Musica
di Ugo Duse
Musica
sommario: 1. Introduzione. 2. La musica nella filosofia e nella sociologia. 3. La musica come problema antropologico- culturale. 4. La musica nelle sue determinazioni estetiche. 5. Problemi sollevati dalla teoria dell'informazione. 6. Musica e psicologia. 7. Lineamenti di storia. 8. Musica sperimentale. 9. Problemi di storiografia. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Nel nostro secolo la musica ritrova quella dimensione scientifica che ne caratterizzò l'interpretazione classica e sembrava definitivamente perduta dopo le brevi parentesi zarliniana e cartesiana. A questo ritrovamento è pervenuta attraverso una crisi che studiosi e artisti, anche di grande levatura, hanno paventato mortale, e che mortale in effetti è stata relativamente al concetto letterario postulato dal romanticismo, cui da più di un secolo ci si rifaceva. In questo ritrovamento essa ha conquistato una totale autonomia, dissociando le sue prospettive di sviluppo da quelle del fenomeno creativo eterogeneo delle varie arti; ricollegandosi semmai all'architettura quanto al dato oggettivo della scientificità, che pone problemi da risolvere e non pseudoproblemi su cui filosofare e la cui soluzione reale o mancata non intacca, né minimamente informa, le questioni che la musica si trova di fronte; queste ultime attengono alla ricerca pura, alla ricostituzione dei fondamenti. Pseudoproblemi sono quelli che solo la volontà politica della classe dirigente con i suoi cascami ideologici configura e prospetta nel segno delle cosiddette politiche culturali, aborti di un'arte di Stato sempre inseguita; problemi sono quelli che si pongono all'artista troppo spesso insoddisfatto di una musica che razionalmente, al di qua della sua realizzazione, invece lo appaga.
Al balbettamento, all'ecolalia, all'aprassia che caratterizzano tanta parte dell'arte contemporanea nata dalla rivolta contro le accademie e all'insegna dell'anarchismo piccolo borghese, la musica del XX secolo contrappone i propri studiosi, siano essi talenti creativi o talenti riproduttivi, sempre più tecnicamente preparati, sempre piu angosciati dinanzi all'immensità del campo di ricerca che sta loro di fronte, sempre più affascinati da questo senso di immortalità della loro arte derivante dalla coscienza che essa ormai marcia sulle infide ma infinite vie dello sperimentare, sempre più sperduti di fronte a ciò che gli esteti e i falsi profeti ritengono il deserto dei sentimenti, ed è invece la georgeiana aria di altri pianeti.
Nel nostro secolo si fa sempre meno filosofia sulla musica, e gli ultimi che ne ebbero la pretesa, come i teorici dell'espressionismo musicale, resero un pessimo servizio a questo genere di meditazione e di ricerca per il dilettantismo con cui essi hanno argomentato (v. espressionismo musicale).
Della musica si occupa invece la sociologia, ma in senso stretto ciò la riguarda tanto quanto può riguardare una scienza l'esser l'oggetto d'una brillante retorica astratta. Rimane argomento di disputa nella misura in cui se ne parla in termini di rapporto con il pubblico, dall'angolatura però di chi la vede nell'unicità dell'arte partecipe della sua crisi. E infatti lo è stata in quanto forma di espressione delle manifestazioni più appariscenti della crisi della società. Ha partecipato dell'estetica della pagina bianca e dell'istrionismo espressionista, del negativismo dei dadaisti, del rigorismo dei costruttivisti. Ha soccorso la Nuova Oggettività e l'esistenzialismo, l'aleatorietà del disimpegno e l'impegno civile, il realismo socialista e gli echi delle teosofie orientali volte più a giustificare il commercio e il consumo degli stupefacenti che l'affermarsi dell'antropologia culturale: ma non poteva né può essere altrimenti. Tuttavia il rapporto fra l'uso che se ne fa e ciò che è assomiglia a quello che può intercorrere tra la fisica elettronica e le più sofisticate comodità della vita quotidiana, o tra la logica matematica e la raffinata enigmistica di Garden. E questo la distingue dalle altre arti, eccezion fatta per l'architettura: esse sono solo l'uso che se ne fa e nient'altro; nessun noumeno al di sotto del fenomeno, nessuna oggettività se non quella dei materiali usati. La musica invece è un insieme di conoscenze scientifiche attinenti alla sfera dell'acustica, della logistica e della matematica, e il musicista non ha teoricamente limiti nel trattare la materia con cui crea, se non quelli del grado delle sue conoscenze.
L'impossibilità di dare una definizione della musica è, per molti, uno dei segni più evidenti della crisi spirituale del nostro tempo; invece essa consegue dall'insufficienza delle precedenti classificazioni di fronte al dilatarsi del campo. All'ampliamento, infatti, della base dei fondamenti fisici della musica - all'allargamento cioè del suo sistema di riferimento oggettivo, dello studio del processo di compensazione come elemento percettivo, della precisione dell'intonazione, del concetto di armonia, del meccanismo di trasposizione acustico-fisiologico, e attraverso l'uso della teoria dell'informazione nell'analisi musicale - corrisponde la necessità di una revisione radicale dei fondamenti concettuali e storici; i risultati della psicologia sperimentale, d'altro canto, prospettano il rapporto tra la musica e l'ascoltatore in termini ben più complessi che per il passato: anche questo rapporto ha una base scientifica restia a farsi definire se non in maniera tautologica. Conviene perciò stabilire in quali relazioni la musica sia entrata, in questo secolo, con la filosofia e l'estetica, con la psicologia e le altre scienze. Alla luce di questa disamina anche i suoi sviluppi possono risultare più evidenti.
2. La musica nella filosofia e nella sociologia
In questo secolo il posto riservato alla musica nella filosofia si è assai ridotto rispetto al passato. I filosofi dell'Ottocento dovevano fare i conti con il romanticismo, e quindi nei loro sistemi la musica era quasi sempre d'obbligo, spesso protagonista. Ma gli avvenimenti musicali di questo secolo o quanto meno le spinte più radicali, come d'altronde il frantumarsi della sistematica, hanno creato una situazione affatto nuova. Salvo eccezioni che non hanno inciso fortemente, almeno negli ultimi decenni, la meditazione sull'essenza della musica scompare, mentre le discipline che dalla filosofia si sono dipartite e anche emancipate, e cioè la sociologia, la psicologia e in minor misura l'estetica, ne fanno oggetto di indagini non marginali.
Anche nel Novecento, tuttavia, abbiamo qualche esempio di filosofia della musica, cioè di riflessione teorica sulla sua essenza. Per quanto il tipo di ricerca tradisca già un immanente anacronismo, esso è qualche cosa di più di una semplice scoria della tradizione: è piuttosto il manifestarsi del tentativo di resistere alla sociologia della musica. Questa infatti è, come ogni sociologia speciale, l'applicazione del modo di osservazione sociologico a un'altra scienza, e cioè alla musica; la filosofia della musica, invece, è riflessione sulla musica come scienza e interpretazione del fatto musicale come scienza applicata. Mentre la sociologia è per la musica una disciplina ausiliaria, la filosofia ne è parte costitutiva, ne rappresenta l'autorifiessione critica.
Nel XX secolo la filosofia della musica si manifesta soprattutto come filosofia della storia sociale della musica, cioè come riflessione ed esegesi del fatto musicale sotto il profilo storico. La sua essenza viene così concepita storicisticamente secondo un postulato di immutabilità che si arricchisce però delle determinazioni della storia.
Quantunque molto diversi tra loro per i rispettivi punti di approdo, H. Pfitzner, F. Busoni, P. Bekker e più tardi Th. Wiesengrund Adorno si muovono in questa direzione, anche se nell'ultimo l'istanza sociologica è molto più che un'interferenza, tanto che nel suo caso si dovrebbe parlare di una sociologia della filosofia della musica. Questo spiega perché da un quarto di secolo a oggi Adorno abbia soprattutto influenzato la critica musicale e non poca parte della moderna storiografia. Ma ciò che li accomuna tutti e quattro è il prevalere della dimensione della riflessione storica: in Pfitzner a dimostrare la non esaurita possibilità dell'armonia tonale, in Busoni invece il suo esaurimento, anche in relazione al misero materiale che essa poteva offrire, in Bekker il complesso strutturarsi nel tempo dell'idea poetica in musica e il suo identificarsi con l'idea musicale, in Adorno l'inevitabilità dell'approdo all'atonalismo e alla dodecafonia, le contraddizioni non sempre fertili della nuova musica, la sua ambigua collocazione e, fino a un dato momento, le non imperscrutabili sue destinazioni nella società dei consumi e della reificazione mercificata.
In questo secolo, quindi, la filosofia della musica è un fatto esclusivamente tedesco: ciò è comprensibile alla luce dei precedenti schopenhaueriani e nietzschiani. Sarebbe tuttavia un errore collegare la filosofia alla musica attraverso il poema sinfonico, come spesso viene fatto. L'extramusicalità del poema sinfonico certamente può sconfinare anche in una tematica o nel titolo di un'opera filosofica, ma non procedere oltre. La riflessione musicale su un titolo di un'opera filosofica, o anche sui suoi contenuti, non stabilisce alcun rapporto tra filosofia e musica; se mai può mettere in evidenza le tendenze metafisiche di un musicista, in un senso molto limitato: e se queste tendenze conducevano a sottovalutare le sonorità in quanto tali a favore di certe soluzioni formali, molto spesso di derivazione wagneriana - e questo intendeva dire Debussy quando affermava che non si faceva più della musica ma solo della metafisica - non postulavano comunque affatto una riflessione filosofica sulla musica.
La sociologia della musica ha conosciuto invece in questo secolo uno sviluppo considerevole, proprio per il suo carattere di scienza dell'osservazione delle costanti e delle tendenze passate e presenti di quest'arte, assunta come fatto sociale e culturale. Essa è quindi parte della sociologia dell'arte. Come punto d'osservazione di costanti e di tendenze, fa anche uso del principio di comparazione nello sviluppo storico, e pertanto opera spesso congiuntamente all'etnologia. Sotto questo profilo essa giova alla storia della musica, contribuendo al superamento della conoscenza della sola tradizione scritta.
La sociologia della musica si occupa della musica d'arte, della prassi musicale ai livelli produttivo, riproduttivo e del fruente, e a tutti i gradi di acculturazione. Essa descrive l'estendersi dei rapporti tra gruppi che fanno musica come il procedere di quest'arte nella società. La mediazione, una funzione della quale le arti visive non hanno bisogno, è oggetto di particolare attenzione da parte di questa disciplina. Partendo dalla premessa che la musica non abbia avuto e non abbia semplicemente come fine il godimento artistico, ma che essa sia innanzi tutto un momento della vita sociale, pur nelle sfumature delle varie scuole, la sociologia della musica sottopone a una revisione radicale ciò che significò far musica nel passato e ciò che significa nel presente. Si tenta così di riscrivere la sua storia particolare come parte della storia, conferendo grande rilievo a tutte le sue manifestazioni socialmente individuabili: alle marce, alle musiche di danza, al canto nei suoi scopi sociali, di guerra, d'amore, magico-terapeutici, religiosi, ergotici, e alla loro varia evoluzione, sia nella direzione originaria, sia nella riproduzione artistica, come anche soprattutto per il canto di lavoro e per quello d'amore.
Particolare attenzione viene anche portata al carattere di esaltazione psicologica di queste musiche, nonché alla peculiarità delle tecniche di esecuzione (ad esempio il sottofondo) di talune di esse, per ottenere una sovreccitazione del sistema nervoso autonomo ai fini di un accrescimento d'intensità della forza lavoro. La deprivazione estetica costituisce quindi un aspetto importante di quel far musica che la sociologia osserva e descrive.
La perdita di esteticità di molta musica, conseguenza di questo tipo di analisi e delle attuali strutture economiche e di gestione del potere, è compensata, in certe scuole, dall'accrescimento della componente estetica nel canto popolare, i cui fini associativi sono evidenti; nel concetto di popolare può essere così recuperata una parte non trascurabile della musica corale cosiddetta colta: diversamente dal significato delle origini, per cui, almeno in Europa, indagine sul popolare voleva dire studiare determinate caratteristiche delle linee melodiche, particolari strutture intervallari, l'iterazione, in definitiva certi aspetti formali, per la sociologia studiare il popolare vuol dire soprattutto osservare e descrivere ciò che grandi masse di individui accettano, e in cui riconoscono un motivo per dare uno dei tanti possibili sensi al bisogno di organizzarsi in gruppi. La musica popolare è perciò vista prevalentemente sotto il profilo motivazionistico della spinta all'aggregazione.
Elemento di differenziazione tra varie scuole nella sociologia della musica è quello del rapporto che si stabilisce tra produttori e consumatori del prodotto artistico. Le categorie economiche della produzione e del consumo, così felicemente applicabili in quel mercato sempre meno ben definito che è il mercato d'arte, sembrano inutilizzabili dove compare la funzione mediatrice del riproduttore. Per coloro che propongono la suddivisione in termini socioeconomici, il riproduttore è pur sempre un produttore, con altrui brevetto, magari, ma anche in posizione antagonistica rispetto al consumatore. I sociologi che oppongono invece un rifiuto a questa semplificazione, lo motivano e con la peculiarità della creazione dell'opera d'arte e con la caratteristica della riproduzione che corrisponde alla sempre maggiore specializzazione del lavoro. È chiara la natura della disputa: dal momento che la sociologia analizza il consumo come uno dei parametri base della società, si tratta di vedere se in questo caso siamo di fronte al consumo di un prodotto materiale o di un prodotto spirituale. Ed è chiaro che sul piano del rigore teorico perde proprio chi propone un simile distinguo. Tuttavia, posizioni di un determinismo tanto pesante sono andate sempre più temperandosi e oggi, nella figura del fruitore, che riduce il riproduttore a una funzione diversa, essendo quest'ultimo in parte fruitore della sua riproduzione, sembra essere stato raggiunto un momentaneo compromesso, significativo però solo se si accetta il principio della mediazione, alquanto insostenibile in presenza del fenomeno della riproduzione del riprodotto.
Se la mediazione viene respinta nell'ambito dei mass media, allora il problema si ripresenta come un caso particolare della distribuzione, ovvero come l'eccezione che conferma la regola: una produzione tipicamente anarchica e una distribuzione socialmente organizzata. In questo caso il riproduttore è il primo anello della razionalizzazione industriale del processo.
Altra soluzione del problema consiste nell'interpretare il prodotto come il risultato storico di una progressiva appropriazione individuale di un patrimonio collettivo. Sulla base di osservazioni su comunità primitive o comunque con gradi di sviluppo inferiori rispetto alle società industrializzate, si rileva che il patrimonio collettivo è una categoria storicistica, sovrastrutturale, non economica, e che l'appropriazione da parte delle individualità rientra nelle leggi di sviluppo del patrimonio stesso in quanto l'appropriazione individuale va a sua volta ad arricchire la collettività. Si tratterebbe quindi di appropriazione spirituale di un patrimonio collettivo per accrescerlo materialmente. Si portano numerose prove in appoggio a questa descrizione del rapporto tra etnia e individuo anche nelle forme più evolute. E lo stesso contenimento del diritto d'autore - peraltro comune anche alla produzione letteraria - in limiti di tempo relativamente brevi, ed esistente in varie forme anche presso comunità arretrate, sancirebbe nella legge il riconoscimento della reversibilità del processo appropriativo.
La sociologia della musica, nell'esaminare la vita musicale, riconosce generalmente il teatro d'opera come esempio di affermazione e di esercizio del potere della classe dominante, offrendo agli storici, attraverso quelle analisi, possibilità ben maggiori nell'interpretare la funzione del teatro musicale nel tempo, anche alla luce della tendenza a inserirsi più o meno nell'establishment da parte dei compositori. Che la politica militante o una diretta o indiretta partecipazione all'esercizio del potere politico si concili in genere con la tendenza a comporre prevalentemente per il teatro, era già stato portato alla luce dalla storia della musica; oggi però non è solo il maggiore o minore impegno politico a caratterizzare il rapporto tra compositore e teatro d'opera, anche se quest'ultimo rimane sempre il veicolo più organico - permesso e sollecitato dalle leve del potere - di presa di contatto con il pubblico. Il teatro musicale è sempre quello della classe dominante, almeno nelle sue forme istituzionalizzate, fatta forse qualche eccezione per i festival di musica contemporanea, che tuttavia del potere costituiscono pur sempre l'alibi più comodo. Ma l'interesse si estende anche al rapporto tra istituzione e pubblico, in cui il compositore con la sua opera è meno artefice di una pièce teatrale di quanto non sia celebrante di una liturgia.
Ulteriori contributi alla comprensione circa il senso della presenza della musica nella socialità e nella società sono stati apportati dall'indagine sull'orchestra, sulle organizzazioni concertistiche, sui cori, sulla musica sacra, sull'educazione musicale a livello specialistico e semplicemente culturale, sugli effetti sociali della musica, sulla regressione dell'ascolto, sui feticci musicali, sul carattere liberatorio o condizionante della musica.
Indubbiamente lo spostamento dell'indagine dal fatto musicale in sé al fatto musicale nella sua dimensione sociale è tratto saliente del nostro secolo, che non conosce più la dimensione metafisica e tiene sempre presente il marxismo, anche nelle sue continue proliferanti revisioni.
In senso assoluto, musica senza metafisica è non solo pensabile, ma ovvia da quando la logica si è presentata senza apparato metafisico. Al di là delle osservazioni, delle statistiche non sempre facilmente leggibili, rimane però a- perta una questione di fondo, posta da Wittgenstein oltre mezzo secolo fa: se la musica, come linguaggio, sia fatta di proposizioni, e se la conoscenza dell'essenza della logica possa portare anche a conoscere l'essenza della musica. Si tratta evidentemente di decidere se qui l'essenza sia o meno un'istanza metafisica. Una risposta positiva esige ineluttabilmente la liquidazione del Tractatus, una delle opere più significative del pensiero filosofico del secolo; una risposta negativa indicherebbe che la filosofia ha ancora molto da dire sulla musica senza dover cedere completamente il campo alla sociologia, e a tutto vantaggio di quest'ultima e di una maggiore scientificità della storia della musica come storia sociale della musica.
3. La musica come problema antropologico-culturale
L'affermarsi nel nostro secolo di una scienza dei popoli primitivi ha una portata che nessuno oggi più discute. La musica ha stabilito con questa nuova scienza un rapporto del più alto interesse. Se anche può sembrare improprio parlare di un'antropologia culturale musicale, questa espressione, che peraltro talora viene usata, sembra ben adattarsi alle prospettive di sviluppo dei vari settori di questa scienza. Tra essi i più importanti sono la storia del folklore musicale e la etnomusicologia. Questa confluenza di due discipline, spesso ritenute autonome nell'ambito dell'antropologia culturale musicale, ha una sua precisa ragione d'essere, perché la storia del folklore musicale da lungo tempo ormai indaga ben al di là dell'area degli strati subalterni della popolazione europea, e perché d'altro canto la etnomusicologia, se tende alla conoscenza delle correlazioni storico-culturali tra tutti i popoli, diviene anche sempre più una metodologia dell'indagine musicale comparata; inoltre l'antropologia culturale musicale abbraccia a giusto titolo anche la caratterologia dei popoli in relazione alle loro origini e ciò forse può costituire una sua particolarità rispetto all'antropologia culturale in senso stretto; ma soprattutto la circostanza che le tre discipline hanno in comune e al centro la tradizione non scritta fa cadere le maggiori perplessità sull'opportunità di una loro unificazione.
I caratteri di questa scienza sono pressoché antagonistici a quelli della storia della musica, in quanto storia della musica occidentale, che è storia della sola tradizione scritta. Tuttavia questo antagonismo dev'essere superato proprio nell'interesse della musicologia, che attualmente riporta sì alla luce e mette alla portata di tutti anche i più remoti e sino a poco tempo fa inaccessibili documenti musicali, ma è del tutto impotente a dare spiegazioni plausibili e attestabili del loro significato, dal momento che dell'esecuzione delle antiche musiche non sappiamo quasi nulla. Volgersi alla tradizione non scritta, alla tradizione popolare, all'organologia, per studiare il ruolo della sopravvivenza di strumenti musicali antichi di certi popoli presso altri gruppi etnici, diventa necessario per non lasciare incompiuta la ricerca storica.
Se mai ha un senso, e lo ha, un'indagine sulla natura della musica, l'antropologia culturale musicale, raggiungendo i popoli che si sono mossi, nella maggioranza fino a qualche tempo fa, ma alcuni ancor oggi, assai lentamente nella storia, si avvicina alle origini della musica, cioè, per il non metafisico, alla sua preistoria. Ciò permette uno studio comparativo che ha già dato contributi e risultati, più o meno discutibili, ma comunque importanti, ad esempio nell'indagine sulla pratica polifonica (v. Schneider, 1969).
Gli studi sulla musica popolare, diversamente da quanto accade nella sociologia della musica, hanno per oggetto la tradizione orale, ancora soprattutto eurasiatica, e la musica tradizionale e popolare delle varie genti secondo parametri etnici e geografici. Una parte considerevole di queste indagini è volta a studiare la trasformazione dei canti presso i vari gruppi etnici, e il loro assorbimento nella musica colta. Questo settore di studi si sovrappone in una certa misura alla storia della musica, perché è, almeno per grandi linee, lo studio della tradizione popolare scritta e dei suoi rapporti con la musica d'arte. Trova qui la sua collocazione anche la descrizione e la nomenclatura degli strumenti popolari, tuttora perlopiù limitata all'area indoeuropea, nonché la storia dell'evoluzione di taluni di essi che sono oggi accolti nella musica non popolare.
I metodi dell'antropologia culturale musicale possono essere così sommariamente indicati: la registrazione dal vivo, la misurazione esatta delle altezze in riferimento al nostro sistema temperato, prendendo per base la suddivisione del semitono proposta da Ellis, la trascrizione nella nostra notazione, con l'ausilio di accorgimenti semiografici che permettono la riproduzione di intervalli e di ritmi inconsueti, la catalogazione e l'archiviazione secondo criteri sistematici e regionali. Bartok e Kodàly hanno dato, nei primi decenni del secolo, un suggello artistico a questa metodologia.
L'antropologia culturale musicale ricorre anche alla musicologia comparata, cioè allo studio di ciò che è comune alla musica arcaica delle varie regioni e a quella storica, suddividendo i vari settori cultuali, di danza, corali, strumentali; alla comparazione stilistica e melodica, allo studio delle costanti e delle varianti, delle concomitanze di queste ultime in rapporto a certi eventi storici; infine allo studio del processo di dislocazione nelle varie zone, spesso lontane le une dalle altre, di forme o espressioni musicali di origine comune.
Destinato a staccarsi dall'antropologia culturale musicale, o perlomeno a costituire un settore a parte, è lo studio della musica orientale. Ciò che può avere un senso per la sociologia della musica, che adotta una ricerca di tipo largo-superficiale, non è più pensabile all'attuale livello di specializzazione della semitistica, dell'islamistica, della sinologia, ecc., per l'antropologia culturale musicale. Può essere questa una situazione provvisoria, ma per i risultati che la specializzazione garantisce è una soluzione necessaria.
4. La musica nelle sue determinazioni estetiche
Sulla scia di Hanslick si è mossa non solo gran parte dell'estetica della musica nella seconda metà dell'Ottocento, ma anche nei primi decenni del XX secolo, dal momento che il punto di riferimento del consenso, con i successivi sviluppi, o del dissenso, rimasero alcune celebri formulazioni del trattato Del bello musicale. Tuttavia già dal 1890 lo scritto Über Gestaltqualitäten di Chr. von Ebrenfels creò le premesse per un nuovo modo di affrontare la musica sul piano estetico. La novità consisteva nella possibilità di superare, in base ad argomenti scientifici, l'incapacità di dare risposte teoricamente soddisfacenti, incapacità propria sia dell'estetica dell'espressione di origine hauseggeriana che dell'estetica formalistica hanslickiana. Ancora alla soglia degli anni trenta, l'esigenza della contraddizione fertile e della contrapposizione aveva un suo spazio importante: basti pensare a Gatz, che deriva dall'originaria antitesi un'antitesi ancor più carica di sottili distinguo: quella tra l'estetica dell'eteronomia e l'estetica dell'autonomià, suddividendo la prima in vari momenti teorici che sono altrettanti momenti di progressivo abbandono delle posizioni eteronome e gradini verso l'autonomia, da un lato, e ognuno di questi momenti a sua volta in un orientamento empirico e uno speculativo, dall'altro. Una simile rigida tassonomia doveva necessariamente finire con il presentare una curiosa topologia di pensiero, sicché uno stesso autore poteva venir considerato per certi aspetti come un rappresentante dell'eteronomia o viceversa, di orientamento empirico o viceversa. Poiché Gatz rappresentò allora il tentativo di sistematizzazione più avanzato, non è difficile arguire quali fossero le posizioni di coloro che perseguivano i vecchi punti di vista.
Spetta alla Gestaltpsychologie, che riconosce in von Ehrenfels uno dei suoi maggiori ispiratori, il merito di aver rovesciato i termini del problema superando, nella negazione dell'esistenza di esperienze elementari, il vecchio associazionismo, e raccogliendo nel complesso concetto di Gestalt una forma fino ad allora rimasta ancorata all'immagine classica.
Nella totalità dell'esperienza esistono, come casi particolari, dati di fatto articolati, che risultano particolarmente quasi figure: le forme in senso gestaltico; ciò che nell'esperienza vissuta non è gestaltico, le ‟qualità complesse" di Krüger, sono i sentimenti e le qualità della sfera del sentimento. Si tratta della qualità inclusiva totale dell'insieme di esperienze da noi di volta in volta vissute; ne consegue che non esistono attimi di esperienza privi di sentimento e ancora che i casi particolari dell'esperienza totale vissuta, quei singoli contenuti articolati in cui consistono le forme in senso gestaltico, non sono mai esenti dagli stati d'animo o di esperienza propri della sfera del sentimento. Su questa strada Wellek isolò sperimentalmente l'aspetto puramente formale delle Gestalten, cioè la pregnanza e la buona forma, da quello significante ed espressivo della sfera dei sentimenti a esse inerente. La pregnanza e la buona forma hanno una gradualità che sembra determinata in parte dalla ‛profondità gestaltica', o aspetto significante ed espressivo della sfera dei sentimenti. Come non viviamo Gestalten che non siano anche nel contempo esperienze sentimentali, così non si danno forme in senso gestaltico che non siano anche esperienze e contenuti significanti del sentimento. Il rapporto tra forma e contenuto inteso in maniera tradizionale sembra costituire perciò uno pseudoproblema perché è la conseguenza di una scorretta impostazione della questione.
In questa prospettiva, la diversità tra una musica come linguaggio dei sentimenti e una musica intesa come forma o gioco si risolve in una particolare accentuazione o dell'aspetto sentimentale o dell'aspetto ludico-formale: ciò non esclude, naturalmente, che proprio in quanto ludica la musica intesa come forma non abbia certi caratteri espressivi e che come linguaggio dei sentimenti non possa avere rigorosi caratteri formali. Viene perciò a cadere anche l'equivalenza espressione-eteronomia, assieme a quella forma-autonomia, riferite alla musica e ai suoi contenuti o all'assenza di contenuti. Perché se l'espressione è nella forma, e non postulata al di fuori di essa, allora l'autonomia della musica si fonda proprio sulla sintesi dell'implicazione inestricabile di forma ed espressione. Ogni estetica dell'eteronomia sembra quindi del tutto insostenibile.
Una contraddizione ancor maggiore appare, nella nostra epoca, nell'enunciazione di Handschin (v., 1948), secondo cui la musica è soprattutto fondata razionalmente e nel contempo suscita un'impressione irrazionale. Ora, dal punto di vista estetico, è quest'ultima che interessa, perché l'ascoltatore dotato musicalmente, e tuttavia profano di teoria musicale e di fondamenti scientifico-acustici, si pone di fronte alla musica in condizione di parità con il musicista o il musicologo. Ma il fondamento razionale esiste, e il suo intendimento a posteriori non può collocarsi al di fuori del godimento estetico. Non possiamo a priori negare che l'analisi di una partitura o anche di una semplice melodia contenga, sotto il profilo delle relazioni numeriche che rappresenta, oppure nella sua semiografia, una forte sollecitazione estetica, come nel caso di certe partiture di musica elettronica o grafie di Stockhausen e Bussotti.
Un tentativo di risolvere questa impasse, che pone già in forse l'irrazionalità dell'impressione, è stato fatto introducendo l'argomentazione scolastica dell'intentio recta e dell'intentio obliqua, identificando il retto intendimento con l'impressione irrazionale e quello obliquo come deducibile dai fondamenti razionali. Ma questa soluzione postula la definizione leibniziana della musica, ignorando l'oggettività dei rapporti matematici e delle relazioni logistiche che possono essere la conseguenza e non la premessa del comporre. E in effetti non si vede perché, costituendo indiscutibilmente motivo di godimento estetico la sfera, risultato razionale di rapporti tra grandezze irrazionali, non possa darsi che dalla razionalità si giunga a un'espressione artistica vissuta irrazionalmente per cui, in estetica, tra i due poli si stabilisca una relazione biunivoca; il che non sarebbe altro che il riconoscimento di dati di fatto. L'irrazionalità dell'impressione, vale a dire la riaffermazione della non razionalità del sentimento, si confina allora nell'impossibilità della percezione globale; questa impossibilità sta nel fluire del discorso sonoro, senza il quale non c'è musica. Il vizio logico è nel rifiuto di accettare la relatività nella valutazione spazio-temporale come dimensione definita dell'ascolto.
Ciò è sperimentalmente accertabile nel momento in cui si applica, con rigore anche se non senza difficoltà, il principio fenomenologico della neutralizzazione del già acquisito, come avviene negli esperimenti sulla percezione visiva. Si tratta di lasciare scorrere e agire su di sé una prima volta l'insieme, del tutto irriflessivamente e senza presupposti, e in seguito di operare in modo analitico. L'irriflessività e la mancanza di presupposti non escludono però l'intendere la natura di un accordo o il genere di una cadenza, ad esempio, perché la sintassi non è ostacolo all'immediatezza dell'ascolto; comunque l'analisi successiva non può che essere oggettivamente estetica, procedendo dalla memoria dell'impressione originaria. Ciò pone naturalmente il problema di che cosa si debba intendere per ascoltatore musicalmente dotato, perché, a differenza del tecnico della materia, egli sembra dover fare maggiormente appello, per la sua analisi, a una sua anamnesi musicale; e questo crea una difficoltà insormontabile a un ascolto originario assolutamente fenomenologico: se per ogni ascoltatore un margine di storia c'è sempre, allora questo è ancor più vero nel caso dell'ascoltatore ingenuo che, nell'analisi interiore del brano musicale, deve ricorrere non a nozioni ma a esperienze musicali vissute. In questo senso si pone il problema dell'ascolto storico, non secondario nell'estetica musicale contemporanea.
Se è possibile porsi di fronte a un'opera non conosciuta nelle condizioni prima enunciate di neutralizzazione del già acquisito, questo non è pensabile nelle condizioni di ciò che già si conosce. I processi mnesici di riconoscimento creano le premesse di un ascolto storico soggettivo che si approfondisce sempre maggiormente, inquadrandosi più distintamente nella dimensione storica oggettiva conosciuta dal soggetto. È banale considerare l'ascolto storico come la conseguenza di un maggiore o minore grado di cultura dell'ascoltatore. Tale tipo di ascolto è storico anche perché si fonda sulla passata esperienza e sul rapporto personale del soggetto con la musica, i suoi problemi, i suoi vari aspetti. Ascolto storico non vuol dire necessità di conoscere la storia della musica per poter capire la validità estetica di una data opera, vuole invece significare un modo non assoluto, ma piuttosto inevitabilmente condizionato di vivere l'esperienza musicale. Ed è falso che questo condizionamento non sia maggiore quando è presente un testo, a meno che non si tratti di un testo in una lingua sconosciuta, dove la voce umana risulti solo un elemento timbrico. Tuttavia anche la musica cosiddetta pura o assoluta vincola in un certo qual modo all'ascolto storico, nel senso dell'esperienza personale vissuta. L'idea poetica che la composizione musicale sempre sottenderebbe, la coincidenza, in definitiva, dell'idea musicale con l'idea poetica (v. Bekker, 1912), con l'esistenza di un programma in ogni musica, anche la più dichiaratamente aprogrammatica, sembra in qualche modo aver trovato una conferma nell'esperimento scientifico di C. C. Pratt (v., 1952), allorché 227 studenti di un college hanno correttamente messo in relazione, con una concordanza superiore al 90%, quattro aggettivi caratterizzanti, scritti sulla lavagna senz'altra indicazione, con quattro brani rispettivamente di Brahms, Mendelssohn, Mozart e Čajkovskij, così come l'associazione era stata preventivamente stabilita da una commissione di esperti. Dunque le successioni d'immagini sonore, ovviamente storicizzate, hanno guidato alla scelta di un aggettivo già di per sé carico di molteplici ambiguità: e questo è muoversi nell'area dell'idea poetica.
Portata alle sue ultime conseguenze, perciò, l'inevitabilità dell'ascolto storico, anche nel senso dell'esperienza vissuta dall'ascoltatore, finisce con il riproporre un'estetica eteronoma, perché, in ultima analisi, il sentimento, e nelle sue espressioni e nel suo contenuto significante, è sempre sentimento di qualche cosa, e cioè di qualche cosa che è stato vissuto, che è parte di una storia: di qualcosa, dunque, di extramusicale. Ma la forma in cui questo sentimento viene evocato è quella della musica, che l'esperienza stessa dimostra autonoma. La situazione è chiaramente aporetica; e tale aporeticità si acuisce quando ci si pone di fronte alla nuova musica, quella postweberniana. Venuta meno la tonalità, con tutte le implicazioni della tensione e del riposo relativo alla consonanza, alla dissonanza, ai vari tipi di cadenza, al cromatismo; venuto meno il principio dell'emancipazione della dissonanza, con l'elemento tensionale mai risolto in primo piano, carico di altrettante implicazioni emozionali; venuta meno la reminiscenza onirica della tonalità che la pantonalità sempre si portava dietro; venuta meno l'attrattiva per l'intervallo nelle sue varietà frequenziali, timbrica e ritmicamente contestualizzata, proprie della composizione seriale, da un quarto di secolo ormai viviamo l'esperienza di una musica in cui il suono isolato o l'isolato aggregato di suoni colpisce l'orecchio, agitando, con la sua pregnanza biologica, il sottofondo della nostra psiche, sommergendoci in episodi nervosi che sembrano non lasciare alcun margine all'esperienza vissuta; la sua accettazione passa innanzi tutto attraverso il riconoscimento della sua inevitabilità come punto d'approdo della dissoluzione del sistema tonale e di metodi di comporre che successivamente tendevano al sistema, e come gradus alla conquista totale della pluriparametrizzazione del fenomeno sonoro. Questo riconoscimento, che per i più vecchi è storico, per i giovani fa parte del patrimonio genetico, ed è anche storico. Ci sia o meno mediazione concettuale, la musica d'oggi suscita sentimenti la cui difficile definibilità è soltanto direttamente proporzionale alla complessità dell'elemento scatenante: questa complessità è data dal fatto che esso ci investe non solo con le sue novità, ma anche con la sua storia. E sin tanto che la musica è essenzialmente intervallo, anche le più lontane relazioni tra strutture o cluster riconducono all'ascolto storico per le reminiscenze formali che destano.
Non deve nemmeno stupire se, o attraverso i testi o attraverso i titoli, le nuove composizioni cercano sempre di mettere sulla strada della comprensione gli ascoltatori. Questo fenomeno è andato accentuandosi negli ultimi tempi, perché anzi inizialmente ci si compiaceva di riesumare i nomi delle antiche forme se non addirittura di dare semplicemente definizioni come ‛composizione', ‛pezzo', ‛invenzione', e così via, con un numero d'ordine. Ma dopo questa prima fase, la nuova musica tende oggi a bruciare le tappe della sua stagione romantica più intensa, ricorrendo all'immagine del poema sinfonico: Inori o Sirius (Stockhausen), Parole da Beckett (Manzoni) stanno ai poemi straussiani nella stessa prospettiva di Density 21,5 rispetto a Syrinx. Nella sua assolutezza, la nuova musica si pone in relazione con l'ascoltatore coinvolgendolo nella meditazione, o nell'immaginazione cosmica, o nell'angoscia esistenziale, in un modo straordinariamente complesso ma anche straordinariamente semplice: preannunciando - con un titolo o con una illustrazione della tecnica compositiva che sostituisce in fondo, a ben vedere, il testo di Lenau sul programma di sala del Don Giovanni di Strauss - ciò che vuol essere. Il condizionamento dell'ascoltatore è così molto forte, e i suoi sentimenti, ancorché liberati da una qual certa predestinazione quale si aveva nella musica tonale, risultano notevolmente pilotati, più di quanto non lo fossero di fronte alle Variazioni op. 31 di Schönberg o a quelle op. 30 di Webern, e persino al Concerto per violino e orchestra di Berg. Il programma letterario di un tempo si è trasformato vuoi nella cronaca quotidiana, vuoi nell'indagine metafisica o nella nevrosi dell'intellettuale: nel titolo, nelle note esplicative che l'autore premette alla propria composizione, c'è un'indicazione precisa, liturgica, per le emozioni a venire. La suggestione, in queste musiche cosi pure e assolute, è alle volte più forte che nel balletto o nelle colonne sonore per film o azioni sceniche. Questa purezza e questa assolutezza di suoni, liberi da ogni alone semantico della vecchia musica, sono subornate dalla ritualistica con cui si estrinsecano e che è connaturale al loro grado di espressività e al grado di partecipazione di un ascolto non regredito. Ma con ciò l'autonomia della musica sembra sempre più problematica e l'aporia più che mai presente: il sentimento non può essere altro se non il sentimento del tempo, che è poi quello del nostro tempo, caratterizzato da rivoluzioni scientifiche, rigurgiti metafisici, sperimentalismo a oltranza e, parallelamente, un alto livello di alienazione per i più e di angoscia per i non addetti ai lavori: e l'autonomia è un postulato metodologico necessario né più né meno dell'oggettività.
5. Problemi sollevati dalla teoria dell'informazione
Il bisogno di oggettività ha condotto l'estetica a incontrarsi con la teoria dell'informazione. Una quantificazione di segni ai vari parametri della composizione musicale non è caratteristica di questo incontro: precedenti si trovano infatti nelle applicazioni di certi principI dell'estetica della misura di Birkoff (v., 1933) e negli studi di Speiser (v., 1952). Ma, alla luce della teoria dell'informazione, il discorso assume una certa sistematicità. Una composizione musicale, o le parti che in essa individuiamo, altro non è, o non sono, che messaggi, quindi un succedersi di segni che possono attraverso la quantificazione essere trattati con il calcolo. Il discorso, o meglio il decorso musicale, è analizzabile sotto il profilo del calcolo delle probabilità, che ne mette in luce un principio causale. I vari tipi di segni che compongono la semiografia musicale vengono piegati a un procedimento statistico tale da render possibile, in ogni singola opera d'arte, una visualizzazione del loro maggiore o minore addensamento. Ciò permetterebbe l'individuazione di caratteri stilistici, analogamente a quanto si è fatto anche con opere letterarie. I parametri musicali più facilmente quantificabili sono quelli di durata, altezza, intervallo e intensità. Il quantum probabilistico che un'informazione preannunciata da una successione si realizzi distingue di fatto una forma, detta ridondante, che, in apparenza superflua, dispone in realtà alla ricezione dell'informazione pura senza richiedere un eccessivo sforzo di attenzione. Tanto più l'informazione risulta pura quanto più la ridondanza è contenuta in un numero limitato di segni, perché diminuisce lo sforzo percettivo e la disponibilità alla ricezione del messaggio aumenta. Dal canto popolare alla musica colta, diatonica o cromatica, pur diminuendo proporzionalmente la selezione segnica, questa individuazione di una comodità dell'ascolto predisponente all'informazione pura è senz'altro sostenibile. Nella composizione seriale dodecafonica la situazione diviene contraddittoria. Teoricamente, una volta conosciuta la serie, l'informazione pura è in gran parte acquisita. In realtà i procedimenti canonici cui essa viene sottoposta e le variazioni ritmiche e agogiche sopprimono o quasi la forma ridondante. Solo un ascolto superficiale, infatti, può trasformare in ridondanza tutto quanto precede lo Scemà Israel nel Sopravvissuto di Varsavia o i primi tre movimenti del Concerto per violino e orchestra di Berg, proprio perché la conclusione delle due opere è tonale; ne consegue la necessità di adottare un punto di vista modificato.
Anche all'orecchio più assoluto la composizione seriale, sia pur quella dove la serializzazione è unicamente intervallare, giunge come successione casuale di suoni, mentre in realtà nulla in essa è stato lasciato al caso. Il principio strutturale dell'opera, non meno, anzi più rigoroso di quello che reggeva la composizione di un tempo di sonata o di un minuetto, risulta all'orecchio incomprensibile, e tuttavia ciò non reca alcun disturbo: la mancanza di una forma ridondante crea sì un sovraffaticamento dell'attenzione, ma la percezione, meno comoda, è già disposta a ordinare segni che nel susseguirsi delle cadenze tonali accettava in un ordine quasi prestabilito.
Questo stato di tensione psichica permette l'affiorare alla coscienza di contenuti espressivi evocati dalle strutture selezionate dall'ascolto. In questi casi l'apporto di informazione statisticamente quantificato è puramente teorico. Esso può gettare una luce su principi costruttivistici, e pertanto rientrare in un'estetica del comporre - e in tal senso si è mosso Xenakis con la sua musica stocastica - ma non attiene minimamente a un'estetica dell'ascolto. Eppure l'evoluzione musicale lascia supporre un adattamento dell'orecchio proprio grazie al supporto dell'ascolto storico, per cui una certa forma ridondante è vissuta anche nella musica priva di centri gravitazionali con la conseguenza di una ricezione di messaggio ben precisa, anche se estremamente soggettivizzata. E poiché nella zona centrale dello spazio sonoro che noi chiamiamo musicale, e che è in continua anche se moderata espansione, la possibilità di distinguere altezze e intensità si presenta nettamente maggiore che agli estremi, la quantificazione, ai vari parametri, in queste zone, può prefigurare aree di ridondanza e individuare certe strutture estreme come informazioni pure, o viceversa, in relazione al grado di pregnanza degli addensamenti o delle rarefazioni nell'opera o nella sua realizzazione, ove questa sia prevista a un altissimo grado di libertà.
Non si sfugge tuttavia all'impressione che gli attuali modelli basati sulla teoria dell'informazione siano inficiati dall'eccessivo scrupolo di consentire un'analisi strutturalistica della musica contemporanea, quasi che la perduta dimensione tonale disposta ad accogliere uno e un solo tipo di analisi stilistica e formale, quello strutturalista appunto, abbia declassato la musica a pura e casuale gestualità. Una preoccupazione di tal genere è con tutta evidenza fuori luogo: se la teoria dell'informazione può già costituire un elemento decisivo per lo studio della genesi, della causalità dell'opera d'arte, un traguardo straordinariamente importante è raggiunto. Decifrare i risultati delle sue quantificazioni, dei protocolli che ne scaturiscono, può essere compito di altre discipline, della neurofisiologia in primo luogo, e della psicologia.
Un problema di non minore importanza è quello dei rapporti diretti tra tecniche di composizione programmate con il calcolatore elettronico e teoria dell'informazione. Queste tecniche sono estremamente varie, ma hanno come nucleo comune il principio di scelta di un elemento determinato di una struttura musicale. L'elemento può far parte di quelli tradizionali, siano essi di tipo fisio-acustico - come altezza, intensità, timbro - oppure regole derivate dalle varie tecniche, e cioè elementi modali, armonici, dodecafonici, ecc. Questi elementi, una volta scelti, vengono associati a numeri casuali generati dal calcolatore che provvede a determinare una struttura rispondente alle esigenze predeterminate. Da questa struttura si deducono poi altre regole da utilizzare per altre strutture, e il materiale musicale risultante viene impiegato per costruire unità musicari o parte di esse. Questo procedimento è un'applicazione pratica della teoria dell'informazione in quanto attraverso il computer si crea un sistema di comunicazione molto ampio, dal quale si isolano poi le informazioni che si vogliono utilizzare.
6. Musica e psicologia
Una psicologia della musica esiste appena dagli inizi del secolo, ma in quanto distinta dalla psicologia del suono o dell'udito, da meno di mezzo secolo. Psicologia musicale è il titolo di un libro di M. Pilo (1903); con esso siamo ancora molto lontani dalla definizione precisa dell'oggetto che la psicologia studia. Quali siano i rapporti tra questa scienza eminentemente sperimentale e la musica come sistema armonico è problema che per la prima volta affronta E. Kurth, un non psicologo, e quando l'armonia è già entrata nei musei. Il rapporto tra musica e psicologia corre, malgrado l'apporto di Kurth, sempre sul filo dell'ambiguità. È estremamente difficile, infatti, non sconfinare nell'estetica musicale, anche per l'uso che quest'ultima fa appunto dei risultati della Gestaltpsychologie, ed è altrettanto difficile non fare dell'estetica musicale utilizzando soprattutto i risultati della psicologia dell'udito.
Una psicologia della musica non può essere invece altro che un aspetto della psicologia della cultura, e cioè di quel particolare universo culturale costituito dall'insieme di tutto quanto è sempre stato chiamato musica. Con la musica la psicologia entra quindi in rapporto in quanto scienza sperimentale indispensabile anche allo studio della sua storia. L'importanza di questa precisazione è ovvia, sebbene evidentemente avversata dai gestaltisti, e in maniera troppo equivoca sostenuta da varie correnti sociologiche.
Le origini più prossime del rapporto tra musica e psicologia vanno rintracciate in quel principio di comparazione che il positivismo suscitò in ogni campo delle scienze non formali, cioè sperimentali. Gli studi antropologici non potevano esimersi dall'affrontare l'attività creativa come elemento dell'etnia, e quindi anche la musica. Contrariamente a quanto si crede, l'etnomusicologia precedette la psicologia musicale, perché in effetti essa fece da collegamento tra la psicologia del suono e dell'udito e l'etnologia. A lato dunque di una prospettiva scientifica essa ha anche una prospettiva storica, alla cui utilizzazione però Kurth non dedicò nei suoi studi molta attenzione, perché la sua psicologia musicale, nel momento in cui gli serve per sondare in profondità l'arte di Wagner e soprattutto di Bruckner, si colloca già in una delle due dimensioni che più le sono peculiari. Il linguaggio di Kurth, sempre contestato dagli psicologi di tutte le tendenze per non essere quello della psicologia ufficiale, è in realtà tale da non consentire equivoci, almeno nel senso prima indicato. Per lui, i veri fatti musicali che la psicologia deve indagare sono la potenza, lo spazio, la materia, le forme relative ai fenomeni della materia sonora, cioè l'armonia; le forme relative ai fenomeni dello scorrere e del concatenarsi dei suoni, cioè la melodia con i suoi schemi ritmici e formali. Questi oggetti dell'indagine non sono correlabili, neppure terminologicamente, alla psicologia ufficiale. Infatti potenza, spazio, e materia sono parole usate in analogia con la fisica.
La materia della musica è il suono e il suo aggregarsi ; così essi entrano in un gioco di forze perché il suono ha, accanto a contenuti specifici, anche contenuti energetici. Si crea un campo gravitazionale dove si sviluppano delle pressioni reciproche. Queste forze energetiche sembrano costituire la componente soggettiva del suono e delle sue aggregazioni: deve trattarsi infatti di una nostra scelta, di un nostro potere, se, in un determinato disegno, mi diesis è fa o viceversa. Tutto si pone in una correlazione dinamica, per cui la più piccola modifica muta il quadro dell'insieme, le coordinate del quale non sono più solo temporali, ma spaziali. Esse non possono dedursi dalle dimensioni del suono, oggetto della psicologia dell'udito, e quindi lo spazio psicologico-musicale non è identico a quello psicologico sonoro; questo è una rappresentazione sonora dello spazio, l'altro un senso di spazialità: la spazialità è nell'espandersi di questo senso, e la stessa poca chiarezza del fenomeno è un momento essenziale del fenomeno stesso.
Le forme dei fenomeni della materia sonora, cioè l'armonia, sono essenzialmente effetti di contrasto, indagati prima nel bicordo, poi nella triade e nelle varie sovrapposizioni delle triadi. Il contesto di questa fenomenologia è quello della tonalità, e a esso vanno riportate le tensioni delle dissonanze, sentite come effetti di pressione o di pesantezza; la risoluzione è un centro gravitazionale in cui trovano sbocco e riposo le tendenze energetiche. E in questo contesto ovviamente viene indagata la funzione psicologica del basso. La pesantezza del basso è in realtà condizione della levità dell'accordo cui fa da fondamento. Il basso salta, non procede cioè quasi mai per grado congiunto, e in questo suo modo di muoversi provoca una sensazione di leggerezza che neutralizza il carattere massiccio dell'accordo posto sopra ogni sua nota. Questa leggerezza è componente essenziale della forza che trascina il movimento armonico e che risiede nella tensione della duplice sensibile verso l'alto e verso il basso. Poiché questa psicologia musicale si fonda principalmente sul modus operandi di Bruckner, allievo di Sechter, l'ambito armonico entro cui ci si muove è quello particolare della teoria della fondamentale. Kurth però intende la gravitazione alla tonica come conseguenza della fissazione mnemonica della fondamentale e l'accordo, considerato staticamente, e il timbro, come elementi in contrasto dotati di una colorazione analoga a quella ottica. Il colore dell'accordo è chiaro e luminoso nelle consonanze, mentre è percepito offuscato nelle dissonanze, in un'ambiguità cromatica che raggiunge la maggiore intensità negli accordi di settima rispettivamente di seconda, terza e quarta specie. L'orecchio assolve a un'attività interpretativa nel succedersi degli accordi modulanti, per dissipare le ambiguità; in questa attività interpretativa v'è un momento ordinatore che crea una visione d'insieme, e una visione spaziale. Ma poiché ciò che si ascolta viene percepito temporalmente, si crea un rapporto tensionale fra il percepito e questa visione d'insieme: in tale rapporto di tensione giace il principio della forma.
Movimento in musica sono per eccellenza le forme, la melodia e il ritmo. La forma è il macroritmo, ciò che unisce spazio e tempo, ciò che viene compreso in maniera unitaria. Queste due dimensioni impongono all'orecchio di seguire contemporaneamente due vie, quella che è chiamata curva parziale o momentanea dello sviluppo melodico e quella della concatenazione comprensiva. È evidente anche qui il peso del fattore memoria in quanto la sintesi delle curve di ascolto è possibile solo se la rappresentazione auditiva dei raggruppamenti minimi dello sviluppo melodico viene sempre tenuta presente. Tale sintesi è il collegamento dei punti di risalto che tendono normalmente ad avere un certo equilibrio. L'unità è assicurata dai motivi e dai temi, sulla base del principio ripetitivo.
Quando la ripetizione procede per opposizioni tematiche fonda l'omofonia classica, quando tende a collegare il tutto in un continuum fonda il contrappunto di tipo barocco.
Il ritmo, se s'intende come periodo di accenti, appesantisce ulteriormente la greve materia sonora. Proprio perché ha maggiore affinità con i fenomeni corporei, è in musica l'elemento che maggiormente sottolinea i caratteri dell'estensione e del movimento. Esso trae da sé forza per accrescersi creando macroritmi di gruppi metrici, con il risultato di determinare appunto le forme, mentre nell'estensione va perduta la sua originaria caratteristica primaria di accento. Gli effetti ritmici, nell'estensione formale, acquistano quindi quell'ambiguità che è propria anche degli effetti armonici - analogamente a quanto avviene in ottica - e che ne costituisce l'intrinseca bellezza. A. Wellek (1934) sviluppò l'impostazione di Kurth sull'esistenza di uno ‟spazio psicologico musicale" e di uno ‟spazio sonoro psicologico". Localizzare un suono nello spazio naturale è un'operazione psichica, perché è una prerogativa dell'orecchio e della psiche. Ma il suono ha un proprio spazio in quanto nelle sue proprietà vi sono elementi spaziali e spazio-temporali, anche se di dimensioni non misurabili. L'altezza del suono costituisce la sua dimensione verticale, quella orizzontale è data dal tempo spazialmente vissuto, mentre la profondità sembra determinata da certe proprietà timbriche.
Quando si ascolta musica, la spazialità viene vissuta in senso psicologico-musicale e solo in piccola parte nella dimensione sonora che le è propria; eppure questo spazio è solo della musica, è spazio nel sentimento della musica, in quanto musica, più precisamente in quanto musica assoluta. La musica è dunque insieme di spazi in scorrimento, architetture in movimento: l'ascolto costruisce queste architetture, ne delinea i successivi sviluppi e, sulla base dei presupposti mnemonici messi in evidenza da Kurth nella teoria delle curve di ascolto, prevede il costituirsi delle varie parti in figure di un insieme a sua volta preveduto.
Questa psicologia della musica ha l'invalicabile limite della tonalità. Essa è un risultato importante cui si è giunti principalmente attraverso i metodi introspettivi e di analisi fenomenologica, ma è irreparabilmente datata. Non se ne sono visti sviluppi relativi all'atonalismo, alla dodecafonia e alla nuova musica, proprio per la sua natura troppo fisiologico-fisica e ancora troppo poco psicologica. Neppure sembra possa dirsi costretta nella teoria della fondamentale, entro cui originariamente si mosse. Le funzioni di Riemann, ben lungi dal metterla in crisi, in un certo senso la consolidano nella sua riduttività. Il suo grande merito e valore sta nell'aver offerto allo storico, più che all'esteta, un insieme di strumenti per indagare i concetti di massa sonora, di dimensione spaziale sonora, di disposizione di massa in senso architettonico, mettendolo quindi in grado di affrontare il periodo immediatamente precedente la dissoluzione tonale alla luce degli ultimi tentativi per salvare e giustificare la tonalità. Se quei concetti possano adattarsi, almeno in parte, ad altre analisi, sia di opere anteriori che posteriori, è materia di oggi, da trattarsi con cautela per non incorrere in facili analogie.
La tipologia è più antica, in certo senso, della psicologia. Oggi tuttavia ne costituisce un aspetto. Nei primi decenni del XX secolo essa, e conseguentemente la caratterologia, hanno avuto un peso determinante per tutta la disciplina. La musica è entrata in rapporto anche con questo settore della psicologia e i risultati di questo incontro sono importanti.
La psicologia dell'udito non si occupa solo di come si ascolta, non solo dell'orecchio come organo percettivo, ma anche delle particolari inclinazioni dell'individuo a servirsi intellettivamente di tale organo e delle reali possibilità a soccorrere queste inclinazioni. Essa si occupa quindi anche dell'attitudine musicale e della musicalità dell'individuo, perciò deve chiamare in causa sia la psicologia attitudinale, sia, in parte, la psicologia clinica - dal momento che l'attitudine eccezionale è una devianza dalla norma - allo stesso modo che della psicologia clinica si servono caratterologia e tipologia per lo studio paradigmatico delle varie forme di pensiero.
La sinestesia è un'attitudine particolarissima, ed è stata oggetto d'indagini, sotto questo profilo, come duplice o molteplice attività percettiva. Si è così individuato un tipo che per lo più visualizza l'ascolto, in senso generale, e un tipo che, più particolarmente, lo visualizza in senso cromatico. Queste ricerche, che ebbero una curiosa applicazione nel Prometeo op. 60 di Skrjabin, sembrano non procedere molto oltre, quando giustificano la musica descrittiva come espressione della percezione sinestesica del compositore, o il colorismo armonico come creazione del tipo ‛cromatico' in senso oftalmico, del compositore, o quando si confinano in un puro sperimentalismo tentando di trasferire in impulsi sonori i tracciati degli encefalogrammi ottenuti in stato di percezione plurima o rigorosamente isolata. La sommarietà della ricerca sulla percezione sinestesica è chiaramente evidente nell'impossibilità obiettiva di procedere per grandi numeri dal momento che sarebbe necessario esdudere a priori dall'esperimento tutti coloro che a un esame encefalografico con attivazione presentassero la pur minima reazione comiziale.
Nello studio delle attitudini uditive, Wellek (1927-1930) ha dimostrato sperimentalmente e descritto tre tipi di orecchio assoluto, facendo anche ricorso al metodo statistico di correlazione. I tre tipi di orecchio assoluto vengono definiti il primo lineare, il secondo ciclico o polare, il terzo cromatico. Mentre quest'ultimo deve la sua denominazione all'attitudine sinestesica e, dal punto di vista musicale, risulta essere di un'importanza piuttosto modesta sia per i suoi risvolti patologici sia perché induce a pensare a fenomeni di compensazione (è infatti presente anche nei ciechi), il primo è lineare perché orientato verso certi aspetti del fenomeno sonoro, quali altezza, chiarezza, qualità della massa, correlati statisticamente a possibili errori di semitono; il secondo è ciclico o polare perché orientato verso la sonorità, l'insieme dei suoni, verso la percezione sincretica, in opposizione alla tendenza analitica del primo, con una correlazione statistica alla possibile confusione tra la quarta e la quinta. Mentre il lineare coglie affinità nei suoni vicini, il ciclico-polare sente simili i suoni lontani consonanti, che tende talora a confondere tra loro, e dissimili i suoni vicini. Questi risultati sono stati ribaditi da ricerche sull'orecchio relativo, anche se questo comporta metodologicamente un allargamento, in certo qual senso, delle caratteristiche dell'assoluto. Così, quando sbaglia, il relativo lineare tende a confondere gli intervalli di uguale grandezza, quello ciclico polare gli intervalli dello stesso colore, spesso anche diseguali: l'ottava con la quarta e con la quinta, e queste due tra loro, terza con sesta, tritono con settima. Nel primo caso è evidente che l'errore di semitono, statisticamente riscontrato come probabile nell'orecchio assoluto, può diventare errore di tono o anche maggiore, ma il rapporto resta costante; nel secondo la confusione, statisticamente riscontrata come possibile tra quarta e quinta nell'orecchio assoluto, si estende proprio sulla base delle affinità coloristiche. Ulteriori indagini hanno fatto supporre che queste differenze fossero legate alla provenienza geografica dei soggetti esaminati. Orientata in senso etnografico, la ricerca, condotta nell'area di lingua tedesca con criteri largo-superficiali, ha messo in evidenza che nel nord per due terzi si hanno tipi lineari, per un terzo ciclico-polari, nel centro-sud per due terzi ciclico-polari e per un terzo lineari. Questi risultati sembrano concordare con la distribuzione geografica dei tipi costituzionali di Kretzschmer e della teoria di Jaensch. Anche l'indagine su aspetti noti delle biografie e autobiografie di musicisti famosi tende ad avvalorare questi dati. Essa spiega soddisfacentemente, ad esempio, perché tanto Wagner quanto Bruckner, e persino Beethoven, ormai afflitto da avanzata sordità, abbiano sempre avuto bisogno del pianoforte per comporre: trattandosi di tipi ciclico-polari, e tutti e tre dell'area centromeridionale, erano soggetti a una regressione nella percezione della chiarezza e dell'altezza; occorrendo in realtà, per definire la linea melodica, la rappresentazione musicale della successione sonora di profili netti - ciò che il tipo lineare consegue facilmente - il ciclico-polare deve aiutarsi con lo strumento per chiarirsela: ‟il baricentro del fenomeno melodia, infatti, non sta nella linearità, ma nella sonorità" (v. Wellek, 1963).
Un'ulteriore prova del grado di validità di questa tipologia è data dalla tendenza, nelle scuole musicali dell'area mediterranea, a far precedere allo studio del contrappunto quello dell'armonia, per cui poi il contrappunto di scuola, subito collegato alla fuga e al doppio coro, non viene mai concepito nell'originaria orbita modale, ma obbligatoriamente in quella tonale, con parametri armonici che una volta accettati non possono più essere messi fra parentesi.
Anche se indubbiamente saranno necessarie altre conferme, applicando a lato di ulteriori ricerche largo-superficiali metodi d'indagine stretto-profondi, e un uso sistematico della sempre più raffinata analisi fattoriale, le conseguenze dello stato attuale di questi studi sono evidenti per quanto concerne la prassi dell'educazione musicale e sotto il profilo regionale e, nei limiti in cui le strutture scolastiche possono farvi fronte, anche individuale, essendovi pur sempre all'incirca un terzo, nell'uno o nell'altro caso, che deve essere trattato diversamente dalla media.
Questi della tipologia musicale sembrano i traguardi più avanzati raggiunti dalla psicologia della musica, anche se gli studiosi, salvo qualche eccezione, hanno considerato il sistema tonale come l'unico in grado di offrire uno spazio alla ricerca. Tutti gli altri aspetti, non solo secondari, delle loro ricerche, che qui non vengono neppure accennati, si muovono infatti entro quell'ambito. Probabilmente tale limite, comune a tutta la psicologia della musica, trae le sue origini da un atteggiamento di estrema prudenza scientifica dei ricercatori di fronte all'assoluta mancanza di teoria nella musica occidentale dall'atonalismo in poi. Le indicazioni che gli atonali, i dodecafonici e i postweberniani hanno di volta in volta dato sono in genere esplicative di un modo di esecuzione e non sistematizzabili in un corpus teorico: d'altronde questa è una delle maggiori rivendicazioni della nuova musica, che ha attaccato Schönberg anche perché aveva teorizzato troppo, generalizzandoli, certi principi della composizione seriale.
La psicologia della musica, da non confondersi con una psicologia del profondo che tenti l'interpretazione di certe opere, deve uscire da una posizione che, se si rivela ormai stabilmente acquisita nei suoi risultati per chi voglia affrontare la storia della musica, rimane nonpertanto anacronistica sul piano della ricerca pura ; e cioè deve, innanzi tutto, superare il pregiudizio secondo cui la tecnica di composizione classico-romantica è l'equivalente della musica, un pregiudizio oltretutto idealistico ed eurocentrico, e volgersi con maggiore sollecitudine da un lato all'indagine psicologica del ritmo, dall'altro all'individuazione delle nuove realtà gestaltiche, con i loro contenuti espressivi e di significato inevitabilmente storicizzati, che la musica sempre suscita ed esprime ; una musica che è un mondo nuovo in cui l'ignoto è già il noto a pochi e il non noto ai più, che tuttavia sono preparati a considerare e cielo e terra diversamente da trent'anni orsono, e la musica stessa con le sue radici scientifiche un'arte in grado di darci la dimensione siderale: un sentimento, questo, che non può confondersi con il sentimento cosmico, se così veniva chiamato quello del tempo in cui il cosmo significava l'inconoscibile.
7. Lineamenti di storia
R. Strauss e Cl. Debussy sono i nomi sui quali si apre fondamentalmente il Novecento. Altri compositori di grande valore, che hanno lasciato durevoli impronte o la cui attività spirituale per motivi diversi viene ancor oggi rivendicata dai contemporanei, appaiono come comprimari: Mahler è l'inattuale per definizione; Ravel, che oggettivamente rappresenta una regressione rispetto a Debussy ma anche un superamento della poetica di Fauré, sta appena raggiungendo una fisionomia autonoma; Schönberg lavora in sordina; Wolf ha un suo mondo e una sua storia che devono ancor oggi essere in gran parte capiti, spiegati e scritti; e comunque è ormai un sopravvissuto.
Le note ancora nell'aria della Sesta di Čajkovskij, i successi di Puccini, di Mascagni e di Giordano, il nascente astro di Sibelius, sembrano malgrado tutto non coprire l'eco e del Prélude à l'aprés-midi d'un faune e dei Trois nocturnes, e neppure degli ultimi poemi sinfonici di Strauss. È pur vero che l'addio al XIX secolo lo hanno dato anche Verklärte Nacht e Pavane pour une infante defunte; proprio in questo sommesso congedo si delineano però i caratteri di una tregua frutto di buona volontà, ma tanto più significativa in quanto il conflitto appare ormai inevitabile. Tuttavia non c'è chi non veda come i Trois nocturnes rappresentino un momento più avanzato, anche se in fase di esaurimento, della compassata lirica raveliana o delle reminiscenze bruckneriane e straussiane mal rinvigorite da cascami letterari nel sestetto schönberghiano. Una galante armonia sembra regnare ovunque, all'ombra della grandeur dell'esposizione universale: tale impressione è soprattutto avvalorata dalla convivenza di modi di esprimersi musicalmente assai lontani tra loro e che trovano accoglienza tra il pubblico e la critica senza preclusioni almeno allora significative. Questo non esclude naturalmente che alcuni arrivino ad affermarsi con maggiore difficoltà di altri, ma fischiate sono le sole opere di Schönberg.
La scomparsa prima di Wagner, poi di Bruckner e infine di Brahms ha creato una sorta di distensione, di bonarietà, quasi che le lacerazioni prodotte dalla guerra tra le varie fazioni musicali dell'ultimo quarto del secolo appena concluso siano state perfettamente e invisibilmente suturate. È un tratto comune a tutto il primo decennio, anche se proprio nel suo bel mezzo cade la nascita dell'espressionismo che ha immediatamente gran presa sui musicisti piu giovani e inquieti. Ma questo fenomeno, in tutta la sua importanza, risalterà soprattutto nel decennio successivo; per il momento è troppo limitato e i suoi valori più durevoli, il suo carattere di Sturm und Drang in musica vengono respinti dai critici e ignorati dai musicisti ufficiali affermati, con l'eccezione di Mahler, che nella sua Settima sinfonia dimostra di cogliere, contemporaneamente a Schönberg, ma forse alquanto diversamente, lo spirito del tempo; e di Strauss, che, con ben diversa prospettiva ma con grande acutezza, ne seleziona le manifestazioni più avvincenti nell'Elektra. Insomma, come spesso accade quando la superficie sembra straordinariamente tranquilla, si stanno avvicinando rumorose sorprese avvertibili solo se si sanno cogliere giustamente i segni premonitori. Ed essi non mancano, pur se, nella loro varietà appunto, quasi confermano l'impressione della pacifica convivenza di orientamenti e di stili, mentre in realtà sono l'espressione mimetizzata della disgregazione di un modo ancora classico di sentire la musica.
Tra comprensioni, reciproche cortesie e combinazioni di trust dello spettacolo, il primo decennio allinea con suprema indifferenza Tosca (1900), Madama Butterfly (1904) e Fanciulla del West (1910); Adriana Lecouvreur (1903); Louise (1900); Feuersnot (1901), Salome (1905) ed Elektra (1908); Pelléas et Mélisande (1902); Jenufa (1902); Erwartung (1909); L'oiseau de feu (1910). Non è un caso se solo Erwartung dovrà attendere 15 anni per essere rappresentata; ma anche a voler prescindere da questo fatto peraltro significativo e che configura comunque un fronte unico dei benpensanti contro il nascente romanticismo espressionista, verismo, naturalismo, antinaturalismo, anticlassicismo, neoclassicismo tranquillamente coesistono e prosperano. L'incredibile numero di repliche di queste opere, e di moltissime altre, scomparse poi senza lasciar traccia di sé, assieme alle rappresentazioni coreografiche allora di gran moda, sono indici di una prosperità del mercato artificialmente sostenuta e strettamente correlata alla visione di quell'egemonia culturale che l'Europa tende a dare di sè alle soglie della sua prima irreversibile crisi. Queste novità non spodestano tuttavia nè quel repertorio tradizionale per più di un verso in realtà da esse continuato, nè quelle dei suoi più vecchi rappresentanti: infatti siamo in presenza di un'epoca in cui Massenet e Rimskij Korsakov tengono ancora saldamente nei maggiori teatri del continente europeo e nordamericano le loro posizioni.
La precarietà della tregua è, con tutta evidenza, chiarita essenzialmente da Pelléas et Mélisande e da L'oiseau de feu. Anche se la mole del rispettivo bagaglio è molto diversa, anche se l'una rappresenta un momento di rottura barbara, mentre l'altra getta un ponte tra l'impressionismo francese e i preraffaelliti inglesi, con la sua sottolineata atemporalità del rifiuto cadenzale ‛storico' e con la chiamata in causa di un modalismo personalissimo; anche se le soluzioni proposte sembrano antitetiche - della massima rivalutazione ritmica quella stravinskiana, indubbiamente sfumata e di un impressionismo tanto ascetico da postulare il purismo quella debussiana - entrambe hanno in comune la ricerca di un nuovo senso dello spettacolo, il superamento del teatro ottocentesco, di contestazione del verismo. Le reminiscenze di lettura del Boris Godunov o anche di Wagner non portano mai a collegare il Pelléas et Mélisande a ciò che lo precede e alla contemporaneità, e la contiguità di Shéhérazade e de L'oiseau de feu nella creazione di Djagilev non fa che marcare quanto sia radicale la svolta.
Alla luce di queste due eccezioni, anche Strauss, anche Janàcek, che pur artisticamente emergono e si staccano dal conformismo generale, non rappresentano un nuovo teatro, si muovono nell'ambito della concezione ottocentesca del melodramma, come d'altronde tutta la successiva opera loro confermerà anche al di fuori del teatro. Le profonde suggestioni dell'Elektra, infatti, agiscono pur sempre nel campo del teatro tradizionale, e ne sottolineano, proprio nella contraddittorietà della forma di cui si alimentano, i limiti e la stanchezza.
Generalmente si è soliti indicare quest'epoca come quella in cui la dilatazione dell'orchestra segna il punto più acuto dell'epigonismo wagneriano e della sua conseguenza negativa. In effetti, dai Gurre-Lieder al Pelléas et Mélisande e ai Cinque pezzi per orchestra op. 16 schönberghiani, dalla Sinfonia domestica alla Ottava di Mahler, dal Poema dell'estasi alla Passacaglia e ai Sei pezzi per orchestra op. 6 di Webern, una certa ipertrofia dell'orchestra si mantiene costante. Sappiamo che tale fenomeno è uno dei temi preferiti d'indagine di una certa sociologia, più però del costume che della musica; indubbiamente un trionfalismo smisurato condizionava allora i gusti di una borghesia convinta di aver addomesticato tutto, e di poter quindi esibire senza pudori ma con fierezza la sua volgare origine mercantile; purtuttavia solleva qualche problema il fatto che negli stessi anni i Kindertotenlieder, Das Lied von der Erde, per non dire della Sinfonia da camera op. 9, abbiano fatto risaltare un trattamento ‛solistico' dello strumentale e una concezione cameristica dell'evoluzi one sinfonica.
Il panorama del sinfonismo di allora non si presenta in effetti molto diverso da quello del palcoscenico. Le aree sono maggiormente delimitate e perciò, tranne rare eccezioni, la musica sinfonica ha circuiti quasi esclusivamente nazionali.
Se il mondo tedesco, grazie all'attività cosmopolita di Strauss e di Mahler, si apre a quello francese e italiano, non altrettanto avviene per i maggiori paesi neolatini, dove si rimane fermi a Wagner. D'altronde, a ben guardare, gli interessi dell'area tedesco-asburgica per l'Italia e la Francia sono legati soprattutto al fenomeno del teatro verista, con l'inevitabile conseguenza di riproporre continuamente anche l'opera italiana e francese dell'Ottocento, nel quadro e per far risaltare i valori della Mozart-Renaissance. Gli incontri dei vari direttori d'orchestra ospiti a Vienna, a Lipsia, a Berlino, in queste occasioni, propiziano scambi con l'Italia e la Francia; l'attività quasi frenetica di alcune case editrici austriache e germaniche fece allora conoscere a gruppi per la verità non molto ampi di musicisti italiani e francesi quanto colà avveniva. Ma lo scambio fu limitato; Italia, Francia e i paesi di lingua tedesca rimasero mondi sostanzialmente estranei. Per quanto possa sembrare inverosimile, solo la megalomania imperiale del fascismo, grazie soprattutto alla circostanza che non inconsapevolmente ne approfittò A. Casella, un vero musicista, per tessere le fila di rapporti continuativi, consentì un minimo di sprovincializzazione dell'Italia nei confronti dei maggiori musicisti tedeschi del primo Novecento, e di quelli francesi. La Francia, che conobbe alcuni di essi solo durante l'occupazione nazista, si staccò soltanto nel secondo dopoguerra, grazie soprattutto a R. Leibowitz, O. Messiaen e P. Boulez, dalle sue posizioni di preoccupante chiusura.
Il primo decennio del secolo non apprezzò contributi italiani, ove si eccettuino forse le Impressioni dal vero di O. Fr. Malipiero. Ed è indiscutibile comunque che, morto Verdi, l'Italia abbia dovuto attendere un Dallapiccola, di formazione non certo italiana, per contare su una voce di risonanza internazionale, mentre nel frattempo i Francesi hanno avuto Debussy, Ravel, Satie, Poulenc, Honegger, Messiaen, per non parlare di Roussel, Dukas e altri, e i Russi espressero Skrjabin, Stravinskij, Prokof′ev e successivamente Šostakovič, e inoltre, sia pure in una dimensione tutt'affatto diversa, Rachmaninov. Per questo, Francia e Mitteleuropa sono i centri musicali dei primi decenni, ove troviamo anche Busoni, anche Bartók, anche altri grandi e meno grandi, eseguiti e conosciuti.
Il rapido declino dell'opera di Bruckner e l'indifferenza che circonda quella di Wolf è indice di un consumismo che è di fatto già imperante; nel dilagare di Beethoven, di Schumann e degli altri maestri dell'Ottocento, solo Strauss e, in minor misura, Mahler, riescono a tenere il passo. Si tratta in definitiva quindi di artisti già consolidati, con alle spalle i maggiori teatri e le rispettive filiazioni concerti stiche. La loro musica non trova ostacoli, ma quanto di vero riconoscimento e quanto semplicemente di stima vi sia nel successo di volta in volta decretato, lo diranno i decenni immediatamente successivi: dai quali apprendiamo che Mahler fu allora per viennesi, Tedeschi e Americani soprattutto il direttore dell'Opera di Vienna, mentre solo Strauss fu considerato l'erede della grande tradizione tedesca. Ciò si spiega anche con il fatto che questi consolidò oggettivamente la sua posizione esprimendosi tra il 1900 e il 1910, e più oltre, soprattutto in teatro, mentre Mahler batté strade meno comode, sposando, pur senza capirla fino in fondo, per sua stessa ammissione, la causa di Schönberg e dei suoi allievi. I suoi lasciti risaltano soprattutto in Berg, anche se Bartók e il migliore Šostakovič sottolineano l'originalità della via da lui percorsa, che non è solo quella sociologicamente recepita dell'uso trasfigurato dei materiali consunti, dell'espressività del banale, del ‛realismo socialista' sul quale ambiguamente gioca Adorno in un rapporto sadomasochista pieno di anticomunismo e di compiacimenti intellettualistici, ma quella dell'uso della variazione perpetua, della valorizzazione del contrappunto lineare, della polifonia, della strumentazione di tipo cameristico, non disdegnando, in Das Lied von der Erde e nell'Adagio della Nona, certi suggerimenti dell'impressionismo, andati poi sicuramente a costituire il patrimonio artistico di A. Berg.
Prodigioso è il salto dai Gurre-Lieder ai Cinque pezzi per orchestra op. 16; questa rapida evoluzione è nel compositore soprattutto consapevolezza della sorte ormai segnata della tonalità. Ma ancora più straordinaria la trasformazione di Webern, che dal dolciastro Im Sommerwind (1904) attraverso la brahmsiana Passacaglia op. 1(1908) approda ai grandissimi Sei pezzi per orchestra op. 6 del 1909, uno tra i maggiori capolavori di tutti i tempi. La grande stagione espressionista è iniziata, e ciò è ancor più chiaro nella cameristica che l'ha preparata negli anni centrali del decennio: la Sinfonia da camera op. 9, il Quartetto in fa diesis minore op. 10, i Tre pezzi per pianoforte op. 11 e i Fünfzehn Gedichte aus Das Buch der hängenden Garten op. 15 di Schönberg; la Sonata op. 1 e il Quartetto op. 3 di Berg, i Cinque movimenti per quartetto d'archi op. 5 di Webern. L'importanza di queste opere, insieme alle composizioni vocali dei tre nello stesso periodo sottolinea, con le Quattordici bagatelle di Bartók, un momento decisivo della musica del nostro secolo (v. espressionismo musicale).
Al di fuori del mondo tedesco, le composizioni per orchestra di maggiore importanza sono senza dubbio La mer di Debussy e Feu d'artifice di Stravinskij: la prima, matura elaborazione dei contenuti lirici e delle forme di uno dei Trois nocturnes: Sirénes; il secondo, un esempio dell'influsso del magistero di Debussy e di Rimskij-Korsakov sul giovane compositore. Mentre, tra le tante opere cameristiche, Debussy meglio forse si esprime in Children's corner, Ravel realizza in questo periodo cinque tra i suoi lavori maggiormente significativi (Jeux d'eau, 1901; Quartetto in fa, 1903; Sonatina per pianoforte, 1905; Gaspard de la nuit, 1908 e Ma mère l'oye, 1908). Se in Debussy Images e il primo libro dei preludi aiutano a individuare un certo orientamento neo-classicista, la via di Ravel, di rigorosa restaurazione e che nulla concede, si delinea nettamente nel distacco dalle sfumature, nel taglio chiaro di struttura clavicembalistica, tutto fondato su un'espressività che deve emergere dalla mancanza dell'espressività tradizionale. Sono gli anni della sua emancipazione dall'influenza di Debussy, quelli in cui la tentazione virtuosistica si fa più imperiosa, ma anche quelli in cui al ‛decadente' maestro viene lasciata la bandiera della musica francese più all'avanguardia.
A completare il quadro del primo decennio mancano tre compositori del mondo germanico: Pfitzner, Reger e Busoni. Mentre quest'ultimo si presenta su posizioni talora contraddittorie ma più spesso di rottura, pur nel recupero di una certa tradizione polifonica tardo-barocca come nella sua Fantasia contrappuntistica che già fa intravedere le successive indicazioni della Junge Klassizität -, Reger vive gli ultimi anni della sua interiore insanabile contraddizione che lo vede anacronistico erede di Bach con i mezzi espressivi di Liszt, e Pfitzner, riconosciuto anche dagli uomini dell'avanguardia, in particolare da Schönberg, come un maestro, non compone molto, indugia, forse nel tentativo di capire un'evoluzione le cui caratteristiche gli sfuggono, prima di decidersi per una scelta reazionaria senza ritorni e senza pentimenti: così tutti e due, sia pure per motivi diversi, rimangono patrimonio solo ed esclusivamente del mondo germanico.
Il secondo decennio non manifesta neppure in apparenza la sia pur fragile compattezza del primo. L'addensarsi della crisi politica e infine il suo scoppio sono vissuti nella Mitteleuropa attraverso una grande crisi morale, sia pure da un'esigua minoranza; questa circostanza spinge le avanguardie ad accelerare i tempi della completa rottura con l'ufficialità musicale.
La morte di Mahler aveva appena brutalmente lasciato nell'isolamento più assoluto Schönberg e i suoi allievi, quando un altro esponente di quella ufficialità, uno dei maggiori e affermati pianisti, cultore di Bach ed erede della tradizione non certo progressiva dei Virtuosen, F. Busoni, tentò di stabilire un collegamento con i seguaci dell'espressionismo musicale e del futurismo pittorico. La ristampa dell'Entwurf einer neuen Ästhetik der Tonkunst va vista in questa prospettiva. Quelle che nel 1907 potevano apparire tendenze ad astrazioni e a teorizzazioni sull'insufficienza del sistema tonale, vengono ribadite in concomitanza con la composizione della Sonatina seconda e della Fantasia contrappuntistica. Se la prima di queste due composizioni si colloca, almeno in parte, sulla linea dell'Entwurf; la seconda sembra essere, al di là dell'esaltazione del contrappunto di contro allo sfaldamento dell'ideale armonico, un atto di fede nella continuità e nel valore della tradizione, rettamente intesi. Chi si sforzasse di trovare, oltre a ciò, altri seri rapporti tra Busoni e Schönberg e la sua scuola, non coglierebbe uno degli aspetti più profondi della situazione agli inizi del secondo decennio: che è quella del disgregarsi del fronte dell'ufficialità e dell'oggettivo costruirsi di un fronte radicale nel quale confluiscono orientamenti a volte assai lontani o anche in contrasto tra loro, i cui sostenitori, però, tacitamente o meno, si appoggiano. Come la Fantasia contrappuntistica sta all'Entwurf così la Harmonielehre sta ai Sei pezzi per pianoforte op. 19: sono due modi di osservare e d'interpretare la fine di un mondo musicale e nello stesso tempo la manifestazione di una comune volontà di preservare dalla rovina quanto di meglio stabilisce la continuità di quest'arte. È interessante che in entrambi i casi comunque l'accento venga posto proprio sulla continuità: non c'è niente da demolire perché il mondo tonale è già morto; sono stati raccolti dei relitti, e un materiale prima limitato nelle sue possibilità d'impiego è oggi liberamente utilizzabile in tutta la sua pienezza. La carica di un'interiore espressività, prima costretta nella gabbia dell'innaturale formalismo, può erompere nel nuovo mondo della politonalità, il vero volto di un'epoca che manca completamente di ogni ordine ed è in crisi nei suoi basilari ordinamenti. Questo, seppure liberamente interpretato, è il punto di vista di alcuni capitoli fondamentali del Manuale d'armonia; Busoni vi affianca un'ipotesi razionalistica: per salvare la musica dallo stadio stancamente ripetitivo in cui giace occorre mirare più in alto, forse occorre mettere in discussione lo stesso sistema temperato concepito come il temporaneo compromesso che ha consentito a un'arte ancora giovanissima di sopravvivere e rafforzarsi. Si tratta di abbandonare l'ultima fase della preistoria della musica e di entrare finalmente nella storia. Mentre in Schönberg il nuovo materiale è trattato nella vecchia prospettiva, Busoni sembra più deciso nella sua rottura con il passato. Certamente il suo travaglio è meno profondo, ma la superficie raggiunta dal suo pensiero è più radicale. In realtà, egli partecipa dei mondi tedesco e latino, quest'ultimo percorso da un represso furore iconoclastico che trova la sua summa teorica nel manifesto di Russolo (1913); diversi i punti di partenza perché diverso è il sottofondo culturale, e quindi diversi i punti di approdo: però tutti e tre gli orientamenti si dispongono frontalmente contro l'altro mondo. Il superamento della forma, l'emancipazione della dissonanza, la concentrazione aforistica quale espressione più alta della profonda interiorità: ciò vuole essenzialmente Schönberg; rottura della forma, superamento del sistema temperato, supremazia assoluta della melodia in contrappunto libero per andare avanti, per mantenere il passo con le altre arti: ciò vuole Busoni; distruzione di ogni relitto, rifondazione della musica su nuove basi, nel culto della nuova civiltà industriale, sostanziale parità tra suono musicale e rumore, studiato nelle sue varie caratteristiche, per esprimere la verità del tempo che è quella della guerra, vera igiene del mondo, e di un superato modo di vivere e di pensare: ciò vuole Russolo. Ma diversità tanto enormi, posizioni tanto inconciliabili nella loro radice rispettivamente idealistica, pragmatica e positivistica, non impediscono di cogliere gli elementi comuni per quanto essi appaiano proprio quelli marginali, rimanendo nonpertanto i soli ad avere un valore oggettivo e quindi idoneo a far superare gli inevitabili suggelli, costrizioni e scomparse delle mode. Questi elementi comuni vanno ricercati nei mezzi, non nei fini, e sono: libera dissonanza, superamento del concetto di forma, analisi e valorizzazione del rumore. Le ultime sembrano essere una rivendicazione peculiare del solo futurismo, ma costituiscono pure un dato comune: basti pensare come lo Sprechgesang utilizzi in tutte le sue sfumature i rumori appartenenti alla terza e alla sesta delle categorie individuate da Russolo, e all'intervento sempre più marcato della batteria nell'orchestra, oltre naturalmente al già ormai acquisito impiego di strumenti a percussione inusuali sia da parte di Mahler sia di Strauss.
Sarà infine la strada indicata dal manifesto di Russolo, pur nella volgarità del suo vitalismo, ma proprio per la stretta interpretazione positivista della società capitalistica e delle relative possibilità di espressione, a risultare quella maestra; grazie anche alla concomitanza delle ricerche sperimentali che contemporaneamente presero avvio negli Stati Uniti con Cowell e successivamente con E. Varèse. Il futurismo non dette al mondo un musicista degno di questo nome, sicché oggi, tra tanto suo ciarpame, si salva solo una grande profezia per la musica, sia pure fondata al di fuori di ogni rigore scientifico in rapporto alla trattazione del suo oggetto; Busoni, in fondo un compagno di strada, ben presto sarebbe ripiegato su posizioni sostanzialmente moderate; l'espressionismo musicale è invece questo periodo e non divide con nessuno, quanto a risultati, il suo primato. Come percorse il suo itinerario è oggetto di trattazione specifica; ciò che lo accompagnò dentro e fuori dell'area tedesca meglio serve a fondare la sua inconfondibile natura romantica (v. espressionismo musicale).
Il problema è di linguaggio, e Schönberg e i suoi vogliono adeguare il linguaggio ai nuovi contenuti, perché di contenuti comunque si tratta; essi mettono in discussione un modo di esprimersi, non la necessità di esprimersi, che anzi diventa la loro sola e unica esperienza; non il linguaggio, ma la sua grammatica, quindi. Questo problema era stato sentito da altri, in primo luogo da Debussy, ma anche da Busoni e in un certo senso da Milhaud : la Scuola di Vienna è però caratterizzata, da un lato, dalla sua compattezza, rafforzatasi proprio nel momento in cui Schönberg va a Berlino, e che porta tutti e tre i suoi maggiori esponenti all'approdo dodecafonico, dall'altro dalla qualità dei risultati con cui condiziona mezzo secolo di musica, avendo in Webern uno dei maggiori maestri d'ogni tempo.
Già questo secondo decennio indica che la personalità di Stravinskij è l'unica a contrastare i tre viennesi, anche se il pubblico in balia di critici ottusi e conservatori accomuna tutto in una stessa condanna. Proprio Le sacre du printemps, come è ormai universalmente riconosciuto, più ancora che Petruška, segnerà il secondo itinerario della musica di quello stesso mezzo secolo, definendo i ruoli dei protagonisti.
Lungo tutto questo periodo, nel teatro, nell'opera, nel balletto viene sancito il progressivo tramonto del primato verista. Unica l'opera di Schönberg, Die glückliche Hand (1913), non viene rappresentata e dovrà aspettare undici anni prima di andare in scena. E opinione abbastanza comune che l'espressionismo musicale non sia però completamente assente dalle scene grazie a Der ferne Klang (1912) di Fr. Schreker. In realtà, al crescente successo di pubblico e di critica per Strauss, si contrappongono solo Le martyre de St. Sébastien (1911), Petruška (1911), Le sacre du printemps (1913), l'Histoire du soldat (1918) e il Pulcinella (1920). Si tratta, in ogni caso, di un teatro ancora fermo ai vecchi moduli, ove si escluda l'opera di Debussy, che rappresenta una sorta di legato rimasto senza eredi; anzi, Der Rosenkavalier (1911), Ariadne auf Naxos (1912) e Die Frau ohne Schatten (1919) sono chiaramente un portato della Mozart-Renaissance e precisano la scelta straussiana del facile successo. La maestria del compositore va incontro a un pubblico che non vuole pensare; sorretto da una raffinata librettistica, Strauss marcia sull'ordine, almeno per quanto riguarda il Cavaliere della rosa, delle centinaia di repliche, e ciò lo garantisce anche per il futuro. L'unico musicista che, limitatamente alla Germania, gli contende in qualche modo il primato in una parte importante della critica è H. Pfitzner con Palestrina (1917), opera di grande impegno morale, in cui la crisi dell'artista incapace di afferrare il nuovo ma risoluto a rinnovare la tradizione è profondamente sentita e artisticamente vissuta anche in senso autobiografico. Questa ‛leggenda musicale' suscitò un interesse profondo ma non largo e furono i critici a imporre, in definitiva, l'anno seguente, la rappresentazione di un'altra sua opera, Christelflein, scritta molti anni prima. Il ritorno d'interesse per Pfitzner sembra però essere in parte anche strumentale, in relazione cioè alla necessità di dare spazio al Futuristengefahr, un violento attacco da lui condotto contro l'Entwurf di Busoni, in realtà contro Schönberg e i suoi, a sostegno di un'ampia possibilità non ancora esaurita dell'armonia tradizionale. L'eredità dell'ultimo Mahler, che all'inizio del secolo aveva amato e diretto Die Rose vom Liebesgarten (1901), è presente nel Palestrina, ma volta, nella sua chiarezza, a un recupero modale che non è semplicemente una reminiscenza storica condizionata dal tema. E questo fatto, meglio d'ogni altra considerazione, spiega perché Pfitzner preferisca la tecnica offensiva del falso scopo: troppe cose ci sono ancora in comune tra lui, ad esempio, e Berg.
L'esser stato Pfitzner individuato come l'ultimo romantico sembra determinare ipso facto una valutazione dell'espressionismo e degli altri movimenti, sempre tra loro antitetici, ma sensibili ai problemi posti dall'esaurimento della tonalità, come generale reazione al romanticismo, anzi al tardo romanticismo, quasi che esso fosse l'equivalente della tonalità, seppure nella sua sempre maggiore accentuazione cromatica. Questo punto di vista è arbitrario. Il vero romanticismo musicale inizia non tanto là dove alcuni aspetti marginali della letteratura romantica vengono assunti, e neppure dove un'estetica dell'eteronomia chiaramente plasmata sull'Affektenlehre viene rimestata a sostegno della soluzione del problema sinfonico, come anche dell'ideale wagneriano, ma quando il sentimento dell'io, inevitabile conseguenza dell'operazione antropocentrica kantiana, non è più esplicabile, nelle condizioni di una società ormai evoluta industrialmente, con i mezzi espressivi rimasti sostanzialmente inalterati dai tempi di Bach: quando necessita, insomma, alle complessità dell'io e all'indeterminatezza delle sue profondità che da poco si stanno indagando, un linguaggio completamente diverso. Il romanticismo non tedesco di Mahler è appunto il preromanticismo musicale. In questa prospettiva meglio si comprendono anche le esigenze di Stravinskij, immerso a suo modo nello Sturm und Drang del primo Novecento, e quasi contemporaneamente a Schönberg ripiegato poi sull'ordine, incontrando, in questa sua restaurazione, Ravel, sempre estraneo a quelle suggestioni, e i Sei, che si dichiarano apertamente per la tonalità tradizionale e per un'estetica degli affetti.
Il periodo romantico di Stravinskij - e dell'espressionismo, del resto - si svolge nella decadenza, e in limiti di tempo altrettanto contenuti di quelli che, un secolo prima, avevano circoscritto il romanticismo letterario: d'altronde gli assalti e le tempeste non possono durare troppo a lungo.
Il veicolo di comunicazione è soprattutto il balletto che per sua stessa natura, facendo a meno della parola, sospende un rapporto atavico e costituisce già una contestazione del teatro tradizionale. E questo decennio può essere considerato l'epoca del balletto, non solo per Stravinskij, ma anche per Ravel con Daphnis et Chloé (1912) e La valse (1920); per de Falla con El sombrero de tres picos (1919); per Satie con Parade. Anche Il mandarino miracoloso, andato in scena più tardi, nel momento in cui l'espressionismo si affermò presso il pubblico, viene composto nel 1919. Due pezzi teatrali vanno inoltre ricordati per i loro contenuti violentemente polemici: Arlecchino o Le finestre (1917) per il suo antimilitarismo, e Das Nusch-Nuschi (1920) di Hindemith con i suoi pesanti riferimenti al Tristano; in entrambi i casi, sia pure su piani lontani, la ridicolizzazione del vecchio teatro melodrammatico è portata avanti radicalmente.
In modo diverso, quindi, dal decennio trascorso, i periodi che immediatamente precedono e seguono la grande guerra vedono sul palcoscenico chiari segni di rinnovamento, anche se da essi la forza della tradizione riesce tuttavia a escludere l'espressionismo come contestazione piu radicale del teatro tradizionale.
Un nome tra i tanti, al di fuori della cerchia espressionista, emerge nel campo della produzione sinfonica, quello di Prokof′ev. In quegli anni di fuoco compaiono, a breve distanza l'uno dall'altro, il primo Concerto per pianoforte e orchestra (1912), la Suite scita (1914), la Sinfonia classica (1917). Significativa la Suite, che sembra far proprio Stravinskij, anche se alle barbariche raffinatezze della Sagra sono preferite una vitalità sfrenata e una violenza armonica che fanno riflettere sulle caratteristiche del futurismo russo. Le tre composizioni sono emblematiche del carattere del compositore: la ricerca di un proprio linguaggio, ancora nel complesso mutuato da Strauss e da Skrjabin nel concerto, poi da Stravinskij appunto, sino alla liberazione da ogni influenza nella Sinfonia classica. Posto volutamente entro le forme settecentesche, il senso dell'umorismo dell'autore alla fine si coagula, definendo la complessa figura di un musicista che in quegli stessi anni due composizioni pianistiche hanno anche avvicinato all'espressionismo: Visions fugitives (1912) e Sarcasmes (1919).
Le opere della Scuola di Vienna vengono esaminate altrove (v. dodecafonia; v. espressionismo musicale); tuttavia anche in questa rapidissima rassegna del sinfonismo nel secondo decennio del XX secolo non si può non sottolineare come i suoi esponenti concludano l'esperienza atonale con grandi complessi orchestrali, appena prima e durante la guerra: Schönberg con l'opera 16 (1912), Berg con i Fünf Orchesterlieder nach Ansichtskartentexten von Peter Altenberg (1912) e i Tre pezzi per orchestra op. 6 (1914); Webern con i Cinque pezzi per orchestra op. 10 (1913): un sintomo che l'esigenza di un nuovo ordine già si profila, che l'irrazionalità, l'anarchismo, tutto ciò che confluisce nel fenomeno di cui essi furono artefici, vanno cedendo il posto, nella ricerca espressiva per complessi più ridotti, alla meditazione sulla condizione umana anziché alla sua denuncia.
Sull'opposto versante, Le tombeau de Couperin (1917) è un documento dell'orchestrazione raveliana, della capacità di Ravel di inserire in un contesto di sonorità moderne delicati riferimenti clavicembalistici. Non si sa se spetti più a Satie con Socrate (1918) o a Stravinskij con le Symphonies d'instruments à vent (1920) il primato di aver lanciato il vero manifesto del neoclassicismo. Le due composizioni sono di fondamentale importanza proprio per rendersi conto della duplice e spesso conftisa sostanza nascosta nel termine. Satie accompagna i testi di Platone con estrema umiltà, linee semplici e di sfondo che persino durante la morte di Socrate non deflettono dal proposito di essere solo discrete sottolineature. Quest'opera è l'altra faccia di Parade (1917), in cui divertissement e provocazione sono un momento necessario e quasi catartico di un ideale classicista profondamente sentito. Le Symphonies d'instruments à vent prospettano l'altra accezione del neoclassicismo. Già nel titolo gabrieliano e nella dedica alla memoria di Debussy e poi con il loro rigido contrappunto sottolineato da una timbrica disadorna, sono espressioni di un assolutismo sonoro che vuole rivivere in maniera culturalmente classica il passato. Molto più dei pezzi chiusi nella loro suprema indifferenza de l'Histoire du soldat, molto più di Pulcinella, dove l'ironia pergolesiana poteva anche presentarsi come mezzo di contrasto a meglio cogliere i furori ideologici del dopoguerra, le Symphonies anelano alla soluzione barocca, proseguono quel ricominciamento tutto personale della musica che porterà il loro autore a fare ogni possibile esperienza razionale alla ricerca di un totalitarismo sonoro trovato solo negli ultimi anni con l'approdo alla serialità weberniana, anch'essa sentita però come classicità archiviata. En blanc et noir (1915) reca sull'ultimo capriccio la dedica all'amico I. Stravinskij, ma proprio le Symphonies chiariscono semmai come l'allontanarsi dall'impressionismo da parte di Debussy tendesse a mostrare piuttosto nella soluzione di Satie i traguardi che il vecchio maestro avrebbe probabilmente raggiunto con ben altro mestiere.
Ove si eccettuino alcune composizioni di Ravel - tra cui Valses nobles et sentimentales e Trois poémes de Stéphane Mallarmé (1913) - e i Trois véritables préludes flasques (pour un chien) (1912), in cui Satie arriva, con mezzi di mai vista semplicità, a immagini poetiche molto toccanti, nonché le ultime composizioni di Debussy, la cameristica a cavallo della grande guerra è tutta espressionista, anche nella prima fase di autonoma maturazione di Bartók, come nell'Allegro barbaro del 1911.
Il periodo dal 1920 sino alla fine della seconda guerra mondiale, anche se decisamente contrassegnato dall'antitesi tra Scuola di Vienna e neoclassicismo, è dominato da quattro individualità che rimangono comunque i punti di riferimento più evidenti per comprendere la problematica di quegli anni: Stravinskij, Bartòk, Webern e Varèse. Attorno a questi nomi, quelli di altri grandi musicisti e di opere il cui valore non è più discusso; tuttavia la speranza frustrata, le indecisioni, lo sgomento di quel mondo, insieme all'altalenante volontà alla disposizione o alla rinuncia a comprenderlo, trovano soprattutto in loro il veicolo della comunicatività più immediata e pregnante. Tutti e quattro rappresentano insieme l'inevitabile punto di approdo dello Sturm und Drang del primo decennio e della crisi di maturazione del secondo: individualmente riverberano la duplice prospettiva fatta intravedere dalle due vie fondamentali apertesi alla musica agli inizi del secolo: la via della ricerca e della revisione del linguaggio musicale e dei suoi contenuti, partendo dalla tradizione popolare, prevalentemente contadina, e la via di una reinvenzione del linguaggio muovendo dalle esigenze dei nuovi contenuti.
La prima di queste strade ha tratto origine e dai Cinque e dall'acquisizione della musica extraeuropea iniziata da Debussy. Stravinskij è alla loro confluenza; dalla duplice origine però scaturisce una duplice prospettiva a non lunga distanza, dato il rapido esaurimento della suggestione melodica del materiale: o il ripercorrimento di un'evoluzione della musica oggettivamente vissuto, a partire dalle strutture ritmiche primordiali sino alle sue contemporanee manifestazioni, quasi una ricapitolazione del già vissuto della civiltà dell'Occidente, o la presa di coscienza che l'oggettività della fonte d'ispirazione può rifondare le forme e nello stesso tempo recuperare alla cultura e all'arte europea l'immagine di una tradizione subalterna in grado di contaminare beneficamente il patrimonio musicale acquisito. Ma la seconda prospettiva esige un atteggiamento di grande disponibilità soggettiva verso le classi subalterne e una consapevolezza, spesso sofferta, che quella stessa esperienza culturale da esse resa possibile è destinata ad altri, e ha quindi i caratteri, oggettivamente, dell'espropriazione. Stravinskij e Bartòk percorrono sino in fondo queste due strade in una lettura largo-superficiale delle tappe dell'evoluzione il primo, in una ricerca stretto-profonda sulle espressioni della sofferenza collettiva quale oggetto dell'arte il secondo. Il cosmopolitismo dell'uno contrasta straordinariamente con la rigida costituzione mitteleuropea dell'altro, per cui anche dove Bartòk sembra inevitabilmente colludere con la poetica stravinskijana (Divertimento per orchestra d'archi, 1939), è nell'invadente estroversione di Stravinskij che vanno trovate le cause di questo abbaglio. Mentre da Mavra (1922) a Jeu de cartes (1936), attraverso Les noces (1923), Oedipus rex (1927), Perséphone (1934), viene rifinendosi l'ideale neoclassico che raggiunge i vertici più alti nella classicistica parafrasi brahmsiana di Apollon musagéte (1928), nella Symphonie de psaumes (1930), in Dumbarton Oaks (1938) con i suoi recuperi formali bachiani, nella Sinfonia in do (1940) dove la rottura della concatenazione verticale fa pensare a un Debussy irretito negli schemi haydniani, nell'Ebony concerto (1945), in cui la componente jazzistica compare come ad aggiungere l'ultimo stilema mancante, Bartók arriva invece a racchiudere in espressioni straordinariamente accorate il grande dolore dell'Europa che tenta invano di resistere all'imbarbarimento, alla ferocia revanchista, allo sciovinismo delle classi dirigenti. Nulla è più falso e deviante del cosiddetto nazionalismo musicale con cui si è etichettata la sua arte: un profondo senso della propria terra, condizione indispensabile per comprendere e amare tutti gli uomini, in una solidaristica concezione della vita, risplende sempre nella sua opera, mettendo in evidenza talvolta componenti mistiche, quasi sublimazioni delle superstizioni popolari di fronte a ciò che non si è in grado di afferrare concettualmente, ma che si sente esistere dentro e fuori di sé - la più profonda radice della sofferenza come nei tempi lenti della Musica per archi, celesta e percussione (1935) e del Terzo concerto per pianoforte e orchestra (1945), talaltra una cupa disperazione costretta in affermazioni di fede volontaristiche, come nella Sonata per due pianoforti e percussione (1937), negli ultimi due Quartetti (1934-1939), nella Sonata per violino solo (1944). Mentre in Stravinskij l'evoluzione stilistica è, in un certo qual senso, virtualmente programmata, in Bartók il rispetto formale è uno dei termini del contrasto liberamente accettato, e rappresenta il polo statico della sua costruzione artistica. Questo spiega l'unicità dell'ungherese, la sua impossibilità di avere una vera scuola. Nella sua musica vive, con tutte le contraddizioni della sua provenienza di classe e della sua matrice culturale un grande impegno politico mai conclamato, perché autentico, e per ciò stesso mai riconosciuto.
Il convincimento secondo cui Webern, più di Schönberg e di Berg, chiarisce in termini europei la prospettiva aperta dall'altra via si fonda sul totale adeguamento da lui realizzato tra la sua poetica e la sua musica. Nella certezza che la musica è la natura con le sue leggi in rapporto al senso dell'udito, come si espresse in una lezione del 1932, egli persegue l'ideale di una decantazione, di una depurazione del suono, tale da render possibile un dispiegamento della natura nella sua molteplicità fenomenica proprio attraverso la scoperta delle leggi della produzione e della percepibilità del suono stesso. Questo suo credo estetico, sottaciuto e forse non ancora distinto nella fase più decisamente espressionista, trova nel metodo di comporre con dodici suoni non in relazione se non tra di loro la soluzione tanto cercata. Essa garantisce la sussistenza formale e permette la più ampia libertà possibile di ricerca.
Questa libertà non si deve esercitare al di fuori della forma, dal momento che la musica non è la natura in rapporto al senso dell'udito, ma la natura ‛con le sue leggi', e quindi le forme: una qualsiasi forma prescelta dal compositore è sempre un'interpretazione enunciata delle leggi da lui scoperte. La sua riconosciuta preferenza per gli intervalli di semitono, settima maggiore e nona minore, rivela anche la predisposizione naturale al contrappunto lineare, spezzato poi nella prassi puntilistica; diversamente da Berg, che lo accetta come corollario della tecnica seriale, ma sempre in funzione dei risultati verticali, e da Schönberg, presso il quale è sicura affermazione accanita di un principio costruttivistico. Il rigore di Webern nel perseguire la serializzazione sino a riproporre nelle Variazioni op. 30 (1943), radicalizzando l'esperienza del Concerto per nove strumenti op. 24, una cellula tematica formata da due intervalli, rispettivamente di semitono e di terza minore (perché la notazione indica che si tratta proprio di una terza minore e non di tre semitoni), che si ripete trasposta e viene subito ripresentata in trasposizione specularizzata; la sua coerenza nel far coincidere l'essenza della musica con il dispiegarsi delle possibilità combinatorie del contrappunto, fanno di lui l'artista che più di ogni altro in poche pagine ha saputo volgere lo stesso lungo sguardo struggente alla remota bellezza del passato e alla bellezza promessa di un futuro che non avrebbe vissuto. Mentre Berg ha consapevolmente interpretato il suo ruolo di sopravvissuto e Schönberg ha scontato nella dimensione morale, con l'esasperato individualismo mistico delle soluzioni proposte, l'extramusicalità della sua poetica e l'irrazionalità della sua rivolta, Webern si volge a Goethe e ne trae l'olimpica conclusione che ‟schweigt auch die Welt, aus Farben ist sie immer", in un'apoteosi del senso che si è definitivamente e per sempre liberato dalla vocazione edonistica.
Non ci è dato sapere con quale animo Varèse abbia guardato a quella tradizione europea nella quale pure si è formato. Egli è riuscito a distruggere tutto quanto ha deciso di non riconoscere come suo, perché non conforme alla poetica che si è dato, e cui è rimasto sempre sostanzialmente fedele. Essa annuncia che nella civiltà tecnologica la coscienza che l'uomo ha di sé e delle proprie possibilità quasi illimitate è all'origine del caos e della sovversione dei valori; dimenticarsi, dimenticare la coscienza di sé, riappropriarsi della scienza per scoprire l'ordine e la bellezza mimetizzate nel caos sono gli imperativi di chi vuole sfuggire alla realtà di fatto alienante per vivere la realtà vera. L'artista ha il compito di aiutare l'uomo a liberarsi della realtà quotidiana e a scoprire quella immutabile. Questa poetica fu il lascito più vistoso di Busoni, uno dei suoi maestri. Nel suo platonismo viene sottolineato, assieme a un ideale formale, il trasferimento della funzione maieutica all'artista. Forte di una simile prospettiva, la musica riacquista quella funzione catartica che dall'antichità ha sempre conservato, magari nella sua accezione terapeutica, presso i popoli primitivi; e poiché è compito del musicista aiutare l'uomo non solo a distruggere le illusioni, ma a scoprire l'ordine della natura, egli deve ‟scoprire attraverso un'attività della mente, dei nervi, del corpo e dei sensi l'ordine uditivo intrinseco della natura; ma deve essere anche scienziato in quanto la sua scoperta può emergere soltanto dalla conoscenza del modo con cui il suono si comporta" (v. Mellers, 1964; tr. it., p. 160). Se il fine di Varèse è vagamente morale, i problemi che egli si pone per conseguirlo sono quelli di Webern; ma egli, emigrando negli Stati Uniti, trovò un ambiente meno sovrastrutturato e contemporaneamente, sul piano delle contraddizioni, più coinvolto, per cui venne spinto a radicalizzare le soluzioni, soprattutto in conformità alla sua concezione, mutuata da Wronsky, secondo cui la musica è l'incarnazione dell'intelligenza nei suoni. La maieutica è un'arte ma, nella sua ritualistica, anche un atto di magia. Il chiarirsi del pensiero fu da taluni considerato un risultato magico, conseguenza di un esorcismo liberatore dalla concezione estetica della natura. Nella società dei feticci tecnologici, l'uomo ha perduto la ragione e può riconquistarla soltanto con un gesto volontaristico al quale sia guidato. La maieutica dell'artista deve quindi essere propiziata dall'atteggiamento di colui verso cui è esercitata.
La musica è dunque una creazione e dell'artista e dell'oggetto delle sue attenzioni. Poiché non c'è un pubblico passivo o un soggetto passivo cui comunicare qualche cosa, l'artista deve provocare reazioni, deve cioè far reagire concretamente chi gli si affida. La musica è nella concretezza ditali reazioni e la catena reattiva che si stabilisce è il suo contenuto. Da esso, con un processo analogo al fenomeno della cristallizzazione, si realizza la forma. Ne risulta che il principio non è quello dell'estensione dell'unità nel tempo, ma nello spazio. La dimensione spaziale sembra contrapporsi alla temporale proprio perché l'ordine e la bellezza sono al di fuori del tempo. Una realtà spaziale è quindi una realtà formale e l'approdo allo spazio, la neutralizzazione del tempo costituiscono le aporie della concezione musicale di Varèse. Alla spazialità si perviene attraverso l'aggregazione timbrica. Nella sua musica, Varèse assegna alla percussione a suono indeterminato e ad altri strumenti che fanno rumore essenzialmente la funzione ritmica, che contrasta, ma anche propizia, l'aggregazione timbrica. Suoni sibilanti, sirene, stridii che interrompono il ritmo per spezzarlo e per venire poi sopraffatti, costituiscono la preparazione della soluzione timbrica. Infatti, in Ionisation (1931) non è difficile cogliere la ritualistica della successione grande dispiegamento ritmico e sopraffazione rumoristica sottolineano una progressione temporale; con l'entrata degli strumenti a percussione a suono determinato si manifesta l'evento liberatorio e la gran massa di armonici ottenuta spesso con la tecnica del cluster blocca la progressione ritmica costringendola a una circolarità ripetitiva che tende a spegnersi. La determinazione delle altezze è secondaria, necessario invece il raggiungimento di suoni con altezze determinabili. Siamo in presenza di un unico materiale sonoro coincidente con tutto ciò che provoca rumore o suono, il cui comportamento, quindi, è oggetto dello studio dell'artista in quanto scienziato. La propensione di Varèse all'analisi si concretizza nell'esplorazione della produzione dei suoni assai più che delle loro facoltà. Le tecniche compositive del passato e certe sue antiche forme, come la passacaglia su cui si modella Arcana (1927) e come il fugato di Octandre (1924), vengono utilizzate inizialmente quali ambiti che circoscrivono l'area della ricerca. Questo primo atteggiamento verso le forme tradizionali sembra sottolinearne non tanto l'incongruenza, quanto la presunzione a una staticità spaziale nel contesto della progressione temporale. La vitalità del rumore è chiaramente postulata dal futurismo, noto al compositore prima della sua partenza dall'Europa anche attraverso il rapporto con Busoni; altre origini invece hanno la propensione all'analisi, e l'attenzione portata ai suoi caratteri liberatori dai feticci qui si oscilla tra psicologia del primitivo e suggestioni neopositivistiche. Ciò che la cultura mitteleuropea, ai suoi anni ancora decisiva nella determinazione delle correnti spirituali dell'epoca, gli ha trasmesso, sembra non potersi spingere oltre. Anche nella convinzione che bisogna tacere di ciò su cui non si può parlare. Venne così a trovarsi isolato, in un certo senso ancor più dei viennesi, e la certezza che mai uno solo avrebbe potuto esplorare tutta la materia sonora lo dissuase dal continuare a comporre, ma non dalla ricerca. Solo la possibilità dell'analisi del suono puro lo riportò alla composizione con mezzi elettronici.
Nello stesso momento in cui avveniva senza dubbio la gestazione della musica nuova, attorno alla grande solitudine di Varèse, gli Stati Uniti esibivano i fragorosi successi di G. Gershwin e di A. Copland, i due compositori che più si adoperarono per la creazione di un jazz sinfonico e per l'utilizzazione dei vari stili di questa musica (v. jazz) nella cosiddetta musica seria. Indipendentemente dalla valutazione dei risultati dei loro sforzi, è certo che questa operazione, anche per il modo in cui fu portata avanti, nasceva già morta per la musica: oggi al massimo può interessare in qualche misura il sociologo. Le armonie e i ritmi del jazz non aggiungevano nulla che non fosse già noto e superato, e davano semmai un tocco di colore prudentemente esotico fornendo soprattutto armi al discorso reazionario contro le conquiste dell'atonalità e della dodecafonia. D'altronde i pochi musicisti europei che portarono attenzione al fenomeno, in sé e nei suoi contesti senza dubbio importante, agirono proprio in quella prospettiva e gli equivoci risultati dei loro momentanei interessi non hanno avuto grande spazio.
Sempre nel periodo in questione si colloca quella che può essere definita l'epoca di maggior respiro del teatro musicale del nostro secolo; essa ha come protagonisti Schönberg e Berg, ma anche Ravel, Hindemith, Busoni e de Falla. Furono gli anni in cui si susseguirono El retablo de Maese Pedro e L'enfant et les sortileges, Cardillac e Mathis der Maler, Doktor Faust, Von heute auf morgen, Moses und Aron, Wozzeck e Lulu. È molto probabile che non si determinerà più una situazione analoga, con poetiche tanto diverse teatralmente proposte a sostanziare una tradizione, al preservamento della quale la stessa divisione della società in classi in non piccola parte concorre.
Dalla fine della seconda guerra mondiale ai nostri giorni si possono distinguere due periodi con caratteristiche abbastanza definite: il primo va dal 1946 al 1959, il secondo, con tutte le cautele imposte dalla circostanza della troppo stretta vicinanza nel tempo, non sembra concluso.
Non aveva ancora cessato di risuonare sull'Europa l'accorato stupefacente In memoriam delle ultime nove misure di Metamorphosen, poetica ineguagliabile meditazione sulla fine dell'‛arte bella' e dell'egemonia culturale che ne aveva perseguito gli ideali, allorché alcuni musicisti tedeschi si proposero di far conoscere la musica della quale l'ufficialità nazista aveva impedito ogni circolazione. Infatti, per quanto la Svizzera avesse tenuto aperta la porta anche all'entartete Kunst, non si conosceva nulla in Europa, e soprattutto in Germania, della produzione dodecafonica, specialmente dell'ultimo Webern, né di quanto era venuto maturando in Francia e negli Stati Uniti, con la sola eccezione forse di Stravinskij. Nacquero così nel 1946 i Darmstädter Ferienkurse, e non si sarebbe potuto supporre che il compito cui intendevano assolvere avrebbe conosciuto presto mutazioni tanto radicali. La loro stessa funzione divulgativa creò le premesse della trasformazione; essa si realizzò due anni dopo, quando Leibowitz da un lato e l'internazionalizzazione dei corsi dall'altro posero il problema in modo diverso. Ma se, grazie all'irruzione in terra germanica delle giovani leve musicali di tutto il mondo e alla capacità didattica di Leibowitz, la musica tedesca veniva reinserita in ambito mondiale, riscattando in tal modo anche la pesante ipoteca dell'oscurantismo nazista con i giudizi di valore pur sempre inevitabili sugli intellettuali e sugli artisti tedeschi - e le radio Bavarese, Assiana e Amburghese seppero cogliere prontamente la portata politica del fenomeno e fecero largo posto nei loro programmi e nelle loro orchestre alla musica fino allora ignorata in Germania -, la ragione per cui dai corsi di Darmstadt nacque l'internazionale della nuova musica va soprattutto cercata nell'accettazione della concezione seriale da parte della generazione precedente. Questa maturazione era avvenuta negli Stati Uniti, in Italia e in Francia sotto l'impulso d'interessi diversi. Mentre infatti è la sollecitazione alla ricerca scaturita dall'insegnamento di Schönberg e dalla problematica di Adorno ad accelerare l'apprendimento dei risultati dell'espressionismo e della dodecafonia tra l'emigrazione europea negli Stati Uniti e tra i giovani musicisti americani, è piuttosto evidente come l'esaltazione del credo cattolico, di fronte alla catastrofe vissuta quale conseguenza dell'affermarsi dell'ideale materialista, spinga tanto Messiaen quanto Dallapiccola alla rivalutazione quasi medievale dei simboli nascosti in un totale cromatico liberato dai legami della tonalità e vissuto nella sua dimensione seriale. La nuova musica è il risultato dell'incontro e del confronto fra queste due maturazioni, e insieme il riconoscimento che, in quanto coscienza generalizzata, la serialità schönberghiana è un fatto concluso. E lo era davvero, come sta soprattutto a indicare la conversione di Stravinskij. Cronologicamente essa si colloca proprio a lato della fase di ‛apprendistato' di Stockhausen e di Nono e nel pieno della fioritura di Boulez. Propiziata dalla dimestichezza con Craft, essa comincia gia a manifestarsi nell'inversione canonica della Sonata per due pianoforti e nel primo interludio dell'Orpheus, nella Cantata e nel Settimino. L'anno successivo alla sua composizione, cioè il 1954, Stravinskij utilizza nella parte cantata e nei canoni funebri di In memoriam Dylan Thomas una serie di cinque note, dimostrando cosi di considerare l'ultimo Webern come il punto di approdo della serialità. Il principio della serializzazione applicato da questi all'interno e come principio generativo della stessa serie fondamentale, soprattutto nelle opere 24 e 30, determina una nuova concezione del materiale che, nei fatti, si allontana da quella schönberghiana. Ma l'ideale di Stravinskij è sempre il recupero, sia pure vissuto come sistematizzazione, del classico. Vanno qui cercate le ragioni per cui, partendo dalle composizioni di Webern, egli ripercorre a ritroso l'iter della scuola viennese e nel Canticum sacrum ad honorem Sancti Marci nominis fa liberamente coesistere i suoi punti di partenza e di arrivo. Con caratteristiche timbriche non molto lontane da quelle delle Sinfonie per strumenti a fiato composte 35 anni prima, con l'abilità nella trattazione della serie, con le sue suggestioni sonore, il Canticum costituisce un riconoscimento e un'apoteosi dell'avvenuta convergenza tra le due vie della musica della prima metà del secolo: ma si è pur sempre in presenza di una sintesi ostinata nella prospettiva neoclassica. Il dato di fondo rimane comunque la convinzione di Stravinskij che è ormai impossibile far musica, dopo Webern, in un ambito pandiatonico, perché la concezione seriale è una nuova reale strutturazione del campo sonoro.
Può apparire riduttiva l'affermazione di P. Evans che ‟il nuovo serialismo si basò, per un verso, sui principi schönberghiani in particolare filtrati attraverso l'esperienza weberniana e per l'altro sulla concezione esotica del tempo musicale appena introdotta in Europa da Messiaen" (v. Evans, 1974; tr. it., pp 404-405), in quanto limitativa alle sole tecniche di partenza; tuttavia il ruolo di Messiaen è decisivo, avendo egli creato le premesse di un ulteriore allargamento della serialità. Ciò avvenne in due direzioni: innanzi tutto attraverso la dimostrazione che la serie è raggiungibile con la trasponibilità limitata dei modi di cui egli si serve ed è quindi, più che un principio costruttivistico, lo schema del principio generativo a posteriori; in secondo luogo attraverso la predeterminazione di un numero di parametri non propriamente relativi al suono, ma alla sua produzione, realizzata soprattutto per altezza, durata, attacco e dinamica in Mode de valeurs et d'intensités del 1949. Indipendentemente dalle valutazioni che possono essere date della sua opera, la quale procura assai più piacere all'analisi che all'ascolto, Messiaen, maestro di Boulez e di Stockhausen e insegnante a Darmstadt, è uno dei due padri della nuova musica; l'altro, ancora più discretamente e ancor meno riconosciuto, è Varèse.
Webern fu l'esempio da seguire. Il suo superamento della tematizzazione della serie conferì alla stessa quasi un'autonomia di creazione formale prima insospettata, perché sopporta la sua scomposizione in cellule che sono sì comunque ‛tematiche', ma più in senso generativo che costruttivistico. Egli inoltre aveva sviluppato, proprio su questa base, il principio schönberghiano della variazione perpetua, per cui effettivamente ogni possibile avventura veniva resa lecita. Non voleva esattamente dire ciò Boulez quando constatava nel 1952 che Schönberg era già morto da un pezzo; ma, tranne forse per L. Nono, si tratta comunque di una convinzione generale: a Schönberg si doveva guardare ormai con occhio ‛storico'. Che proprio Boulez però osasse proclamarlo, è significativo almeno per due ragioni: primo perché l'insegnamento di Messiaen aveva creato le premesse per considerare la serie qualche cosa di molto diverso da un semplice principio ordinatore, quale si presentò a Schönberg dopo l'esperienza atonale; secondo, perché Boulez aveva già raggiunto con Polyphonie X, con la Seconda sonata e con Structures per due pianoforti, una riconosciuta posizione di leader della nuova musica. Il suo apporto, in realtà, è prevalentemente di ordine teorico, e questo in una giusta prospettiva rende maggior merito a quelli che arrivarono dopo, ma studiarono il suono piuttosto empiricamente e meno razionalisticamente. Malgrado le sue tavole di permutazione che partendo dalle altezze serializzate si estendono anche agli altri parametri, malgrado l'ingegnosità delle soluzioni strumentali, solo poche opere sembrano resistere al tempo. Probabilmente l'aleatorietà controllata della Terza sonata voleva creare le condizioni per far uscire la sua musica da quella staticità cui sembra condannarsi: il totalitari smo - Boulez stesso ha impiegato questa parola per la sua musica - quale emerge nella predeterminazione del materiale condiziona tuttavia ogni libertà esecutiva e non risolve il problema. Il limite del razionalismo, in cui tutto è già risolto, è proprio in ciò: non ammettere altro da un'adesione perfettamente inutile. E Boulez cessò di essere un punto di riferimento, diversamente da quanto accadde a L. Nono e a K. H. Stockhausen.
L. Nono è, indipendentemente dalla circostanza di accettarsi tale, l'erede storico di Dallapiccola. Mossosi da posizioni schönberghiane, nel senso della problematica espressionisticamente rivissuta, fu soprattutto colpito dalla Kiangfarbenmelodie e dallo Sprechgesang, cioè dalle possibilità della voce impiegata in funzione timbrica ed insieme espressiva, e da quelle della dinamica timbrica. È evidente come si tratti in fondo di una predisposizione al colore, alla visualizzazione dei contenuti: non per niente è un veneziano e uno studioso dell'arte veneziana, con tutte le implicazioni culturali che questo comporta. Egli ha trattato il materiale originariamente dodecafonico in maniera sempre più libera, nell'ambito però di certe scelte che tendono a rimanere costanti. Ha operato in genere con due serie, una di suoni e una di durate; la prima è composta d'intervalli e viene derivata per i numeri dispari dalla metà discendente, per i pari dalla metà ascendente di una scala cromatica, per essere poi utilizzata nella forma scelta senza ricorso ai trattamenti canonici codificati, ma tollerando al suo interno permutazioni che vanno a costituire nuove serie. Questo materiale è inizialmente elaborato in maniera abbastanza analoga al modo con cui Messiaen preparava il suo all'interno del modo prescelto, partendo dalle due note centrali. La serie delle durate è determinata da numeri. La successione delle durate si risolve in una metrica estremamente libera sulla quale vengono poi stabilite le posizioni dei suoni e il loro ambito di registro. Si può avere anche una combinazione delle due disposizioni prima dell'ultima operazione. Tale predeterminazione consente al materiale di stratificarsi per successione dando il senso della crescita; non sembra però che in un simile processo vi siano molte possibilità d'intervento. La realizzazione del piano quindi sembra subordinare il resto, per cui la musica di Nono deve soprattutto esprimersi in questa coerenza ascetica. A essa sottostà il trattamento della voce umana e del testo sul quale si articola; il testo è frantumato nel modo più radicale, anche nei suoi più piccoli membri proprio perché viene calato nella forma risultante dalle varie stratificazioni: così anche una singola parola è smembrata, e le sillabe o i fonemi possono rimbalzare da una voce all'altra, da un registro a un altro, ricomponendosi, secondo Nono, alla fine nella parola che riceve una maggiore carica espressiva. Effetti molto suggestivi vengono ottenuti con queste tecniche e sono particolarmente prediletti dal compositore sempre meglio in grado di padroneggiarle e di affinarle.
Nella frantumazione della continuità idiomatica si trova proprio una delle inevitabili conseguenze del preordinamento del materiale. Ciò non vale solo per la parola, ma per la musica stessa intesa come comunicazione, linguaggio. La combinazione dei vari elementi, nella serializzazione pluriparametrica predeterminata, è per il compositore essenzialmente libera, fatte salve le regole del gioco da lui stesso fissate; la fruizione di questa musica è in definitiva una partecipazione al gioco limitata solo a chi ne accetti le regole; ma chi le accetta deve essere in grado di conoscerle, di capirle, di cogliere se esse vengano davvero scrupolosamente osservate. È evidente allora come la frantumazione della componente linguistica predetermini a sua volta rigorosamente il quadro sociale entro cui questa musica deve essere fruita, e tale circostanza crea non poche difficoltà all'impegno politico che si cerca talora di farle assolvere. Una comprensibilità tanto circoscritta vuol essere infatti alle volte mistificata come una democratizzazione della musica, richiamandosi alla comprensibilità dell'assunto contenuto nel suo titolo o nel manifesto con cui è lanciata l'attenzione o l'emozione di un vasto pubblico. L'affermazione di U. Siegele, secondo cui nel procedimento stesso del preordinamento del materiale - con riferimento a Boulez, ma il discorso è evidentemente generalizzabile - c'è una rottura sostanziale con le tradizioni della musica borghese è vera soltanto se al termine ‛borghese' si dia una connotazione temporale e non di classe, oppure, paradossalmente, solo nel senso che la borghesia ha oggi buttato a mare con la bandiera delle libertà democratiche anche le proprie democratiche tradizioni, tra cui quella di far partecipi del suo modo di sentire e vedere il mondo il maggior numero possibile di persone.
K. H. Stockhausen sembra non essere mai stato sfiorato da questi problemi. Autodefinitosi un metafisico, si è addentrato nei campi della fonetica, della teoria dell'informazione e dell'elettroacustica con una disposizione alla ricerca alquanto corrispondente all'opinione che ha di sé. Caratteristica principale della sua posizione nei confronti della serialità è che essa verte sulle relazioni e sulle proporzioni, per cui alla base del comporre stanno le costellazioni intervallari. Mentre Boulez arriva alla parificazione statistica di tutti i semitoni attraverso la tecnica delle tabelle di permutazione, Stockhausen ha raggiunto la parificazione statistica degli intervalli attraverso la permutazione delle proporzioni. Si suol definire questo atteggiamento pantematico in contrapposizione all'altro, pancromatico, tendente a organizzare la composizione in base al numero degli elementi e alla loro posizione, sino al punto oltre il quale non è possibile procedere. L'atteggiamento pantematico concepisce l'organizzazione fondata sulle relazioni che si stabiliscono tra gli elementi e sulle loro proporzioni, e ciò permette di andare avanti all'infinito perché le proporzioni tra i vari elementi rimandano ad altre proporzioni e così via. Da questo continuo stabilirsi di rapporti scaturisce una tendenza centrifuga, possibile a contenersi solo se viene stabilito un principio unitario che non privilegi alcun parametro rispetto agli altri. Questo principio è l'unità del tempo musicale. Il problema posto praticamente nei Klavierstücke I-IV del 1954 può essere così formulato: la serializzazione pluriparametrica crea situazioni assolutamente nuove risolvibili sul piano della scrittura ma non altrettanto relativamente all'eseguibilità.
C'è quindi conflitto tra ciò che si vuol dire e la possibilità della mediazione esecutiva. Dinamiche assolutamente diverse e simultanee sono il risultato del superamento del concetto di eseguibilità: ma così si crea un altro problema. Zeitmasse (1956) e Gruppen (1957) non esigono per la loro realizzazione che i vari esecutori seguano un criterio unico, in quanto le difficoltà ritmiche e dinamiche vanno risolte in un ambito di tolleranza della deviazione dalla precisione assoluta. ‛Quanto più svelto possibile' e ‛quanto più lentamente possibile' sono indicazioni aperte però a una certa sintonizzazione con la volontà del compositore. Ciò rientra nella teoria dei campi temporali con cui il procedimento lineare viene completamente liberato dalla verticalità che lo condizionava sin dal XIV secolo. Stockhausen giunge dal pianoforte al piccolo gruppo strumentale e successivamente con Gruppen alla grande orchestra; poi, solo dopo queste esperienze, scrive il saggio Wie die Zeit vergeht. Concepito il totale cromatico come una successione d'incrementi, egli ha determinato delle fasi fondamentali stabilendo un'equivalenza tra tempo e altezze cromatiche che ha trattato serialmente; un'analoga operazione ha compiuto con gli elementi ritmici e gli armonici di ogni singola nota della serie. Si è così in presenza di un allargamento dell'area timbrica. Un simile metodo di comporre è possibile solo nell'ambito di una serie cromatica abbastanza ridotta, anche perché ovviamente un'operazione del genere deve seguire certi principi di economia. Il segmento cromatico di Stockhausen, generalmente una quarta giusta o un tritono, va a costituire la banda di frequenza a sua volta serializzata e sulla quale, prendendo per base la fase fondamentale, vengono costituiti i formanti. Questa concezione parte dal presupposto che i rapporti temporali sono nelle grandi strutture i riflessi della loro presenza nelle microstrutture. Non si sa bene quanto neoplatonismo cusaniano, sia pure rovesciato, sia stato qui sollecitato da o abbia finito per approdare alla teoria del macroritmo di Kurth - perché sempre la predisposizione scientifica di Stockhausen sembra derivare dall'alchimia; certo è comunque presente la rivendicazione metafisica.
L'altro grande problema affrontato dal tedesco e strettamente correlato agli altri è quello della spazialità. Praticamente presente nel Gesang der Jünglinge (1956), composizione elettronica, viene esteso alla grande orchestra di Gruppen, con i suoi 109 esecutori dislocati in tre sezioni orchestrali, di cui ognuna ha il suo direttore e il suo posto.
Il reale punto di partenza probabilmente è da ricercarsi nella consapevolezza che la pluriparametrizzazione della serie determina difficoltà di ascolto, causate soprattutto dalla stratificazione, tali da indurre il compositore a cercare di dare una chance all'ascoltatore per afferrare l'unità dell'opera, proponendogli di scegliere la fonte sonora che preferisce per cercare di cogliere i particolari di quel decorso, ovvero di lasciarsi andare a una situazione musicale più vasta accettando di farsi sommergere all'interno del suo spazio. Le radici di questo problema non sono per nulla metafisiche, perché è sostanzialmente ispirato dalle esperienze elettroacustiche, stereofoniche, delle camere d'eco e di riverberazione e di tutto quanto attiene alla pratica dei laboratori fonologici; analogamente, per quanto affascinanti possano essere le varie teorie sulla nascita dei cori battenti, resta sempre il fatto che a San Marco c'erano due organi, in condizioni spaziali e di acustica ideali per provare a creare qualcosa di nuovo. Tuttavia è chiaro il carattere spettacolare di una musica concepita per lo spazio e la sua suggestività in relazione anche ai problemi morali e alle curiosità scientifiche create dall'astronautica. L'utilizzazione simultanea di suoni strumentali e di suoni elettronici rappresenta l'ultima fase del primo periodo, attorno al 1958, di Darmstadt, dove già da due anni si eseguivano composizioni elettroniche e da sei le musiche concrete di Henry e di Schaeffer. Ma nel 1954 a Parigi Scherchen aveva diretto Déserts di Varèse, per strumenti a fiato, pianoforte, percussione e suoni elettronici, su due nastri magnetici, emessi attraverso due canali per mezzo di un sistema stereofonico.
Questo precedente può chiarire un equivoco di fondo che è sorto dai Ferienkurse di Darmstadt del 1959. In quell'anno l'internazionale della nuova musica si sfasciò, ben presto rinascendo come scuola di Stockhausen e di Kagel. Si volle vedere nella conferenza di Nono Presenza storica nella musica oggi il suggello a una rottura già avvenuta e, alla luce di questa interpretazione, individuare nell'impegno o nel disimpegno politico del musicista e della sua musica la sua causa più profonda e antica. Il giudizio è sbrigativo e porta automaticamente a fissare lo sguardo sugli anni 1954 e 1958, cioè sulle due visite di Cage a Darmstadt. Probabilmente l'importanza di Cage nella musica del nostro secolo è molto grande, ma fintanto che non si sarà data di questa importanza una spiegazione al di là della so- ciologia o della pura descrizione delle tecniche da lui presentate, più di un dubbio è lecito. Cage fu per tutti l'occasione di uscire da un equivoco e, contro l'aspettativa generale, anche di crearne uno ben maggiore. La sua poetica, sostanzialmente un insieme di banalità neodadaiste, propose nell'operosa e diligente comunità musicale dell'Assia i ‛nuovissimi' problemi della libertà dell'artista nella società contemporanea, presentandosi, volente o nolente, come espressione teorica di un'esigenza tutta americana. Non vi fu bisogno d'altro per dar fuoco alle polveri: tutti o quasi si accorsero di essere prigionieri di tutto e di tutti, del loro modo di comporre, degli altrui modi di comporre, delle ferree leggi del preordinamento del materiale, ma soprattutto di una concezione solidaristica soffocante, che tollerava troppe diversità in nome dell'avvenire della nuova musica.
Sull'altare della solidarietà a oltranza s'erano formulati i dogmi, primo fra tutti quello della serialità. Esso enuncia che la logica di una composizione giace nel preordinamento scientifico oggettivato del materiale. Sul dogma ovviamente non si era mai discusso; in realtà Nono, Boulez e Stockhausen avevano operato in modo tutt'affatto diverso l'uno dall'altro. Teoricamente dunque il dogma avrebbe potuto continuare a sussistere senza far danno. Si volle invece proclamarlo distrutto per liberare tendenze emerse attorno ai tre capiscuola, di fatto ormai ridotti a due, Nono e Stockhausen, l'uno politicamente impegnato, l'altro no. Ma questo era l'aspetto più appassionante della diversità per il pubblico, e non fu quindi possibile deluderlo dal momento cbe su tale problematica poteva finalmente capirci qualche cosa. In verità ormai nella coscienza dei musicisti e dei seguaci della nuova musica essa era una grande realtà, e poteva fare benissimo a meno di un fronte unico a sua difesa. Cage viene usato allora come un agente provocatore di cui sfruttare i servizi: e questo dall'una e dall'altra parte. Tutto il problema azione-notazione, che ha acutizzato la polemica sull'alea attorno al 1959-1960, è irrilevante, in quanto già risolto prima, al tempo di Klavierstück XI. La liberazione dal procedimento per tendere al risultato non avviene nell'orbita di Cage, ma trae le sue più profonde suggestioni da Varèse; e infatti il nuovo pragmatismo non è il silenzio, come ci si dovrebbe attendere da una corretta interpretazione della mistica cageana. Si sono avute, è vero, esibizioni da cabaret, con strumenti non suonati, e una gestualità più o meno sfrenata, ma si è trattato di una breve stagione. Poi, caduta l'alea, è uscito fuori il vero protagonista della crisi del 1959: il rumore.
Déserts è stata un'opera pressoché ignorata, quantunque si tratti di una delle maggiori realizzazioni della seconda metà del secolo. La tecnica della sovrapposizione e della contrapposizione dei suoni elettronici e di quelli strumentali, l'uso della voce, le tensioni emergenti da queste contrapposizioni e non più dagli intervalli, tutto contribuisce a dare la sensazione di che cosa voglia significare oggi ‛a misura d'uomo': se ancora l'uomo possa sperare d'essere misura di un qualche cosa. Le rigidità di Ionisation sono state superate, superati i troppo facili determinismi di quella poetica. Essa rimane, ma calata in una problematica esistenziale nel tempo in cui i deserti, come nel Canto della terra, si sono sostituiti ai giardini dell'anima.
Varèse ha detto di non avere mai scritto musica sperimentale; i suoi esperimenti precedevano sempre le sue composizioni ed esse erano un modo di costringere l'ascoltatore a fare esperimenti: l'alienazione raggiunge un tale grado che all'arte maieutica si sostituisce quasi una forma di psico-ergoterapia. Su Déserts egli scrisse: ‟Ho sempre considerato il mondo industriale come una ricca fonte di suoni bellissimi, una miniera inesplorata di musica nella matrice. Andai in varie fabbriche in cerca di certi suoni che mi occorrevano per Déserts e li registrai. Questi rumori costituivano il materiale grezzo dal quale, dopo averli sottoposti a procedimenti particolari con i mezzi elettronici, furono composte le interpolazioni di suono organizzato" (v. Mellers, 1964; tr. it., p. 166). Certamente qui non c'è Europa, se per Europa si continua a intendere la logica del parametro e il principio della predeterminazione del materiale; non c e neppure qualche probabilità di rintracciare quei metodi di composizione che sono stati derivati dalle varie ipotesi seriali formulate nel dopoguerra. Lo stesso principio della polifonia non regge più e vi si sostituisce quello di eterofonia. L'interpolazione funge da principio guida alla costruzione e alla comprensione del pezzo. Nel successivo Poeme électronique del 1957, pur recuperando anche la musica concreta e arrivando a usare la voce umana in maniera eccezionale, non supera Déserts, che rimane il segno della grande svolta.
Le ripercussioni del contributo di Varèse non si hanno subito; la vecchia Europa tenta di risalire la corrente con Eimert, con lo studio fonologico di Colonia, con quello di Milano; ma alla fine Pousseur, Maderna e gli altri, uno alla volta, accettano la lezione, qualcuno mistificandola nell'orbita di Cage. Nono continua nel suo impegno politico, ma già in Diario polacco (1958) e poi ancora ne Lafabbrica illuminata tiene presente il maestro americano; da A floresta è jovem e cheja de vida fino alle sue musiche ispirate alle rivolte studentesche del maggio francese, questa presenza sembra essersi tutt'altro che esaurita.
Stockhausen è stato altrettanto fortemente influenzato da Kontakte (1960) in poi, particolarmente in Hymmen; Inori, pur volendo essere una meditazione sulla trascendenza, ripropone atmosfere di Déserts, con il calcolato intervento vocale del mimo a rompere la spirale del sol circolante al di sopra e al di sotto delle varie stratificazioni sonore.
Anche nelle composizioni per sola orchestra, senza cioè intervento dei suoni elettronici, il magistero di Varèse è stato decisivo, tranne forse in Ligeti e Penderecki, che rappresentano una tradizione, sostanzialmente oggi senza problemi.
È impossibile dire se il corso apertosi alla fine degli anni cinquanta sia in fase di esaurimento. Esso però si profila come un periodo di assestamento delle conquiste del precedente decennio con una notevole apertura di massa. Forte di un'esperienza fatta sulle ricerche a livello dei vari parametri, sia pure nelle prospettive più diverse, liberata da un certo dogmatismo integralista che la rendeva accessibile solo agli addetti ai lavori, oggi la musica procede per sontuosi affreschi sonori, riscoprendo quella espressività alla quale pretendeva di aver rinunciato, perché il contatto con i più vasti pubblici la condiziona. E in questo senso va interpretata anche una certa tendenza a un teatro da grand Opéra. E forse questo il tratto di maggior rilievo: gli ultimi dieci anni hanno visto un largo consumo della nuova musica. Ma tale circostanza, che potrebbe già farla pensare invecchiata, non mette sinora in discussione la certezza che per aver superato i limiti della tradizione europea, almeno limitatamente a quella sorta di provincialismo scientifico conseguente all'attaccamento alle ideologie assai più che alla ricerca scientifica come parte integrante di una visione del mondo, ancora lunga e fertile sia la strada che le si spalanca davanti.
8. Musica sperimentale
In questo secondo dopoguerra, quindi, ci troviamo di fronte a un fatto assolutamente nuovo che rappresenta una rottura radicale sul piano della conformazione del materiale compositivo: esso è costituito, come si è già detto, dal recupero scientifico della musica ricondotta nell'ambito delle scienze reali, se vogliamo usare un linguaggio più aggiornato, ovverosia sperimentali, secondo la vecchia prospettiva positivista. Infatti tanto la ‛musica concreta' quanto la ‛musica elettronica', con le loro sottospecie, rientrano nella musica sperimentale: essa, in senso generale, può ritenersi l'insieme delle ricerche a fini estetici di fisica acustica, di fisiologia e di psicologia della percezione su quella fascia sonora (ambito frequenziale) che si colloca entro le soglie di udibilità umana; più in particolare come l'insieme di esperimenti che a fini estetici vengono condotti su suoni naturali o artificiali percepibili dall'orecchio umano. Abbiamo visto come da queste ricerche siano state motivate alcune composizioni fondamentali della nostra epoca: esse chiariscono le tendenze di lavoro di almeno una parte importante dei musicisti-ricercatori che non si differenziano sicuramente da quei ricercatori i quali non possono obiettivamente essere considerati musicisti unicamente perché qualche simposio accoglie i risultati dei loro esperimenti: nonpertanto quelle opere hanno pure origine dalla musica sperimentale che cessa di fatto di essere aggettivata solo quando sale da concerto, industrie discografiche, un gruppo di critici e, solo di passaggio, il carisma del pubblico, la collocano tra la musica da concerto. Se un'operazione del genere sia o meno legittima è questione del tutto improponibile, perché, nel momento in cui viene recuperata alla scienza, anche per la musica deve valere il principio: essa è ciò che un gruppo sufficientemente ampio di esperti chiama cosi. Bisognerebbe semmai vedere se le cose sono andate diversamente nel passato.
Il punto di partenza della musica sperimentale può essere ricondotto a diversi ordini di problemi, alcuni motivati da un bisogno di sistemazione teorica, altri da curiosità: l'utilizzazione del rumore, proposta da Russolo e fatta propria dal futurismo; la creazione di nuovi strumenti in grado di obbedire al pensiero del musicista, senza limitazioni tecniche di sorta, auspicata da Varèse già nella polemica contro la modestia della richiesta futurista ed enunciata nel 1936 nella famosa conferenza tenuta a Santa Fé; la manipolazione e la trasformazione di musiche esistenti per sondare le possibilità espressive dei mezzi tecnici impiegati nella radiodiffusione, in modo particolare dischi, microfoni, altoparlanti e nastri magnetici, portate avanti da P. Schaeffer nell'immediato dopoguerra - e cioè la ‛musica concreta'; il superamento delle difficoltà relative all'esecuzione polifonica di ritmi che prevedano il frazionamento di gruppi irrazionali mediante utilizzazione del nastro magnetico che rendendo un suono in misure lineari offre la possibilità di tagli e sovrapposizioni, proposto da Boulez; infine la creazione di nuovi suoni, di nuovo materiale sonoro attraverso l'intervento diretto sulle onde sinusoidali e successivamente su quelle d'altra specie, con l'ampliamento del campo realizzato attraverso l'acquisizione del rumore bianco e delle possibilità di filtrarlo. Quest'ultimo insieme di problemi è certamente ‛il' problema centrale della musica sperimentale e relega un po' in secondo piano tutte le precedenti esperienze, realizzando nelle sue successive soluzioni in termini pratici e teorici l'aspettativa della nuova era auspicata da Varèse: il musicista che ‛crea suoni' e non più il musicista che ‛crea con i suoni': questo problema è stato affrontato nell'ambito della musica elettronica, e più precisamente negli studi fonologici del N.W.D.R. di Colonia e della RAI di Milano. I musicisti ricercatori di maggior rilievo sono stati Stockhausen e Meyer-Eppler a Colonia, Maderna, Berio e Pousseur a Milano.
La varietà di queste ricerche ha creato problemi di terminologia; tuttavia, fatti salvi i diritti ‛storici' di denominazione dei vari centri di sperimentazione, è fuori discussione che la tape-music di Ussachevsky e della sua scuola e la music for magnetic tape di Cage si collegano direttamente, e per le metodologie e per i risultati, alla musica concreta: dalla musica elettronica invece è opportuno tenere distinta la computer music perché il suo fine principale è quello dell'automazione.
Ognuna di queste ricerche ha sollevato questioni estetiche, alcune anche di notevole interesse, tutte però sostanzialmente riconducibili al superamento, ma anche alla drammatizzazione del postulato romantico dell'immaterialità della musica. Non deve infatti trarre in inganno l'apparente contrapposizione tra l'estetica dell'‛oggetto sonoro' di Schaeffer ed Henry e l'estetica dell'‛anti-oggettualità', intesa come lotta per la liberazione dalla dittatura del materiale costituito dai fenomeni sonori dati, proposta da Stockhausen: queste due concezioni configurano entrambe il materiale della musica in maniera radicalmente diversa da quella dei romantici. È vero che la rottura era stata operata da Webern con la sua definizione della musica come ‟la natura con le sue leggi in rapporto al senso dell'udito"; ma non ne era seguito alcun processo costruttivo a livello teorico, perché il maestro viennese si era preoccupato poi di spiegare solo sul pentagramma ciò che aveva inteso dire. Ora, il punto più alto, la summa dell'estetica romantica relativamente alla sostanziale diversità della musica dalle altre arti risiede proprio nella originaria differente provenienza del materiale: tutte le altre arti operano con materiali che esistono in natura, mentre in musica il compositore crea da sé il ‛suo' materiale servendosi di elementi naturali come il suono e il ritmo fusi e amalgamati nella propria interiorità e portati alla luce come idea poetico-musicale (v. Bekker, 1912) o come idea tematica (v. Pfitzner, 1920).
Che cos'è l'‛oggetto musicale' di Schaeffer? Può essere una cinquina wagneriana incisa su un disco a 78 giri e quindi realizzata a 45 o 33; o anche un qualsiasi rumore di pioggia o di oggetti che cadono a terra, inciso, amplificato o attenuato o combinato con rumore di altra origine; o il risultato di una minima frazione di un mixage: moltissime sono le possibilità, ma comunque tutte riconducibili a identificarsi nel prodotto di una certa tecnologia in grado di isolare ogni evento sonoro dal suo naturale o artificiale contesto; secondariamente è il frutto di una scelta affidata poi alla macchina solo o assieme ad altri eventi sonori per comporre, attraverso montaggi, accelerazioni, ritardi, ecc., una ‛musica concreta', dipendente cioè ‟da frammenti sonori concretamente esistenti" (v. Schaeffer, 1950). Ci troviamo ovviamente in antitesi con l'estetica del materiale che non preesiste all'artista, ma che viene da lui prodotto. La stessa antitesi, più sottile, si trova nella antioggettualità di Stockhausen, nella sua lotta per liberarsi dalla dittatura del materiale costituito dai fenomeni sonori dati; infatti essi altro non sono se non gli elementi naturali del suono e del ritmo esistenti in natura, cioè la ‛materia' con cui l'artista romantico elaborava nella propria interiorità il ‛materiale' musicale, venisse poi esso vissuto come idea tematica o come idea poetica. Stockhausen mette in discussione il concetto di materia relativamente a tutto il complesso di nozioni sul suono e vi coinvolge quello di natura. È naturale tutto ciò che il compositore porta alla luce attraverso l'analisi del suono, del rumore; il suo materiale è l'insieme delle microstrutture acustiche infinitamente concepibili e realizzabili che segnano il passaggio dalla fase analitica alla sintetico-operativa: la composizione è la macrostruttura che risulta dal loro collegamento in accordo con una legge formale derivata dalla stessa idea musicale che ha guidato la creazione delle varie microstrutture.
Egli distrugge così l'idea musicale dei romantici, introducendo alla base del far musica l'analisi: un'operazione - prima possibile solo sulla composizione per cogliere criticamente le congruenze formali degli sviluppi con l'idea tematica o con la serie preordinata o con i modi prescelti o con le tavole di permutazione stabilite - che diviene pregiudiziale nella sua accezione rigorosamente scientifica, condizione della sintesi perché non più chiamata a render conto della correttezza dell'operazione creativa, ma perché il prodotto sintetico deriva la sua ragion d'essere dall'analisi del suono. E poiché l'analisi sempre più sofisticata diviene possibile solo attraverso apparecchiature elettroniche, come del resto la sintetizzazione delle microstrutture e il loro collegamento, il risultato è la ‛musica elettronica'. Il nastro, elemento determinante nella musica concreta e nelle sue varianti americane, viene ridimensionato e, come l'altoparlante, i microfoni, l'oscillatore, i filtri e altri apparecchi, si trasforma in uno strumento della musica elettronica. Di ‛musica elettrica' si deve invece parlare quando si è in presenza di composizioni per strumenti tradizionali preparati ovverosia modificati con apparecchiature elettriche.
La possibilità di produrre suoni stazionari, privi cioè di variazioni sia pur lievi di intensità e frequenza, ha messo nelle mani dei compositori un'arma suicida. Strumenti e voci umane danno, contrariamente all'oscillatore elettronico, suoni impuri che salgono e scendono rispetto alle frequenze e alle intensità iniziali: questo fatto noto veniva in una certa qual misura messo in conto della peculiarità timbrica. Nel momento in cui il compositore produce suoni puri e fissa sinteticamente il loro timbro combinandoli con altri, elimina integralmente le variazioni di frequenza e di intensità, per cui un suono viene determinato in modo assolutamente preciso.
Proprio allora ci si accorge che questa staticità, questa determinazione assoluta provoca all'orecchio una sensazione unidimensionale, di piattezza, con soppressione della dimensione spaziale. Per superare questo inconveniente si dovettero introdurre, a riparare l'assoluta precisione appena conquistata, studiati elementi di variabilità e creare volute aleatorietà senza le quali per il nostro orecchio non ci sono orizzonti proprio perché gli si è distrutto lo spazio. Esser dovuti ricorrere al ‛rumore bianco' che rappresenta il limite massimo di indeterminazione del suono, allo stesso modo che il prodotto sinusoidale dell'oscillatore costituisce il limite opposto, può apparire un paradosso carico tuttavia di implicazioni teoriche. Il rumore bianco è l'‟insieme contemporaneo di tutti i possibili suoni combinati casualmente" (v. Lietti, 1959); all'ascolto è solo un soffio: da esso vennero tratti attraverso successive operazioni di filtraggio suoni di altezze determinate, ma non rigorosamente stazionarie come quelle ottenute con gli oscillatori. L'utilizzazione dei filtri divenne decisiva non più per le sole analisi, ma per modulare frequenze e intensità; così alla percezione auditiva viene restituita la spazialità sonora.
Un'altra conseguenza non desiderata della prima fase sperimentale fu l'oggettiva unificazione del parametro timbrico e di quello frequenziale. La mescolanza di diversi suoni puri, non armonici tra loro, crea delle strutture in certo qual senso colorate, che si modificano però soltanto quando variano le altezze. A questo punto si realizza ovviamente un processo riduttivo, che può essere compensato teoricamente sotto il segno di un cambiamento del concetto di timbro, ma che tuttavia è una deprivazione acustica qualitativa. Per recuperare il colore fu necessario riconoscere la necessità di periodi non sinusoidali per la percezione, che coglie la complessità del fatto sonoro dove si realizza lo sdoppiamento dell'altezza e del timbro. Insomma, fu necessaria ancora una volta una minore determinazione, il sacrificio proprio di quelle assolutezze che sembravano sul piano compositivo il massimo traguardo raggiunto.
Questi accadimenti, probabilmente in concomitanza con la spettrale disadorna freddezza di un ambiente in cui gli ascoltatori sono chiamati a stabilire un rapporto visivo o con gli amplificatori o con i propri vicini, come in un tram, senza la consuetudine dell'ambiente domestico che rende sopportabile l'apparecchio radio o il registratore, portarono la musica elettronica a una pacifica integrazione con quella strumentale. Il fatto che questa integrazione sia inizialmente avvenuta con quel particolare strumento che è la voce umana potrebbe offrire anche un'altra ipotesi: quella cioè di un ripercorrimento rapidissimo di precedenti passaggi dalla vocalità alla strumentalità. Quali che siano state comunque le cause di questa trasformazione della musica elettronica in mezzo espressivo di un insieme strumentale tradizionale, non sembra trattarsi né di una capitolazione di fronte al tradizionale modo di far musica, né di riconosciuta insufficienza della musica elettronica ad avere una propria vita autonoma: in tal caso essa si porrebbe addirittura al di sotto di un qualsiasi strumento convenzionale, che è sempre in grado di proporre una composizione solistica. Evidentemente si tratta di una particolare necessità sinestesica: non si è ancora razionalmente arrivati a poter ascoltare della musica senza la mediazione visiva dell'interprete, mediazione che è presente anche nella ricezione radiofonica per la prevalente storicità dell'ascolto o per semplice riflesso condizionato. In Gesang der Jünglinge, in Thema dell'Omaggio a Joyce, in Musica su due dimensioni e in Rimes pour différentes sources sonores il suono elettronico è già una dimensione, non la sola; questo fatto apre prospettive del tutto nuove; se si deve però intendere tutta l'operazione sotto l'aspetto più generale di una sintesi umanistica, il grande salto è in Déserts.
La lezione dell'analisi non va perduta, e tutti i problemi che la musica concreta e la musica elettronica hanno sollevato per strada vengono via via risolti, sia come contributo alla musica, sia all'acustica, sia alla tecnica di costruzione e di perfezionamento di strumenti elettrici, dai quali in tempi ormai lontani si era cercato aiuto per superare la concezione tradizionale del suono e della prassi compositiva.
Gli elaboratori, come si è detto a proposito della teoria dell'informazione, assolvono e alla funzione di elaborazione sperimentale e a quella estremamente funzionale di memorizzazione, sulla quale si punta evidentemente per le prospettive di riorganizzazione della telediffusione.
In effetti siamo entrati in una fase non più caratterizzata dalla ricerca, quanto piuttosto dall'applicazione dei suoi risultati a fini prevalentemente commerciali attraverso la mercificazione a bassi costi di prodotti tecnologicamente avanzati. Si immettono sul mercato apparecchiature elettroniche a un prezzo che non supera di molto quello di un complesso riproduttivo ad alta fedeltà e si offre così la possibilità a basso costo di ritenersi un compositore di musica elettronica. Anche senza volerlo Chabade ha dato la misura di questa tendenza, quando ha sostenuto che ‟la musica è sempre meno un linguaggio specializzato. Un processo elettronico può essere utilizzato per controllare dei cambiamenti di luce o immagini video altrettanto facilmente che per controllare dei cambiamenti di suono; e le tecniche musicali tradizionali, che hanno la tendenza a confermare il concetto secondo il quale la musica è un linguaggio specializzato, non sembrano essere necessarie per la musica elettronica" (v. Chabade, 1972, p. 36). Ciò vuol dire semplicemente: rinunciamo a proseguire lo studio analitico sulle strutture del linguaggio dei suoni, democratizziamo i risultati raggiunti.
Purtroppo quest'inconveniente era prevedibile. La tendenza analitica all'isolamento e allo studio degli insiemi infiniti e dell'infinitamente piccolo è la forma dominante del pensiero della nostra epoca. Nella fisica nucleare non vi sono ostacoli di sorta al suo procedere, almeno in certe direzioni, in quanto ogni problema di costi è subito ridimensionato da necessità di ordine militare e strategico in senso lato; ma negli altri campi i principi di economia diventano tanto più rigidi quanto più si ampliano le esigenze dei budgets difensivi.
I laboratori di Milano, di Colonia, di Liegi, di Parigi, di Utrecht, così come quelli americani della Bell e altri ancora, sono a carico delle compagnie e degli enti radiotelevisivi, ed è noto che la voracità della televisione esige tagli sugli altri settori. Così le ricerche di musica sperimentale non sembrano più procedere con il ritmo di vent'anni orsono. Ma l'uso che i musicisti del nostro tempo hanno fatto della musica elettronica sta a testimoniare che comunque, presto o tardi, si riprenderà ad avanzare. Questa temporanea stasi, abituandoci intanto a ciò che molti anni fa produceva un effetto sconvolgente, ci pone di fronte a composizioni nelle quali, insieme agli strumenti tradizionali, la musica elettronica fa da sfondo, quasi una promessa di proiettarsi più in là in una dimensione che l'integrazione prospetta più come segno di un'epoca a venire che non sede di un confronto fra epoche diverse. Le implicazioni estetiche di questa condizione sono state, dopo le prime avvisaglie, come abbiamo già detto, ricondotte nel grande alveo dell'estetica del poema sinfonico. Ciò è perfettamente normale e logico: l'estetica è una faccia del potere, e la classe che lo detiene è sempre la stessa, e l'estetica del poema sinfonico è l'espressione del suo massimo di ambiguità. Nella misura in cui come teoria dell'arte musicale si era spinta oltre, le leggi oggettive del profitto hanno subito ridimensionato il supporto su cui essa poggiava ; così anche la sua interpretazione ne è uscita inevitabilmente riorientata. ‟Vocali e consonanti - suoni e rumori - non sono dapprima altro che materiale. Né l'uno né l'altro di questi fenomeni è per sua natura buono o cattivo. Decisivo è solo l'uso che se ne fa" (v. Stockhausen, Elektronische..., 1959). Per l'appunto di questo dobbiamo essere oggi preoccupati.
9. Problemi di storiografia
Solo nel nostro secolo, pur se nell'ultimo quarto dell'Ottocento ne erano state poste le premesse, si è affrontato con spirito scientifico il problema della storia della musica, e già le soluzioni via via proposte rivelano i punti di vista, o meglio le concezioni del mondo, che sono stati alla base delle idee direttrici dei vari studiosi. La musicologia é una scienza della musica nella quale trova il suo posto anche la storia della musica, assieme all'estetica musicale, la psicologia della musica, la sociologia, l'antropologia, l'etnomusicologia, e quante altre discipline di volta in volta soccorrano alla conoscenza più completa del fatto musicale. A questa soluzione si contrappone la storia della musica concepita nei suoi contesti sociali, come parte integrante della storia della cultura; essa utilizza le discipline che confluiscono nella musicologia come usa tutte le altre tecniche, ma ritiene che la questione più urgente da risolvere sia quella di riuscire a spiegare la storia della musica nella generalità della storia, come fenomeno scientifico e artistico insieme; essa rinuncia perciò a identificare certe tecniche con la scienza (come fa invece la musicologia) e ciò consente un loro uso interdipendente e incrociato più spregiudicato e aperto.
Il fine di questa seconda soluzione, pur sempre provvisoria, è di dare alla musica una sua storia universale così come è già avvenuto per le altre arti. In questa prospettiva la storia della musica è innanzi tutto storia dei modi in cui le idee degli uomini e della collettività si sono in essa manifestate e storia delle personalità che in questa edificazione dell'arte e definizione della scienza hanno giocato un ruolo.
Mentre la musicologia ha già una sua solida tradizione, la storia della musica come parte della storia delle idee va emergendo lentamente e in modo alquanto dispersivo se non addirittura occasionale; tuttavia essa si pone delle domande che la musicologia preferisce ignorare; i campi in cui si muove sono vastissimi e spesso dagli incerti confini; essi però, una volta identificati e fissati, costituiranno la prova di passi in avanti decisivi. Una storia della musica con queste caratteristiche trae origine, a ben guardare, dalla domanda: perché, partendo dalla storia generale, non si trova, almeno fino a tempi recentissimi, la possibilità di accedere alla storia della musica occidentale? La risposta a questa domanda, conseguenza di una constatazione di fatto, non è in grado di darla la musicologia: essa prende solo atto che le cose stanno così e non altrimenti: eppure risolvere questo enigma, anche se non una volta per tutte, è decisivo per dare un senso alla musica e non solo alla sua storia. Occorre senza dubbio partire da alcuni postulati: la storia della musica è determinata dalla storia generale, cioè dalla storia politica, economica, delle varie scienze e delle varie arti; ne è soprattutto condizionata, mentre la sua capacità di condizionare altre particolari discipline non è continua e neppure evidente; il senso della musica è il senso della sua storia; il senso della sua storia è il senso della storia generale. Su questa base, che crea le premesse per chiarire innanzi tutto l'insufficienza della storia della musica occidentale, si possono stabilire quei collegamenti al di là dell'ormai angusto orizzonte europeo, con quelle aree in cui il problema si pone o si può porre in termini totalmente o parzialmente diversi, per tentare un'unificazione, possibile per definizione.
Nei postulati enunciati è chiaramente supposto quello della evoluzione. La musica si evolve e questa ottica resiste al rifiuto dell'evoluzione generale. Il superamento delle ingenuità sull'infinito progresso non può in alcun caso significare la rinuncia all'evoluzionismo come teoria scientifica generale: certe forme di creazione artistica ormai morte ci confermano, come d'altronde lo svilupparsi da altri ceppi di forme di espressione che confluiscono nell'arte, la validità del principio. Da quest'angolatura le particolarità della musica di una data epoca vengono affrontate con una determinata metodologia generale, cui debbono sottostare i peculiari criteri d'indagine propri della disciplina e i mezzi fornitile dalla musicologia. Le correlazioni con i livelli delle varie scienze e delle varie arti nell'epoca presa in esame vanno stabilite partendo dai risultati più avanzati storicamente acquisiti, qualunque sia il campo in cui si sono avuti: la maggiore o minore aderenza alle tendenze fondamentali dell'epoca può offrire supporti accettabili a giudizi di valore dai quali lo storico non può esimersi.
Nella teoria generale dell'evoluzione trova posto la teoria particolare delle rivoluzioni; e nella storia della musica gli autentici movimenti rivoluzionari vanno individuati anche e soprattutto alla luce di che cosa, dopo il manifestarsi di una rottura, viene ancora recuperato del passato. Questo qualche cosa va sempre considerato sotto un duplice aspetto, quello della comunicazione e quello scientifico, perché la nostra musica occidentale ha una storia complessa: per lungo tempo costituì il più avanzato tentativo di unificazione della scienza e soltanto la dissoluzione del Quadrivio ha creato le premesse perché nascesse una musica vissuta solo come veicolo espressivo. I suoi legami con la fisica, e di conseguenza con la matematica, l'hanno però mantenuta su un piano diverso dalle altre arti, per cui essa non è solo un sistema linguistico, ma anche scienza sperimentale. Oggettivamente quindi è una sovrastruttura al quadrato, e i suoi rapporti con la struttura sono alle volte mediati dalla componente linguistica, alle volte dalle concezioni tecniche o dalle scoperte della fisica.
Ogni equivalenza deterministica tra fatti musicali e accadimenti sociali, per quanto possa essere oggettiva, è solo ed esclusivamente letteratura, e perciò, nel senso più vero, fabulazione. Le difficoltà incontrate da molti critici nel tentativo di salvaguardare l'oggettività rivoluzionaria di certe soluzioni musicali ai livelli formali, stilistici e di contenuto, sia esso dichiarato o supposto, di contro alla conclamata reazionarietà delle poetiche cui sono ispirate, conseguono dal determinismo meccanicistico con cui viene affrontato il rapporto tra struttura e sovrastruttura. Si deve in effetti constatare che fine della musica, relativamente alla sua duplice natura, è quello di suscitare problemi e riuscire a fare intuire le tendenze fondamentali, quasi sempre emergenti anche contro la volontà del compositore stesso e il suo modo di comunicare ed esprimersi. La musica può essere un'avventura del pensiero, come d'altronde è stata in ogni tempo, ma non più una privata vicenda esistenziale da rincorrersi empaticamente. Applicare per la musica d'oggi ai fini di una valutazione critica gli stessi parametri psicologici del sentimento dell'io, quando la possibilità di sussistere di questo sentimento è legata ai destini della collettività, essendosi esso, nella sua particolarità, nel suo proprium, totalmente alienato, è anacronistico e privo di senso, almeno quanto affrontare con gli stessi criteri la polifonia fiamminga. Cogliere il senso profondo della tendenza generale vuol dire quindi anche predisporre il metro di giudizio.
Il senso dell'evoluzione musicale varia nelle diverse condizioni di vita: è parte integrante del divenire dell'uomo ; per questo a ogni mutamento di direzione della tendenza fondamentale, tutta la storia della musica deve essere riscritta. Essa non può sfuggire al principio scientifico della relatività dei dati acquisiti. Non si può avere un ricominciamento della musica, anche a seguito della più radicale delle rivoluzioni, ma deve esserci ogni volta un rinnovarsi della prospettiva in cui viene vissuta la sua storia. La continuità storiografica è assicurata dalla continuità della tradizione musicale: se si ha tradizione storiografica, si arriva alla falsificazione della storia.
Il problema dell'ordinamento del materiale storico è dunque sempre aperto e, per quanto alla superficie possa sembrare contraddittorio, trova comunque provvisorie soluzioni sistematiche; senza di esse non è possibile la storia della musica, come la storia di qualsiasi arte e disciplina. È la prospettiva storica a predeterminare l'ordinamento del materiale: essa, relativamente alla collocazione sociale, di classe, dello storico, alla sua concezione del mondo, alla circostanza che essa sia maggioritaria, minoritaria, in ascesa o superata, può indurre a scegliere i punti nodali dell'evoluzione partendo da molto lontano o da molto vicino, limitarsi al presente o sottolineare gli elementi valutabili come basi di possibili sviluppi: ma al di là delle peculiarità della prospettiva storica, non prescinde mai da un esame della forma, indipendentemente dal contesto entro cui ci si intende muovere, in quanto chiave interpretativa essenziale. La storia delle forme musicali è parte integrante della storia della musica, e va soprattutto pensata in rapporto alla forma che il pensiero scientifico si dà nel settore in cui in quel momento è più avanzato. Certe forme musicali sono innanzi tutto schematicamente riproduzioni di altre ben più complesse forme del pensiero: è difficile negare che da un certo punto in avanti il continuo ritorno al centro tonale non rappresenti la forma del pensiero della legge di gravità, e il temperamento della scala non si collochi nello stesso ordine concettuale della critica del principio di causa; allo stesso modo la crisi dei fondamenti determina una situazione culturale, cioè forma di pensiero, che evolve alla critica della naturalità dell'armonia, già scientificamente fondata sui primi armonici e deduce dall'ipotesi dei numeri transfiniti e insiemi sonori e iperspazialità in cui essi possano venire immaginati come nuove strutture segnate dalle inevitabili e necessarie aleatorietà del principio di indeterminazione. La correlazione tra rapida evoluzione formale e forme del pensiero fisico e matematico è confermata a contrario dalla sostanziale stasi formale dell'epoca delle grandi costruzioni metafisiche.
La storia della musica è quindi parte della storia della cultura come la storia delle idee e del loro concretarsi sulla struttura di base. Perciò deve servirsi di tutti gli strumenti possibili per analizzare i vari movimenti della sovrastruttura e di quei settori che più immediatamente registrino o preannuncino le variazioni della struttura.
Nessuna disciplina le può essere estranea e ogni risultato conseguito in campi d'indagine anche da essa lontani va valutato per una quanto più possibile totale comprensione del modo di far musica nel periodo preso in esame.
Il fatto che la musica nell'antichità classica sia stata soprattutto un principio ordinatore esige lo studio delle concezioni cosmologiche ovunque esse si annidino nelle opere di quel periodo, e quindi obbliga all'adozione delle metodologie proprie della filologia classica, con tutte le sue specializzazioni. Viene così di fatto fondata la storia delle teorie musicali, parte integrante anche della storia delle arti liberali, almeno sino a un certo punto, e cioè dell'educazione nell'antichità e nel Medioevo; nelle sue propaggini umanistiche, essa tende a confondersi con le origini della storia della musica stessa, e fonda così a sua volta la storia della storiografia musicale.
bibliografia
Adorno, Th. W., Philosophie der neuen Musik, Tübingen 1949 (tr. it.: Filosofia della musica moderna, Torino 1959).
Adorno, Th. W., Prismen. Kulturkritik und Gesellschaft, Frankfurt a. M. 1955 (tr. it.: Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Torino 1972).
Adorno, Th. W., Dissonanzen. Musik in der verwalteten Welt, Göttingen 1956 (tr. it.: Dissonanze, Milano 1959).
Adorno, Th. W., Klangfiguren, in Musikalische Schriften. I, Berlin-Frankfurt a. M. 1959.
Adorno, Th. W., Einleitung in die Musiksoziologie. Zwölf theoretische Vorlesungen, Berlin-Frankfurt a. M. 1962 (tr. it.: Introduzione alla sociologia della musica. Dodici lezioni teoretiche, Torino 1971).
Ansermet, E., Les fondements de la musique dans la conscience humaine, Boudry-Neuchâtel 1961.
Bekker, P., Beethoven, Berlin 1912.
Bekker, P., Neue Musik, Stuttgart-Berlin 1922.
Bekker, P., Von den Naturreichen des Klangers. Grundriss einer Phänomenologie der Musik, Stuttgart-Berlin 1924.
Bekker, P., Wagner. Das Leben im Werke, Stuttgart 1924.
Bekker, P., Musikgeschichte als Geschichte der musikalischen Formwandlungen, Stuttgart-Berlin 1926.
Belvianes, M., Sociologie de la musique, Paris 1951.
Birkoff, G. D., Aestetics measure, Cambrige 1933.
Blaukopf, K., Musiksoziologie. Eine Einführung in die Grundbegriffe mit besonderer Berücksichtigung der Soziologie der Tonsysteme, Wien-Köln-Berlin 1931.
Bornoff, J., Music, theatre in a changing society, Paris 1968.
Boulez, P., Zu meiner III. Sonate, in ‟Darmstädter Beiträge zur neuen Musik", 1960, III, pp. 27-40.
Boulez, P., Relevés d'apprenti, Paris 1966 (tr. it.: Note di apprendistato, Torino 1968).
Busoni, F., Entwurf einer neuen Ästhetik der Tonkunst, Trieste 1907; nuova ed., Leipzig 1910 (tr. it.: Cenni di una nuova estetica musicale, in ‟Harmonie", 1913, I, 2-3).
Chabade, J., Le principe du voltage-control et ses implications pour le compositeur, in ‟Musique en jeu", 1972, VIII, pp. 36-40.
Cogni, G., Che cosa è la musica? Elementi di psicologia della musica, Milano 1956.
Cooke, D., The language of music, London 1959.
Daniélou, A., Traité de musicologie comparée, Paris 1959.
Eimert, H., Atonale Musiklehre, Leipzig 1924.
Einem, G. von, Komponist und Gesellschaft, Karlsruhe 1967.
Engel, H., Musik und Gesellschaft. Bausteine zu einer Musiksoziologie, Berlin-Halensee-Wunsiedel 1960.
Engel, H., Soziologie der Musik, in Musik in Geschichte und Gegenwart, vol. XII, Kassel-Basel 1965, pp. 948-967.
Evans, P. e altri, The modern age 1890-1960 (a cura di M. Cooper), in The new Oxford history of music, vol. X, Oxford 1974 (tr. it.: La musica moderna 1890-1960, a cura di M. Cooper, in Storia della musica, vol. X, Milano 1974, pp. 401-530).
Farnsworth, P. R., The social psychology of music, New York 1958.
Francès, R., La perception de la musique, Paris 1958.
Gatz, F. M., Musik-Ästhetik in ihren Hauptrichtungen, Stuttgart 1929.
Geissmar, B., Musique et politique, Paris 1949.
Goléa, A., La musique dans la société européenne depuis le Moyen Age jusqu'à nos jours, Paris 1960.
Handschin, J., Der Toncharakter. Eine Einführung in die Tonpsychologie, Zürich 1948.
Hauser, A., The social history of art, London 1951 (tr. it.: Storia sociale dell'arte, Torino 1964).
Hofstätter, P. R., Sozialpsychologie, Berlin 1963.
Hollander, H., Die Musik in der Kulturgeschichte des 19. und 20. Jahrhunderts, Köln 1967.
Jaensch, E. R. e altri, Grundformen menschlichen Seins, Berlin 1929.
Jeans, J. H., Science and music, London-New York 1937.
Köhler, W., The place of value in a world of facts, New York 1938.
Křenek, E., Über neue Musik, Wien 1937.
Kretzschmer, E., Körperbau und Charakter, Berlin 1921.
Kretzschmer, E., Geniale Menschen, Berlin 1929.
Krüger, F., Zur Philosophie und Psychologie der Ganzheit, Berlin-Heidelberg 1953.
Kurth, E., Die Voraussetzungen der theoretischen Harmonik und der tonalen Darstellungssysteme, Bern 1913.
Kurth, E., Grundlagen des linearen Kontrapunktes, Bern 1917.
Kurth, E., Musikpsychologie, Berlin 1931.
Lalo, Ch., L'art et la vie sociale, Paris 1924.
Langer, S. K., Philosophy in a new key, New York 1942.
Langer, S. K., Feeling and form. A theory of art, New York 1953 (tr. it.: Sentimento e forma, Milano 1965).
Lietti, A., I fenomeni acustici aleatori nella musica elettronica, in ‟Incontri musicali", 1959, III, pp. 150-159.
Lissa, Z., Über das Spezifische der Musik, Berlin 1956.
Lowery, H., The background of music, London 1952.
Lundin, R. W., An objective psychology of music, New York 1953.
Mellers, W. H., Music and society. England and the European tradition, London 19502.
Mellers, W. H., Music in a new founded land, London 1964 (tr. it.: Musica nel nuovo mondo, Torino 1975).
Meyer, L. B., Emotion and meaning in music, Chicago 1956.
Meyer-Eppler, W., Grundlagen und Anwendungen der Informations-theorie, Berlin-Heidelberg 1959.
Meyer-Eppler, W., Zur Systematik der elektrischen Klangtransformationen, in ‟Darmstädter Beiträge zur neuen Musik", 1960, III, pp. 73-86.
Mierendorf, M., Tost, H., Einführung in die Kunstsoziologie, Köln 1957.
Mies, P., Der Charakter der Tonarten, Köln-Krefeld 1948.
Moos, P., Die deutsche Ästhetik der Gegenwart mit besonderer Berücksichtigung der Musikästhetik, Berlin 1920.
Nono, L., Geschichte und Gegenwart in der Musik von heute, in ‟Darmstädter Beiträge zur neuen Musik", 1960, III, pp. 41-47.
Pfitzner, H., Die neue Ästhetik der musikalischen Impotenz. Ein Verwesungssymptom?, München-Leipzig 1920.
Pousseur, H., Theorie und Praxis in der neuesten Musik, in ‟Darmstädter Beiträge zur neuen Musik", 1959, II, pp. 15-29.
Pousseur, H., La musica elettronica, Milano 1976.
Pratt, C. C., The meaning of music, New York-London 1931.
Pratt, C. C., Music and the language of emotion, Washington 1952.
Read, H., The meaning of art, London 19492.
Sachs, C., Vergleichende Musikwissenschaft. Musik der Fremdkulturen, Leipzig 1930.
Sachs, C., The wellsprings of music, The Hague 1962 (tr. it.: Le sorgenti della musica, Torino 1979).
Schaeffer, P., Introduction à la musique concrète, in ‟Poliphonie", 1950, VI, pp. 30-52.
Schäfke, R., Geschichte der Musikästhetik in Umrissen, Berlin 1934.
Schneider, M., Geschichte der Mehrstimmigkeit, 3 voll., Tutzing 1969.
Schönberg, A., Harmonielehre, Wien 1911 (tr. it.: Manuale di armonia, Milano 1963).
Schönberg, A., Style and idea, New York 1950 (tr. it.: Stile e idea, Milano 1960).
Schwaen, K., Tonweisen sind Denkweisen. Beiträge über die Musik als eine gesellschaftliche Funktion, Berlin 1949.
Seashore, C. E., Psychology of music, New York 19382.
Siegele, U., Entwurf einer Musikgeschichte der sechziger Jahre, in AA. VV., Die Musik der sechziger Jahre, Mainz 1972, pp. 9-25.
Silbermann, A., Introduction à une sociologie de la musique, Paris 1955.
Speiser, A., Die mathematische Denkweise, Basel-Stuttgart 1952.
Stockhausen, K. H., Wie die Zeit vergeht, in ‟Die Reihe", 1957, III, pp. 1-23.
Stockhausen, K. H., Elektronische und instrumentale Musik, in ‟Die Reihe", 1959, V (tr. it.: Musica elettronica e musica strumentale, in ‟Incontri musicali", 1959, I, pp. 70-78).
Stockhausen, K. H., Musik im Raum, in ‟Darmstädter Beiträge zur neuen Musik", 1959, II, pp. 30-35.
Stockhausen, K. H., Musik und Graphik, in ‟Darmstädter Beiträge zur neuen Musik", 1960, III, pp. 5-25.
Stravinskij, I., Poétique musicale, Dijon 1942 (tr. it.: Poetica della musica, Milano 1947).
Stuckenschmidt, H. H., Neue Musik, Berlin-Frankfurt a. M. 1951 (tr. it.: La musica moderna, Torino 1960).
Stumpf, C., Die Anfänge der Musik, Leipzig 1911.
Stumpf, C., Die Sprachlaute, Berlin 1926.
Supčić, I., Musique et société, Zagreb 1971.
Wellek, A., Quarter-tones and progress, in ‟Musical quarterly", 1926, XII, pp. 231-237.
Wellek, A., Drey Typen des absoluten Gehörs, in ‟Musikblätter des Anbruch, 1927, IX, pp. 420-423.
Wellek, A., Typologie der Musikbegabung im deutschen Volke, München 1939.
Wellek, A., Die ganzheitspsychologischen Aspekte der Musikästhetik, in Bericht über den internationalen Musik-Wissenschaftler Kongress (Mozart-Jahr) Wien 1956, Graz-Köln 1958, pp. 678-688.
Wellek, A., Musikpsychologie, in Musik in Geschichte und Gegenwart, vol. IX, Kassel-Basel 1960, pp. 1148-1169.
Wellek, A., Musikpsychologie und Musikästhetik, Frankfurt a. M. 1963.
Wellesz, E., The origins of Schoenberg's twelve-tone system, Washington 1958.
Willems, E., Le rhythme musical. Étude psychologique, Paris 1954.
Wiora, W., Die vier Weltater der Musik, Stuttgart 1961.
Wiora, W., Komponist und Mitwelt, Kassel-Basel 1964.
Wörner, K. H., Neue Musik 1948-1958, in ‟Darmstädter Beiträge zur neuen Musik", 1959, II, pp. 7-14.