Musica
È fatto assai singolare che l'unica testimonianza musicale riconducibile a Federico II, peraltro senza alcuna garanzia di legittimità, provenga da un manoscritto italosettentrionale, forse padovano ‒ Parigi, Bibliothèque Nationale, Nouv. acq. fr. 6771 (ms. Reina) ‒, posteriore di quasi due secoli all'esistenza del monarca. Si tratta dell'intonazione polifonica della lirica Dolce 〈lo> meo drudo, attribuita a "re Federigho" nel celebre Canzoniere Vaticano latino 3793 (Monteverdi, 1951; Pirrotta, Musica polifonica, e Nuova luce, 1984). Il massiccio riadattamento del testo a fini esecutivi oltrepassa, nella fonte musicale, il semplice lavoro di emendamento di uno scriba veneto alle prese con versi siciliani; l'intervento mira piuttosto a piegare, per motivi di pura fruizione, l'originaria struttura del brano ‒ una stanza di canzone ‒ alla forma poetico-musicale della ballata. L'elemento melico, pur mantenendosi nei canoni della polifonia italiana trecentesca, presenta anomalie compositive che lo diversificano notevolmente dai brani coevi, avvicinandolo, semmai, alle procedure tipiche della musica di tradizione orale; inoltre la seconda voce pare adattarsi a una res prius facta. Nel ms. Reina, Dolce 〈lo> meo drudo si trova affiancato ad altre intonazioni musicali con caratteristiche formali analoghe, identificate da Nino Pirrotta (Tradizione orale, 1984) come siciliane, canti assai in voga, la cui pratica è attestata da svariate fonti letterarie quattrocentesche. Per tornare alla lirica attribuita a Federico, possiamo ipotizzare che i versi, benché non conformati secondo l'assetto musicale a noi pervenuto, fossero originariamente musicati e che la melodia sia approdata al Reina dopo aver subito molte trasformazioni, ma soprattutto una modernizzazione che le permettesse l'inserimento nella silloge.
La lirica Dolce 〈lo> meo drudo può continuare a farci da filo conduttore nella considerazione di altri aspetti concernenti Federico e la musica, secondo la prospettiva comparativistica. Già Peter Dronke (1994) aveva infatti notato come il brano, pur scritto in volgare siciliano, condividesse alcuni requisiti strutturali e tematici ‒ si tratta di un canto d'addio ‒ con un'analoga forma poetica caratteristica del Minnesang (v. Minnesänger), il cosiddetto Wechsel. L'assorbimento di contenuti e modelli della lirica mediotedesca, spesso veicolata da un supporto musicale, è pienamente attendibile: gli anni del ritorno in Germania coincidono, per Federico, con l'età in cui vanno ad approfondirsi gli studi nei vari campi del sapere e ad affinarsi quelle attitudini artistiche che, in un nobiluomo di epoca medievale o rinascimentale, non potevano mancare. Già il padre di Federico, Enrico VI, che fu Minnesänger, aveva prodotto versi in forma di Wechsel ma, secondo la testimonianza del conte Federico di Leiningen, Federico II stesso, nel periodo trascorso in Germania, ne aveva scritto almeno uno: il lamento di un amante in partenza dalla Puglia per unirsi alla crociata del 1228.
Alla crociata del 1228 si riferiscono i più celebri versi del Palästinalied del Minnesänger Walther von der Vogelweide (v.), un canto sulla celebre melodia di Lanquan li jorn, del trovatore Jaufre Rudel. Il rapporto tra Federico e Walther è in qualche modo documentato: in alcuni dei suoi componimenti l'artista si rivolge al re per lodarlo o per invocarne la protezione. In questo non vi sarebbe nulla di originale, perché la schiera dei poeti-musici, di tutte le nazionalità, pronti a compiacere il regnante, fu sempre copiosa; è tuttavia significativo che l'imperatore avesse accolto le richieste del rimatore tedesco, unico segno tangibile del gradimento di Federico per un artista di questo genere, donandogli per giunta una proprietà ove trascorrere gli anni della vecchiaia, risparmiandogli la vita raminga del poeta di corte.
Un rapporto non facile legò, al contrario, Federico ai rimatori e musicisti francesi e provenzali, coi quali ebbe sicuramente relazioni. Basti pensare alla formazione culturale della sua prima moglie Costanza d'Aragona, la cui famiglia non solo aveva sempre ospitato e sostenuto, da generazioni, l'attività dei più noti rimatori, ma annoverava al suo interno trovatori e, fatto ancor più straordinario, trovatrici. Costanza era stata sposata, in prime nozze, con Aimerico (Imre) d'Ungheria (Falvy, 1986); in quella terra l'avevano seguita Peire Vidal e Gaucelm Faidit, che soggiornarono a corte per diverso tempo. Alcuni trovatori poterono verosimilmente seguirla anche in Sicilia, secondo l'uso del tempo; tuttavia, come già aveva notato Vincenzo De Bartholomaeis (1931), non è possibile documentare l'attività stabile di alcun trovatore presso la corte federiciana.
È proprio attorno al distacco intenzionale di Federico dalla cultura trobadorica che ruota gran parte delle problematiche riguardo al rapporto del sovrano e del suo entourage con l'espressione musicale. Le concause di tale rigetto possono verosimilmente focalizzarsi attorno a tre questioni: in primo luogo l'espressione trobadorica, nella penisola italiana, era divenuta manifestazione del clima intellettuale che caratterizzava le signorie del Nord (Gallo, 1992), dalle quali Federico voleva evidentemente prendere le distanze; in secondo luogo, l'eccessiva militanza dei poeti in langue d'oc; bisogna infine considerare il decadimento che all'epoca già interessava il movimento poetico provenzale, col suo progressivo avvicinamento alla giulleria (Meneghetti, 1992; Antonelli, 1994).
Alcuni studiosi hanno voluto vedere negli statuti promulgati da Federico contro i giullari una prova della repulsione nei confronti di questa categoria (Isgrò, 1981); una maggiore familiarità con il corpus della cosiddetta normativa consuetudinaria emanata in Italia in periodo di antichi regimi, tuttavia, rivela l'assoluta regolarità e ripetitività di questo tipo di divieti, i quali, dunque, non risultano particolarmente significativi: lo stesso Federico, come racconta il frate parmense Salimbene de Adam nella sua cronaca, era accompagnato, nei suoi viaggi, da un apparato di corte assai pittoresco e stravagante!
Se si vuole dare al concetto di musica il significato che, in epoca medievale, difficilmente possedeva, ovvero quello di manifestazione sonora perlopiù estemporanea, non disgiunta da altre attività ‒ quali, per esempio, la danza ‒, alcune suggestive descrizioni ci vengono offerte anche da Matteo Paris. La corte federiciana, così come quella dei suoi predecessori normanni ‒ la cui vita musicale è così ben evidenziata negli affreschi del soffitto della Cappella Palatina di Palermo (Gramit, 1985) ‒, era aperta a ogni genere di intrattenimento in musica: giovani saracene, cantatrici, danzatrici e giocoliere, accompagnate da strumentisti, solevano esibirsi durante le feste, a testimoniare quanto la cultura musicale araba fosse accettata e gradita. Lo stesso Federico, ancora per affermazione di Salimbene, "legere, scribere et cantare sciebat et cantilenas et cantiones invenire" (1966, I, p. 508.5-8).
Più avanti torneremo su un tentativo di traduzione puntuale di quest'ultima citazione; per intanto, proseguiamo il nostro discorso sull'arsmusica, intesa questa volta nella concezione medievale del termine, tutta teorica e speculativa. Se si guarda alla musica come alla disciplina annoverata tra le arti liberali del quadrivium, insieme ad astronomia, matematica e geometria, allora non vi sono prove di una sua promozione presso la corte federiciana ‒ non è infatti possibile rintracciare la presenza di alcun teorico musicale che vi abbia lavorato ‒ né, come ci si potrebbe aspettare, presso lo Studio napoletano, che di tale corte era l'emanazione intellettuale. Il curriculum di studi era infatti del tutto improntato alla formazione cancelleresca, un profilo cui l'apprendimento delle artes era affatto estraneo. Se qualche legame con la musica (intesa come cognizione dei rapporti armonici del cosmo, e dell'uomo in relazione ad esso) si vorrà trovare, questo andrà tutt'al più cercato negli scritti della Scuola medica salernitana (Fiori, 2001), un'istituzione, già precedentemente attiva, che fu incoraggiata e patrocinata da Federico.
Ma naturalmente l'aspetto su cui si è sempre cercato di fare maggiore luce è quello relativo al fatto se, nella poesia della corte siciliana, i versi potessero avere anche una veste musicale; un problema sul quale musicologi e studiosi di letteratura hanno a lungo dibattuto, su posizioni alquanto diverse ma, a ben guardare, oramai non più inconciliabili. Una disamina pressoché definitiva della questione, svolta da Aurelio Roncaglia (1978), è riuscita a dimostrare in termini assai convincenti i diversi statuti che regolavano, da un lato, la creazione trobadorica e la trasmissione del suo repertorio, specie nella sua fase originaria e, dall'altro, i nuovi contenuti e costumi poetici dei rimatori siciliani, vedendo in questi ultimi gli artefici di ciò che Gianfranco Contini ebbe a chiamare "il divorzio tra musica e poesia" nel Duecento italiano (Poeti del Duecento, 1960, p. 45).
Le considerazioni di Roncaglia, svolte in prima istanza su un confronto fra i contenuti testuali delle due scuole poetiche, rilevavano in quella occitana una ragguardevole presenza di allusioni al fatto musicale, inteso anche come veicolo privilegiato della trasmissione. Tale presenza era ribadita anche nelle annotazioni contestuali offerte dalle vidas e dalle razos, nelle quali il rapporto tra canto e poesia è percepito in termini di necessità e l'attività del comporre versi e musica è assolutamente complementare. Tra le figure di trovatori, chi potesse conciliare le capacità di ben poetare e ben cantare incarnava il perfetto ideale di artista. Proprio per questo motivo, andò tuttavia a instaurarsi rapidamente anche l'uso, fra i poeti occitani, di fare intonare i propri versi a cantori qualificati. Si verifica, dunque, una prima rottura del rapporto di esclusività tra autori ed esecutori; una separazione che, pur recando in sé i vantaggi di una fruizione allargata dell'opera, indice di una diffusa civiltà musicale, nella sua attuazione pratica diede naturalmente origine a un processo di specializzazione che andò a intaccare l'originaria connessione tra parola e musica.
Segno evidente di due destini che vanno via via divergendo sono i canzonieri che tramandano il repertorio trobadorico, sillogi nelle quali solo la decima parte delle composizioni poetiche presenta anche una veste musicale, indice del fatto che i committenti non solo erano più interessati al fatto letterario, ma che potevano (o dovevano) fare a meno della componente musicale. A conferma della separazione tra i due atti creativi, la pratica del contrafactum (ovvero quella di creare nuovi versi su melodie preesistenti) prova l'esistenza di artisti impegnati solo come poeti.
La nascita dell'espressione poetica in volgare italiano coincide con questa fase di deterioramento, nella cultura trobadorica, dell'originaria duplice competenza (letteraria e musicale) dell'artefice: questo sarà il modello assorbito dai rimatori della curia federiciana.
Nessuna allusione al fatto musicale nei testi poetici siciliani, laddove la poesia trobadorica abbonda di descrizioni e citazioni. Unica eccezione, un discordo di Giacomino Pugliese (Donna, per vostro amore), nel quale a un certo punto si legge: "lo stormento / vo sonando / e cantando"; ma basterà dire che Giacomino occupa, tra i poeti siciliani, un posto di confine, per le inflessioni popolareggianti che lo contraddistinguono e che gli fanno talvolta assumere toni quasi giullareschi.
Rimane sempre aperta la questione relativa alla canzone federiciana Dolce 〈lo> meo drudo, ma laddove Roncaglia nega una preparazione musicale ai poeti-notai della Magna Curia, è del tutto propenso a riconoscere tale competenza al sovrano che, proprio per la sua appartenenza alla classe nobiliare, condivideva con i suoi pari la capacità di creare versi ("cantiones"), potendoli anche intonare ("cantare sciebat et cantilenas […] invenire"). In questo senso Roncaglia si mostra possibilista sul fatto che poesie nate senza supporto melodico potessero poi essere accompagnate in musica in un secondo tempo, secondo la consuetudine cortese.
La tesi del 'divorzio' non ha però dissuaso alcuni musicologi dallo sforzo di dare una veste sonora ai componimenti siculi, soprattutto nel caso in cui fosse presente il chiaro riferimento formale a un modello provenzale: è quanto ha fatto lo studioso tedesco Joachim Schulze (1989), proponendo l'adattamento di testi siciliani alle preesistenti musiche trobadoriche. L'operazione, sicuramente attraente, importa tuttavia assai superficialmente i principi che regolano la pratica del contrafactum e, come rileva Roberto Antonelli (1994), senza purtroppo considerare la radicale trasformazione metrica, rimica e sillabica operata dai siciliani sui modelli provenzali: come può una melodia rimanere la stessa se, sotto di essa, cambiano le strutture poetiche di base?
Le aspirazioni di dare un contorno sonoro e musicale alla corte federiciana non finiscono qui. Recentemente l'autorevole parere del filologo Johann Drumbl (2003) vorrebbe connettere a quell'ambiente la creazione della silloge poetica mediolatina più famosa, i Carmina Burana, la cui compilazione, auspicata da un alto prelato vicino a Federico, avrebbe avuto luogo, per lo studioso, a Trento attorno al 1236, anno in cui la corte federiciana si muoveva dalla Germania verso il Nord Italia. Indizi a favore di questa ipotesi sarebbero l'attualizzazione di alcuni canti di argomento antipapale, altri riferimenti alla figura dell'imperatore, oltre al requisito più evidente della raccolta, ovvero il bilinguismo di molti dei brani contenuti. Il riferimento, inoltre, alla forma del conductus, alla base della raccolta, porterebbe a un legame diretto con la Sicilia, per la cui Chiesa, già dall'epoca normanna (Hiley, 1983), erano stati concepiti i più bei brani musicali in questo schema poetico-musicale.
fonti e bibliografia
Matteo Paris, Chronica majora, a cura di H.R. Luard, in Rerum Britannicarum medii aevi scriptores, LVII, Nendeln 1964.
Salimbene de Adam, Cronica, a cura di G. Scalia, I-II, Bari 1966.
V. De Bartholomaeis, Poesie provenzali storiche relative all'Italia, Roma 1931.
A. Monteverdi, L'opera poetica di Federico II imperatore, "Studi Medievali", n. ser., 17, 1951, pp. 1-20.
Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, I, Milano-Napoli 1960.
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