronte all’altare lungo un semicerchio, quasi a cingere la mensa eucaristica, di fronte alla quale tutti i convitati si possono trovare così seduti in prima, o al massimo, nel caso di comunità particolarmente numerose, in seconda fila; ogni lettura è preceduta da una monizione, cioè da una breve introduzione al contenuto di quanto si sta per ascoltare, preparata e proclamata da alcuni membri del gruppo; dopo la lettura dei testi biblici e prima dell’omelia del sacerdote, ciascun partecipante può liberamente esprimere all’assemblea un proprio commento (detto risonanza), raccontando qualcosa di sé, della propria esperienza e soprattutto qualcosa sul significato che la Parola appena ascoltata ha per sé e la propria vita; la comunione avviene sotto le due specie del pane e del vino attraverso la condivisione di focacce di pane azzimo fatto in casa, che viene spezzato e distribuito a ciascun commensale e di vino che tutti possono bere attingendo dalla medesima coppa, utilizzata in sostituzione del classico calice a uso generalmente esclusivo del solo celebrante.
Tutto ciò ovviamente non ha mancato di suscitare da parte degli osservatori esterni a volte interesse e a volte perplessità. Di tutto il programma formativo proposto dal CNC, il disciplinamento della materia liturgica ha costituito, infatti, per le gerarchie ecclesiastiche (e non solo) uno degli aspetti più problematici da gestire. Non a caso il principale, seppur simbolico, scontro di queste tensioni (come dimostrano anche i numerosi carteggi intercorsi tra la Santa Sede e lo stesso Argüello a questo proposito) si è manifestato nella definizione in più riprese dei contenuti dell’art. 13 dello Statuto neocatecumenale, proprio quello preposto al regolamento dei tempi, dei luoghi e dei modi della celebrazione della messa. Fra tutti, infatti, questo è l’articolo che, al termine del periodo di tempo intercorso tra l’accettazione ad experimentum del primo statuto nel 2002 e l’approvazione definitiva nel 2008, risulta aver subito le variazioni più importanti.
Alla base dei vari richiami che la Congregazione per il culto divino ha rivolto all’iniziatore del Cammino, vi è sostanzialmente l’invito a rispettare in modo più preciso le regole che valgono per tutte le celebrazioni eucaristiche di tutta la Chiesa. In particolare, è stato espressamente richiesto che le messe neocatecumenali costituiscano parte della pastorale liturgica domenicale della parrocchia e che siano aperte anche agli altri fedeli. La loro presenza – e quella delle loro comunità – deve pertanto essere trasparente e quindi inserita all’interno della gestione della vita parrocchiale come, d’altro canto, le comunità del Cammino sono invitate a partecipare alla messa domenicale almeno una volta al mese. Inoltre, pur potendo continuare a ricevere la Comunione sotto le due specie del pane e del vino, rimanendo ciascuno al proprio posto, a differenza di prima, che potevano riceverle entrambe restando seduti, ora le nuove disposizioni impongono loro di alzarsi in piedi, almeno per quel che riguarda l’assunzione del pane. Le monizioni, con cui nel Cammino alcuni membri della comunità sono soliti introdurre l’assemblea alle letture, devono essere brevi e pertinenti e l’omelia, riservata al sacerdote o al diacono, non può essere sostituita dalle risonanze dell’assemblea. Per quanto riguarda il segno della pace, infine, è stato loro accordato di continuare a usufruire dell’indulto già concesso (e già in uso nel rito ambrosiano dell’arcidiocesi di Milano) che prevede di poterlo scambiare dopo la preghiera dei fedeli invece che prima della Comunione, ma, altresì, è necessario aggiungere che anche questo momento i neocatecumenali sono soliti viverlo in modo del tutto particolare, seguendo il tipico spirito di autentica comunanza evangelica che li anima: quello che si scambia infatti nelle messe celebrate dalle piccole comunità del Cammino, non è una distaccata e fredda stretta di mano con il proprio vicino di posto (come avviene invece nella maggior parte delle messe), ma un vero a proprio bacio e abbraccio di pace, scambiato fra tutti i partecipanti alla cerimonia, presbitero compreso.
Il Rinnovamento nello Spirito Santo (RnS) è un movimento di risveglio religioso di tipo carismatico, nato all’indomani del Concilio Vaticano II, in ambito cattolico. Le sue origini e la sua evoluzione si ricollegano alle origini e all’evoluzione stessa del Cristianesimo nel tempo: alla lontana, infatti, esso deriva dalla nuova corrente di rinascita spirituale che, a cominciare dagli inizi del Novecento, ispirandosi all’evento pneumatico della prima Pentecoste cristiana (Atti degli Apostoli 2, 1-13), ne ha attraversato in maniera trasversale le tre principali tradizioni religiose: protestante, cattolica e ortodossa.
Il Rinnovamento carismatico cattolico (RCC), nello specifico, prende avvio nella seconda metà degli anni Sessanta all’interno della Chiesa cattolica americana, per manifestarsi tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio anni Settanta in Italia, dove, sull’onda del rinnovamento del Vaticano II, assumerà poi il nome di Rinnovamento nello Spirito Santo.
Come nella tradizione pentecostale più classica, anche nel RnS la riscoperta della terza figura trinitaria, lo Spirito Santo, rappresenta il punto centrale del modello di religiosità carismatica di cui il movimento si è fatto interprete e promotore. Dalla conoscenza progressiva dello Spirito Santo e delle sue opere, dal desiderio di un ritorno alla Chiesa apostolica (così come viene descritta negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo) e dal bisogno di trovare un fondamento nuovo ai sacramenti dell’iniziazione cristiana il RnS trae, infatti, gli aspetti che più lo caratterizzano e ne distinguono l’esperienza da quella di qualsiasi altra realtà cattolica: il ‘battesimo o effusione nello Spirito’ e la dottrina dei carismi (I Corinzi 12, 8-10; 28-30; Romani 12, 6-8).
Il RnS è caratterizzato pertanto dal costituirsi di gruppi cristiani che pregano insieme e chiedono nella preghiera, per ognuno dei propri membri, una nuova effusione dello Spirito Santo, in virtù della quale si aggiunga alla grazia dell’iniziazione cristiana una nuova presa di coscienza della signoria di Gesù, una nuova esperienza dei doni e dei carismi dello Spirito e una nuova disponibilità a usare, a servizio dei fratelli e della Chiesa, tutti i talenti e i carismi dei quali Dio ha stabilito di dotarli (S. Martinez, Origine e denominazione, in I movimenti ecclesiali nella sollecitudine pastorale dei vescovi, Seminario internazionale per i vescovi, Roma 1999, http://www.rns-italia.it/vademecum/Vademecum.htm).
Come afferma il teologo Mario Panciera:
La grande scoperta è lo Spirito Santo e la perenne ripetitività dell’esperienza pentecostale della chiesa primitiva. Non inventano nulla, non sviluppano una loro dottrina, non progettano una nuova chiesa. Parlano di rinnovamento, di riscoperta, di rivitalizzazione di ciò che ogni cristiano già possiede attraverso il Battesimo e la Cresima (Sono un milione i carismatici cattolici, «Il Regno-Attualità», 1975, 12, p. 283).
Il RnS, ufficialmente riconosciuto dalla Chiesa cattolica dal 1996, costituisce una realtà capillarmente diffusa su tutto il territorio nazionale (fig. 2), raccogliendo tra le sue fila circa 250.000 persone, organizzate in un sistema di piccoli gruppi e comunità che nel complesso contano più di 1700 unità. nche nel caso del RnS, la mappa ci mostra alcune tendenze che vanno a convergere almeno in parte sia con quanto visto a proposito del pluralismo religioso sia con quanto già emerso a proposito del CNC. Infatti, anche nel caso del Rinnovamento è la Sicilia a mostrare segni più vistosi di vitalità, seguita dall’area attorno a Napoli, e dalla Puglia. Invece appaiono più intensamente interessate al suo messaggio le regioni del Nord-Ovest rispetto a quelle del Nord-Est. Anche in tal caso, non esistendo ricerche approfondite, è arduo trarre conclusioni o inferenze circostanziate. Ciò che si può dire è che, sotto la pelle cattolica circola una spiritualità esuberante che è più contenibile e contenuta negli spazi tradizionali delle parrocchie cattoliche e che tale spiritualità appare contigua con le parallele forme di pentecostalismo non cattolico che stanno affermandosi, soprattutto in alcune regioni del Sud, in primis la Sicilia (M. Introvigne, P.G. Zoccatelli, L’isola che c’è. Le comunità protestanti in Sicilia, 2013).
Come si è detto, il RnS è la forma, ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa cattolica, che la corrente del RCC ha assunto in Italia. RCC e RnS non sono dunque due diverse realtà, ma piuttosto il secondo è da considerarsi come una forma specifica di attuazione che il primo ha trovato radicandosi nel nostro Paese.
Storicamente il RCC deve la sua origine al movimento pentecostale di matrice protestante. Il RCC, infatti, nasce in America nel 1967 – a poco tempo di distanza dalla chiusura dei lavori conciliari, grazie all’incontro di alcuni intellettuali cattolici dell’Università Duquesne di Pittsburgh, in Pennsylvania, con alcuni esponenti del pentecostalismo classico.
Secondo la tradizione l’evento che segna la nascita del movimento si verificò il 17 febbraio di quello stesso anno quando, durante un ritiro spirituale, un gruppo di persone (circa trenta tra giovani universitari e professori) fecero diretta esperienza su di loro della presenza dello Spirito Santo e dei suoi straordinari doni. Quando poi la notizia di questi avvenimenti cominciò a propagarsi dai campus universitari alle parrocchie, il RCC dagli Stati Uniti iniziò a diffondersi prima in Canada e in America Latina, per arrivare poi in Europa e negli altri continenti dove ha via via assunto stili, forme di vita e stati giuridici diversi tra loro a seconda dell’indole particolare di ciascun popolo, dando vita a un movimento molto vasto diffuso in 204 Paesi dei cinque continenti e che coinvolge oltre cento milioni di cattolici.
In Italia la grande corrente del RCC giunge, in primo luogo, a Roma tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta portata, secondo alcuni, da padre Valeriano Gaudet un sacerdote missionario canadese che insieme alla figlia dell’allora ambasciatore del Canada, Jacqueline Dupuy e suo marito, l’italiano Alfredo Ancillotti, svolsero un ruolo cruciale nel trasmetterne e promuoverne la diffusione in suolo italiano. Per altri, invece, ciò avvenne soprattutto grazie all’opera del cardinale di Milano, Carlo Maria Martini che, di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti dove entrò in contatto diretto con il movimento, si prodigò per diffonderne e accreditarne l’esistenza anche in Italia, a cominciare da alcuni ambienti della Pontificia università gregoriana di Roma. Di fatto fu proprio qui che nacque il primo gruppo carismatico di preghiera in Italia: il Lumen Christi di carattere internazionale ed ecumenico, era formato prevalentemente da studenti e da altri laici e la lingua parlata era l’inglese. Con il tempo sorsero anche altri gruppi di lingua francese, spagnola e poi anche italiana. Tra questi il gruppo Maria guidato dai coniugi Ancillotti e in origine noto con il nome di Emmanuele, ma poi sostituito con quello di Maria per sottolineare l’inclinazione cattolica dei suoi aderenti. Questo fu il primo nucleo – e per questo definito anche gruppo Madre – da cui sono nati gli altri gruppi che negli anni successivi sono andati a stabilirsi nelle principali città italiane (Roldan 2009).
Una generale diffidenza da parte delle gerarchie nei confronti del fenomeno carismatico rese però l’inizo del suo radicamento in Italia non privo di ostacoli. In un primo momento, infatti, il movimento sembrava essersi attestato su posizioni troppo critiche verso l’istituzione, considerata in ‘crisi’ e bisognosa di essere rinnovata. Il primato dello Spirito, di fatto, sembrava ricacciare sullo sfondo e mettere tra parentesi la funzione istituzionale della Chiesa, riducendo così le classiche distinzioni tra gli specialisti dei beni e del sapere religioso e i loro fruitori, solitamente relegati a ruoli limitati e passivi. Nel 1976, inoltre, forti tensioni interne dovute a motivi di leadership provocarono tra i promotori del movimento un contrasto che vide i responsabili del gruppo madre schierarsi su due opposte posizioni: da un lato quella dei coniugi Ancillotti, che proponevano di mantenere la figura dei fondatori come autorità gerarchica per non perdere la forte identità laicale che li caratterizzava; dall’altro il gruppo di coloro che reputavano necessario seguire una forma organizzativa di tipo più pluralista e collegiale, con un proprio gruppo di responsabili, piuttosto che essere guidati da un solo leader (Roldan 2009). La credenza nei poteri straordinari dello Spirito, infatti, li aveva spinti a ritenere che non ci fosse un fondatore vero e proprio e che fosse stata la potenza dello Spirito a dare avvio all’esperienza carismatica (anche se poi, in realtà queste persone che non vengono mai chiamate ‘fondatori’, ma piuttosto ‘iniziatori’ hanno tutti nomi e cognomi ben precisi sia in Italia sia negli Stati Uniti). Rispetto ai primi, inoltre, i secondi si dimostrarono anche più propensi a concedere al clero una maggiore partecipazione nel ricoprire ruoli di responsabilità all’interno del gruppo, sostenendo che i ‘laicisti’ della fazione opposta facevano, dal canto loro, un uso ‘sregolato’ di certi carismi, proprio a causa dell’assenza di una guida e di un’assistenza spirituale proveniente da sacerdoti e religiosi.
Decisi così a far rientrare il RCC all’interno di un alveo più ortodosso, i responsabili di questa frangia del Rinnovamento cominciarono ad attuare un progressivo processo di avvicinamento, per cui il loro atteggiamento passò apertamente da ‘critico’ a più ‘integrato’ sia per quel che riguardava la spiritualità (che non si fece promotrice di specifiche modifiche ai principi teologici di base), sia per la guida da parte di illustri figure religiose (come il teologo gesuita padre Domenico Grasso o il cardinale Léon Joseph Suenens) che, proprio grazie al loro impegno diretto, hanno contribuito a far lentamente abbassare la soglia del conflitto e a far acquisire maggiore credito al movimento presso le autorità vaticane.
Fu allora che per attestarne in maniera inequivocabile l’identità cattolica, le avanguardie di questa nascente corrente del Rinnovamento in Italia decisero di denominare il Rinnovamento carismatico cattolico italiano Rinnovamento nello Spirito Santo, traendo spunto della Lettera di san Paolo a Tito in cui l’apostolo afferma che «siamo salvati mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo» (Tito 3, 5). Con questa decisione veniva inoltre eliminata anche ogni ambiguità legata all’aggettivo ‘carismatico’ con il quale si rischiava di orientare l’attenzione troppo sulla straordinarietà e sul monopolio dei doni elencati da san Paolo nelle sue Lettere, che non sulla grandezza del loro Donatore. Come spiega l’attuale coordinatore nazionale del movimento, Salvatore Martinez, con questa scelta: «risulta più facile ricordare che nessuno può convenientemente attestarsi carismatico se non in riferimento alla Chiesa, perché essa è carismatica» (Origine e denominazione, cit.).
Si fa inoltre presente che dalla lacerazione che questa ferma presa di posizione dell’appena nato RnS ha provocato all’interno del RCC in Italia, è tra l’altro conseguita anche la formazione di movimenti carismatici ai margini o fuori dalla Chiesa ufficiale o semplicemente fuoriusciti e migrati verso movimenti pentecostali protestanti come le Assemblee di Dio.
Una simile presa di posizione portò però alla totale irriducibilità del conflitto interno al RCC, da cui derivò la definitiva scissione del movimento in due diverse correnti: quella più gerarchica e laicale, costituita dal gruppo rappresentato da Jacqueline e Alfredo Ancillotti e l’altra, dal carattere più collegiale ed ecclesiale che dal 1996 si presenta e opera nel panorama italiano come associazione privata di fedeli, riconosciuta dalla Chiesa e dotata di un proprio statuto.
Fu nei primi anni Novanta, infatti, che la Segreteria generale della CEI fece presente ai responsabili del RnS la possibilità, prevista dal nuovo Codice di diritto canonico, di avviare le pratiche per il riconoscimento del movimento, il cui statuto venne approvato in prima istanza nella sessione del Consiglio episcopale permanente della CEI del 22-25 gennaio 1996. Successivamente, nel 2002 venne presentato – e approvato ad experimentum per tre anni – un nuovo testo statutario che non voleva essere una sostituzione di quello precedente, ma solo una versione aggiornata dello stesso. Infine, nel 2007, al termine del periodo di prova stabilito per permettere al RnS di consolidarsi nel cammino intrapreso e, allo steso tempo, per verificare l’effettiva utilità delle modifiche introdotte, il nuovo statuto (che disciplina tutti gli aspetti relativi alla natura, le finalità, le attività, l’appartenenza dei membri, gli organi di servizio, i rapporti con i vescovi, i mezzi di sostentamento, le principali linee di spiritualità, il metodo formativo, l’organigramma organizzativo dell’associazione ecc.) è stato approvato in forma definitiva dallo stesso Consiglio episcopale nella sessione dell’11-14 marzo 2007, sancendo così il completo passaggio compiuto dal movimento da ‘corrente di grazia’ a ‘movimento ecclesiale’.
Come si legge nel Vademecum del movimento, questo passaggio fondamentale:
ha permesso che si radicasse, sempre più forte, la coscienza che una normativa non solo non imprigiona lo Spirito, ma anzi assicura a ciascuno e a tutti una libertà diversa e più matura e al Movimento una progressiva evoluzione verso la sua più profonda identità cattolica ed ecclesiale (Vademecum 2007-2010, a cura del Comitato nazionale di servizio del Rinnovamento nello Spirito Santo, 2007, p. 21).
Nonostante agli inizi di questa esperienza e per diverso tempo anche dopo, il RnS sembrava volesse sfuggire da un’eccessiva organizzazione poiché poteva in qualche modo nuocere alla vitalità e alla libertà dello Spirito, a partire dal 1977 è stato in realtà necessario dotarsi di una struttura organizzativa stabile e condivisa che collegasse e coordinasse i gruppi e le comunità del Rinnovamento tra di loro a livello diocesano, regionale e nazionale (Statuto, art. 6).
A livello locale ogni gruppo è guidato da un nucleo di persone, generalmente denominato ‘pastorale di servizio’, presieduto da un coordinatore, i cui compiti sono quelli di animare e guidare il gruppo stesso (artt. 8-9). A livello diocesano, dove siano presenti gruppi e comunità del RnS, viene costituito un comitato diocesano di servizio, presieduto da un coordinatore i cui compiti variano dal promuovere la diffusione della grazia del Rinnovamento, al garantire l’identità carismatica, al sostenere e verificare in un fraterno accompagnamento l’attività pastorale delle realtà locali (artt.10-12). A livello regionale è stato costituito un Comitato regionale di servizio (CRS) presieduto da un coordinatore i cui compiti sono, tra gli altri, quello di svolgere una costante azione di comunicazione tra le realtà locali del RnS e promuovere la collaborazione con le realtà ecclesiali esistenti nella regione (artt. 13-15). Infine, a livello nazionale la responsabilità della guida è affidata a un Comitato nazionale di servizio (CNS) composto dal presidente nazionale Salvatore Martinez, dal coordinatore nazionale Mario Landi, dal direttore Marcella Reni, da tre componenti eletti dal Consiglio nazionale e dal consigliere spirituale nazionale del Rinnovamento per nomina della CEI (artt. 17-22).
Il CNS svolge un servizio di unità, di discernimento, di organizzazione e di rappresentanza presso la gerarchia della Chiesa italiana. Per le decisioni e gli orientamenti più importanti a carattere generale, l’organo competente è il Consiglio nazionale (CN) composto dal CNS, dai coordinatori regionali, da sei componenti eletti dall’Assemblea nazionale, da un componente eletto da ogni regione che abbia un numero di realtà locali riconosciute superiore a cento; fino a quattro componenti designati dal CNS, dai seguenti componenti di diritto: il presidente della Cooperativa servizi RnS e il direttore della rivista ufficiale del RnS (art. 17).
Il percorso formativo è articolato su tre livelli. Il primo è il livello base (con cui il neofita inizialmente entra a diretto contatto) costituito dalla preghiera comunitaria, il seminario di vita nuova che prepara a ricevere la preghiera di effusione – il rito d’iniziazione al RnS da cui deriva il proposito di camminare nella via del Rinnovamento in una conversione continua – e la vita comunitaria; queste sono le tre dimensioni che costituiscono i principi vitali di ogni realtà del RnS e che coesistono in modo permanente, alimentandosi l’uno dell’altro. Il secondo è il livello di crescita, detto anche il discepolato carismatico della ‘conversione permanente’ al Vangelo di Cristo. Tra gli elementi caratteristici vi sono: il postseminario di vita nuova, il servizio pastorale, lo studio e l’approfondimento dei carismi assembleari. Questi tre elementi costituiscono la base minima che deve orientare chi ha vissuto l’esperienza dell’effusione. Costoro devono, infatti, mettersi alla scuola di Gesù (discepolato), entrare nel regime dello Spirito Santo (vita carismatica) e imparare ad amare e a servire i fratelli (cura pastorale). È questo il livello del RnS che generalmente viene riconosciuto come debole, proprio perché molti lo saltano, rifugiandosi nella formazione ministeriale o nelle metodologie di evangelizzazione. Il terzo livello, infine, è quello di approfondimento, che corrisponde alla dimensione dell’evangelizzazione, della missione e della testimonianza pubblica della vita nuova nello Spirito. È anche il livello in cui maturano le chiamate specifiche dei fratelli, in forza dei carismi, dei ministeri e degli stati sacramentali, ma anche dei progetti e degli impegni ecclesiali che il RnS si assume in quanto associazione. Gli elementi caratterizzanti sono: i ministeri di animazione e di evangelizzazione, i giovani, le famiglie e i sacerdoti e, infine, la cultura di Pentecoste con cui ogni realtà del RnS è chiamata a farsi carico del rinnovamento nel mondo intero, permeando la società con i valori dello Spirito, sorretti dai carismi (tab. 1).
Al pari delle altre realtà carismatiche, l’esperienza fondamentale del RnS è rappresentata dalla preghiera di effusione con la quale alcuni membri più anziani del gruppo si raccolgono attorno alla persona che ha chiesto di ricevere tale preghiera e, imponendo le mani sul suo capo o sulle sue spalle, pregano il Signore affinché effonda su di essa una nuova abbondanza del suo Spirito. Si fa presente a tal proposito che i pentecostali protestanti sono soliti parlare di ‘battesimo nello Spirito’, ma si tratta di un’espressione che i cattolici preferiscono non utilizzare dal momento che i primi vi attribuiscono un significato in contrapposizione con il sacramento del battesimo (Panciera 1977). Ciò che, in sostanza, nel Rinnovamento con questo rito viene chiesto è una consacrazione più piena e totale alla Santissima Trinità e un’effusione dello Spirito in tutte le facoltà, a tutti i livelli, in modo tale che i doni e i carismi promessi da Gesù siano esplicitamente operanti in colui sul quale stanno pregando (Panciera 1977, p. 248). Il modello biblico a cui questa preghiera si rifà, si trova nel libro degli Atti degli Apostoli (4, 29-31) e nel Vangelo di Luca (11, 9-13).
Ricevere la preghiera di effusione costituisce per il fedele un momento di intensità religiosa molto forte paragonabile a quella che, nella spiritualità classica, viene definita come ‘seconda conversione’ (Panciera 1977). Ma per giungere a questo passaggio, che al tempo stesso segna anche l’ingresso del neofita nel movimento (per il quale non sono previste né tessere, né iscrizioni), solitamente è necessario seguire uno specifico percorso di preparazione dedicato alla riflessione, istruzione e preghiera che viene chiamato Seminario di vita nuova. In questo periodo di tempo, una volta a settimana per sette settimane, i gruppi organizzano degli incontri durante i quali tra catechesi, testimonianze, tempi di preghiera individuale e comunitaria e una solida vita sacramentale, vengono trattati e approfonditi i temi fondamentali della vita cristiana.
I doni che il RnS ritiene segni della presenza dello Spirito sono la glossolalia, la profezia, la guarigione, il discernimento degli spiriti, la testimonianza e l’evangelizzazione. Una tale riscoperta dell’azione e della potenza dello Spirito Santo nella Chiesa è stata possibile anche grazie alla dottrina dei carismi riproposta dalla costituzione conciliare Lumen gentium che riconosce che «lo Spirito Santo non solo per mezzo dei sacramenti e dei ministeri santifica il Popolo di Dio e lo guida e adorna di virtù», ma anche «distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a Lui» (I Corinzi 12,11).
La vita del movimento è inoltre scandita settimanalmente dagli incontri di preghiera comunitaria nei quali i rinnovati nello Spirito concedono anche ai loro corpi di muoversi e di partecipare dei luoghi, dei tempi e dei gesti sacri in maniera molto più ampia, spontanea e vitale rispetto a quella prevista e disciplinata dalla pratica religiosa più tradizionale.
Le differenze fra CL e la CdO, da un lato, e i due movimenti fin qui esaminati, dall’altro, sono molteplici, non fosse altro per la decisa minore esposizione mediatica, sociale e politica di questi ultimi rispetto ai primi. La vocazione, d’altronde, che anima sin dall’inizio il fondatore di CL, don Luigi Giussani, è sì di risvegliare le coscienze delle nuove generazioni all’evento cristiano, ma anche di rimotivarle ad agire, in pieno Sessantotto, non fuggendo il mondo, ma riformandolo a immagine e somiglianza di un progetto cattolico di riconciliazione fra le ragioni della fede e quelle della modernità.
Nata nel 1954 a Milano, per impulso di un leader spirituale, don Giussani, CL è presente non solo in Italia, ma in altri 70 Paesi nel mondo, con oltre 300.000 aderenti. La CdO a sua volta raggruppa 34.000 imprese di varia dimensione. Nata come gruppo spontaneo nel fuoco dei conflitti studenteschi del Sessantotto, è divenuta un’organizzazione ben strutturata solo trent’anni dopo, quando papa Wojtyła l’ha riconosciuta come ‘associazione laicale di diritto pontificio’. Nel 1975 tramite una formazione collaterale, voluta da Roberto Formigoni, il Movimento popolare, CL iniziò le prove di ingresso in campo politico (che in precedenza l’aveva vista solo impegnata nella campagna contro il divorzio nel 1974), con la partecipazione alle elezioni amministrative del Comune di Milano (dove il movimento riuscì a ottenere cinque seggi), anche se don Giussani non mancò di sottolineare che tale movimento non rappresentava Comunione e liberazione. Il Movimento popolare, nonostante la presa di distanza del fondatore di CL, rimarrà in campo sino al 1986, quando si scioglie e dalle sue ceneri sorge la Compagnia delle opere.
Fino a quando non si costituisce la CdO, CL gioca un ruolo da protagonista nello spazio pubblico (i meeting di Rimini a fine agosto costituiranno una passerella per uomini politici amici del movimento o per potenziali alleati anche dell’opposizione di sinistra, in nome di valori condivisi, come per es. la sussidiarietà e la valorizzazione delle rispettive reti di cooperative). CL ha iniziato a selezionare una propria classe dirigente che si è già affermata in campo sociale ed economico, nonché in quello politico. Le regioni, dove più forte è la presenza di CL e della CdO, sono la Lombardia e il Veneto. In particolare, nella prima, quando si afferma la figura di Formigoni, CL potrà sperimentare il modello della terza via cattolica – fra Stato o intervento pubblico e mercato – al governo dello sviluppo locale. Il modello si regge su quattro presupposti: creazione di una rete di imprese private capaci di conquistare segmenti importanti nel mercato dei servizi (dalle mense universitarie a quelle ospedaliere; dalle attività di assistenza sociosanitaria alle scuole confessionali); la ricerca di una sponda amica nelle amministrazioni locali e regionali per poter stipulare convenzioni per gestire servizi pubblici; la ricerca di alleanze politiche larghe, tali da poter garantire nel medio periodo l’acquisizione di posizioni oligopoliste nel settore pubblico (nei comparti sociosanitari; negli appalti pubblici di grandi opere, come per es. quelli legati all’Expo 2015); la giustificazione etica e ideale delle attività economiche in nome del principio della sussidiarietà.
La data del 1986 ha rappresentato perciò un passaggio importante dell’evoluzione di CL nella società italiana, dal momento che con la nascita della CdO è stato come se si iniziasse da parte dei fondatori e leader del movimento a distinguere il piano dell’azione religiosa e culturale da quello più strettamente legato all’agire economico e politico. Da quel momento in poi, infatti, la CdO ha cominciato a guadagnare una progressiva autonomia rispetto a CL, nel senso che – è stata proprio la prima a impegnarsi sempre più direttamente nel mercato e indirettamente nel governo politico a livello regionale (soprattutto in regioni come la Lombardia e il Veneto), mentre CL si è riservata il compito di mantenere alti gli ideali del fondatore. In tal modo, la CdO ha potuto accentuare il profilo di una holding vera e propria cui fanno riferimento non solo imprese targate CL o, meglio, che si ispirano agli ideali della sussidiarietà (‘più società, meno Stato’), ma anche tante altre che non si riconoscono in modo esplicito in essi, giacché scelgono più concretamente di entrare a far parte di una rete di scambio e protezione economica conveniente per continuare a fare affari e per garantirsi l’accesso a un mercato controllato saldamente in alcune regioni dalle grandi cooperative di servizio che fanno capo alla Compagnia delle opere. Fatte le debite proporzioni, ci sono alcune analogie con il sistema delle cooperative di lontana ispirazione socialista e comunista delle ex regioni ‘rosse’.
Alla CdO fanno riferimento 34.000 imprese e circa 1400 associazioni non-profit, stando alla fonte ufficiale, il sito della Compagnia (www.cdo.it). Secondo un’inchiesta condotta da «Il Sole 24 ore», il fatturato raggiunge la ragguardevole cifra di 70 miliardi di euro. Le 1400 associazioni operano prevalentemente nel terzo settore e sono presenti in quasi tutte le regioni italiane con 43 sedi (tab. 2).
A queste sedi italiane vanno aggiunte le succursali all’estero. Comprendendo anche la Repubblica di San Marino, esse sono complessivamente 17, così distribuite rispettivamente in Argentina, Brasile, Bulgaria, Cile, Colombia, Francia, Kenya, Israele, Paraguay, Perù, Polonia, Portogallo, Spagna, Svizzera, Venezuela, Ungheria.
La tabella 2 consente di avere un’idea della distribuzione delle associazioni affiliate alla CdO in Italia. Su 43 sedi, 11 si trovano in Lombardia (quasi la metà a Milano) e sette in Emilia-Romagna (nell’area Rimini, Cesena, Forlì, Ravenna). Le 34.000 imprese, inoltre, che aderiscono alla Compagnia sono di piccola e media dimensione; operano prevalentemente nel settore della distribuzione agroalimentare, in quello dei servizi alla persona, nel sistema educativo e nello sport. Il 43% di esse opera nei servizi, mentre il 25% è impegnato nel manifatturiero, il 20% nel commercio, l’11% nell’ambito dell’edilizia e un piccolo 1% nell’agricoltura. Dal 2013 presidente della holding è Bernhard Scholz (di origini tedesche), deputato del Popolo della libertà; è un esperto in management, finanza e consulenza aziendale, settori, questi ultimi, sui quali la CdO ha puntato da tempo per offrire supporto alle aziende in difficoltà o alla ricerca di nuovi mercati internazionali, elaborando percorsi di formazione per quadri e dirigenti o corsi di consulenza sui rapporti fra imprese e banche e società finanziarie.
Uno dei settori strategici di espansione della Compagnia è rappresentato da quello dei servizi. Come nota Ferruccio Pinotti:
Nell’ottica di alleggerire la macchina statale, accade che gli enti pubblici gestiscano direttamente sempre meno servizi; si tratta di un’opportunità fantastica per il sistema della CdO. Facendo riferimento al principio di sussidiarietà orizzontale, i servizi pubblici vengono sempre più esternalizzati in outsourcing ai privati attraverso gare d’appalto. Le Regioni, dunque, in questi casi diventano enti appaltanti [...]. Ma le Regioni possono fare di più […]. Esse possono scegliere se appaltare direttamente una serie di servizi ai privati oppure dar vita a una società mista con un’azienda privata alla quale, per direttiva europea, deve essere attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento. Oppure – e questa è la scelta prevalente della Lombardia formigoniana – è possibile creare società pubbliche, controllate cioè al 100 per cento da Regione, Province e Comuni […] spostando così le voci di spesa dal bilancio della Regione a quello della società patrimoniale pubblica, che è regolata dal diritto privato. La società pubblica può a sua volta gestire direttamente i servizi o appaltarli ai privati […]. La creazione di società pubbliche che appaltano a privati o miste comporta generalmente un aumento del costo del servizio poiché inevitabilmente aumentano i costi di struttura, di gestione, di controllo e di transazione […]. La maggior parte delle società pubbliche non sono altro che contenitori per piazzare amici o amici degli amici (Pinotti 2010, p. 97).
Una delle più importanti associazioni non-profit è il Banco alimentare. Lo scopo è meritorio: raccogliere le eccedenze alimentari da aziende e ridistribuirle a enti che assistono persone bisognose. La sede centrale è in Lombardia. Il Banco organizza ogni anno la Colletta alimentare, con l’aiuto di oltre 100.000 volontari che si incaricano di raccogliere buste e pacchi di alimenti donati dagli acquirenti nei 7500 supermercati italiani. Molto simile a questa attività è quella esercitata dal Banco farmaceutico, che si incarica ogni anno di invitare i clienti delle farmacie che aderiscono all’iniziativa ad acquistare un farmaco fra quelli in convenzione. Se in questi due casi, l’ispirazione del cattolicesimo sociale continua a prendere corpo, nel solco di una tradizione consolidata in Italia, gli aspetti più innovativi della CdO sono rappresentati dai rapporti creati rispettivamente con il mondo della finanza e dell’assicurazione. In tali ambiti la Compagnia, forte anche delle buone conoscenze politiche, ha potuto negoziare con grandi Banche italiane (come la Unicredit, l’Intesa San Paolo, il Gruppo Monte dei Paschi, la Banca Nazionale del lavoro e altre) particolari condizioni vantaggiose di linee di credito per le imprese a esse associate; la stessa cosa è stata sviluppata con alcune importanti compagnie di assicurazioni (Fondiaria, Intesa Provvidenza e altre); la Compagnia, infine, è riuscita a creare una propria società finanziaria, la BFS Partner (una S.p.A.) che gestisce più di quarantamila conti correnti di aziende affiliate o vicine alla Compagnia stessa.
Per trovare un equivalente processo di diffusione del sistema CdO, visto rapidamente poco sopra, nelle regioni meridionali, occorre spostarsi in Calabria. Qui, quando la CdO prende piede, interpreta il bisogno di una parte di giovani cattolici che si pongono il problema di uscire dall’arretratezza e dal controllo del mercato da parte di organizzazioni criminali. Nascono alla fine degli anni Novanta varie agenzie per il lavoro, il sostegno alla piccola impresa e di formazione professionale. Sennonché, la scarsità di capitali privati e di aziende private porta i dirigenti calabresi della CdO a rivolgersi sempre più agli amministratori pubblici locali e regionali, nello sforzo di accreditarsi, reperire risorse e stringere alleanze con esponenti politici che potessero diventare amici della Compagnia.
Altra regione del Sud, dove la CdO è approdata da lungo tempo, è la Sicilia. Come ricorda Pinotti:
Il concetto di Compagnia delle opere nasce [...] nel 1986, nelle terre fertili e assolate di Alcamo, comune di 45.000 abitanti del trapanese, perfettamente equidistante da Palermo e Trapani. L’idea […] scaturisce dalla provocazione […] lanciata da un imprenditore vitivinicolo alcamese a don Giussani. Il suo nome è Sebastiano Benenati, un agricoltore che produceva vino ma non riusciva a venderlo. Nel 1979 Benenati incontra a Milano don Giussani che gli promette il suo aiuto […]. Don Giussani comprende che i fedeli del movimento dovranno penetrare anche nel mondo imprenditoriale ed economico. Perciò mette Benenati nelle mani sapienti di amici, fra cui Giorgio Vittadini. Era il maggio del 1985. Nel febbraio del 1986 nasce a Milano il primo nucleo della CdO […]. E Benenati, con i suoi prodotto tipici, gira l’Italia sulla scia degli eventi e delle manifestazioni organizzate del Meeting di Rimini. Di carriera ne ha fatta quel giovane imprenditore da cui nacque la scintilla. Fino a diventare simbolo dello spirito che ha dato impulso vitale alla Compagnia delle opere […] (Pinotti 2010, p. 225 e segg.).
L’episodio è interessante per comprendere almeno due aspetti del successo sin qui realizzato dalla Compagnia. Il primo aspetto: CL ha elaborato, grazie all’insegnamento di don Giussani, un modello di etica cattolica adeguato allo spirito del capitalismo di piccole e medie dimensioni, non legate né all’assistenzialismo dello Stato né alle forme dinamiche che esso ha assunto in Italia con le grandi imprese nazionali e multinazionali; tale modello è stato assunto inizialmente dalla CdO come filosofia della sua azione sociale, come la ragione sociale stessa del sistema a rete di sostengo alle imprese di medie e piccole dimensioni in difficoltà o in fase di start-up. In tal senso, senza inventare realmente nulla di nuovo, la Compagnia ha dimostrato l’affinità elettiva fra solidarismo cattolico e sviluppo locale affidato alle medie e piccole imprese. Senza le rete solidaristica il rischio di non reggere nel mercato alla competizione con i grandi gruppi economici sarebbe alto. Non a caso la forza di penetrazione – ed è il secondo aspetto che merita una riflessione – della Compagnia si verifica in tutte quelle realtà regionali dove esistevano già i presupposti per lo sviluppo della piccola e media impresa oppure dove, pur non esistendo in modo così diffuso come nell’industrioso Centro-Nord, la voglia di riuscita del rischio d’impresa esiste e si misura con la presenza di organizzazioni criminali che controllano il territorio. In Sicilia, l’iniziale miracolo compiuto dalla CdO e che vede protagonista un imprenditore agricolo ad Alcamo, nel tempo si è tradotto in una discreta rete di cooperative, imprese e associazioni del terzo settore (uno dei pochi, tra l’altro, che riesce ancora a occupare persone), che tocca le mille e cento unità. La CdO, stando a quanto dichiarato dal suo direttore, facilita i rapporti fra le microimprese e il sistema bancario, aiutando soggetti economici diversi ad avere condizioni di fido vantaggiose, agevolazioni su acquisto di materie prime, finanziamenti per l’import e l’export, mutui e cose simili. La crisi economica, i cui sintomi si sono fatti sentire in Sicilia ben prima del 2007-08, ha prodotto un incremento del 30% di associati alla CdO, rispetto al 2007.
Ciò che distingue la vicenda dei rapporti complessi fra la CdO e le amministrazioni regionali della Lombardia rispetto alla Calabria e alla Sicilia, è legato alla politica di liberalizzazione del settore sanitario praticato sin dal 1996 da Formigoni, allora governatore della Lombardia, che non ha riscontri nella regione calabrese. Tra il 1996, quando Formigoni avvia un processo di ristrutturazione dei rapporti fra pubblico e privato nell’ambito sanitario – in nome della parità pubblico-privato e della libertà di scelta assegnata a ciascun cittadino – e il 2008, il peso delle strutture private cresce sempre più: oltre un terzo dei posti letto è gestito da cliniche private in convenzione con la Regione e le cliniche accreditate salgono a 1014. In tale espansione si è inserita la CdO; un solo esempio il Gruppo ospedaliero San Donato, diretto da Giuseppe Rotelli, è non solo vicino alla Compagnia, ma ben 17 sue strutture sono affiliate alla Compagnia stessa. Inoltre, tale presenza nel settore ospedaliero in Lombardia e anche in altre regioni, come il Veneto, consente di tenere in vita una rete di aziende che lavorano nell’indotto sanitario (sterilizzazione, mense, servizi di pulizia, approvvigionamento prodotti elettromedicali e così via), tutte in genere associate alla Compagnia.
In Emilia-Romagna, infine, uno dei settori in cui la CdO è riuscita a inserirsi è quello dei collegi per studenti universitari e in genere dell’offerta di servizi per la vasta comunità studentesca di un grande ateneo come quello di Bologna o per uno più piccolo come quello di Verona. Si spiega così anche il relativo successo delle liste studentesche espressione di CL in alcuni grandi atenei sia del Nord sia del Centro Italia. Su tutte le realtà regionali, tuttavia, spicca di nuovo la Lombardia, dove con maggiore convinzione, grazie al consenso cospicuo della giunta Formigoni, sin dal 2001 è stato introdotto il ‘buono scuola’ che ha consentito alle famiglie di poter scegliere con il sostegno pubblico fra scuola confessionale e scuola statale.
La CdO tende a presentarsi non come il braccio secolare di un movimento spirituale o di risveglio religioso come CL, ma come un’organizzazione cui possono aderire imprenditori o attori economici non necessariamente di ispirazione cattolica o vicini alle idee di CL e che, dunque, si autorappresenta come una holding con una missione etica di sostegno e di intermediazione fra imprese, banche, servizi e cooperative del terzo settore. Se tali attività producono anche un ceto politico locale o regionale, tanto meglio; tutto ciò assicura appalti, commesse e un giro di affari per la rete delle piccole e medie imprese associate nel cartello della Compagnia. Sta qui la differenza a livello regionale del maggiore o minore impatto che la CdO ha saputo e potuto avere: laddove, come in Lombardia e Veneto, per es., dalle fila della CdO o da CL sono emerse figure di amministratori regionali, la forza economica della Compagnia è cresciuta sino al punto da consentirle di raggiungere posizioni di oligopolio o monopolio in alcuni settori (ristorazione negli ospedali o servizi socioassistenziali); laddove, invece, l’interlocutore politico non era certamente prossimo e soprattutto era interessato a sostenere il parallelo sistema di cooperative sociali – com’è il caso di Emilia-Romagna, Marche e Toscana – la CdO ha cercato di negoziare spazi d’intervento con le Coop di matrice di sinistra. La Sicilia e la Calabria hanno storie diverse, nel senso che la CdO ha all’inizio agito come fermento di un’imprenditoria che voleva sottrarsi sia al controllo della mafia o della ndrangheta sia al sistema clientelare alimentato dai gruppi politici al potere.
L’allentarsi dei legami culturali fra CL e CdO è un tema che meriterebbe uno studio a parte, non fosse altro per comprendere la formazione e la circolazione delle élites politiche, a livello soprattutto regionale: se una parte di queste proviene dal mondo di CL e, una volta andata al potere, ha evidentemente cercato di facilitare il movimento economico e sociale di una organizzazione come la Compagnia, si tratterebbe di capire meglio se esista una via ciellina al regionalismo.
In altri termini, ci si può chiedere sino a che punto la distinzione funzionale fra CL e CdO, realizzatasi pienamente in Lombardia durante il quasi ventennio dell’amministrazione Formigoni, abbia rappresentato un modo per sperimentare nel laboratorio cattolico lombardo un modello di Regione – cioè di governo locale di una delle realtà più dinamiche dal punto di vista economico non solo in Italia ma anche in Europa –, che, meglio di altri, potesse inverare il motto caro alla prima generazione di ciellini, ‘più società, meno Stato’. È difficile negare, come fanno esponenti di primo piano della Compagnia, che non esista più un legame culturale fra il movimento religioso (CL), la rete organizzativa di imprese e associazioni che fa capo alla CdO e il governo politico di una grande regione come la Lombardia. Perché è difficile separare questi tre piani (spirituale, economico-sociale e politico)? La ragione di base che lo impedisce è il rapporto fra il modello spirituale che l’élite di CL segue (rappresentata dai 1600 aderenti ai Memores Domini) e le pratiche economiche e politiche che nel laboratorio lombardo – con poche altre analogie in altre regioni, giacché nemmeno in Veneto si è realizzato il circolo virtuoso fra avanguardie della fede, attori delle mediazione socioeconomica e decisori politici – si è costituito in modo stabile per un relativo lungo tratto della vita stessa della regione. La Lega Nord, da questo punto di vista, ha svolto funzioni di complemento, senza riuscire veramente a incidere sul processo di riconfigurazione degli assetti sociali ed economici della Lombardia. Detto in altro modo questa regione, più di altre, ha visto sperimentato il legame fra un modello di ‘ascesi intramondana’ cara al messaggio di don Giussani – per riprendere una nota formula di Max Weber (1864-1920) –, di cui si nutrono gli aderenti ai Memores Domini e un progetto di riforma sociale – possibile solo tramite la conquista prima e la gestione di lunga durata poi del potere politico – che rendesse trasparente nella realtà il senso del messaggio ‘più società, meno Stato’. Messaggio, sia detto per inciso, che è stato il ponte ideologico facilmente costruito con altre correnti politiche presenti nel Paese (dal socialismo riformista al liberismo, accomunati dalla critica a ogni forma di statalismo e, in subordine, a forme invasive d’intervento pubblico nell’economia, nel welfare e nell’educazione).
I Memores Domini, di cui lo stesso Formigoni fa parte, sono laici che scelgono di vivere in piccole comunità, praticando volontariamente virtù monastiche (obbedienza, castità, sobrietà e dedizione agli altri). Li guida un responsabile che ha il compito di assicurare i tempi della preghiera e il rispetto delle regole comunitarie. Al centro del messaggio religioso che ispira tali comunità è precisamente l’idea che il lavoro sia il modo principale per testimoniare la fedeltà a Cristo: ‘vivere la memoria del Signore nel lavoro’ (Brunelli, Cardinale 1989). Si allenano, dunque, a esercitare virtù monastiche ma da laici, convogliando passioni spirituali e energie umane nell’azione diretta nelle opere, che siano sociali ed economiche o politiche non fa molta differenza.
La terza via cattolica alla modernità di CL e della CdO, in forme diverse – più spirituali per la prima, più manageriale per la seconda – ha preso forma e consistenza in Lombardia e, in tal senso, il rapporto fra un movimento di risveglio e l’assetto di una regione costituisce un unicum sia in relazione ad altri movimenti di risveglio cattolico sia riguardo al tipo di amministrazione della cosa pubblica che si è realizzata durante gli ultimi vent’anni.
S. Bianchi, A. Turchini, Gli estremisti di centro, Firenze 1975.
P. De Matteis, A. Mangeroni, A. Turchini, I cercapopolo, Roma 1977.
M. Panciera, Il Rinnovamento carismatico in Italia, Bologna 1977.
F. Ottaviano, Gli estremisti bianchi: Comunione e Liberazione un partito nel partito, una chiesa nella chiesa, Roma 1986.
S. Abbruzzese, Comunione e Liberazione: identité catholique et disqualification du monde, Paris 1989 (trad. it., Comunione e Liberazione: identità religiosa e disincanto laico, Bari 1990).
L. Brunelli, G. Cardinale, Memores Domini, «30Giorni», 1989, 5, pp. 56-62.
F. Garelli, Religione e Chiesa in Italia, Bologna 1991.
E. Pace, Movimenti religiosi nelle società contemporanee, «Quaderni di sociologia», 1992, 2, pp. 39-54.
D. Zadra, Comunione e Liberazione: a fundamentalist idea of power, in Accounting for fundamentalism, ed. M.E. Marty, R. Scott Appleby, 4° vol., Dynamic character of movements, Chicago 1994, pp. 124-48.
M. Marzano, Il cattolico e il suo doppio, Milano 1996.
E. Pace, Il regime della verità, Bologna 1998.
L. Diotallevi, Religione, chiesa, modernizzazione: il caso italiano, Roma 1999.
L. Diotallevi, Internal competition in a national religious monopoly, «Sociology of religion», 2002, 2, pp. 137-56.
M. Faggioli, Breve storia dei movimenti cattolici, Roma 2008.
M.Marzano, Cattolicesimo magico, Milano 2009.
V. Roldan, Il rinnovamento carismatico cattolico. Uno studio comparativo Argentina-Italia, Milano 2009.
F. Pinotti, La lobby di Dio, Milano 2010.
S. Canetti, E. Milanesi, Cosa loro. I serenissimi della Compagnia delle opere, Roma 2011.
E. Contiero, Corpi ed anime tra il visibile e l’invisibile. Studio sulle differenziazioni del cattolicesimo contemporaneo. Pratiche rituali a confronto. Cammino neocatecumenale e Rinnovamento nello Spirito i due casi di studio. Tesi di dottorato dipartimento di Sociologia, Università degli Studi di Padova, 2011; paduaresearch.cab. unipd.it/3992/1/Tesi_Contiero. pdf.
Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta l’11 settembre 2014.