Musica greca e tradizioni regionali
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Oscurato per secoli, soltanto di recente il legame fra musica e tradizioni regionali viene lentamente riscoperto come una proficua prospettiva storica e multiculturale, collegabile al rinnovamento in atto negli studi sul mondo antico sia nelle discipline storiche, archeologiche e letterarie, sia in quelle musicologiche.
I due testi più noti della riflessione politica nel mondo antico contengono due importanti trattazioni sulle caratteristiche etiche della musica. Nel primo, Glaucone, il fratello di Platone esperto nell’arte delle Muse, risponde a Socrate indicando i differenti tipi di musica (harmoniai) da eseguire nelle diverse occasioni comunitarie (Repubblica, III, 398d-399a): “mixolidia” (meixolydisti) e “lidia tesa” (syntonolydisti) per i funerali e i lamenti, “ionica” (iasti) e “lidia” (lydisti) per il simposio e il rilassamento; “dorica” (doristi) e “frigia” (phrygisti) rispettivamente per la guerra e le azioni spontanee e pacifiche, come la preghiera. Interessato al pari di Socrate alle caratteristiche etiche delle strutture musicali, Aristotele (Politica, 8, 5, 1340b) risponde a distanza, in parte dissociandosi, e descrive, in base alla sua concezione della musica, capace di modificare temporaneamente ma intensamente lo stato dell’animo, le reazioni emotive indotte dalle differenti harmoniai negli ascoltatori: tristezza e gravità, quiete, moderazione ed equilibrio, ardore e frenesia.
Senza entrare nelle sottigliezze argomentative delle due diverse posizioni e della questione in generale, su cui esiste una vasta bibliografia specialistica, si intende qui sottolineare che entrambi gli autori identificano con appellativi etnici le diverse harmoniai, ovvero i “modelli di accordatura” o di intonazione dello strumento, ovvero quelle strutture ordinate di suoni che trasmettono il loro carattere (ethos) alle singole melodie basate su di esse (e che la maggior parte dei traduttori continua a rendere con “modi”, secondo l’uso della trattatistica musicale rinascimentale e moderna).
Tali qualificazioni etniche compaiono, almeno dal VI secolo a.C., sia nei testi filosofici, letterari, storici e geografici, sia nella trattatistica musicale, ove le medesime etichette e altre di tipo analogo, come “eolico”, “locrio”, “cario” e altri, ricorrono di frequente associate a vari generi di strutture e talora di stili melodici vocali e strumentali. In particolare, nei trattati musicali si trovano ampie spiegazioni sulle differenti successioni di note, intervalli e tetracordi e sulle combinazioni che caratterizzano le diverse harmoniai e a cui corrispondono differenti reazioni dal punto di vista emotivo ed estetico.
L’impatto sociale e culturale di tali esperienze sonore dura molto a lungo: basti ricordare che nel III secolo, a Roma, Ateneo (I Sofisti a banchetto, 624c-626a) e, forse nel IV, Aristide Quintiliano (Sulla musica, per esempio: p. 29, 18-21) raccolgono un’ampia documentazione sui contesti etnici da cui provengono le differenti harmoniai e le contrastanti testimonianze sulle loro relazioni con le funzioni sociali della musica: educativa, terapeutica, sacrale e pragmatica, che nel concetto di ethos trovano una matrice comune. Presenti in Severino Boezio e nella manualistica medievale, trasmessi come un luogo comune nei trattati musicali del Quattrocento e del Cinquecento, gli appellativi etnici tornano a incuriosire alla fine dell’Ottocento, in concomitanza con le prime trascrizioni in notazione moderna delle melodie recuperate dai manoscritti, dalle epigrafi e dai papiri. Da allora gli studiosi si sono ripetutamente chiesti “che cosa” stessero a significare tali nomi. Nei molteplici tentativi di rispondere a tale quesito la trattatistica musicale è stata la fonte privilegiata di riferimento, nella speranza che le caratteristiche tecniche, costituite dalle differenti combinazioni di note, intervalli e tetracordi o stili strumentali e vocali, potessero contenere la spiegazione interna di “che cosa” caratterizzasse all’orecchio dei Greci antichi le differenti harmoniai, e affidando alle trascrizioni moderne, eventualmente corredate di riproduzioni sonore, la possibilità di poterne riattivare la comprensione.
Lasciando da parte questo problema d’interesse piuttosto organologico e performativo, pare invece più fruttuoso domandarsi quale significato assumano tali marchi identitari, sia all’inizio della loro storia nelle varie comunità della Grecia arcaica, sia nella riflessione politica ateniese del V e IV secolo a.C. e successivamente nella Roma di età imperiale, quando è ormai perduta la conoscenza mnemonica, trasmessa di padre in figlio e da maestro ad allievo, di quelle particolari atmosfere sonore che permettevano ai Greci dell’età arcaica e classica di identificare a orecchio le diverse harmoniai.
Di recente infatti è emerso un nuovo interesse antropologico verso il recupero del dato storico, accantonato da troppo tempo, relativo sia agli appellativi etnici in relazione alle tradizioni musicali dei Greci, sia a quello che, per usare un’espressione di Ernesto De Martino, si direbbe “l’incontro etnografico” delle tradizioni musicali dei Greci con quelle dei popoli “altri”.
Oscurato per secoli, soltanto di recente il legame fra musica e tradizioni regionali viene lentamente riscoperto come una proficua prospettiva storica e multiculturale, collegabile al rinnovamento in atto negli studi sul mondo antico sia nelle discipline storiche, archeologiche e letterarie, sia in quelle musicologiche. Tra i primi va riconosciuto il cresciuto interesse per le dinamiche sociali, politiche, religiose e rituali presenti nell’apprendimento, nell’esecuzione e nella trasmissione della musica. Da un lato, le tradizioni musicali destano l’interesse di sociologi, antropologi e storici del mondo antico per le loro componenti strettamente connesse con la costruzione delle identità culturali e dei legami con la struttura sociale. Dall’altro, la musica e i professionisti che la praticano, rappresentati come uno dei gruppi sociali più mobili, in un tessuto sociale e politico fortemente radicato nella polis e in cui il viaggio è considerato un’esperienza pericolosa e dall’esito incerto, destano l’attenzione di chi studia la storia sociale dal punto di vista della mobilità da un luogo a un altro.
In tale rinnovato contesto, consapevoli della lezione degli antropologi per cui l’identità non è mai un assoluto definito una volta per tutte, ma che essa va compresa e ridefinita di volta in volta considerando non solo il contesto temporale, ma anche quello geografico, urge chiedersi perché gli appellativi etnici siano impiegati in relazione alla musica e quale sia il loro rapporto con l’identità delle varie comunità regionali greche in luoghi e in tempi differenti. Si tratta di avviare uno studio sistematico, storico e antropologico, sia delle tradizioni musicali regionali e delle regioni musicali della Grecia antica, sia delle modificazioni e delle integrazioni, degli influssi e degli scambi con le tradizioni musicali “altre” con cui i Greci vengono a contatto in Italia, in Tracia, sul Mar Nero, in Anatolia, a Cipro, in Fenicia e in Africa.
La documentazione per tale indagine dovrà essere la più ampia possibile e comprendere, da un lato, testi greci e latini di qualsiasi genere: storici e filosofici, poetici e teatrali, la trattatistica musicale e la riflessione filosofica, le periegesi e i trattati geografici, le raccolte lessicografiche e le epigrafi; dall’altro, i reperti archeologici, con particolare attenzione ai temi iconografici. Solo attraverso un vasto panorama di testimonianze e la loro lettura secondo varie prospettive possono forse essere documentati, da un lato, i modi in cui i Greci scelgono di rappresentare verbalmente i tipi delle loro culture musicali secondo le varietà regionali e locali e, dall’altro, come agisce l’intreccio delle motivazioni politiche, culturali, religiose.
Lo scopo di questo tipo di studio è di ricercare il risultato dinamico da questa configurazione regionale ed esplorare il suo ruolo nella costruzione e nella rappresentazione dell’identità musicale dei Greci, in vari momenti storici.
Ciò significa considerare qual è il ruolo delle manifestazioni musicali non solo all’interno della città, ma, per la prima volta, al di fuori del tessuto e dei confini della polis: soprattutto nei rapporti tra le varie poleis e nelle più ampie configurazioni territoriali e politiche, quali gli spazi regionali, ma anche le leghe e le confederazioni. A Roma, nel II secolo a.C., Polibio (Storie, 4, 20, 4-6) ricorda come un modello gli stili educativi e culturali, e in particolare l’apprendimento della musica, con cui la maggior parte delle popolazioni arcadi aveva saputo opporsi ai rigori del clima e alle asprezze del territorio montuoso e inospitale del Peloponneso centrale: “Se per gli uomini infatti è generalmente utile esercitare la musica, intendo la musica vera (mousiken gar, ten g’ alethos mousiken), per gli Arcadi ciò è anche necessario. Non bisogna credere infatti che la musica, come dice Eforo nel proemio della sua opera, pronunciando un giudizio che non è per nulla degno di lui, sia stata introdotta fra gli uomini solo per allettarli ingannevolmente: né ritenere che gli antichi Cretesi e Spartani abbiano introdotto a casaccio in battaglia l’uso dell’aulos e della cadenza ritmica, invece di quello della tromba […]”.
La storia complessiva, antica e moderna, dell’Arcadia come regione musicale dai tratti mitici attende ancora di essere studiata. Analogamente dicasi per la Beozia, i cui abitanti cercano un’unità regionale attraverso la costruzione di una cultura musicale al servizio della Lega Beotica, profondamente apollinea e non dionisiaca; oppure per le isole, che esprimono la loro alterità con un immaginario musicale che riflette l’esperienza della mobilità marittima e il legame con il mondo insulare.
Accanto alle regioni musicali anche alcune forme musicali appaiono come un prodotto dell’interazione sociale nel mondo greco: luoghi diversi competono per attribuirsi le origini delle nuove forme musicali, come Corinto, Tebe o Nasso per il ditirambo. La leggenda di Arione (secondo cui il famoso citaredo, sequestrato dai pirati mentre rientrava per mare da Taranto a Corinto dopo una serie di concerti, intonato un canto sul bordo della nave, si buttò in acqua e fu salvato dai delfini) suggerisce che l’invenzione del ditirambo – quello fu il nome che in seguito fu dato al canto a Corinto (Erodoto, Storie, I, 23-24) – è un fenomeno mediterraneo, un prodotto della mobilità marittima e l’espressione contemporanea di un cambiamento sociale nel periodo arcaico.
Inoltre vi sono gli elementi sonori descritti come assimilazioni dall’esterno: a parere di Erodoto (Storie, IV, 189, 3), le donne greche e, in particolare, le ateniesi avrebbero adottato nelle cerimonie sacre il grido (ololyge) usato frequentemente e in modo appropriato dalle donne nordafricane. Se anche questo tratto sonoro fosse una delle numerose innovazioni musicali e drammaturgiche che i cittadini di Atene ritenevano introdotte dall’esterno, come per esempio quanto avveniva intorno alle Dionisie cittadine, o addirittura in relazione alle origini delle rappresentazioni tragiche, può essere approfondito nell’ambito di uno studio sui rapporti tra l’innovazione sociale e l’importazione delle novità musicali come fenomeni interdipendenti.
Infine, il legame con il territorio è un elemento costante anche nella descrizione verbale dei versi animali. Fuori dall’abitato e dai vari sottofondi sonori delle piazze, delle riunioni ai pozzi, delle feste e dei riti presso i santuari, i viandanti percorrono a piedi o sui carri o a dorso di animali vie sostanzialmente silenziose, del tutto prive dell’inquinamento acustico di suoni e rumori dovuti a impianti meccanici; parlano per ore e ore, un passo dopo l’altro su medie e lunghe distanze, immersi in un silenzio interrotto ora dalle emissioni sonore degli insetti, ora dai versi degli uccelli, ora dalle grida e dagli ululati di altri animali. Per popolazioni che praticano abitualmente la caccia, un orecchio affinato nel riconoscere e imitare i versi, soprattutto degli uccelli, è una vera e propria necessità. Tuttavia la topografia delle descrizioni di suoni uditi è così varia e talora così minuziosa, che le motivazioni legate alla caccia paiono fornire una spiegazione soltanto parziale. Le descrizioni dei cori delle cicale sulle rive dell’Ilisso, appena fuori Atene (Platone, Fedro, 230c, 262d) e del canto di altre cicale nella Locride sino al confine del fiume Cecine, contrapposto al loro silenzio sulla sponda reggina (Pausania, Periegesi della Grecia, 6, 6, 4); i racconti dei Traci sugli usignoli dalle voci più dolci e più sonore di tutti che fanno il nido sulla tomba di Orfeo, a Libetro (Pausania, Periegesi della Grecia, 9, 30, 6); e infine la raffinata rappresentazione dei suoni differenti che contraddistinguono (allo echousi) le pernici di Atene, se al di qua o al di là del demo di Coridallo; o, al contrario, dei medesimi versi (homophonoi) che emettono sia le pernici della Beozia sia le dirimpettaie dell’Eubea (Eliano, Sulla natura degli animali, 3, 35; 4, 13 e 16) sono altrettante tessere di un progetto di studio più articolato. E il suo orizzonte disciplinare sarebbe l’etnomusicologia storica.