Movimenti non-violenti
I movimenti non-violenti e lo stesso dibattito sul concetto di non-violenza sono fenomeni che hanno un rilievo sociopolitico nel mondo contemporaneo, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento.Nella cultura occidentale la non-violenza appare come un valore non negativo ma perdente, un'istanza teorica, nobile ma remota per chi persegua scopi di potere. Il riferimento teorico di chi vuole il potere è Machiavelli, che considera la violenza uno strumento affatto lecito e pertinente quando una valutazione razionale delle possibilità di agire con successo la richieda. Nella tradizione occidentale infatti la non-violenza appartiene all'ambito di valori e di comportamenti della religione, in modo specifico della religione cristiana, sebbene spesso si tratti di un richiamo teorico piuttosto che di una regola di vita.
In ambito religioso, il concetto di non-violenza e la prassi che ne consegue compaiono esplicitamente in India già nella tradizione del brahmanesimo più antico, e, nel VI-V secolo a.C., essi diventano uno degli elementi fondanti del buddhismo e del jainismo. Il termine sanscrito è ahimsā, espressione che, nella tradizione sia buddhista sia jainica, significa 'non far del male ad alcun essere vivente'.Nel cristianesimo il principio della non-violenza è essenziale, in quanto vi si manifesta l'amore che l'uomo deve a Dio e agli altri uomini, anch'essi figli di Dio. Il precetto della non-violenza è enunciato nel Vangelo di Matteo: "Avete inteso che fu detto occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio, anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra" (5, 39) e "Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada" (26, 52). Il cristianesimo primitivo, come testimoniano il comportamento non-violento di fronte alle persecuzioni adottato dai fedeli e le enunciazioni di molti Padri della Chiesa, riconobbe nella non-violenza nei confronti degli altri uomini uno dei primi doveri cristiani. Quando il cristianesimo nel IV secolo si istituzionalizzò e divenne religione dello Stato, il principio della non-violenza, peraltro mai rinnegato, perse rilievo anche nelle enunciazioni di molti Padri della Chiesa, a cominciare da Agostino, che lo considerò meno importante del dovere di combattere il male. Le lotte per liberare la Terra santa e la Spagna dai musulmani o la Francia meridionale dagli eretici albigesi furono condotte in nome del dovere di evangelizzare e di convertire, di fronte al quale l'esortazione evangelica alla non-violenza passava in secondo piano. Alla non-violenza e alla sua pratica si richiamarono sia i francescani, nell'ambito dell'ortodossia cattolica, sia molti dei gruppi ereticali (catari, valdesi, hussiti e altri) comparsi in Europa tra l'XI secolo e la fine del Medioevo. Le maggiori Chiese riformate (luterana, calvinista, anglicana) non fecero della non-violenza un principio centrale della loro dottrina; in ambito soprattutto ma non esclusivamente anglosassone, però, si incontrano precise prese di posizione in favore della non-violenza presso Chiese minoritarie o sette: per esempio, i mennoniti olandesi; i membri della Società degli amici, fondata da John Fox (XVII secolo), cioè i quaccheri (quakers); sempre nel XVII secolo, i battisti, seguaci di William Penn (che diede il nome allo Stato della Pennsylvania), contrari alla pena di morte e alla guerra (all'iniziativa dei battisti si devono, più tardi, i primi riconoscimenti del diritto all'obiezione di coscienza in Gran Bretagna e negli Stati Uniti).
L'illuminismo e il pietismo misero l'accento non tanto sulla non-violenza quanto sulla tolleranza. La non-violenza torna esplicitamente alla ribalta verso la fine dell'Ottocento, nelle appassionate prese di posizione di Lev Tolstoj (1828-1910) e nella corrente fabiana del socialismo britannico. A queste posizioni, oltre che, ovviamente, alla tradizione jainica (vi apparteneva la famiglia materna) e buddhista, si richiamò Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948), il Mahatma (magnanimo). Sia nelle posizioni tolstoiane e fabiane in Europa, sia in quelle del movimento gandhiano in Asia e in Africa, la non-violenza si configura come una risposta, nella teoria e nella prassi, alla violenza cui fanno ricorso le classi alte dei vari paesi, nel gestire la politica interna e la politica estera. Le classi alte, infatti, ricorrono alla violenza, all'interno, per contenere o reprimere le rivendicazioni avanzate dalle classi basse (quali il proletariato industriale in Gran Bretagna, il proletariato rurale nella Russia zarista, la popolazione di colore in Sudafrica); all'esterno la usano soprattutto nei confronti delle loro colonie. La non-violenza, come ideologia e come prassi, per Tolstoj come per Gandhi, si oppone però anche a quegli stessi movimenti rivoluzionari che, negli ultimi decenni dell'Ottocento e all'inizio del Novecento, combattono anch'essi le classi e i paesi dominanti, in nome della libertà e dell'uguaglianza, ma, non escludendo la violenza né come concetto-valore né come strumento, ricalcano di fatto quegli stessi comportamenti che intendono combattere. In Italia, negli anni trenta, la non-violenza gandhiana fu teorizzata da Aldo Capitini (1899-1968), che cercò di farne un metodo di lotta alla dittatura fascista e, nel dopoguerra, vi si ispirò per le sue campagne pacifiste. Nella seconda metà del Novecento, le posizioni cristiane e gandhiane di non-violenza trovano l'espressione di maggior rilievo in Martin Luther King (1929-1968) e nelle lotte da lui guidate per i diritti civili dei neri degli Stati Uniti.
Anche un'etica laica può affermare il principio e la pratica della non-violenza come modello ideale del comportamento umano, pur riconoscendo la presenza ineliminabile della violenza nella natura e al tempo stesso l'appartenenza dell'uomo alla natura. La non-violenza è, in questo caso, una scelta consapevole dell'uomo, che ne riconosce la difficoltà, ma la pone come un imperativo rivolto al bene dell'individuo e della collettività. Nello Stato di diritto, concetto tipicamente moderno, la violenza nei rapporti sociali viene bandita e resta monopolio dello Stato: la non-violenza assume quindi lo status di valore fondante della società.
In questa prospettiva si può dunque affermare che, in Occidente, la non-violenza e i movimenti che l'assumono come elemento ideologico fondante sono stati investiti dal processo di secolarizzazione caratteristico degli ultimi tre secoli. Al tempo stesso, specie nella seconda metà del Novecento, la non-violenza è tornata a occupare una posizione centrale nell'ideologia cristiana, nelle sue varie confessioni riformate e nelle enunciazioni ufficiali della Chiesa cattolica, specialmente dal Concilio Vaticano II in poi.
Definire la non-violenza presuppone una definizione della violenza che può essere desunta dalle dichiarazioni dei leaders della non-violenza e dalle osservazioni degli studiosi. Nella sua accezione essenziale la violenza vi appare come un attentato all'integrità fisica o mentale e quindi alla dignità degli esseri umani, mentre nelle interpretazioni più recenti l'offesa può dirigersi anche contro l'integrità dell'intero ecosistema. La violenza può essere diretta, manifestarsi cioè con azioni precise, o può essere 'strutturale' (così viene definita da Galtung la violenza indiretta, praticata dalle e nelle istituzioni), quando deriva da situazioni istituzionalizzate (economiche, sociali, politiche), le quali menomino l'integrità o la dignità di esseri umani: ne sono un esempio le discriminazioni razziali.Alcune distinzioni sono importanti. Violenza e forza non sono termini intercambiabili: contro la violenza si può usare la forza della non-violenza, senza mettere a repentaglio l'integrità fisica o la dignità di alcuno.
Definire la non-violenza come la mancanza o l'opposto della violenza non è però sufficiente e pone alcuni problemi. Anzitutto li pone la stessa sua connotazione negativa, l'essere appunto, semplicemente, la mancanza o l'opposto della violenza. Nelle lingue occidentali non si è trovata un'espressione in positivo per indicare sia il valore sia la prassi che ne discende; la più convincente espressione in positivo è la spagnola firmieza permanente, che mette l'accento sulla componente attiva della non-violenza, senza però soddisfare l'esigenza di una connotazione semantica forte. Il termine 'mitezza', proposto da Norberto Bobbio, oltre a non trovare un esatto corrispettivo in altre lingue occidentali, non sembra poter aspirare allo status semantico di valore assoluto che i teorici moderni, a partire da Tolstoj e da Gandhi, attribuiscono al 'valore' non-violenza. D'altra parte, però, concentrare l'attenzione sulla negazione può anche essere interpretato come un segno della forza che si vuol dare al rifiuto del concetto stesso di violenza.
L'espressione negativa cela tuttavia un'altra insidia: la non-violenza potrebbe essere interpretata come sinonimo di passività; il fatto che soprattutto le prime azioni gandhiane in Sudafrica siano state dallo stesso Gandhi chiamate 'resistenza passiva' potrebbe indurre a questa interpretazione. Gandhi, tuttavia, rifiutò sempre con fermezza l'identificazione della non-violenza con la passività e su questo punto tutti i teorici e gli studiosi della non-violenza concordano. La non-violenza comporta l'essere attivi, richiede coraggio e determinazione: secondo Gandhi la violenza può addirittura essere preferibile alla codardia.
La non-violenza è dunque un valore, prima ancora di diventare una norma che si traduce in comportamenti tesi a raggiungere obiettivi specifici; è essa stessa un obiettivo generale, un imperativo etico, al quale devono conformarsi gli altri scopi che la accompagnano. Questo è un tratto essenziale della definizione che i teorici della non-violenza danno di essa. Nella nostra tradizione culturale, infatti, quando parliamo di non-violenza ci riferiamo anzitutto ai mezzi usati per raggiungere gli scopi che ci siamo prefissi; assai meno la colleghiamo agli scopi stessi in modo esplicito, quasi si trattasse di un aspetto secondario, forse pleonastico, oppure come se ritenessimo scindibili fini e mezzi. Per i teorici della non-violenza come Gandhi o Martin Luther King, invece, la non-violenza, prima ancora di essere un metodo, è un elemento ideologico essenziale, uno dei fini che ci si propone; non ne predetermina però i contenuti, sebbene escluda ovviamente quelli nei quali la violenza è una componente intrinseca. I movimenti non-violenti possono dunque occuparsi di problemi congruenti con le visioni del mondo che escludano la violenza, ma anche di problemi per così dire neutrali nei confronti della violenza: possono 'lottare per la pace', ma anche occuparsi di rivendicazioni sindacali, di 'diritti umani', di minoranze e così via.
L'ambito di azione dei movimenti non-violenti può dunque coincidere con quello di movimenti ispirati ad altre e diverse ideologie, quali, per esempio, il socialismo o i vari tipi di solidarismo cristiano. Pur non dichiarando la non-violenza tra i loro principî, questi movimenti di solito vi si attengono nei loro metodi di lotta; essi sono contraddistinti da un'ideologia forte, che ha chiaramente la funzione di aggregare e motivare i partecipanti, peraltro spesso (è il caso dei movimenti sindacali) accomunati da condizioni di vita e di lavoro simili. Anche la non-violenza si presenta come ideologia forte, capace di aggregare e motivare i partecipanti, i quali però non necessariamente condividono condizioni socioeconomiche simili; gli altri scopi che essi perseguono sono in sott'ordine rispetto all'ideologia: se questa viene meno, si snaturano gli altri scopi e il movimento perde la sua ragion d'essere.
Per altri teorici invece, in particolare per la corrente che fa capo a Gene Sharp (non a caso si tratta di una corrente statunitense), non sono tanto convinzioni etico-filosofiche quanto motivi pragmatici a indurre a preferire metodi non-violenti.
È importante distinguere tra la non-violenza come principio che ispira i comportamenti e la non-violenza nei comportamenti; quest'ultima può essere dettata da principî e motivazioni affatto diversi. Ci si può astenere deliberatamente dalla violenza, perché, in quella situazione specifica, la violenza 'non paga': calcolati vantaggi e svantaggi, 'i costi e i benefici' che potrebbero derivare da comportamenti violenti e quale che sia lo scopo da raggiungere, si conclude che gli svantaggi superano i vantaggi prevedibili. Per esempio, non si dispone della forza sufficiente per poter usare la violenza, oppure usare la violenza danneggerebbe irreparabilmente l'immagine che si vuol dare di sé. Si tratta, in ogni caso, di un calcolo affatto 'razionale', frutto di un'analisi della situazione e delle conseguenze prevedibili di un intervento che intenda modificarla. Anche la previsione che l'uso della violenza possa attivare un processo crescente di violenza, una escalation, che, alla fine, danneggerà tutti, è manifestazione di un atteggiamento razionale, che può ben coesistere con una posizione di principio etica, senza però identificarvisi.
La razionalità da sola non è dunque sufficiente per garantire che un comportamento sia autenticamente non-violento. Non basta la pratica della non-violenza, non motivata come teoria, a caratterizzare un movimento non-violento; non basta nemmeno la motivazione che la violenza non paghi, perché provoca una escalation, in quanto questo criterio puramente utilitaristico potrebbe subito essere ripudiato, nel momento in cui si ritenesse che, nella fattispecie, la violenza paghi.
Filosofi e pragmatici della non-violenza possono peraltro trovarsi d'accordo nel constatare che la non-violenza può dare risultati migliori di quelli sortiti dalla violenza, per quanto riguarda sia gli attori individuali coinvolti, sia la situazione nel suo complesso, anche se non tutti condividono la convinzione gandhiana che la risoluzione non-violenta di un conflitto porti al perfezionamento morale dei contendenti.
Molti movimenti nascono non-violenti, spesso proprio in quanto nascono come reazione alla violenza, sia essa diretta o strutturale. In seguito, però, in molti casi essi assumono comportamenti violenti, nel momento in cui l'azione non-violenta sembri inadeguata a raggiungere gli obiettivi che si era proposta, tra i quali quello di bloccare o almeno arginare la violenza. Questo, in particolare, avviene se la non-violenza non era esplicitamente dichiarata tra i principî informatori del gruppo o del movimento. Per questo motivo è essenziale, nella prospettiva teorica della non-violenza, che il principio della non-violenza sia esplicitato come centrale tra gli obiettivi nei quali ci si riconosce.
La non-violenza, lungi dall'identificarsi con la passività, ne è l'antitesi. Il principio etico non può prescindere dall'agire e l'azione, nei suoi scopi specifici e nel suo modo di estrinsecarsi, deve testimoniare il principio al quale si ispira. Gandhi dà un nome a questi concetti: ahimsā (la non-violenza buddhista e jainica) esprime il principio etico, mentre l'azione che in modo coerente lo esplica viene chiamata, con un neologismo felice, satyāgraha, tradotto di solito con 'forza della verità' (satyā: verità; āgraha: afferramento). Le forme e i modi del satyāgraha sono quanto mai vari e, sottolinea Gandhi, essendo la creatività una caratteristica del pensiero non-violento, a quelli praticati se ne possono di continuo aggiungere altri, che l'inventiva dei non-violenti suggerisce, spesso utilizzando come risorse i vincoli di una situazione. Vari autori, tra i quali Johan Galtung (v., 1982), individuano 15 forme di satyāgraha, tre delle quali varianti di sciopero tipiche della cultura indiana (Hartal, Darna, Hizrat), mentre le altre sono conosciute e sono state praticate in tutto il mondo. Esse sono: il negoziato; l'arbitrato; l'agitazione, la dimostrazione, l'ultimatum; lo sciopero, compreso lo sciopero generale; il picchettaggio; il boicottaggio sociale; il digiuno; l'obiezione fiscale; la non collaborazione; la disobbedienza civile, ripartita in difensiva e offensiva; il governo parallelo.
Emerge, in questo crescendo di azioni, la chiara dimensione politica che caratterizza l'azione non-violenta, né questo può stupire, date le circostanze in cui si sviluppò l'attività di Gandhi e del movimento panindiano da lui suscitato: discriminazione razziale e di casta e dominazione straniera. La preminenza della dimensione politica nell'azione non-violenta è una caratteristica che si mantiene nel tempo. Che azioni per la pace siano inserite a pieno diritto nell'ambito politico e siano un modo classico di praticare il satyāgraha appare ovvio; occorre tuttavia precisare che non-violenza e pacifismo possono essere considerati affini soltanto se al pacifismo si riconosce la capacità di esplicarsi in modo attivo e non lo si identifichi con l'assenza di resistenza.
Le azioni e i movimenti non-violenti indicati appaiono congruenti con caratteristiche di intrinseca debolezza di attori sociali collettivi, di per sé privi di potere 'positivo'.
Per potere positivo si intende qui la capacità di ottenere dagli altri i comportamenti desiderati, sia perché il potere è considerato legittimo e, weberianamente, si configura come 'autorità', sia perché l'ottemperanza alle sue richieste viene imposta mediante l'uso di un qualche tipo di forza. Questa forza può comportare una violenza diretta, una vera e propria coercizione fisica, ma può anche presentarsi come violenza strutturale, quando essa è conseguenza di norme previste perché un potere considerato legittimo possa attuarsi, anche senza che si debba ricorrere alla forza fisica: la privazione o la limitazione di diritti ne sono un esempio pertinente. Per potere 'negativo' si intende invece la capacità di non praticare quei comportamenti richiesti e anzi di opporvisi, usando mezzi sia violenti (per esempio atti di sabotaggio), sia non-violenti, di rifiuto (per esempio, non collaborare, non eseguire gli ordini ricevuti, praticare cioè la 'resistenza passiva', ovviamente essendo pronti a subire le conseguenze che la violenza strutturale del potere impone). Molti teorici, tra i quali Gene Sharp, usano a questo proposito l'espressione 'potere popolare' (people power), che Gandhi stesso peraltro usò e che mette appunto in evidenza la capacità di contrastare e controllare il potere delle istituzioni politiche, economiche e culturali, capacità di cui i cittadini collettivamente dispongono, e che, in quanto non-violenta, delegittima il potere istituzionale violento.
Gli attori collettivi deboli possono essere tali perché emarginati economicamente o perché privi di diritti civili riconosciuti ad altri. Possono però non coincidere con gruppi emarginati, ma essere i gruppi più attivi, spesso costituiti in movimenti, che si fanno rappresentanti e paladini di intere popolazioni, i cui diritti sono conculcati da una violenza strutturale. In realtà, né Gandhi né Martin Luther King hanno mai accettato che la non-violenza sia 'l'arma dei deboli'. Essi la vedevano, al contrario, come una vera e propria dimostrazione di forza, capace di far crescere la forza suscitando nuove adesioni di persone decise a partecipare a quel tipo di lotta; una dimostrazione di forza che restava tale anche in caso di insuccesso, se era servita a far prendere coscienza dei problemi ai partecipanti e a far maturare la loro capacità di azione. L'insuccesso doveva semmai dare inizio a un riesame critico dell'azione in tutte le sue fasi: una delle regole dell'azione non-violenta è infatti che essa venga preparata e decisa soltanto dopo che un esame condotto con la più rigorosa razionalità ne dimostri la convenienza, cioè, in ultima analisi, la possibilità di ottenere risultati positivi.
Nel corso del Novecento si assiste a un progressivo dispiegarsi di azioni non-violente, condotte da movimenti o che hanno dato origine a movimenti. Si tratta di azioni squisitamente politiche di opposizione organizzata al potere esistente; in base ai loro scopi, ma anche in relazione con il loro contesto sociopolitico, se ne può individuare una tipologia: 1) movimenti per l'indipendenza da regimi coloniali; 2) movimenti di liberazione da regimi totalitari; 3) movimenti di rivendicazione di diritti civili; 4) movimenti a sostegno di politiche alternative. Si citano qui, per ciascun tipo, alcuni tra i casi più significativi.
Nella prima metà del Novecento il principio e la prassi della non-violenza si manifestano pienamente nella lotta della comunità indiana nel Sudafrica contro le leggi razziali britanniche (1906-1914) e nella lotta per l'indipendenza dell'India dal dominio britannico (1915-1947): di entrambe fu iniziatore e protagonista il Mahatma Gandhi. Tra le azioni che ebbero maggior risonanza, ben al di là dei confini dell'India, vi fu la 'marcia del sale' (1930-1931), contro la legge che imponeva una tassa gravosa e il monopolio statale sul sale; Gandhi con i suoi discepoli iniziò una marcia di ventisei giorni, per prendere sale dal mare come atto di disobbedienza civile. Questo fu l'inizio di una rivolta di massa, non-violenta, in tutta l'India. Alla fine, dopo un anno, venne concordata una tregua. Più che i risultati concreti, in sé modesti, Gandhi considerò importante la prova di forza che gli Indiani erano riusciti a dare a se stessi e al governo britannico.
Negli anni quaranta, sia nell'Europa in guerra e in particolare durante la resistenza alla dominazione nazifascista, sia in America Latina (rovesciamento della dittatura in Guatemala e nel Salvador, nel 1944) si ebbero azioni non-violente di successo, peraltro poco note fuori dei paesi dove ebbero luogo.
La lotta degli insegnanti norvegesi contro la nazificazione delle scuole (1942) e, nel 1943, il salvataggio di Ebrei, a Berlino, grazie alla manifestazione organizzata dalle loro mogli tedesche 'ariane', e in Danimarca, per opera della Resistenza, sono rimasti emblematici per la mobilitazione collettiva che ne ha reso possibile il successo.
Nella seconda metà del secolo la resistenza al totalitarismo resta il tema aggregante di molti movimenti non-violenti. Emblematici furono lo sciopero nel campo di lavoro forzato di Vorkuta in Unione Sovietica nel 1953, la resistenza all'occupazione militare in Cecoslovacchia nel 1968, la lotta contro la dittatura del generale Pinochet in Cile e contro la dittatura di Marcos nelle Filippine negli anni ottanta.
Nei decenni successivi azioni di resistenza ai regimi comunisti furono condotte con tecniche analoghe in molti paesi dell'Europa dell'Est e, soprattutto e con particolare successo, in Polonia, dove il sindacato clandestino Solidarność fu l'organizzatore della resistenza polacca al regime. Gli stessi grandi rivolgimenti politici avvenuti nel 1989 nei paesi europei dell'Est (la cosiddetta 'caduta del Muro di Berlino') sono avvenuti nella maggioranza dei casi in modo non-violento, per la presenza e l'azione di movimenti clandestini che, anche per l'evidente disparità di forze rispetto ai regimi al potere, avevano fatto della non-violenza e delle sue tecniche la loro arma, anche se non sempre avevano fatto della non-violenza il loro principio informatore.
La lotta per il riconoscimento dei diritti civili e politici della massa dei fuoricasta indiani, che Gandhi chiamò H̠arṙjan ('figli di Dio'), nella prima metà del Novecento, e, negli anni cinquanta, quella guidata da Martin Luther King per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti, in particolare 'il boicottaggio degli autobus' a Montgomery, in Alabama, sono le più note, per il successo che hanno avuto in ambito giuridico e per il rigore con il quale sono state condotte; a esse si sono ispirati molti movimenti per organizzare le loro rivendicazioni di diritti conculcati.
Nella seconda metà del secolo la gamma di problemi affrontati da movimenti non-violenti riguardo ai diritti umani e ai diritti civili si fa assai ampia. Temi vecchi e nuovi si combinano, subito assumendo una valenza politica, poiché si tratta di rivendicazioni che gruppi rapidamente organizzati in movimenti avanzano alle autorità ufficiali ai vari livelli, locale, nazionale o anche in sede internazionale: l'obiezione di coscienza al servizio militare, le rivendicazioni delle donne, degli omosessuali, la difesa di gruppi speciali (malati in genere, handicappati, ecc.). Non sempre queste istanze e queste rivendicazioni sono portate avanti esclusivamente da movimenti non-violenti, ma in tutti questi campi sono presenti.
Un caso molto interessante di azione articolata in più direzioni a favore di donne lavoratrici autonome, socialmente ed economicamente emarginate, è offerto in India dalla SEWA (Self-Employed Women's Association), che è insieme sindacato, cooperativa di servizi ed è anche diventata una banca, in parte con contributi delle lavoratrici stesse, ad Ahmedabad, nel Gujarat, negli anni settanta e ottanta.
La pace e il disarmo, l'educazione a sistemi di valori in cui la non-violenza sia elemento centrale, le campagne contro qualsiasi uso, anche non militare, dell'energia nucleare, la tutela dell'ambiente, le campagne contro la vivisezione e in difesa degli animali in generale e così via: in questi temi si possono riconoscere rivendicazioni che vanno oltre l'abituale accezione giuridica della parola 'diritti'. In questo espandersi e differenziarsi di temi emerge una caratteristica ulteriore: non soltanto si difendono o rivendicano diritti, ma si affermano anche principî, si sollevano problemi, sino a quel momento trascurati, di fronte all'opinione pubblica in generale e non più essenzialmente in opposizione a centri di potere; si propongono alternative al modo consueto di porsi di fronte ai grandi problemi che si devono collettivamente affrontare.
Anche la molteplice attività di Danilo Dolci a Trappeto e Partinico, in Sicilia, iniziata nei primi anni cinquanta, si è rivolta ai grandi temi della pace, dell'occupazione e dell'educazione e alla lotta contro la mafia, mediante scioperi, digiuni, marce, manifestazioni e attività di formazione presso le scuole e le famiglie e mediante convegni nazionali e internazionali.Le marce per la pace, l'obiezione fiscale alle spese militari, lo studio di modelli di difesa non-violenti, le campagne per il disarmo nucleare configurano, in modi vari, delle realtà sociali alternative, costruite collettivamente dai cittadini in quanto individui, nel senso del 'potere popolare' (people power) sul quale molti teorici della non-violenza insistono (Gandhi, Sharp, Galtung). Altrettanto avviene se l'attenzione si allarga, al di là delle società umane, al mondo della natura, all'ecosistema, dal quale, del resto, dipende la possibilità di sopravvivere della specie umana. Le operazioni del movimento Greenpeace ne sono un esempio eloquente. Altrettanto importante è l'accento messo su una concezione alternativa dello 'sviluppo', inteso peraltro non in un mero senso economico: sviluppo 'globale' o 'sostenibile'.
Questo modo più ampio di concepire l'azione non-violenta mette in speciale risalto un aspetto sempre presente nei movimenti non-violenti: il ruolo essenziale che vi hanno l'informazione, l'educazione e la partecipazione attiva degli aderenti. Questo non soltanto perché l'interiorizzazione dei valori è necessaria affinché il movimento possa esistere e operare, spesso in contrasto con gli istinti di difesa-aggressione che gli esseri umani condividono con gli animali, ma perché saper valutare situazioni complesse e dimostrare creatività nelle decisioni sono atti che richiedono anche conoscenze 'tecniche' (per esempio, giuridiche) non superficiali.
Il fatto di praticare la non-violenza e dichiararla quale principio informatore influisce sulle strutture, sulle strategie e sul tipo di adesione che i movimenti non-violenti adottano o suscitano; è inoltre in relazione con aspetti determinanti del contesto sociopolitico dai quali i movimenti traggono i loro contenuti, cioè la loro ragion d'essere.
Il movimento non-violento interagisce, ai vari livelli che la sua azione comporta, con il potere costituito; questa caratteristica, non sua peculiare, ha un'importanza affatto particolare. Il movimento non-violento può anche essere alleato di un potere istituzionale contro un altro potere, a un altro livello (un governo locale contrapposto a un governo centrale, per esempio) oppure esterno (i praghesi, in appoggio al governo legittimo contro l'esercito del Patto di Varsavia, nel 1968). Interagire con il potere comporta valutare rapidamente le alternative e decidere al riguardo altrettanto rapidamente, prevedere i risultati dell'azione intrapresa, modificare eventualmente le decisioni, e tutto questo quasi sempre in tempi assai stretti. Questi comportamenti richiedono una leadership forte, com'è quella che, nella maggior parte delle organizzazioni politiche ed economiche, viene garantita dalla struttura gerarchica, la quale concentra il potere ai livelli alti dell'organizzazione.Il movimento non-violento, come tutti i movimenti sociali e politici, non è un'organizzazione gerarchica, non ha strutture rigide e formalizzate; è caratterizzato invece da una notevole fluidità, è un reticolo di reticoli di relazioni sociali, tenuto insieme dalla forza della fede, non soltanto nella validità, ma anche nella giustezza dell'azione intrapresa. Richiede quello che, nella tipologia del potere di Amitai Etzioni, viene chiamato impegno 'morale' dei partecipanti e corrisponde al potere 'normativo' (le norme valgono in quanto sono riconosciute tali dai partecipanti) proprio delle organizzazioni 'culturali', contrapposte a quelle economiche, basate sull'interesse utilitaristico, e a quelle di 'ordine', basate sulla coercizione.
Una forte leadership carismatica può soddisfare queste esigenze, in alternativa a una gerarchia burocratica, da escludere qui perché non pertinente con gli scopi e le strutture di un movimento. Inoltre, leaders carismatici che abbiano un largo seguito godono del prestigio necessario per trattare alla pari con i rappresentanti del potere ai livelli ai quali avviene l'interazione, e spesso si tratta di livelli alti. Gandhi in India, Martin Luther King negli Stati Uniti, per fare soltanto alcuni esempi, testimoniano dell'importanza che una leadership carismatica assume in un movimento non-violento.Il movimento non-violento, agendo in ambito politico, è soggetto ai vincoli che gli derivano dalla sua stessa ideologia: deve continuamente e quasi ostentatamente resistere alla tentazione della violenza, anche quando vi sia provocato. Mantenere un comportamento non-violento di fronte alla violenza in atto è un imperativo, ma si riconosce che ottemperare a questo imperativo è quanto mai arduo. Si richiedono, infatti, capacità di autocontrollo notevoli e, soprattutto, convinzioni etiche così profondamente radicate in ciascun individuo da costituire principî irrinunciabili: la non-violenza e i valori che l'accompagnano devono essere autenticamente interiorizzati. Si tratta dunque di condizioni più facilmente riscontrabili presso gruppi elitari, ma difficili da realizzare compiutamente presso un numero elevato di persone; d'altra parte l'alto numero di partecipanti attivi può essere un elemento determinante della forza di un movimento non-violento e quindi delle sue possibilità di successo.
Anche a questo proposito emerge l'importanza di leaders carismatici come il Mahatma Gandhi o Martin Luther King. Il leader carismatico non sostituisce l'adesione ai valori, non diminuisce necessariamente i rischi che l'azione non-violenta comporta, ma costituisce un 'modello', conferisce prestigio al movimento e rende così più accettabile assumere rischi spesso seri. Inoltre, per il fatto stesso di attirare la partecipazione di un alto numero di persone, contribuisce alla forza del gruppo e attenua in questo modo i rischi individuali che l'azione in sé comporterebbe.
L'importanza della leadership si fa ancor più determinante se si considerano i tipi di problemi affrontati e le caratteristiche dei partecipanti, cioè delle persone cui i problemi si riferiscono. Come emerge dagli esempi citati, i movimenti non-violenti si costituiscono, nella maggioranza dei casi, per rivendicare o tutelare diritti conculcati, che la cultura politica contemporanea riconosce come diritti inalienabili di tutti gli esseri umani e, all'occorrenza, possono riguardare anche la natura, l'ecosistema. I movimenti non-violenti si costituiscono dunque in difesa di attori collettivi deboli, non soltanto minoranze o emarginati, ma anche maggioranze, come le classi sociali subordinate o i fuori-casta in India, o, addirittura, le donne in quanto tali, vale a dire la metà di una qualsiasi popolazione (anche se, in questo caso, molto spesso si tratta di donne appartenenti a classi basse o a minoranze emarginate). Senza una leadership colta, preparata anche a trattare con i politici, questi attori collettivi non potrebbero, all'inizio, prendere alcuna iniziativa capace di successo; per questo motivo, i leaders si pongono spesso come primo obiettivo quello di coinvolgere nell'azione diretta le persone, i gruppi, i cui problemi devono essere risolti. Questo coinvolgimento cresce gradualmente, via via che persone e gruppi fanno esperienza e acquisiscono competenze precise, anche riguardo a come organizzarsi ed escogitare soluzioni ai problemi; naturalmente una delle capacità essenziali è quella di saper trattare con gli interlocutori questioni spesso delicate. Il caso delle donne della SEWA di Ahmedabad è esemplare da questo punto di vista. Per un motivo identico, ogni volta che la cosa sia possibile, questi leaders fanno propria l'indicazione di Gandhi, cercando, soprattutto all'inizio, di affrontare problemi ai quali si possa realisticamente trovare una soluzione soddisfacente, così da rafforzare con un successo la fiducia in se stessi e l'impegno dei partecipanti.
Non tutti i movimenti non-violenti, peraltro, sono centrati sui bisogni e sui diritti di minoranze o maggioranze escluse dal potere. Movimenti di questo tipo sono più frequenti nei paesi in via di sviluppo, caratterizzati da forti divari delle condizioni socioeconomiche e, di conseguenza, culturali (analfabetismo o bassi livelli di istruzione nella maggioranza della popolazione) e politiche (diritti misconosciuti, scarsa partecipazione), anche nel caso di regimi formalmente democratici.
Nei paesi industrializzati, considerati espressione di sviluppo economico e sociale, i movimenti non-violenti, salvo nel caso della difesa di minoranze emarginate (come gli immigrati da paesi in via di sviluppo), sono piuttosto appannaggio ed espressione di minoranze colte o addirittura di intellettuali, di ceto urbano medio-alto, in genere caratterizzati da una forte interiorizzazione di valori, tra i quali è centrale quello della non-violenza. In questi casi il problema di una leadership che prenda l'iniziativa della lotta e proponga obiettivi e strategie si pone in modo diverso o non si pone affatto. La leadership non ha bisogno di essere fortemente istituzionalizzata e può anzi passare da un membro all'altro. I leaders, più che dare direttive precise, interpretano le richieste dei partecipanti e assicurano i coordinamenti necessari; si tratta quasi sempre di gruppi di leaders, più funzionali che carismatici, come invece accade quando un movimento si riconosce in un unico leader, che ne diventa il simbolo.
La struttura a reticolo non è peculiare dei movimenti non-violenti, ma caratterizza tutti i movimenti sociali e non soltanto quelli odierni. Nel caso dei movimenti non-violenti è però opportuno metterne in evidenza alcune implicazioni particolari.In molti casi, gli obiettivi specifici che un movimento si propone non escludono il ricorso alla violenza per essere raggiunti: così, per esempio, i diritti civili di minoranze o la stessa emancipazione delle donne sono stati spesso rivendicati in forme violente. Non sono dunque gli scopi specifici a contraddistinguere i movimenti non-violenti, ma la scelta di fondo della non-violenza, scelta che riguarda il principio informatore e la prassi nelle azioni da intraprendere. Questa scelta comporta l'interiorizzazione di un insieme di valori, i quali, a loro volta, spingono a intervenire in tutte le situazioni che li vedano minacciati. Un gruppo, anche piccolo, che si definisca non-violento e si prefigga uno scopo specifico, per esempio la difesa dei diritti di una minoranza, è di per sé aperto a iniziative non-violente in altri campi, per esempio la difesa dell'ambiente. Spesso, in virtù di questa idea-forza, persone attive in un gruppo si trovano a contatto con altre persone che, ispirandosi alla medesima idea, si impegnano per scopi specifici diversi, ma affini; all'occorrenza, i gruppi potranno collaborare e i membri di un gruppo aderire anche a un altro, sia pure con un diverso impegno di tempo e di attività.
Un movimento, fatto di una rete di gruppi grandi o piccoli, molti dei quali, nel loro insieme o attraverso una parte dei loro membri, confluiscano anche in altri movimenti, tutti ispirati all'idea della non-violenza, acquista una grande capacità di mobilitazione potenziale per raggiungere obiettivi di larga portata, avvalendosi della comune base di cultura non-violenta; questo significa non soltanto valori, ma anche modelli e tecniche di azione condivisi. Far circolare informazione pertinente, prendere decisioni, coordinarne l'attuazione diventa così possibile, anche in presenza di un numero elevato di persone: la suddivisione in piccoli gruppi, la sovrapposizione parziale di questi gruppi, la presenza nei gruppi di persone abituate a collaborare e decidere sono infatti risorse importanti, specie se gli obiettivi delle azioni sono circoscritti e ben definiti. Le nuove tecnologie di comunicazione possono contribuire ad accelerare i tempi per informare e decidere e perfino facilitare la costituzione di gruppi a distanza, ma reti solide di relazioni sociali, basate su valori, scopi ed esperienze condivisi, sono un requisito prioritario.
Queste caratteristiche (sistemi di valori e modelli di azione condivisi, reticoli di relazioni sociali solidali) hanno alcune implicazioni interessanti, suffragate dalla documentazione esistente, ormai ampia, sui movimenti non-violenti.
Anzitutto l'importanza che assume il coinvolgimento emotivo: chi aderisce a un movimento non-violento è convinto della validità della sua adesione e disposto a impegnarsi, anche a costo di sacrifici personali. Questo è un punto di forza per il movimento, ma è anche un vincolo a non venir meno alle aspettative dei partecipanti; assicura coesione, ma può ostacolare o ritardare rapidi cambiamenti di strategia o di tattica che fossero necessari per adattarsi a nuove situazioni. Un reticolo con un potere distribuito è di necessità più lento nell'assorbire il cambiamento, diversamente da un'organizzazione accentrata, sia essa burocratica o con una leadership carismatica.In secondo luogo, l'importanza dei gruppi nei reticoli significa importanza di relazioni sociali dirette, primarie. I movimenti spesso si diffondono lungo linee preesistenti di rapporti di parentela e di amicizia o anche di relazioni tribali, contribuendo a rafforzarle; anziché rendere obsolete le relazioni primarie in una moderna società complessa, possono invece crearle e questa loro funzione, nemmeno latente, può rivelarsi un incentivo a partecipare al movimento.
Da molti degli esempi citati, così come da molti studi su movimenti sociali e azioni politiche, emerge una costante di grande interesse: la presenza, all'origine o accanto a un movimento, di un'organizzazione consolidata e assai articolata, provvista di una ideologia forte.Le comunità religiose e le Chiese delle varie confessioni, ma anche movimenti o partiti politici con una forte ideologia e una forte organizzazione (nella maggioranza di questi casi, religiosi o politici, gerarchico-burocratica), possono mettere a disposizione del movimento risorse culturali (ideologie, valori, ecc.) o organizzative (modelli di azione e di partecipazione), talvolta anche finanziarie (ma questi casi non sono determinanti né sono i più interessanti), sia esplicitamente e deliberatamente, sia mediante la presenza di membri che partecipano alle due realtà, facendosene intermediari.
Le Chiese, cattolica e protestante, in paesi a regime totalitario oppure soggetti a occupazione militare, hanno spesso svolto un'azione di appoggio sia, in generale, a movimenti di resistenza militare e civile, sia a movimenti specificamente non-violenti, così come avviene nel caso di molti movimenti volontari di servizio per categorie particolari della popolazione. A loro volta i movimenti di resistenza armata hanno spesso fornito appoggio organizzativo a movimenti non-violenti (come la Resistenza norvegese nel caso degli insegnanti sotto l'occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale). Il movimento gandhiano, vitale e articolato anche dopo la morte del Mahatma, è all'origine dell'associazione-sindacato-cooperativa SEWA. La maggior parte dei movimenti non-violenti dell'America Latina ha attinto modelli e appoggio organizzativo dalla Chiesa cattolica nelle sue diramazioni locali.
La presenza di queste organizzazioni di vario tipo può quindi configurarsi come un elemento di quelle 'opportunità' che, secondo alcuni studiosi (v. Klandermans e altri, 1988; v. Tarrow, 1994), la situazione politica offre in determinati periodi ai movimenti sociali in genere.
Il sorgere di movimenti non-violenti e la loro capacità di azione appaiono del tutto congruenti con i principî e le regole in base alle quali funziona una società democratica, in cui sono riconosciuti i diritti fondamentali dei cittadini: l'uguaglianza di fronte alla legge, la libertà di opinione e di espressione. Qualsiasi scostamento rispetto al modello ideale di società democratica può dar luogo a contestazioni ed è previsto che queste contestazioni siano non-violente, l'uso della violenza essendo prerogativa esclusiva dello Stato, in circostanze e forme chiaramente prescritte. La contestazione fa parte del controllo che i cittadini hanno il diritto-dovere di esercitare nei confronti dello Stato e, più in generale, degli attori individuali o collettivi e delle istituzioni che detengano potere. Gli interventi di movimenti non-violenti in difesa di diritti minacciati o negati di persone o gruppi è dunque un aspetto del tutto normale in una moderna società democratica. Il diritto di controllo e di contestazione dei cittadini viene invece negato dai regimi totalitari, dove la pratica della violenza da parte dei detentori di potere è meno soggetta a vincoli e più diffusa. Avviene così che là dove esistono motivi di contestazione seri, qualsiasi forma di contestazione sia vietata e, se praticata, sia repressa con estrema durezza.
Il successo delle azioni intraprese da Gandhi, sotto e contro il dominio britannico, fu possibile, secondo molti studiosi, perché sebbene in Sudafrica e in India venissero non di rado usati metodi repressivi, nella democratica Gran Bretagna l'informazione su quanto avveniva nelle colonie circolava liberamente e una parte, la più qualificata, dell'opinione pubblica britannica era favorevole all'applicazione, anche in India, dei criteri democratici, tra i quali l'autodeterminazione dei popoli. In questa prospettiva, il movimento gandhiano avrebbe avuto assai poche o nessuna possibilità di successo nella Germania nazista. Molti sostenitori della non-violenza ricordano, tuttavia, che la forza di un regime totalitario sta nell'acquiescenza dei cittadini: nessun regime totalitario può mantenere il potere se incontra un'opposizione efficace.
Le condizioni richieste perché un'azione non-violenta possa aver successo son ben note agli studiosi: elevato numero di partecipanti, visibilità, opinione pubblica sensibile e in grado di esprimersi, rilievo dato all'azione dai mass media: tutte condizioni non realizzabili in un regime non democratico. In alternativa, di fronte a un regime totalitario o a un'occupazione militare, i movimenti di opposizione non hanno spazio, se non nella clandestinità: i movimenti non-violenti hanno come strumenti principali la non-collaborazione e la controinformazione, che, al contrario dell'uso di metodi violenti (per esempio attentati o sabotaggi distruttivi), non 'giustificano' ritorsioni violente; si possono anche organizzare azioni specifiche per salvare persone in pericolo. Un movimento non-violento clandestino può portare a termine con successo azioni difficili e assai rischiose (v. § 3b). Perché queste azioni possano riuscire, il movimento deve poter contare sulla collaborazione diffusa di una popolazione coesa, che condivida i valori della non-violenza e della resistenza contro l'oppressione: tutto questo è l'opposto dell'acquiescenza.
Le condizioni del successo dell'azione non-violenta valgono dunque, in modi diversi, anche se l'antagonista è un regime totalitario; in questo caso, semmai, soprattutto dalla metà del Novecento, i movimenti non-violenti devono riuscire a coinvolgere il mondo esterno allo Stato in cui vige un regime autoritario: movimenti analoghi in altri paesi, istituzioni internazionali (governative e non governative) e sovranazionali; oppure devono riuscire ad avere l'appoggio di un qualche attore (personaggi politici o istituzioni) particolarmente influente sulla scena mondiale. L'appoggio esterno è stato determinante in una ormai ampia serie di movimenti e di azioni, in America Latina come nei paesi dell'Europa dell'Est, in piazza Tien-An-Men come in Sudafrica. Nel corso del Novecento e in misura crescente nella seconda metà del secolo, anche i movimenti non-violenti hanno pertanto cercato di collegarsi fra loro al di là dei confini dei singoli Stati, senza peraltro costituirsi, in genere, come vere e proprie organizzazioni o federazioni di movimenti con un coordinamento centrale, ma conservando le loro autonomie e riservandosi di aderire a iniziative comuni.
Da tutto questo emerge l'importanza decisiva che hanno, per i movimenti non-violenti e le azioni che questi intraprendono, due attori sui generis: l'opinione pubblica e i mass media. Proprio per la valenza simbolica forte, che le è peculiare, e forse anche perché contraddice un istinto naturale qual è l'aggressività, l'azione non-violenta, per poter 'delegittimare' il potere al quale si oppone, ha bisogno di un palcoscenico e di un pubblico, chiamato a partecipare allo spettacolo direttamente e con un coinvolgimento emotivo intenso. Opinione pubblica e mass media sono tanto più legati tra loro in modo necessario quanto più il teatro si fa planetario, e questo ovviamente non vale soltanto per i movimenti sociali e politici e in specie per i movimenti non-violenti; per questi ultimi, tuttavia, può essere decisivo ottenere visibilità sulla scena mondiale, la visibilità dell'azione non-violenta essendo una sua necessità.In questo processo tutti i mass media sono coinvolti, dai più tradizionali, come la stampa (che fu determinante ai tempi di Gandhi), alla radio e ai più recenti, come la televisione (che ebbe un ruolo di primo piano nella crisi dei regimi comunisti) e le reti telematiche. Questo fatto ha alcune conseguenze di rilievo.Anzitutto le differenze ben note nella qualità dell'informazione che ciascun mezzo trasmette, specie ai due estremi della gamma di mezzi disponibili: maggiore lentezza, maggior precisione, maggiori possibilità di rielaborazione critica della notizia, anche da parte di chi la riceve, nel caso della stampa; per contrasto, immediatezza dell'informazione, pregnanza dell'immagine, ma anche sua labilità, nonostante l'impatto emotivo, nel caso della televisione. Il caso delle reti telematiche non è ancora stato sufficientemente analizzato per trarne conclusioni convalidate; è tuttavia chiaro sin da ora che esse possono svolgere una funzione essenziale proprio nell'organizzazione e nei collegamenti dei movimenti non-violenti; anche a questo proposito emerge l'importanza che, in questi come in altri movimenti, ha la diffusione di competenze tecnico-organizzative avanzate.
Una seconda implicazione, ben nota anch'essa, della crescente importanza dei mass media è senz'altro inquietante. Sempre più spesso, né una questione né un'azione che la riguardi esistono, a meno che, o sino a che, qualche mezzo di comunicazione le presenti a un pubblico, e l'importanza del tema e dell'azione è misurata usando il criterio della quantità di pubblico raggiunta dal mezzo (l'audience degli spettacoli televisivi). Da questo punto di vista, non è importante che la questione o l'azione effettivamente esistano, ma è essenziale che qualcuno veda e ascolti quello che i mass media ne dicono, esattamente come, viceversa, un'azione non esiste se nessuno ne parla. In altre parole, i mass media hanno ampliato le possibilità di manipolazione o di occultamento della realtà, che da sempre hanno minacciato la libertà di espressione, considerata un diritto democratico essenziale nella cultura moderna. Per la particolare importanza che la visibilità delle sue azioni ha per un movimento non-violento, questa possibilità di distorsione insita nell'intervento dei mass media, pur necessario alla stessa visibilità, diventa un elemento che esso deve poter tenere sotto controllo continuo; questa possibilità di controllo democratico può diventare un aspetto critico per il movimento non-violento e, in questo caso, diventa anche una spia dell'effettivo funzionamento democratico della società in cui il movimento opera.
Le caratteristiche dei movimenti non-violenti e, prima ancora, la collocazione del valore della non-violenza nella cultura e nella prassi di una società ne fanno elementi essenziali dell'epoca contemporanea in tutte le parti del mondo, ma in un rapporto dialettico con altri elementi, spesso antitetici e in un processo che muta di continuo. Il richiamo della non-violenza sembra avere fasi alterne, il cui collegamento con i macroeventi della politica mondiale e i microeventi socio-economico-politici dei singoli Stati non è ancora individuabile con sicurezza. (V. anche Pacifismo).
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