Musica e scienza
Il pensiero scientifico europeo non è pensabile in termini storico-culturali senza la musica. L’arte dei suoni ha avuto nella cultura europea una storia peculiare, molto diversa dalla storia delle arti visive, performative e mediali, con le quali condivide oggigiorno i curricula accademici e le scene pubbliche. Nelle grandi tassonomie occidentali del sapere, dai Greci al Settecento, la musica ha trovato stabile collocazione accanto alle scienze esatte: associata nella cultura greco-latina ad astronomia e aritmetica, nel quadrivio dell’università medievale la musica è una delle scienze della quantità, con aritmetica, geometria e astronomia, mentre nelle moderne enciclopedie del sapere, da Francis Bacon a Jean Baptiste Le Rond D’Alembert, la scienza del suono è affiancata alle discipline fisico-matematiche nello studio della natura (Cristiani 2007; Gozza 2002). In virtù di questa particolare posizione, la musica ha contribuito per oltre due millenni a costruire l’immagine scientifica del mondo e dell’uomo propria del sapere occidentale. Solo a partire dalla seconda metà del Settecento e poi per tutto l’Ottocento, la musica come scienza ha perduto il proprio primato a vantaggio del concetto attuale della musica come arte, apparentata alle discipline sorelle con le quali dal Romanticismo condivide l’immaginario artistico europeo (Gozza, Serravezza 2004).
Il concetto che più d’ogni altro identifica la musica e ne lascia intuire l’impronta sulla cultura europea è quello di harmonia, armonia, la rinascimentale discordia concors (Spitzer 1963).
In virtù della musica, che la teorizza e la pratica, l’armonia è per la mentalità scientifica moderna, fino a Isaac Newton e Gottfried Wilhelm von Leibniz, la legge ‘musicale’ della realtà e del pensiero che la contempla. Musica […] quasi ad omnia se extendit, recita Jacques de Liège (1260 ca.-dopo il 1330) nel suo Speculum musicae. Estesa a tutte le realtà, naturali artificiali metafisiche, e a tutte le scienze, divine e umane, la musica è la fattispecie sensibile della Mente del Dio geometra e musico che omnia in numero, pondere et mensura disposuit («ordinò le cose in numero, peso e misura», Sapienza, 11, 21: cfr. Ohly 1985).
Per la metafisica moderna inaugurata da Niccolò Cusano (1400/1401-1464), la mente umana è l’immagine terrena della Mente musicale di Dio: arti e saperi ideati dall’uomo testimoniano la legge musicale con cui Dio ha accordato le parti potenzialmente conflittuali del cosmo e dell’uomo. Nella cultura moderna la musica è un sapere eteronomo (non conosce il principio romantico dell’autonomia dell’arte) e non è autoreferenziale: ha fuori di sé un oggetto (il mondo) e un fine (la formazione dell’uomo).
L’apporto della musica al pensiero scientifico europeo nel corso del Cinquecento ha come premessa il ‘ritorno dell’antico’, che in musica si riassume nello studio degli scrittori musicali greci e latini conosciuti solo indirettamente dalla cultura medievale (Walker 1985; Gallo 1989). Annunciato fin nel titolo di due dei maggiori trattati di musica rinascimentale pubblicati in Italia, L’antica musica ridotta alla moderna prattica (1555) di Nicola Vicentino (1511-1576), e il Dialogo della musica antica et della moderna (1581) di Vincenzo Galilei (1520-1591), il ‘ritorno dell’antico’ inaugura la dialettica tra l’autorità del passato e la necessità del presente: la prassi musicale polifonica sconosciuta alle epoche precedenti è messa a confronto con i modelli teorico-musicali antichi. Dalla metà del Quattrocento e nel corso del Cinquecento in Italia lo studio degli antichi scrittori di musica muta radicalmente il sapere musicale europeo.
L’apporto più duraturo della cultura musicale italiana del 16° sec. al pensiero scientifico europeo è la riscoperta dell’idea classica di armonia, declinata in ogni ambito del sapere (cfr. Spitzer 1963). L’assunzione dell’armonia come legge ‘musicale’ della realtà e della conoscenza perpetua e rinnova il vincolo tra musicologia e scienza (e filosofia), che è uno dei pilastri dell’immagine occidentale del mondo e dell’uomo (v. oltre Il ritorno dell’antico). Il contributo della cultura musicale italiana del Rinascimento al pensiero scientifico europeo si palesa poi nella crisi a fine Cinquecento della secolare egemonia dell’aritmetica e del numero all’interno delle discipline matematiche. Si tratta della fatale perdita di primato del numero sonoro, e quindi dell’aritmetica, all’interno della teoria musicale, e della conseguente affermazione della quantità continua e della geometria nel programma moderno di quantificazione dei fenomeni, musicali e non (v. oltre Dal numero sonoro al corpo sonoro).
Dalla teoria musicale italiana di fine Cinquecento, la crisi del numero si riflette sugli equilibri secolari delle contigue scienze della quantità, in primis sull’astronomia (disciplina sorella della musica fin dalla Repubblica e dal Timeo di Platone), e anticipa il transito dal numero al suono, dalla matematica musicale di derivazione pitagorica alla scienza musicale meccanicistica dei moderni (v. oltre Il Seicento). Infine, il passaggio epocale dal Rinascimento alla scienza moderna è annunciato nella cultura musicale italiana di fine Cinquecento dalla rinnovata tensione dialettica tra natura e arte. Il conflitto tra modelli metafisici e costrutti antropologici incrina le tradizionali gerarchie assiologiche della cultura musicale, e conferisce valore e significati nuovi all’artificio e alle tecniche artistiche nella loro autonomia dall’eterno dettato della natura (v. oltre Natura e arte).
Sul piano delle idee scientifiche e filosofiche, la ricezione delle fonti musicali greche e latine rinnova la continuità e i contenuti speculativi della tradizione matematico-musicale, che da Pitagora e Platone giunge attraverso Boezio e i commentari medievali fino a Cusano, Franchino Gaffurio e Marsilio Ficino (Gallo 1989). Al centro della visione matematico-musicale del mondo sta il Numero come strumento di conoscenza del cosmo e dell’uomo.
Nella metafisica di Cusano il numero è il principio che consente di pensare la realtà. La Mente divina numera: «mente si dice dalla memoria; mente si dice dalla misura». Immagine della Mente divina, la mente umana numera e ordina le cose in quanto il numero della nostra mente è l’immagine del numero divino:
Anzi, se guardo più acutamente, vedo che l’unità composta del numero è come l’ottava, la quinta e la quarta nelle unità armoniche. Il rapporto armonico è l’unità che non può essere compresa senza il numero (N. Cusano, Dialoghi dell’idiota, in Id., Opere filosofiche, a cura di G. Federici-Vescovini, 1972, p. 483).
Il numero manifesta compiutamente la propria potenza unificatrice del reale nell’armonia musicale di voci discordi, accordate dal legame aureo della proporzione. L’armonia, in senso metafisico e antropologico, è il vincolo delle cose e delle menti, l’emblema musicale dell’essere. Gioseffo Zarlino (1517-1590), nel capitolo V de Le istitutioni armoniche (1558), sulla definizione della musica, riprende la filosofia presocratica per ribadire che:
in universale parlando, dico che musica, pigliata nella sua analogia o proporzione, non è altro che armonia; e potemo dire ch’ella sia quella lite e amicizia che poneva Empedocle, della quale voleva che si generassero tutte le cose, cioè una discordante concordia, come sarebe dire, concordia de varie cose le quali si possono congiungere insieme (G. Zarlino, Le istitutioni harmoniche, a cura di S. Urbani, 2011, p. 35).
La musica è armonia, e in quanto «immagine dell’enciclopedia» (Yates 1947) assume un assetto composito, risultante dall’integrazione delle discipline matematiche e fisiche che insieme concorrono alla costruzione della struttura musicale del mondo e dell’uomo. Questo e non altro è il significato della tripartizione della musica in mundana, humana e instrumentalis che Boezio (480 ca.-524 o 526) formula nel De institutione musica, il modello del sapere musicale fino alle soglie della cultura romantica (Boezio, De institutione musica, a cura di G. Marzi, 1990, pp. 99-101).
Il concetto di musica humana riguarda l’eutimia, la concordia nell’uomo tra mente e corpo, tra le parti irrazionali e le parti razionali dell’anima. Ha esperienza di questa musica del cuore «chiunque discenda in se stesso». Il cosmo, musica mundana, è ordinato musicalmente dalla Mente divina per offrire all’uomo che vi è contenuto l’archetipo dell’ordine e della bellezza pur nei discordanti moti della macchina del cielo. Infine, la musica delle voci e degli strumenti, musica instrumentalis, prodotta dall’uomo su questa Terra, applica ai corpi sonori naturali e artificiali le stesse misure e proporzioni in atto nelle musiche non sensibili d’età medievale. Le proporzioni matematiche applicate ai suoni musicali degli strumenti e delle voci introducono la mente alla scienza più alta e astratta dei moti concordi dell’anima e delle rivoluzioni non udibili dei corpi astrali. Custode di questo tempio musicale tripartito costruito attorno all’uomo è il musicus, che per Boezio non è chi pratica lo strumento (attività meccanica) o chi compone musica (basandosi sull’istinto), ma chi ne ha la scienza, ossia ha la conoscenza razionale di tutte le parti della musica e può giudicarle correttamente (De institutione musica, cit., pp. 135-37).
Solo una cultura totalmente identificata con il sapere parcellizzato attuale, incapace di sottendere l’uomo al movimento della conoscenza, può pensare che il concetto moderno di armonia come logica degli accordi musicali abbia emancipato la musica dalle concezioni metafisiche e cosmologiche del passato, le quali avrebbero ritardato o addirittura impedito, in musica come in cosmologia, il progresso della scienza. È invece vero che l’idea classica di armonia ha indicato nell’unità e nella coesione della natura e dell’uomo l’orizzonte di senso del pensiero scientifico moderno, com’è altrettanto vero che il moderno concetto di armonia è subalterno alla frammentazione di un sapere che non è in grado di accordare perché ha perduto di vista l’uomo.
L’origine del sapere musicale occidentale si perde nel mito: il mito del ritrovamento pitagorico delle consonanze musicali. Da Nicomaco di Gerasa (1°-2° sec.), la favola di Pitagora è celebrata dagli scrittori di musica di tutte le età come l’atto di fondazione della scienza musicale. Nel VII capitolo del De institutione musica, Boezio tratteggia Pitagora assorto nella febbrile ricerca «del calcolo per il quale giungere ad apprezzare i valori delle consonanze» (De institutione musica, cit., p. 301). Pitagora è sedotto dall’accordo di suoni diversi, e cerca e trova nei rapporti dei pesi dei martelli la spiegazione del loro diverso effetto acustico: i pesi dei martelli le cui sonorità producono sull’udito un’impressione piacevole sono tra loro in rapporto di numeri interi semplici (da 1 a 4); se invece il rapporto è definito da numeri maggiori, come nel caso dei due martelli con pesi in rapporto di 9 a 8, l’udito avverte il suono risultante come sgradevole, tale da distruggere l’armonia precedente. Nell’esperimento dei martelli i suoni vengono ‘pesati’, quantificati e, infine, ridefiniti come numeri sonori. Pitagora crea altre situazioni sperimentali per trovare conferma al verdetto dei martelli: altri corpi sonori sono da lui interrogati, ma in ciascuna delle diverse situazioni sperimentali la costante sono i piccoli numeri interi che da quell’incipit favoloso definiscono le misure perfette dei suoni musicali consonanti valevoli in ogni epoca per ogni voce o strumento e per ogni orecchio.
La millenaria tradizione dell’aritmetica armonica pitagorica verrà qualificata nel 1619 da Johannes Kepler (1571-1630) con l’espressione di tirannia musicale (tyrannis ista harmonica): tirannia del numero nel calcolo delle grandezze musicali, cui Kepler contrappone la misura degli intervalli musicali attraverso la quantità continua della geometria («l’intervallo infatti non è ente naturale, ma geometrico»: J. Kepler, Harmonices mundi libri V, 1619, rist. anast. 1969, p. 8). Ma il compimento del numero sonoro nello studio scientifico della musica ha un precedente tanto illustre quanto sorprendente negli scritti di Zarlino posteriori alle Istitutioni harmoniche: nelle Dimostrationi harmoniche (1571) e soprattutto nei Sopplimenti musicali (1588).
Lo strumento che negli scritti di Zarlino attua il passaggio dal numero sonoro dell’aritmetica al corpo sonoro e alla quantità continua della geometria è lo strumento di computo degli intervalli musicali in uso fin dai tempi di Pitagora, il monocordo: una corda metallica su un supporto ligneo cui è fissata agli estremi, avente un ponticello mobile per la divisione della corda lungo la sua lunghezza.
Il principio della quantificazione proporzionale dei suoni sul monocordo è definito da Zarlino con una formula ricorrente nella scienza del suono:
Tirata una corda equale [i.e., dello stesso materiale, tensione e sezione trasversale], quella proporzione, che si trova da spacio a spacio, quella istessa sia da suono a suono (G. Zarlino, Dimostrationi harmoniche, cit., p. 147).
La misura degli intervalli musicali operata sul monocordo è fondata sull’analogia tra suono e linea, tra l’altezza della nota e la sua rappresentazione geometrica. Dall’analogia scientifica tra il suono e la lunghezza della corda che lo emette deriva il principio della divisione della corda come principio generatore dei suoni e dei loro rapporti matematici: come ogni divisione della corda contiene le corde minori e non le corde maggiori, allo stesso modo ogni suono contiene tutti i suoni più acuti e non i suoni più gravi. In breve, il monocordo è la procedura che consente a Zarlino di diminuire la distanza tra numeri e corpi sonori, tra le quantità astratte dell’aritmetica e i corpi artificiali o naturali (le voci) che attuano i suoni della musica, trasportando, come è stato scritto, «la musica ‘fuori del numero’» (Mambella 2008, p. 230).
In questo cruciale passaggio epistemologico assume un significato esemplare l’assunzione di Zarlino del corpo solido (il cubo) come emblema personale e come rappresentazione adeguata del suono musicale.
Nella posteriore Impresa del molto rev. Gioseffo Zarlino da Chioggia (1604), Giovanni Maria Artusi (1540-1613) mostrerà che l’armonia ha ormai assunto per Zarlino l’effigie di un solido regolare, il cubo quale fonte e origine di ogni armonia. L’emblema di Zarlino fa parte della compagine dei poliedri regolari del Timeo di Platone, mediante i quali Kepler costruisce l’universo geometrico-musicale nato dalla rivoluzione polifonica medievale e dalla rivoluzione astronomica moderna. Il transito dall’aritmetica alla geometria in musica è così anche il transito della musica a un’astronomia riformata, la quale nelle leggi armoniche del moto dei corpi celesti celebra le leggi del contrappunto terrestre.
La «musica [che] si canta oggi» non è per Zarlino creazione dell’uomo, una «cosa dell’arte»: è il prodotto delle leggi della natura che la scienza manifesta e «registra», e l’arte musicale imita. Il primato metafisico della natura sull’arte che ne imita la perfezione è compendiata dalla distinzione tra naturale e artificiale che nelle Istitutioni Zarlino riferisce ai corpi sonori. «Naturale», nel senso di prodotto da «Madre Natura, Istrumento del grande Iddio», è per Zarlino la voce umana, che intona naturalmente le forme universali delle consonanze musicali scolpite dal divino musico negli organi fonatori dell’uomo (Walker 1978, pp. 14-26). Corpi sonori artificiali sono invece gli strumenti (da fiato, da chorde, da battere), che sono costruiti dall’uomo e che riproducono solo in maniera parziale e limitata la perfezione della voce.
Nel Proemio alle Istitutioni Zarlino scrive uno stupendo elogio della voce articolata, che per lui è tra le cose «le più marauigliose» che «il sommo Iddio ha per sua benignità donato a mortali» (Le istitutioni harmoniche, cit., pp. 8-9). Grazie al dono divino della voce gli uomini sono riusciti a uscire dalla loro primitiva condizione bestiale e hanno fondato le società. Perfezionando i suoni articolati della voce, gli uomini hanno poi introdotto nella vita comune il decoro e la bellezza dei discorsi ornati ed eloquenti. Infine, con l’intonazione musicale, la voce articolata dell’uomo ha raggiunto la massima perfezione nel canto mediante il quale inneggiare «le laudi et render gloria alli Dei». La natura è il fondamento ontologico della teoria musicale di Zarlino, e nella voce umana risuonano gli archetipi musicali che Dio ha scolpito nella natura. La scienza teorica della musica manifesta e registra gli universali musicali in rerum natura riconducendoli a misura certa. L’arte, la scienza pratica della musica, concerta in regole precise e combina con variazioni illimitate gli archetipi sonori, imitando nel canto polifonico la musica concepita dalla Mente divina.
La rappresentazione della musica sub specie naturae, attraverso la quale Zarlino innerva la scienza musicale nei moduli della metafisica platonico-cristiana rinnovata da Cusano, deve sopportare al passaggio del secolo la critica ‘illuministica’ del padre di Galileo, Vincenzo Galilei, paladino dei diritti dell’arte patrocinata dalle avanguardie accademiche fiorentine fin de siècle. Alla «ben’ordinata Natura» di Zarlino, che suggerisce all’orecchio dell’uomo «le consonanze nelle lor vere Forme & Naturali», e ha voluto che
col mezo dell’arteficio cotali Forme si trovassero, come registrate nelle cose naturali, a perpetua memoria, collocate per ordine, secondo i Gradi loro ne i loro propri luoghi; acciocché l’Huomo conoscesse, che non fussero state fatte à caso; ma ordinate con gran sapienza & non senza gran misterio (G. Zarlino, Sopplimenti musicali, cit., p. 97),
Vincenzo Galilei contrappone l’immagine di una natura che procede «senza cognitione», con principi e fini estranei all’arte umana, e contro la ‘natura’ di Zarlino innalza la poiësis umana, l’arte meccanica ideata dall’uomo per conseguire un fine diverso dalla natura, o che la natura non può conseguire.
Alla Physica e agli Analytica posteriora di Aristotele, e al Commentarius in primum Euclidis Elementorum librum di Proclo, i testi dei matematici veneti vicini a Zarlino, Vincenzo Galilei oppone il Libro VIII della Politica, la Poetica, la Retorica e i Problemata, i testi aristotelici o attribuiti ad Aristotele letti, commentati e discussi dagli umanisti e accademici fiorentini.
Sullo sfondo storico-culturale sempre attuale del ‘ritorno dell’antico’, ridurre l’antica musica alla prassi musicale moderna significa allora per Vincenzo Galilei rivivere nella monodia delle avanguardie musicali accademiche l’espressività della musica degli antichi (il mito dei «maravigliosi effetti della musica antica») compromessa dalla polifonia di cui Zarlino è il custode e il teorico. Per Galilei «il fine della musica è l’esser’udita», pertanto «le regole dei moderni contrappuntisti osservate come leggi inviolabili […] saranno tutte di diretto contrarie alla perfettione» (V. Galilei, Dialogo della musica antica et della moderna, 1581, p. 81). Il fine dell’arte è per Galilei l’espressione («esprimere con efficacia maggiore i concetti dell’animo») e la comunicazione («imprimergli secondariamente con pari forza nelle menti de mortali»). La natura, sostiene ancora Galilei, segue sempre il medesimo corso senza deviazioni, l’arte umana muta sempre, è il progettare e far venire all’essere cose che possono essere e non essere, il cui principio è in chi produce. La natura e l’arte hanno dunque fini diversi, e nel perseguire i propri fini particolari l’arte supera con le proprie tecniche la natura.
La discussione su natura e arte animata sul finire del Cinquecento da Zarlino e da Galilei è un punto di cesura del Rinascimento, non soltanto musicale. Nella prima metà del Seicento il figlio di Vincenzo, Galileo Galilei, unifica nella scienza musicale ormai riformata i principi della natura e i principi della meccanica che il padre ha diviso, e per la prima volta la fisico-matematica inaugura il transito della musica dal numero e dalla geometria alla fisica e all’acustica dei corpi sonori.
La scienza musicale in Italia nel corso del 17° sec. segue percorsi e traguardi lontani dal momento ‘eroico’ del periodo rinascimentale. Nessuno dei motivi che avevano caratterizzato il Cinquecento viene abbandonato dalla cultura musicale italiana del nuovo secolo (Gozza 1986 e 2002), tuttavia altri interessi scientifici prendono il sopravvento e piegano in una direzione nuova i precedenti problemi. Il pensiero musicale italiano del Seicento, e più in generale europeo, è forse meglio riassunto nella formula dal numero al suono (Number to sound, 2000). L’espressione indica il passaggio da un sapere musicale di impianto puramente matematico, incentrato sulla quantità – discreta (il numero) o continua (la grandezza della geometria) – separata dalle materie sonore, a un sapere fisico-matematico interessato a cogliere nella natura e nel moto vibratorio dei corpi sonori la validità delle quantificazioni musicali.
Non è il rigetto della tradizione matematico-musicale pitagorica riformata da Zarlino, ma la sua attuazione ed estensione in rerum natura, nelle leggi acustiche dei corpi sonori, naturali e artificiali. Il nuovo orizzonte di pensiero prevede l’osservazione e lo studio, mai prima così intenso e sistematico, della natura fisica del suono, musicale e non: osservazioni e misurazioni sulla natura del suono, sulla sua propagazione nell’aria anche attraverso il parallelo tra luce e suono, ottica e acustica; problemi di percezione del suono, indagini anatomiche e, infine, tentativi di trovare il fondamento fisico della tradizionale teoria della consonanza di impianto numerico (Cohen 1984).
Zarlino intendeva portare la teoria musicale in prossimità del corpo sonoro, facendo uscire la musica dal numero. Questo transito è reso possibile in Zarlino dalla geometria ed è fondato sull’analogia tra suono e linea, tra l’altezza della nota e la lunghezza della corda che la emette. Tuttavia, la corda di Zarlino (e, prima di lui, di Ludovico Fogliani e degli altri teorici monocordisti, fino al giovane René Descartes) è una grandezza geometrica, ideale: la sua unica proprietà è la lunghezza, ed è del tutto priva di materia, peso specifico, volume, tensione. Inoltre questa corda geometrica è orfana del moto vibratorio che caratterizza il suono. È precisamente l’osservazione di queste proprietà fisiche della corda vibrante che assume importanza nello studio del suono e della musica dopo la stagione rinascimentale.
Già Vincenzo Galilei, nella sua astiosa polemica contro Zarlino, intende mostrare l’«errore di Pitagora» e dei suoi seguaci con argomentazioni desunte dall’esperienza, «madre di tutte le cose». Galilei compie l’osservazione decisiva che i rapporti numerici delle consonanze musicali definiti come relazioni tra le altezze e la diversa lunghezza delle corde non sono validi universalmente. L’osservazione dimostra infatti che, se si considerano le tensioni delle corde, i rapporti delle consonanze sono definiti da proporzioni di numeri inversi al quadrato, non semplici (per una quinta, do-sol, il rapporto è 9:4, non 2:3). La tensione della corda non è la sola variabile fisica studiata sperimentalmente da Galilei, che prende in considerazione anche la diversa materia delle corde sonore, studia la produzione dell’unisono in corpi metallici, misura il rapporto tra la lunghezza delle canne d’organo e l’altezza della nota che producono (Palisca 1989, pp. 180-207).
Le osservazioni e le curiosità sperimentali di Vincenzo Galilei anticipano l’orientamento della filosofia naturale del suono nel corso del Seicento, in primis di Galileo Galilei. Per comprendere il nuovo orientamento della scienza musicale moderna è forse utile sottolineare un’altra proprietà dell’oggetto d’indagine, la corda sonora. In Vincenzo la corda sonora acquista proprietà prima trascurate: materia, tensione, sezione trasversale. Le manca il movimento. È il matematico Giovanni Battista Benedetti (1530-1590) ad associare i numeri sonori al moto oscillatorio del corpo risonante, giungendo all’importante conclusione che il numero delle vibrazioni del corpo sonoro nell’unità di tempo (la frequenza) è inversamente proporzionale alla lunghezza della corda vibrante (G.B. Benedetti, Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber, 1585, pp. 277-83). Associando i rapporti numerici delle consonanze alle vibrazioni della corda sonora, Benedetti non assume i numeri astrattamente, ma come misurazione e quantificazione dell’evento fisico, in questo caso le vibrazioni del corpo sonoro.
Prima di Benedetti, Girolamo Fracastoro aveva illustrato l’azione dell’aria nella trasmissione del suono e aveva applicato il modello della rarefazione e della compressione al problema acustico della risonanza simpatetica. Una volta accertato che il moto del suono nell’aria è di tipo ondulatorio, prodotto dall’alternanza delle compressioni e delle rarefazioni dell’aria, la risonanza simpatetica di due corde di ugual lunghezza e tensione non è più un mistero: in Fracastoro essa è il risultato della compressione data all’aria dalla prima corda e comunicata alla seconda corda. Quando cessa l’impulso perché alla compressione dell’aria subentra subito la rarefazione, anche la seconda corda, in simpatia con la prima, ritorna alla posizione di equilibrio (G. Fracastoro, De sympathia et antipathia rerum liber unus, 1546, cap. 11).
Per capire la portata dell’orientamento inaugurato da Benedetti e da Fracastoro, vale forse la pena richiamare l’osservazione fatta mezzo secolo più tardi da Marin Mersenne (1588-1648), quando la scienza del suono è ormai saldamente ancorata alle dimostrazioni fisico-matematiche desunte dall’esperimento. Scrive Mersenne che il numero sonoro non è quello che i matematici considerano in astratto, «absque materia»: quel numero infatti non genera il suono. Per Mersenne e Galilei il numero sonoro definisce ora «il numero dei movimenti […] ossia delle vibrazioni dell’aria, dalle quali l’udito può essere affetto e mosso» (M. Mersenne, Cogitata physico-mathematica, 1644, p. 261). Si tratta di un vero e proprio programma di ricerche che ridefiniscono gli ambiti della moderna scienza del suono.
Assumendo come ideale punto di partenza la teoria di Benedetti, i filosofi naturali del Seicento interessati al suono e alla musica cercano di dare evidenza sperimentale e dimostrativa al rapporto istituito ma non dimostrato da Benedetti tra l’altezza di una nota e la frequenza delle vibrazioni che la generano, cercando di unificare in un’unica legge fisico-matematica tutte le variabili acustiche interessate (legge di Mersenne). I filosofi naturali moderni impiegano inoltre originali teorie meccanicistiche della materia per spiegare la natura del suono, la sua propagazione nell’aria e in altri mezzi, ponendo le basi teoriche e sperimentali della ‘teoria ondulatoria’ di fine secolo. Infine, nel quadro di particolari premesse metafisiche, relative all’interazione mente-corpo, viene avviata l’indagine degli elementi anatomici e delle funzioni psico-fisiologiche responsabili nel soggetto del piacere delle consonanze musicali e dei loro effetti sulle passioni dell’anima. Questi orientamenti della moderna scienza europea del suono sono presenti, con risultati diversi, anche nella cultura scientifica italiana che, nel Seicento, vede la presenza di due scuole, gesuitica e galileiana, diversamente orientate anche nella scienza del suono.
Gli scritti sulla scienza del suono dei matematici gesuiti del Seicento attivi nelle istituzioni di ricerca in Italia, da Giuseppe Biancani ad Athanasius Kircher, non attingono mai, con le eccezioni di Francesco Maria Grimaldi e Daniello Bartoli, il piano delle osservazioni e delle sensate esperienze fondamentali per lo studio della natura fisica del suono. Le indagini acustiche dei matematici gesuiti sono invece principalmente orientate allo studio geometrico delle leggi della propagazione e della riflessione del suono nell’aria. All’iniziale programma scientifico di Biancani e di Mario Bettini di definire la struttura dimostrativa dell’acustica sul modello dell’ottica geometrica, negli scritti di Kircher a partire dalla metà del Seicento si sovrappone l’intento ideologico, che finalizza le leggi del suono riflesso a un effetto estetico-edonistico di spossessamento. Soltanto nell’opera di Grimaldi e di Bartoli la scienza del suono nella scuola gesuitica acquista, pur con risultati contraddittori, uno statuto sperimentale fondato sulle osservazioni come si danno nell’esperienza e nell’esperimento, rinunciando alla pretesa di ingabbiarne la natura nelle definizioni e nei corollari matematici.
Nell’Echometria (1620) del gesuita Biancani (1566-1624) la difficoltà di concettualizzare il suono trova soluzione nella rappresentazione geometrica delle linee sonore, simili a raggi luminosi che fendono gli spazi e vengono riflessi dalle superfici dei corpi secondo traiettorie sempre nuove, note alle leggi della catottrica. L’ontologia e l’epistemologia del suono ripetono l’ontologia e l’epistemologia della luce che le hanno storicamente precedute e accompagnate. Geometria del suono riflesso, l’echometria è la proiezione acustica, nel medio dell’aria, della geometria euclidea. Il suono si perderebbe nello spazio smisurato e dileguerebbe se nel suo raggio d’azione la linea sonora non incontrasse i corpi piani e solidi del mondo, capaci di riflettere e moltiplicare le linee sonore che rimbalzano sulle loro superfici levigate. Nel loro movimento dalla fonte che le genera, le linee sonore edificano un mondo di corpi perfettamente piani e levigati, solidi geometrici che riflettono le linee sonore secondo geometrie misurabili. E come il mondo esterno dei corpi riflettenti, anche il mondo interno della sensazione, visiva e uditiva, è rappresentato dalla medesima tessitura di linee rette che mettono il vivente in un rapporto riflesso con i colori e con i timbri dell’universo (G. Biancani, Sphaera mundi, seu cosmographia demonstrativa, ac facili metodo tradita […] Accessere […] III. Echometria, idest geometrica traditio de echo, 1620).
La geometrizzazione del suono operata dai matematici gesuiti perfeziona la costruzione matematico-musicale del mondo iniziata con la teoria pitagorica della consonanza. Il suono come quantità discreta, oggetto della musica quale scienza del numero sonoro subalternata all’aritmetica, è ora affiancato dal suono come quantità continua, oggetto della sonimetrica quale scienza della voce continua subalternata alla geometria, una vetusta distinzione di Aristosseno riproposta da Bettini (1584-1657) nella sua enciclopedia delle discipline matematiche:
Quella parte della Filosofia Matematica, che verte sulle teorie del numero sonoro mediante la proporzione, si chiama Musica teorica; in modo analogo, si può chiamare Sonimetrica quella parte della Filosofia Matematica, che si occupa delle linee sonore, o voci continuate (M. Bettini, Apiaria universae philosophiae mathematicae, 1642, p. 2).
Oggetto di ricerca scientifica, il suono è nel Seicento occasione di osservazioni curiose e strumento di intrattenimento. Invisibile e incontenibile, in grado di occupare violentemente in pochi istanti spazi ampi e profondi, di superare agilmente qualsiasi ostacolo e commuovere quanto si trova dentro la propria sfera, il suono dà le ali all’immaginazione del letterato barocco: da un lato stimola lo sfruttamento dei ricchi giacimenti sonori della natura, dall’altro ispira una tecnologia innovativa, un’arte della macchinazione fonica con finalità socioantropologiche ed estetiche, nel cui sistema concettuale e pratico rientra anche la musica.
L’utopia fonurgica immaginata da Kircher (1602-1680), in particolare nella Phonurgia nova (1673), invade con il suono gli spazi più disparati della società moderna: la sonometrica misura l’ambiente, perfeziona la comunicazione a distanza e inaugura lo spionaggio acustico; l’architettura musicale progetta spazi urbani per la mise en scène di eventi sonori peregrini, è laboratorio di anamorfosi acustiche che affiancano le ingannevoli prospettive ottiche delle abitazioni e dei giardini aristocratici, costruisce sale da concerto e teatri le cui forme rotonde, ellittiche o paraboliche sembrano plasmate appositamente per accogliere e potenziare gli eventi sonori. La fonoscopia inaugura lo studio antropologico dei temperamenti attraverso i timbri vocali, e la fonurgia iatrica è la terapia musicale delle sofferenze umane. Nelle creazioni fantastiche dell’immaginario kircheriano, il suono è pensato come un’energia capace di modellare l’esterno e l’interno dei corpi, una potenza plastica da imbrigliare con arte. In questa nuova tecnologia sonora si consuma il conjugium mechanico-physicum artis et naturae paranympha phonosophia concinnatum («l’accoppiamento fisico-meccanico dell’arte e della natura elegantemente concertato dalla paraninfa fonosapiente», Gozza, in «Intersezioni», 2005, 2, pp. 259-61).
Il delirio fonurgico di Kircher è controbilanciato negli anni Settanta del Seicento dalle attente osservazioni acustiche del suo confratello nel Collegio romano, Bartoli (1608-1685), autore dei quattro trattati Del suono de’ tremori armonici e dell’udito (1679). Come indica il titolo, l’interesse scientifico di Bartoli si concentra sul suono come evento fisico (i primi due trattati), quindi converge sul suono musicale, o tremore armonico (terzo trattato e parte del quarto), e finalmente si rivolge al suono percepito dall’orecchio, di cui un capitolo del quarto trattato offre un’accurata analisi anatomica e fisiologica. Bartoli concepisce aristotelicamente l’indagine naturale come una paziente osservazione empirica di natura cumulativa, fondata sull’evidenza dei sensi e sul rifiuto delle dimostrazioni matematiche. Questa metodologia limita la coerenza dei risultati dell’indagine.
In particolare, Bartoli non sa spiegarsi come possa darsi la propagazione del suono, e quindi la sua percezione, se all’aria si concede solo «il tremore interno delle sue menome particelle, rimanendosi tutto il corpo di lei immobile localmente» (G. Bartoli, Del suono…, cit., p. 327). È un passaggio delicato della teoria secentesca del suono, che vede impegnate le più illustri istituzioni scientifiche europee. Bartoli contraddice la felice intuizione del tremore come «reciprocatione delle andate, e de’ ritorni, come nelle corde sonore quando si vibrano, e ne’ pendoli quando ondeggiano» (p. 171): all’idea del moto armonico semplice affianca e sovrappone il «moto d’aria per sospinte, e conseguentemente di luogo a luogo», senza cui diventa impossibile per l’osservatore gesuita spiegare non solo la diffusione del suono nell’aria ma anche la percezione uditiva. Diversamente:
dove non è moto d’aria per sospinte, e conseguentemente di luogo a luogo, non mi si lascia intendere a che servano, e come sien necessari gli strumenti del Timpano che riceva fuori, e ribatta dentro i battimenti dell’aria: né del Labirinto, e della Chiocciola, che co’ tanti lor giri, e ristrignimenti dian maggior foga al moto dell’aria, e ne ricevan la forza, bisognevole a far che di quasi insensibile che talvolta si riceve il suono, si faccia divenire sensibile all’udito (pp. 326-27).
È una fisiologia modellata sull’osservazione dell’‘orecchio di Dionigi’, la latomia nei pressi di Siracusa descritta da Bartoli nel penultimo capitolo del suo trattato. Il possente manufatto era oggetto di ripetute osservazioni nella letteratura scientifica per la sua eco straordinaria, che ieri come oggi desta l’ammirazione dell’ingenuo visitatore. Bartoli spiega le straordinarie proprietà acustiche dell’orecchio di Dionigi in base a un modello idraulico adattato alla diffusione del suono: le voci insensibili dei prigionieri diventano sensibili in virtù di un condotto cocleato scolpito nel soffitto della grotta simile a una possente chiocciola di pietra, che potenzia i suoni facendoli transitare all’orecchio voyeuristico del tiranno collocato come l’anima al centro del proprio corpo di pietra.
Gli scienziati gesuiti non riescono ad accordare nella loro scienza del suono matematica e physica. Precisamente questa accordatura è invece richiesta da Galilei, i cui esperimenti descritti al termine della prima giornata dei Discorsi e dimostrazioni matematiche, intorno a due nuove scienze attenenti alla mecanica e i movimenti locali (1638) hanno lo scopo di ‘confermare’ i numeri sonori della teoria musicale di derivazione pitagorica con l’esperienza, visiva e uditiva.
Nelle pagine ‘musicali’ di Galilei, occhio e orecchio si concertano per dare evidenza sperimentale alla legge acustico-matematica delle frequenze, introdotta da Benedetti. Il primo esperimento descrive il comportamento delle onde sulla superficie d’acqua d’un bicchiere, il cui orlo è strofinato dal dito. Il suono prodotto solleva onde regolari, «ed accadendo talvolta che ’l tuono del bicchiere salti un’ottava più alto», le onde primitive si dividono regolarmente a metà, «accidente che molto chiaramente conclude, la forma dell’ottava esser la dupla» (G. Galilei, Discorsi, cit., in Id., Le opere, Ed. nazionale a cura di A. Favaro, 8° vol., 1898, 19683, p. 143). Paradossalmente, la visione più che l’udito è il modello delle dimostrazioni musicali dei Discorsi.
Il problema di Galilei è di visualizzare la frequenza dei suoni, di porre davanti agli occhi del lettore l’immagine sensibile di suoni consonanti. Oggi come allora il lettore ‘vede’ gli esperimenti che Galilei narra con sovrana retorica nel contesto della sua ‘storia naturale del suono’. Aperte con la definizione delle leggi del pendolo, le pagine galileiane dei Discorsi si concludono con l’immagine di tre pendoli che oscillano contemporaneamente, e questa polifonia visiva è il pendant della polifonia sonora prodotta dalle diverse vibrazioni dei suoni che colpiscono il timpano nello stesso istante. Ma già Raffaello Caverni (1837-1900), descrivendo gli ‘esperimenti mentali’ di Galilei, commentava:
[Galilei] vedeva la proporzione di quegli spazi perché prestabilita già nella sua mente a quel modo che le matematiche ragioni gli persuadevano, anche contro l’esperienza de’ fatti, l’isocronismo de’ pendoli oscillanti (Caverni 1892, pp. 211-12).
Il commento di Caverni stride con la conclusione del moderno apologo dell’uomo di scienza, che Galilei affida alle pagine de Il saggiatore, nel quale con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra astronomica e filosofica di Lotario Sarsi Sigersano […] (1623). Un uomo, che conosce solo il canto dei propri uccelli, decide di esplorare il mondo alla ricerca di eventi sonori peregrini, e quando pensa d’aver appreso quanto c’è da conoscere:
trovassi più che mai rinvolto nell’ignoranza e nello stupore nel capitargli in mano una cicala, e che né per serrarle la bocca né per fermarle l’ali poteva né pur diminuire il suo altissimo stridore […], e che finalmente, alzandole il casso del petto e vedendovi sotto alcune cartilagini dure ma sottili, e credendo che lo strepito derivasse dallo scuoter di quelle, si ridusse a romperle per farle chetare, e che tutto fu in vano, sin che, spingendo l’ago più a dentro, non le tolse, trafiggendole, colla voce la vita (G. Galilei, Il saggiatore…, a cura di L. Sosio, 1979, p. 128).
Il ricercatore moderno si riduce «a tanta diffidenza del suo sapere, che domandato come si generavano i suoni, generosamente rispondeva di sapere alcuni modi, ma che teneva per fermo potervene essere cento altri incogniti e inopinabili» (p. 281).
Nella filosofia naturale del suono della seconda metà del Seicento italiano, il galileiano Geminiano Montanari (1633-1687) incarna in modo esemplare il modello dell’uccellatore del Saggiatore. Nel brillante Discorso sopra la Tromba parlante (1678), recitato all’Accademia della Traccia, Montanari cimenta il metodo naturale sul terreno della più recente scienza gesuitica del suono, quella tromba parlante che nella Phonurgia Kircher aveva orgogliosamente difeso come propria invenzione contro la Tuba stentoro-phonica (1671) di Samuel Morland. Sullo sfondo delle ecometrie e delle teoriche del suono apprestate dall’acustica geometrica gesuitica, diventa urgente per Montanari rilanciare il programma baconiano di studio della natura del suono per ricercarne le cause nelle forme dei corpi sonori,
come sono, Leuto, Clauicembalo, Arpa, Viola, e simili, ne quali il corpo concauo, che appresso le corde si pone, opera, che la voce delle loro corde e più lontano, e più sonora si faccia di gran lunga sentire, di quello che senza d’esso corpo non farebbe (G. Montanari, Discorso sopra la tromba parlante, cit., p. 12).
L’experimentum crucis ideato da Montanari per costringere la natura a rivelare le occulte leggi del suono è ammirevole per la sua ingegnosità:
In un vaso rotondo pieno d’acqua di due palmi circa di Diametro io lasciaua cadere da poca distanza piccoli sassolini nel mezzo, ed osseruaua il moto di quei circolari ondeggiamenti, che nella superficie dell’acqua perciò si producono (p. 18).
Giunti all’orlo del vaso, scrive Montanari, i circoli ritornano insieme verso il centro che li ha generati, e di qui di nuovo rinati s’allargano verso la circonferenza, ripetendo quel movimento di andata e ritorno più e più volte: «Ma se lasciaua cadere l’accennato sassolino non più nel mezzo, ma da un lato, diffuse quell’undulazioni fino al margine del vaso» (p. 18) non convergono più verso il centro, ma nel punto del diametro simmetrico a quello in cui il sassolino è stato gettato; quindi, di nuovo riflesse dal bordo, vanno poi a riunirsi nel punto iniziale, alternando più e più volte quel moto reciproco:
imperciòche, diceva io, se il suono si fa per increspamenti dell’aria, simili a questi, che s’osservano nell’acqua, […] egli è certo che ove si riunisce la forza, ch’era diffusa in tanta circonferenza, quivi accresciuta d’intenzione può farsi sensibile all’orecchio […] onde non è marauiglia se ne’ Clavicembali, ne’ Leuti, nelle Chitarre, Viole, & altri musicali stromenti sia tanto necessaria la concavità d’un corpo, che presso alle corde rifletta quanto più vicina, tanto più sonora, e frequente l’Eco a riunirsi con la voce primaria delle corde medesime, perciò che senza di ciò non più oltre che un debolissimo suono di esse si udirebbe. […] Che altro è questa Tromba, che uno stromento, nel quale moltiplicandosi per così dire infiniti Echi riflessi dall’intorno tutti verso il mezzo si ricongiungono con la voce primaria, e la rendono di tanto più risonante, e valida insieme per condursi più lungi? (p. 17).
I corpi concavi dell’età barocca accolgono nelle loro cavità interne i moti indistinti dell’aria esterna; grazie all’aria agitata con violenza nel ricettacolo interno li rendono sonoramente sensibili: infine, attraverso l’armonia delle loro figure ricurve, restituiscono al mondo le voci fonurgicamente plasmate. L’evento sonoro barocco altera le forme rinascimentali del mondo: gli oggetti si piegano, s’incurvano, i loro profili diventano rotondi, ellittici, parabolici, secondo una variegata fenomenologia contemplata dalla geometria delle sezioni coniche e tradotta in forme sensibili dalle sapienti architetture dello strumento musicale, della sala da concerto o del teatro barocco. L’armonia rinascimentale si coniuga nel Barocco con la potenza sensibile dell’evento sonoramente percepibile, il numero dell’antica scienza musicale celebra nel Seicento il sodalizio con i corpi risonanti dei moderni atelier del suono.
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