Musica
(XXIV, p. 124; App. II, ii, p. 372; III, ii, p. 186; IV, ii, p. 541; V, iii, p. 597)
L'evoluzione del linguaggio musicale nelle sue diverse forme e significati ha trovato trattazione sistematica nell'Enciclopedia Italiana innanzitutto nelle voci sotto il lemma musica apparse a partire dal vol. XXIV, poi aggiornate nelle Appendici dalla II alla V. In questa Appendice, cronologicamente assai prossima alla precedente, la voce musica non presenta un aggiornamento storico generale della materia, ma alcuni aspetti ormai consolidati della cultura musicale degli ultimi decenni. Fin dalla voce dell'Enciclopedia, la produzione popolare trova spazio accanto a quella definita allora come musica d'arte o colta. Alla musica pop, rock e folk e alla musica per film sono dedicati sottolemmi specifici nella voce dell'App. V, e nella voce cinematografo (App. II, i, p. 592) è dedicato un ampio paragrafo alla musica cinematografica. La voce jazz è presente nel vol. XVIII (p. 662), in App. III (i, p. 822) e V (ii, p. 577). In questa Appendice, la voce canzone presenta le radici internazionali e lo sviluppo prettamente italiano della canzone d'autore, genere popolare tipico del secondo dopoguerra nel nostro paese. Negli ultimi decenni del secolo, tuttavia, i tradizionali confini tra generi colti e popolari appaiono sempre più sfumati, e la commistione, al contrario, cifra caratteristica dell'epoca: ciò ha suggerito l'inserimento nella presente voce di un paragrafo su sincretismi e contaminazioni. Nelle voci dell'Enciclopedia è presente una trattazione analitica dei singoli aspetti del linguaggio musicale: tra le più rilevanti per l'evoluzione storica della seconda metà del Novecento si segnalano per es. le voci armonia (IV, p. 519, ripresa anche in App. II, i, p. 254), contrappunto (XI, p. 248, e App. II, i, p. 682), ritmo (XXIX, p. 460), strumentazione e strumenti musicali (XXXII, pp. 865 e 871), tempo (XXXIII, p. 480). Per la vasta tematica dell'organizzazione tonale, si possono vedere le voci atonalità (V, p. 252), dodecafonia (App. II, i, p. 799), modalità (XXIII, p. 509), tonalità (XXXIII, p. 1025). A problemi affini sono dedicate le voci armonici, suoni (IV, p. 529), suono: Musica (XXXII, p. 1013), temperamento (XXXIII, p. 452), timbro (XXXIII, p. 848), che introducono tuttavia in termini preliminari anche gli aspetti più specifici di trattamento, registrazione e riproduzione del suono: oltre a un primo approccio al tema con la voce grammofono (XVII, p. 650), all'approfondimento delle evoluzioni tecnologiche più rilevanti per la cultura musicale di questi decenni sono dedicate le voci suono delle App. III (ii, p. 872), IV (iii, p. 545) e V (v, p. 334). Alla m. elettronica è dedicata elettronica, musica, in App. III (i, p. 536); il tema viene qui ripreso (v. oltre), con la presentazione dei centri di ricerca e delle evoluzioni della notazione musicale intervenute nel corso degli ultimi decenni in virtù degli sviluppi della m. elettronica; sempre in questa Appendice, v. inoltre la voce informatica musicale.
Gli studi musicologici sono trattati nel sottolemma Storiografia nella voce musica dell'Enciclopedia, oltre che in diversi contributi dedicati a singole nazioni, e ripresi poi per l'aspetto specifico della m. di tradizione orale nella voce etnomusicologia (App. V, ii, p. 160). In questa Appendice la voce musicologia espone l'articolazione interna del campo complessivo di queste ricerche, con i rispettivi rapporti tra le diverse discipline, e paragrafi specifici dedicati ad alcune di esse. Si rinvia inoltre a beni culturali e ambientali, in questa Appendice, che include un sottolemma sulla tutela e conservazione dei beni musicali. L'evoluzione dell'educazione musicale è infine esposta nella presente voce musica. In numerose voci su singoli paesi, popoli e aree geografiche sono inseriti, già nell'Enciclopedia, paragrafi dedicati alla musica. Per i maggiori paesi europei e americani, per il Giappone e per l'Australia la trattazione è ripresa nell'App. V; per la Francia anche nell'App. II. In questa Appendice si è dedicato spazio ad alcune grandi aree culturali le cui tradizioni musicali appaiono sempre più rilevanti nel panorama internazionale (v. oltre). La m. in Italia è infine presente sotto il lemma italia nell'Enciclopedia e nelle Appendici II, III e V. *
I centri di ricerca musicale
di Alvise Vidolin
Nel corso del Novecento la m. ha vissuto importanti innovazioni dovute alla naturale spinta esplorativa della creazione artistica, ma anche all'interesse della scienza verso il mondo dei suoni e del linguaggio musicale, nonché al fascino che hanno esercitato su molti compositori il pensiero scientifico e l'evoluzione della tecnologia elettronica e informatica, con le molteplici applicazioni di nuovi strumenti musicali e di nuovi mezzi di produzione. Tutto ciò ha portato alla nascita dei centri di ricerca, ovvero di ambienti interdisciplinari in cui musicisti, scienziati e tecnologi potessero lavorare assieme, confrontare le proprie idee e realizzare progetti comuni. La storia dei centri rappresenta uno spaccato molto rappresentativo della ricerca musicale del 20° secolo.
Storicamente sono emblematiche due figure di scienziati che hanno operato nella seconda metà del 19° sec.: il fisico e fisiologo tedesco H. von Helmholtz e l'inventore statunitense T.A. Edison. Il primo realizzò importanti studi sulla fisica e sulla percezione del suono e costruì diversi strumenti di misura, fra cui l'elettrodiapason, l'antenato degli odierni oscillatori elettronici; il secondo inventò il fonografo, la prima memoria sonora, e il microfono a carbone, mediante il quale diventò possibile captare e trasportare i suoni per via elettrica.
Già verso la fine dell'Ottocento le nuove invenzioni lasciarono intravedere sostanziali mutazioni: si poteva ascoltare la m. anche senza la presenza fisica dell'interprete; il suono musicale, che era sempre stato prodotto dai gesti dell'uomo, poteva essere generato, anche per durate infinite, dalla sola energia elettrica. Ma bisogna attendere la seconda metà del 20° sec. per assistere a un rapido cambiamento del mondo musicale grazie alla tecnologia elettronica. Nella prima metà del secolo, infatti, la tecnologia elettrica veniva utilizzata nella riproduzione e nella diffusione radiofonica della m. tradizionale. Nonostante fossero stati inventati nuovi strumenti musicali, alcuni di grande pregio, la loro funzione era rimasta identica a quella degli strumenti acustici. Fra questi nuovi strumenti ricordiamo il Telharmonium (1906) di T. Cahill, il Theremin (1919) di L. Termen, le Ondes Martenot di M. Martenot (1928), l'organo Hammond di L. Hammond (1933).
La vera rivoluzione è avvenuta negli anni Cinquanta, quando è nata la m. elettronica (v. elettronica, musica, App. III) che si è sviluppata in varie forme (concreta, elettronica pura, elettroacustica, mista e prodotta in studio o, successivamente, dal vivo), e con essa sono cambiati i metodi e i luoghi di produzione della musica. La m. elettronica ha inventato forme e sonorità che riflettevano un diverso pensiero musicale, il quale spesso scaturiva dai nuovi mezzi, dal desiderio di esplorare differenti dimensioni sonore e dall'ispirazione provocata da teorie scientifiche. Nascevano così diversi centri in sedi di emittenti radiofoniche, i cosiddetti studi per la m. elettronica o elettroacustica degli anni Cinquanta e Sessanta, e successivamente, con il diffondersi della m. informatica (v. oltre) nelle università, i centri degli anni Settanta e Ottanta.
Negli anni Novanta, la ricerca ha legato sempre più le università all'industria degli strumenti musicali elettronici, che costruisce e diffonde nuovi prodotti facilmente utilizzabili anche da musicisti privi di competenze tecnologiche. Con essi nascono centri di produzione musicale necessari a mantenere in vita l'ampio repertorio musicale elettronico e a soddisfare le richieste produttive di nuova m. che sempre più spesso si avvale delle tecnologie informatiche.
I centri di musica elettroacustica
Groupe de Recherches Musicales (GRM)-Institut National de l'Audiovisuel (INA), Paris. - Nel 1948 P. Schaeffer iniziò le prime esperienze di musique concrète negli studi radiofonici dell'emittente parigina (Cinq études de bruits); a lui si unì ben presto il compositore P. Henry, che portò la sperimentazione su un piano più musicale. Nel 1951 nacque il Groupe de Recherches de Musique Concrète e molti compositori, fra cui P. Boulez, O. Messiaen, D. Milhaud, K. Stockhausen, cominciarono a frequentare lo studio. Le opere musicali prodotte negli anni Cinquanta furono caratterizzate dall'uso di materiali concreti, cioè suoni naturali complessi, con i quali Schaeffer compì i primi studi (Étude aux objects, 1959) corredati da ampia trattazione teorica (Traité des objects musicaux, 1966). Importanti sono i lavori di E. Varèse (Déserts, 1954) e di I. Xenakis (Diamorphoses, 1957; Concret PH, 1958; Orient Occident, 1960).
I principali strumenti utilizzati in quest'ambito furono: registratori magnetici a velocità variabile, microfoni, filtri e alcune apparecchiature appositamente create, come il Phonogène, per la variazione della velocità di scorrimento del nastro magnetico secondo la scala temperata, e il Morphophone, per ottenere echi artificiali multipli. Nel 1958 il centro prese la denominazione attuale e nel 1966 la direzione passò a F. Bayle, artefice di molte composizioni fra cui Espaces inhabitables (1967) e Grande polyphonie (1974). Il centro seguì attivamente le evoluzioni tecnologiche adattando i nuovi mezzi alla filosofia compositiva della m. elettroacustica. Alcune tappe furono: il sintetizzatore analogico Coupigny-Chiarucci (1968); l'orchestra di altoparlanti Acousmonium (1973); il processore audio in tempo reale SYTER (1984); il GRM-tools (1990), un programma per elaborazione dei suoni in tempo reale. Nel 1993 fu inaugurata l'Acousmathèque, che raccoglie storia e produzioni del centro. L'attività del GRM ha portato alla crescita di una scuola di composizione elettroacustica di cui F. Bayle, M. Chion, B. Parmegiani, J. Schwarz e D. Teruggi sono i maggiori protagonisti.
Studio für Elektronische Musik-WDR (Westdeutscher Rundfunk), Köln. - Il primo studio di m. elettronica nacque nel 1951 a Colonia a opera di H. Eimert, avvalendosi della collaborazione iniziale di W. Meyer-Eppler, professore di fonetica e di scienza delle comunicazioni all'università di Bonn. I primi lavori svilupparono la tecnica seriale di A. Webern ampliandola a tutti i parametri compositivi del microcosmo sintetico e integrandola con le conoscenze di psicoacustica.
Il principale protagonista fu Stockhausen con Studie I (1953), Studie II (1954) e Gesang der Jünglinge (1955-56); con quest'ultimo brano in particolare ruppe il divario fino allora esistente fra purismo elettronico (ogni suono era composto partendo da tre eventi elementari: suono sinusoidale, rumore bianco e impulso) e uso di materiali concreti. Una figura importante, che collaborò con lo studio fra il 1954 e il 1964, è G.M. Koenig, il quale, oltre a svolgere la propria attività compositiva (Klangfiguren I e II, 1955-56; Essay, 1958; Terminus I, 1962), fu responsabile della realizzazione di opere di altri compositori che frequentarono il centro. Fra questi, F. Evangelisti (Incontri di fasce sonore, 1957), e G. Ligeti (Glissandi, 1957 e Artikulation, 1958). Negli anni 1959-60 Stockhausen realizzò Kontakte, uno dei maggiori lavori elettronici del primo decennio, per il quale fu costruito un altoparlante rotante per la spazializzazione dinamica dei suoni. Nel 1962 assunse la direzione artistica del centro e continuò la vasta produzione di lavori elettronici (Hymnen, 1966-67; Sirius, 1975-77, e alcune parti elettroniche del ciclo di opere teatrali Licht). Nel 1972 la direzione organizzativa passò da O. Tomek a W. Becker Karsten, che spinse la produzione del centro verso l'integrazione della m. elettronica con il repertorio per strumenti acustici. Fra gli altri, hanno realizzato lavori musicali H. Brün, P. Eötvös, Y. Höller, M. Kagel, H. Pousseur.
Studio di Fonologia Musicale-RAI, Milano. - Nacque nel 1955 grazie all'instancabile attività di L. Berio e B. Maderna, che avviarono una nuova ricerca musicale caratterizzata dal rifiuto della polemica fra m. concreta e m. elettronica pura, e tesa a utilizzare tutte le possibilità dei nuovi mezzi senza pregiudizi, rivalutando la condizione artigiana del musicista. Particolare attenzione fu rivolta alla composizione di opere in cui strumenti tradizionali e mezzo elettronico tendono a fondersi per dare origine a un nuovo linguaggio musicale, come in Musica su due dimensioni (1958) di Maderna.
Nei primi anni il fisico A. Lietti progettò numerose apparecchiature. Il registratore magnetico fu lo strumento principale, mediante il quale venivano organizzati temporalmente, accelerati, rallentati, sezionati e sovrapposti innumerevoli materiali sonori, indipendentemente dalla loro natura. Soprattutto grazie a questo strumento nacquero importanti lavori come Thema. Omaggio a Joyce (1958) e Visage (1961) di Berio, in cui è protagonista la voce umana, oppure Continuo (1958) e Serenata III (1961) di Maderna, che manipolano sonorità di strumenti tradizionali.
Negli anni Sessanta iniziò una nuova fase della ricerca musicale, il cui principale artefice fu L. Nono. La fabbrica illuminata (1964), Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz (1966), ... sofferte onde serene... (1977) sono alcuni dei suoi principali lavori. Hanno lavorato presso lo studio J. Cage, N. Castiglioni, A. Clementi, A. Gentilucci, G. Manzoni, H. Pousseur, seguiti costantemente da M. Zuccheri, tecnico dello studio dalla fondazione alla chiusura, avvenuta nel 1983.
Columbia-Princeton Electronic Music Center. - Venne istituito nel 1959 dalle università di Columbia e Princeton convogliando in un unico centro due esperienze maturate negli anni Cinquanta: la cosiddetta tape music di V. Ussachevsky e O. Luening, e l'RCA Mark II sound synthesizer, uno strumento sviluppato a partire dal 1951 presso i laboratori della RCA a Princeton da H. Olson e H. Belar, che aveva la capacità di generare suoni seguendo una partitura codificata su nastro di carta perforato. Per questo strumento M. Babbitt compose diversi lavori, fra cui Composition for synthesizer (1961); Vision and prayer (1961); Ensembles for synthesizer (1962-64).
Negli anni Sessanta il centro si sviluppò in più studi dotati, fra l'altro, di sintetizzatori Moog e Buchla. In uno di questi, Varèse realizzò nel 1961 la sua revisione dei 'suoni organizzati' di Déserts. La produzione musicale fu dominata dalla combinazione di strumenti tradizionali e nastro, come nelle musiche create, fra gli altri, da B. Arel, W. Carlos, M. Davidovski, A. Shields, P. Smiley. Nel 1963 all'università di Princeton iniziò la ricerca in m. informatica (MUSIC IVBF di H. Howe, G. Winham, J. Randall) e nel 1975 fu fondato il Godfrey Winham Laboratory animato da P. Lansky (ciclo Idle Chatter, 1984-88) che realizzò programmi di editing e missaggio digitale (MIX 1982; Cmix 1990).
Instituut voor Sonologie-Università di Utrecht. - Nacque nel 1961 sfruttando le apparecchiature del laboratorio di fisica della Philips utilizzate da Varèse per Poème électronique (1957). Nel 1964 il centro nominò Koenig direttore e, nel 1967, attivò un importante corso annuale in sonologia, da cui l'istituto prese il nome. Negli anni Sessanta il centro divenne il punto di riferimento per la m. elettronica europea sia per i lavori musicali (Terminus II, 1966-67 e Funktionen, 1967-69 di Koenig; Objets distants, 1970, di J. Wink) sia per la ricerca scientifica (il generatore di funzioni variabili realizzato da S. Tempelaars nel 1964; il progetto di sintesi VOSIM di W. Kaegi e Tempelaars iniziato nel 1971). L'installazione di un elaboratore nel 1971 condusse a una nuova fase di sviluppo che produsse i programmi di composizione PROJEKT 1 e PROJEKT 2 di Koenig, il linguaggio MIDIM di Kaegi e il programma di sintesi a istruzioni (PILE, 1978) di P. Berg. Nel 1986 il centro si trasferì presso il Conservatorio reale de L'Aja dove continuò l'attività sotto la direzione di F. Weiland.
Altri centri. - Intorno alla metà degli anni Cinquanta sorsero diversi centri, fra cui lo Studio di musica elettroacustica di Gravesano (Svizzera), fondato nel 1954 da H. Scherchen; lo Studio di musica elettronica della radio giapponese NHK (Nippon Hoso Kyokai) di Tokyo, fondato nel 1954 da T. Mayuzumi (Campanology, 1959), dove operarono T. Takemitsu (Relief statique, 1956; Vocalism Ai, 1960) e M. Moroi (Transfiguration, 1958); lo Studio Experymentalne Polskiego Radia i TV di Varsavia, nato nel 1957, diretto da J. Patkowski, nel quale lavorarono K. Penderecki (Psalmus, 1961), W. Kotonski (Microstructures, 1963), B. Schäffer (Symphonie, 1966) ed E. Rudnik (Mobile, 1972); l'Estudio de Fonología Musical dell'università di Buenos Aires fondato da F. Kröpfl nel 1958, da cui nacque nel 1982 il Laboratorio de Investigación y Producción Musical (LIPM), uno dei più importanti centri dell'America Latina; gli Electronic Music Studios (EMS), fondati da P. Zinovieff nel 1969 a Putney (Londra), dai quali uscirono molti sintetizzatori analogici, come il Synthi 100; l'Instituut voor Psychoacustica en Elektronishe Muziek (IPEM), creato nel 1962 dall'università di Gand in collaborazione con la Belgische Radio en Televisie (BRT) sotto la direzione di L. Goethals; l'Elektron Musik Studion (EMS) di Stoccolma, in cui nel 1964 K. Wiggen progettò un sistema elettronico a controllo digitale in anticipo sui tempi, e dove, tra gli altri, lavorarono L.G. Bodin e T. Ungvary; il Groupe de Musique Expérimentale de Bourges (GMEB), nato nel 1970, animato da F. Barrière e C. Clozier, vanta un'ampia produzione musicale e l'istituzione di un importante concorso di m. elettroacustica; l'Experimentalstudio Heinrich Strobel Stiftung des Südwestfunks, fondato a Freiburg im Breisgau nel 1971 da H.P. Haller (inventore dello spazializzatore Halaphon), orientato alla produzione di m. elettronica dal vivo, ha prodotto tutti i lavori live electronics di L. Nono degli anni Ottanta, fra cui Prometeo (1984). Nel Nordamerica molte esperienze nacquero in contesti non sempre istituzionali e si svilupparono in maniera molto dinamica. Un esempio significativo è la produzione elettroacustica di J. Cage, che iniziò nello studio privato di L. e B. Barron (fondato a New York nel 1948) con Williams Mix (1952) e proseguì in luoghi e con collaborazioni sempre diverse. La cosiddetta tape music americana si arricchì di nuovi mezzi dalla metà degli anni Sessanta sfruttando le possibilità offerte dai sintetizzatori Moog e Buchla. Si ricorda inoltre il San Francisco Tape Music Center, animato negli anni Sessanta da P. Oliveros e M. Subotnick. Ai centri di ricerca è spesso collegata la nascita di diversi gruppi di performance con mezzi elettronici.
I centri di musica informatica
Bell Telephone Laboratories, Murray Hill (N.J.). - È il principale centro statunitense nel campo delle telecomunicazioni. Già nella prima metà del 20° sec. furono effettuate importanti ricerche scientifiche, utili anche al mondo musicale. Fra queste ricordiamo: i primi lavori sulla percezione acustica (mascheramento, isofonia); il vocoder (1930) utilizzato in m. a partire dagli anni Settanta; l'invenzione del transistor (1948) e gli studi sulla codifica numerica dei segnali che stanno alla base della m. informatica e dell'audio digitale. In quest'ambiente s'innestano le ricerche che M. Mathews, con il supporto di J. Pierce, iniziò verso la fine degli anni Cinquanta sulla generazione dei suoni mediante elaboratore e che portarono il centro a diventare la culla della m. informatica.
Nel 1957 Mathews terminò MUSIC I, il primo di una serie di programmi per elaboratore di cui il più famoso è il MUSIC V (1968), in grado di generare m. in maniera completamente autonoma, seguendo la cosiddetta partitura (v. oltre: La notazione nella musica elettronica). Da questa ricerca nacquero i programmi MUSIC N, diffusi poi in tutti i centri, in cui N più che un numero d'ordine evoca il modello di elaboratore per cui è stato sviluppato. Nel 1967 Mathews aprì un nuovo settore di ricerca sull'esecuzione musicale in tempo reale. Nacque così il GROOVE, un sistema ibrido che utilizza un elaboratore per registrare, modificare e riprodurre i gesti che un musicista compie dal vivo per suonare un sintetizzatore analogico. Mediante tale sistema Mathews realizzò la prima versione del programma Conductor, grazie al quale è possibile dirigere in tempo reale l'esecuzione di una partitura suonata dall'elaboratore; nel 1992 il programma fu dotato del Radio Baton, un efficace controllo espressivo della m. utilizzato in contesti diversi da molti musicisti.
Molti compositori lavorarono con Mathews sulla sintesi dei suoni e sull'esecuzione musicale, diventando spesso fondatori di nuovi centri e sviluppando autonomamente le idee nate presso i Bell. Fra questi ricordiamo J. Tenney (Analogue #1: Noise study, 1961); J.C. Risset (catalogo di sintesi dei suoni musicali e analisi del suono di tromba), F.R. Moore (GROOVE), J. Chowning, B. Vercoe, C. Dodge (lavori sulla voce sintetica, fra cui Speech songs, 1973). La produzione musicale non è tuttavia così ampia e importante come la produzione scientifica e tecnologica, in quanto non rientra nelle finalità istituzionali dei laboratori Bell, anche se queste ricerche hanno dato vita a moltissime composizioni in altri centri.
Center for Computer Research in Music and Acoustics (CCRMA)-Stanford University (Calif.). - Questo centro venne fondato nel 1975 a seguito delle ricerche sulla sintesi dei suoni e sulla simulazione delle sorgenti sonore in movimento che erano state iniziate da Chowning, nella prima metà degli anni Sessanta, presso i laboratori d'intelligenza artificiale della Stanford University.
Chowning inventò la tecnica di sintesi dei suoni per modulazione di frequenza (1967), che ebbe un enorme successo: fu implementata nel sintetizzatore digitale Samson Box (attivo al CCRMA fino al 1992); venne brevettata e introdotta nei primi sintetizzatori digitali Yamaha (prodotti industrialmente dal 1983); è presente in molte schede audio che corredano gli elaboratori personali degli anni Novanta; venne utilizzata da Chowning per comporre Turenas (1972), Stria (1977) e Phonè (1981). Molti musicisti entrarono a far parte del CCRMA, primo fra tutti L. Smith, cofondatore del centro e ideatore del programma di aiuto alla composizione e stampa di partiture SCORE; poi J.A. Moorer, L. Rush e J. Grey, che realizzarono importanti studi di psicoacustica, analisi e registrazione digitale, seguiti da G. Loy, D. Jaffe, M. McNabb, B. Schottstaedt (inventore del linguaggio PLA e di Common Lisp Music): il loro contributo servì a dare impulso al versante musicale delle ricerche. Negli anni Ottanta J. Smith aprì un importante settore di sintesi mediante modelli fisici, al quale fu affiancato uno studio dei sistemi di controllo in tempo reale per tali modelli. Verso la metà degli anni Ottanta Pierce prima, e Mathews poi, diventarono professori al CCRMA, portando nel centro un ricco bagaglio di esperienze personali.
Institut de Recherche et de Coordination Acoustique/Musique (IRCAM), Paris. - Nacque nel 1975 per iniziativa di Boulez con lo scopo di creare un centro musicale, su basi scientifiche, collegato al Centre national d'art et de culture Georges Pompidou. Gli obiettivi iniziali furono: la creazione di un positivo rapporto musicista-scienziato, lo sviluppo di ricerche interdisciplinari per la produzione di strumenti, materiali e tecniche utili al compositore; il supporto alla composizione e all'esecuzione di nuove opere musicali; attività didattica e di diffusione delle ricerche e dei lavori musicali prodotti. Per realizzare queste idee Boulez nominò una équipe di lavoro organizzata per dipartimenti e composta da L. Berio (elettroacustica), J.C. Risset (informatica), M. Mathews (consulente scientifico), V. Globokar (strumenti e voce), G. Bennett (diagonale), M. Decoust (pedagogia), N. Snowman (responsabile artistico). Nel corso degli anni la struttura fu più volte cambiata, come pure i responsabili dei dipartimenti, in relazione all'evoluzione dell'attività e della tecnologia. L'IRCAM, per ragioni acustiche, fu collocato nel sottosuolo, dotato di una camera anecoica e dell'Espace de projection (1978): una piccola sala sperimentale da concerto ad acustica variabile.
Le prime ricerche si appoggiarono sull'esperienza tecnologica dei Bell Laboratories e del CCRMA. Risset realizzò una nuova versione del MUSIC V (con cui compose Inharmonique, 1977, e Songes, 1979). Berio chiamò dall'Italia un fisico dell'università di Napoli, G. Di Giugno, che accettò la sfida di realizzare un sintetizzatore digitale capace di simulare 1000 oscillatori in tempo reale: già nel 1976 fu completato il primo prototipo, chiamato 4A, al quale ne seguirono altri fino al Sistema 4X del 1981 che fu prodotto a livello industriale. Con tale sistema Boulez realizzò Répons (1981, poi più volte rielaborato negli anni seguenti), la sua prima composizione prodotta all'IRCAM. Nel 1979 il gruppo di ricerca coordinato da X. Rodet realizzò CHANT, programma per la sintesi dei suoni mediante un modello del canto (utilizzato fra gli altri da J. Harvey in Mortuos plango, vivos voco, 1980) e pochi anni più tardi il linguaggio FORMES di aiuto alla composizione (usato da K. Saariaho in Io, 1987). Particolare attenzione fu rivolta alle ricerche di psicoacustica (guidate da S. McAdams e D. Wessel) e successivamente all'esplorazione delle possibilità offerte dagli strumenti musicali dell'industria elettronica e informatica. Nel 1988 M. Puckette completò il linguaggio grafico MAX di programmazione per ambienti MIDI, e con esso creò un versatile strumento per il controllo delle apparecchiature in tempo reale (utilizzato da P. Manoury in Pluton, 1989). MAX divenne la base per la programmazione della stazione di elaborazione dei segnali ISPW (E. Lindemann, 1991) e fu ampliato nel 1997 per l'elaborazione dei suoni. Altri importanti settori di ricerca, in continua evoluzione, riguardano il progetto grafico Audiosculpt (G. Eckel, 1994) per analisi, manipolazione e resintesi dei suoni; il progetto Spatialisateur (O. Warusfel, 1995) per la diffusione nello spazio dei suoni elettroacustici; l'ambiente d'aiuto alla composizione Patchwork.
La ricerca si affianca a un'ampia attività didattica, di convegni, seminari, laboratori e concerti nel corso dei quali sono presentate e messe a confronto, in un contesto internazionale, le ricerche e le opere musicali realizzate nel centro, uno dei pochi al mondo che, grazie ai cospicui finanziamenti pubblici, investe così ingenti risorse nella ricerca musicale. L'IRCAM opera in stretta collaborazione con l'Ensemble Intercontemporain per la produzione dei lavori musicali, che sono documentati nella mediateca del centro. Sono moltissimi i compositori che hanno frequentato l'IRCAM a diverso titolo, e la lista rappresenta una buona fotografia dei protagonisti della m. contemporanea dell'ultimo quarto del 20° secolo.
Sezione musicologica del CNUCE-CNR, Pisa. - I primi esperimenti italiani di m. informatica risalgono al 1967, quando P. Grossi iniziò a programmare un elaboratore per far eseguire alcuni brani musicali di Bach, Paganini e Webern. Dal 1969 al 1988 Grossi fu direttore della Sezione musicologica del CNUCE (Centro Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico)-CNR di Pisa, dove realizzò il sistema TAUMUS, per l'esecuzione di brani classici, ma anche per lo sviluppo di un ambiente compositivo basato sulla generazione aleatoria di strutture musicali eseguite in tempo reale, avviando inoltre ricerche di musicologia computazionale in collaborazione con L. Camilleri. L'attività iniziata da Grossi è continuata da L. Tarabella nella creazione di dispositivi gestuali per l'esecuzione musicale dal vivo.
Centro di Sonologia Computazionale (CSC)-Università di Padova. - Le attività musicali iniziarono nel 1972, sfruttando le esperienze acquisite nella sintesi della voce e le risorse di calcolo dell'elaboratore centrale dell'ateneo. Nel 1974 fu possibile ascoltare i primi suoni sintetizzati all'elaboratore e utilizzare programmi di sintesi MUSIC. Nel 1979 fu formalmente istituito il CSC a opera di un gruppo di ingegneri (G.B. Debiasi, G. De Poli, G. Tisato, A. Vidolin) che impostarono l'attività in tre specifici settori: ricerca scientifica, didattica, creazione di opere musicali mediante elaboratore.
L'attività di ricerca portò allo sviluppo dell'Interactive computer music system (Tisato, 1976-90) e dell'ambiente di controllo in tempo reale per il Sistema 4I di G. Di Giugno (Sapir, 1983-88). Tale sistema fu utilizzato per la prima esecuzione di Prometeo (1984) di Nono. Negli anni Novanta la ricerca si spostò sulla sintesi per modelli fisici (simulazione dei fenomeni di risonanza del pianoforte) e sullo studio dei gesti espressivi dell'esecuzione musicale finalizzato alla creazione di un modello dell'interprete. La vasta produzione di opere musicali originali - dovuta anche alle commissioni del Laboratorio permanente per l'Informatica musicale della Biennale (LIMB) di Venezia - comprende lavori di J. Dashow (Conditional assemblies, 1980), R. Doati (Una storia chimica, 1987-89), S. Sciarrino (Perseo e Andromeda, 1989), M. Stroppa (Traiettoria, 1982-84).
Centro Tempo Reale, Firenze. - Fu creato da Berio alla fine degli anni Settanta per promuovere la m. elettroacustica dal vivo, ma rimase inattivo fino al 1988. In quell'anno P. Otto e N. Bernardini svilupparono il sistema di spazializzazione del suono TRAILS che Berio utilizzò per primo in Ofanim (1988-92). Oltre alle opere di Berio (fra cui Outis, 1996), il centro produsse opere elettroniche di altri compositori sotto la guida di Bernardini. Fra queste ricordiamo Orfeo cantando…tolse (1994) e Quare Tristis (1995) di A. Guarnieri, The Cenci (1997) di G. Battistelli.
Altri centri. - Nel 1957 all'università dell'Illinois (Urbana, USA) L. Hiller compose Illiac suite for string quartet utilizzando un elaboratore per generare la partitura. Questo fu il primo esempio di composizione algoritmica; pochi anni più tardi Xenakis realizzò le sue composizioni di m. stocastica, e nel 1965 fondò a Parigi il CEMAMu (Centre d'études de mathématique et automatique musicales). A partire dagli anni Settanta, i programmi MUSIC sviluppati ai Bell Laboratories furono richiesti da molte università nordamericane, e con il loro arrivo si aprirono nuovi centri e la ricerca si allargò a macchia d'olio. B. Vercoe sviluppò il MUSIC 360 all'università di Princeton e nel 1971 si trasferì al Massachusetts Institut of Technology (MIT) di Boston, dove fondò un importante centro; produsse i programmi MUSIC 11 (con cui compose Synapse, 1976), e CSOUND (1985). Quest'ultimo è tuttora uno dei programmi di sintesi ed elaborazione digitale dei suoni più utilizzato nei centri. Negli anni Novanta al MIT sorse il Media Laboratory, con l'obiettivo di promuovere nuove forme d'arte basate sulla tecnologia informatica. La parte musicale fu affidata a T. Machover, che spinse il centro nello sviluppo di iperstrumenti. Nel 1973, al Sonic Research Studio della Simon Fraser University di Vancouver (Canada), B. Truax realizzò il programma POD, e con esso molte composizioni fra cui Androginy (1978), Arras (1980), Solar Elipse (1985). Nel 1979 F.R. Moore creò alla University of California, San Diego, il Computer Audio Research Laboratory (CARL), dove sviluppò CMUSIC. Alla fine degli anni Settanta, Risset rientrò a Marsiglia per rivitalizzare, in collaborazione con D. Arfib, il Laboratoire de mécanique et d'acoustique-Centre national de la recherche scientifique (LMA-CNRS), all'interno del quale si sviluppò un gruppo di ricerca sulla trasformazione dei suoni nel dominio tempo-frequenza (trasformata Wavelet: Kronland-Martinet, 1988). Nel 1984 M. Waisvisz fondò ad Amsterdam lo Studio voor Electro-instrumentale Muziek (STEIM), dove furono sviluppati nuovi dispositivi di controllo gestuale per sintetizzatori MIDI, fra cui Hands, mediante il quale compose diversi lavori. In Italia negli anni Ottanta la ricerca fu condotta in centri universitari (Laboratorio di informatica musicale, LIM, di Milano; Acustica elettronica, ACEL, di Napoli; Dipartimento di Informatica, Sistemistica e Telematica, DIST, di Genova), e verso la fine del decennio si svilupparono alcuni centri di produzione musicale come il Centro Ricerche Musicali (CRM) di Roma, animato da M. Lupone e L. Bianchini, e Acustica Informatica Musica (ACON) di Milano, diretto da L. Francesconi e M. Tadini.
bibliografia
F.K. Prieberg, Musica ex machina, Über das Verhältnis von Musik und Technik, Berlin 1960 (trad. it. Torino 1963).
A. Gentilucci, Introduzione alla musica elettronica, Milano 1972.
La musica elettronica, a cura di H. Pousseur, Milano 1976.
M. Chion, G. Reibel, Les musiques électroacoustiques, Aix-en-Provence 1976.
H. Davies (per le voci sugli strumenti elettrofoni), in The new Grove dictionary of musical intruments, ed. S. Sadie, 3 voll., London 1984.
Composers and the computer, ed. C. Roads, Los Altos (Calif.) 1985.
R. Doati, A. Vidolin, Nuova Atlantide. Il continente della musica elettronica 1900-1986, a cura di R. Doati, A. Vidolin, Venezia 1986.
Il complesso di Elettra. Mappa ragionata dei centri di ricerca e produzione musicale in Italia, a cura di E. Marinelli, Roma 1995 (scritti di G. Battistelli et al.).
J. Chadabe, Electric sound. The past and promise of electronic music, Upper Saddle River (N.J.) 1997.
N. Scaldaferri, Musica nel laboratorio elettroacustico. Lo Studio di Fonologia di Milano e la ricerca musicale negli anni Cinquanta, Lucca 1997.
La notazione nella musica elettronica
di Alvise Vidolin
La maggior parte delle composizioni di m. elettronica è priva di partitura in quanto il compositore produce personalmente la m. nella forma acustica definitiva, memorizzata su un supporto di registrazione, che per tradizione è il nastro magnetico. Il nastro quindi contiene al tempo stesso l'idea compositiva, l'interpretazione e l'esecuzione musicale dell'opera. Questa regola trova tuttavia molte eccezioni, e di conseguenza esistono diversi esempi di notazione, con tecniche di scrittura e funzioni differenti. Si possono individuare quattro tipologie di partitura.
Partitura esecutiva
È utilizzata per l'esecuzione dal vivo di parti elettroniche e strumentali. Il riferimento temporale può essere assoluto, se l'elettronica (generalmente registrata) guida l'esecuzione, oppure metrico, se le parti registrate sono brevi e/o l'elettronica è realizzata in tempo reale (live electronics). La notazione delle parti elettroniche, anche se si integra con la notazione tradizionale delle parti strumentali, è funzionale non tanto al risultato che si deve ottenere quanto alle azioni che l'esecutore deve compiere. Per es., si veda Omaggio a György Kurtág (1983-86) di Nono.
Partitura operativa
È finalizzata alla realizzazione sonora dell'opera (o di sue parti) memorizzata su nastro. Il compositore definisce tecniche e processi esecutivi. Per la natura stessa della m. elettronica, tali partiture ricorrono a forme di rappresentazione nate in ambienti scientifici che introducono in maniera implicita il concetto di 'modello'. La partitura è composta dalla definizione di un 'modello' e dei 'dati', ovvero dalla definizione dei processi di sintesi e/o di elaborazione dei suoni e dai valori che i parametri di controllo del modello assumono nel tempo. Il modello può essere definito in vari modi: testo, diagramma di flusso a blocchi funzionali, formula matematica, linguaggio formale. I dati sono spesso definiti mediante funzioni nel tempo continue o discrete, rappresentabili con un grafico, una sequenza ordinata di valori, la traccia dell'azione gestuale su un dispositivo di controllo, un procedimento algoritmico. Nella maggior parte dei casi i dati si riferiscono a parametri fisici (tensione elettrica, frequenza di filtraggio ecc.) e pertanto la partitura appare più vicina alle antiche intavolature per strumenti, che fissavano azioni esecutive, piuttosto che alle partiture tradizionali in cui sono codificati i risultati percettivi dell'esecuzione (altezza, dinamica ecc.). Per es. si veda Studie II (1953) di K. Stockhausen, in cui il modello è definito nel testo introduttivo mentre i dati sono stabiliti in una partitura grafica.
Partitura descrittiva
La realizzazione sonora dell'opera viene indicata dal compositore notando il risultato percettivo desiderato. Poiché la m. elettronica, rispetto a quella tradizionale, utilizza un vocabolario sonoro molto più ampio (che comprende, fra l'altro, suoni inarmonici e rumori che si evolvono in uno spazio temporale continuo, e offre al compositore la possibilità di creare i propri 'strumenti' virtuali e quindi le proprie sonorità), non esiste un linguaggio di notazione che, analogamente a quello tradizionale, metta in corrispondenza univoca il suono percepito con il segno o il simbolo. Tali partiture pertanto sono poco precise e lasciano molto spazio al libero arbitrio del realizzatore. In molti casi la partitura, se accompagna la realizzazione musicale del compositore, può considerarsi alla stregua di una partitura d'ascolto o di appunti sonori utili per mettere in luce l'idea musicale e gli elementi strutturali dell'opera. Per es. si veda Traiettoria (1982-84) di Stroppa.
Partitura d'ascolto
Non è finalizzata all'esecuzione dell'opera bensì serve da supporto visivo e analitico all'ascoltatore. Normalmente è realizzata a posteriori da un musicologo basandosi sull'ascolto del nastro. Un primo significativo esempio è la partitura di Artikulation (1958) di Ligeti realizzata da R. Wehinger.
Queste quattro tipologie spesso si integrano e convivono in un'unica partitura. È significativo il caso di Kontakte (1959-60) di K. Stockhausen che esiste in due versioni: una elettronica, con la relativa partitura operativa, e l'altra per pianoforte, percussioni e suoni elettronici, con la partitura esecutiva. Quest'ultima può essere utilizzata come partitura d'ascolto della versione elettronica e in taluni punti è anche partitura descrittiva. Nella m. informatica spesso la partitura è l'unico mezzo per ottenere dall'elaboratore il risultato sonoro. È questo il caso dei programmi MUSIC N la cui partitura è un buon esempio di partitura operativa, oppure dei programmi più recenti di aiuto alla composizione basati su sistemi grafici.
bibliografia
Le partiture delle opere elettroniche di K. Stockhausen: Wien, Universal Edition, 1953-69, e Kürten, Stockhausen Verlag dal 1970.
F. Evangelisti, Studio elettronico. Incontri di fasce sonore, Wien, Universal Edition, 1958.
G.M. Koenig, Essay. Komposition für elektronische Klange, 1957, Wien, Universal Edition, 1960.
J. Cage, Imaginary Landscape N.5, New York, Henmar Press, 1961.
R. Kayn, Cybernetics II, Milano, Suvini Zerboni, 1968.
R. Wehinger, Ligeti, Artikulation, Mainz, Schott, 1970.
P. Boulez, Dialogue de l'ombre double, Wien, Universal Edition, 1985.
M. Stroppa, Traiettoria… deviata, Milano, Ricordi, 1985.
S. Sciarrino, Perseo e Andromeda, Milano, Ricordi, 1992.
L. Nono, Omaggio a György Kurtág, Milano, Ricordi, 1996.
Educazione musicale
di Serena Facci
Normativa e istituzioni
In Italia l'istruzione musicale è divisa in due filoni: quello professionale e quello di base; con l'espressione 'educazione musicale' ci si riferisce propriamente a una fase specifica di quest'ultimo. Il primo è affidato ai conservatori di musica, il cui ruolo è quello di preparare strumentisti, direttori d'orchestra, compositori e insegnanti delle scuole di base. Alla scuola dell'obbligo, invece, spetta il compito di fornire al complesso della popolazione la formazione musicale ritenuta basilare.
All'inizio del 20° sec. i conservatori statali di m. erano 14, e tali sono rimasti fino alla vigilia degli anni Settanta quando, dopo la statalizzazione di 11 istituti musicali comunali avvenuta tra il 1967 e il 1969, sono state fondate e riconosciute molte nuove sedi, soprattutto nel Sud del paese. Attualmente il numero, comprese le sedi distaccate, ammonta a 57, a cui vanno aggiunti i 13 istituti musicali parificati. In alcuni conservatori sono istituiti i licei musicali, che funzionano come corsi quinquennali di istruzione secondaria superiore sperimentali, e rilasciano il titolo di maturità musicale.
Nonostante alcuni episodici interventi di riforma (i più rilevanti riguardano l'istituzione e istituzionalizzazione di alcuni corsi straordinari, come quelli di chitarra, musica elettronica, didattica, ecc.), la legge ancora vigente per la gestione dei conservatori è il r.d. 11 dic. 1930, nr. 1945.
Più variegata è la storia normativa nelle scuole di base. Il primo riferimento alle 'esercitazioni di canto' venne fatto nel r.d. Boselli per la scuola elementare nel 1888. Con la riforma Gentile l'educazione musicale venne riconosciuta come materia autonoma sia nelle elementari (dove la legge si limita a parlare di 'canto') che negli istituti magistrali, in cui la dizione della materia è 'Musica e Canto corale'.
Nella scuola media obbligatoria, istituita nel 1962, venne introdotta per la prima volta l'educazione musicale come disciplina a sé stante (pur se facoltativa nella seconda e terza classe) e affidata a un insegnante diplomato in conservatorio. Si dovette però arrivare al varo dei nuovi programmi del 1979 per avere un reale riconoscimento della materia, attraverso l'equiparazione del monte ore (due a settimana, o tre nelle classi a tempo prolungato) con quello di altre discipline (educazione artistica ed educazione fisica). Nello stesso anno venne avviata la sperimentazione per l'insegnamento di alcuni strumenti musicali all'interno della scuola media.
I nuovi programmi della scuola elementare, emanati con d.p.r. 12 febbr. 1985, nr. 104, hanno introdotto la disciplina denominata 'Educazione al suono e alla musica'. Per rendere operativa la nuova disciplina, i provveditorati agli studi, negli ultimi anni, hanno istituito corsi di riqualificazione per insegnanti elementari finalizzati a creare una nuova figura di maestro.
Per quanto riguarda le scuole superiori, dove si è assistito a diverse sperimentazioni, l'educazione musicale è stata ufficialmente presente negli istituti magistrali fino al 1998. Dopo la conversione di questi ultimi in licei a indirizzo socio-pedagogico, la m. è stata integrata in una nuova disciplina dedicata ai 'linguaggi non verbali e multimediali'. Contemporaneamente, però, si è andato intensificando il dibattito sulla ridefinizione del curriculum formativo del musicista a partire dalle scuole medie a indirizzo musicale sperimentale fino ai licei musicali e ai conservatori.
Evoluzione delle tendenze metodologiche
All'inizio del 20° sec. in Europa sono stati messi a punto alcuni metodi tesi a facilitare l'apprendimento musicale nei bambini. Ricordiamo: per l'educazione al canto il metodo Tonic sol-fa system, altrimenti detto del Do mobile, ideato in Inghilterra da A.S. Glover nel 1845 e promosso in maniera sistematica da Z. Kodály, attraverso la sua opera didattica e le sue composizioni corali a uso didattico (in particolare i 4 volumi dei Bicinia Hungarica, 1937-42); per la propedeutica all'apprendimento strumentale, C. Orff che, con il suo Schulwerk del 1930, propose un metodo graduale per lo sviluppo del senso ritmico attraverso esercitazioni di gruppo ed esecuzioni su strumenti a facile risposta sonora, come piastre e altre percussioni; per lo sviluppo complessivo della musicalità e delle capacità di improvvisazione l'euritmica di E. Jaques-Dalcroze, fondata sulla stretta correlazione tra suono e movimento, che trovò nel Centro di euritmica di Ginevra, nato nel 1914, il suo primo e solido punto di irradiazione.
In Italia sono da rilevare alcune preziose esperienze, come le scuole di ritmica Dalcroze fondate a Torino e Milano nei primi decenni del 20° sec., le tesi di pedagogia musicale espresse da M. Montessori, che elaborò un metodo per lo sviluppo della percezione sonora, la cattedra di ritmica integrale tenuta da L. Bassi presso il conservatorio di Roma per circa quarant'anni. Però sia la riforma Casati che la riforma Gentile, relegando la m. a un ruolo marginale nell'ambito scolastico, le riconobbero, di fatto, solo un carattere disciplinare tecnico e specialistico, negandole qualsiasi ruolo nella formazione personale dei bambini (L'educazione musicale tra passato, presente e futuro, 1994).
Solo negli anni Sessanta, con l'ingresso ufficiale dell'educazione musicale nelle scuole di base, tale ottica venne ribaltata. La m. divenne parte integrante dell'educazione, in quanto si propose come uno dei possibili veicoli di espressione e comunicazione. Il periodo che ha preceduto la stesura dei nuovi programmi per la scuola media del 1979, unanimemente riconosciuti come molto avanzati, fu ricco di esperienze di ricerca in tutti gli ambiti della disciplina. Le tendenze ideali, che in quegli anni spingevano verso una diffusione a livello di massa degli strumenti dell'espressione artistica, favorirono la nascita di esperienze capillari di promozione della m. (attraverso, per es., le scuole popolari di musica) e, sul piano della proposta didattica, la rottura di schemi accademici basati sulla sola teoria tonale, con l'accoglimento, seppur parziale, di nuove concezioni del suono, mutuate dalla m. contemporanea. In alcuni casi ciò portò a fare dell'attività compositiva l'asse portante dell'educazione musicale, valorizzando le potenzialità creative del bambino. Significative sono state in Italia le esperienze di B. Porena (1973, 1978) e all'estero di J. Paynter (1970), molto conosciuto e apprezzato anche in Italia.
Punto di raccordo per la promozione di tematiche avanzate in ambito pedagogico musicale è stata, dal 1969, la Società Italiana di Educazione Musicale, fondata da C. Delfrati, e attualmente diffusa con sezioni regionali su tutto il territorio nazionale; la Società si propone di diffondere la cultura musicale, aggiornare gli insegnanti e promuovere la ricerca scientifica intorno ai problemi dell'educazione musicale. Con analoghi intenti di divulgazione e sperimentazione sorsero in quegli anni anche numerose scuole o laboratori, come il Centro di Ricerca e Sperimentazione per la Didattica Musicale di Fiesole o il Laboratorio di Pedagogia Musicale dell'Istituto musicale Peri di Reggio nell'Emilia. Anche i metodi didattici dei primi del Novecento sono entrati massicciamente a far parte del bagaglio di esperienza degli insegnanti di musica. R. Goitre ha applicato alla m. infantile italiana il metodo Kodály con il suo libro Cantar leggendo del 1972. G. Piazza ha tradotto nel 1979 lo Schulwerk di C. Orff, promuovendone anche la diffusione attraverso corsi e nuove iniziative editoriali. Si deve invece a L. Di Segni-Jaffé una cospicua opera di diffusione del metodo Dalcroze.
Parallelamente si andava affermando la convinzione che l'educazione musicale dovesse puntare alla valorizzazione della musicalità del bambino nel suo complesso, rispettandone i tempi di maturazione e soprattutto le esigenze espressive e cognitive. In un processo unitario di appropriazione della m. il 'fare' e il 'recepire' vengono visti come sistemi diversi per penetrare nell'universo complesso del linguaggio musicale. Molte esperienze didattiche, illustrate anche in alcuni libri di testo per le scuole medie, procedono per 'unità' in base alle quali un argomento (per es. la pulsazione ritmica) è affrontato sia attraverso attività pratico-esecutive che di percezione e ascolto (Delfrati 1979, 1989; Della Casa 1985). Il gioco, come momento motivante e complesso dell'apprendimento, viene spesso evocato per proporre esperienze di vario tipo: dalla valorizzazione dei giochi musicali tradizionali (Seritti, Goitre 1980; Ritscher, Staccioli 1985), all'ideazione di progetti didattici che ricalcano le procedure e la carica simbolica tipica del gioco (Baroni 1978).
Tale tendenza troverà la sua maggiore esplicitazione nei lavori di F. Delalande (1984, 1993), che hanno incontrato molto favore in Italia. Delalande, con riferimento a J. Piaget, sostiene che ogni evento musicale può essere vissuto come un gioco senso-motorio, un gioco simbolico o un gioco di regole. In tutti e tre i casi il bambino darà vita a una 'condotta' con la quale svelerà la sua particolare e motivante interpretazione dell'evento. Facendo leva sulle condotte musicali l'insegnante può entrare in sintonia con il bambino per elaborare quella determinata situazione. Con questo tipo di approccio i bambini, con il loro bagaglio di esperienze e bisogni, diventano protagonisti del progetto didattico, che verrà strutturato in una continua interrelazione tra gli obiettivi dell'insegnante e le motivazioni degli allievi (Tafuri 1995; Musica per gioco, 1997).
Verso la fine degli anni Settanta, a opera della sezione musica del Centro di Educazione Permanente-Pro Civitate Christiana di Assisi, promotore di un corso quadriennale di musicoterapia, si avviarono dei seminari (Colloqui) che avevano come obiettivo le interrelazioni tra la m., la formazione musicale e particolari problematiche a carattere patologico, psicologico o sociale. I relativi dibattiti sono raccolti nei Quaderni di musica applicata. In questo ambito è nato, nel 1990, il Progetto Uomo-musica, che vede l'educazione musicale in una prospettiva 'antropocentrica', ovvero come un tramite per la maturazione della consapevolezza di sé e degli altri (Pedagogia della musica, 1994; Io-tu-noi in musica, 1995).
Educazione musicale e ascolto
Lo sviluppo delle metodologie di ascolto nell'educazione musicale è andato di pari passo con l'evoluzione tecnologica dei mezzi di riproduzione sonora. Nella legislazione italiana il primo riferimento all'ascolto musicale è contenuto nei programmi della scuola media del 1963, quando cominciarono a entrare nelle scuole i giradischi. L'approccio inizialmente era puramente estetico e l'ascolto musicale veniva inteso come apprezzamento esclusivamente emotivo da parte degli ascoltatori.
Con l'affermarsi anche in ambito musicologico delle teorie semiotiche, prese il via a partire dagli anni Settanta una vera e propria pedagogia dell'ascolto musicale. L'atto dell'ascoltare viene visto come un evento complesso in grado di mettere in moto sia gli organi sensoriali sia l'intelligenza. Si dà spazio a procedure analitiche, tese a scavare nella costruzione musicale e a evidenziare le strutture formali (Della Casa 1981). In un altro versante si è tentato di indagare intorno ai significati del messaggio musicale mettendo a confronto le rappresentazioni che di esso vengono liberamente prodotte dagli ascoltatori con i caratteri del testo musicale e del contesto compositivo (Stefani 1977, 1982; Ferrari 1991).
Parallelamente si accentuava la valorizzazione dell'ascolto in quanto sistema conoscitivo, non solo degli eventi musicali in senso stretto, ma anche della realtà quotidiana nel suo complesso. Gli studi sulla condizione prenatale andavano svelando come la percezione dei suoni fosse molto più precoce di quella delle immagini (Tomatis 1978). La cura della percezione e lo sviluppo delle capacità di discriminazione dei suoni entrarono quindi a far parte dell'educazione musicale in quanto strumenti per la conoscenza dell'ambiente sonoro e per l'affinamento di uno dei mezzi basilari del processo cognitivo (Didattica della musica, 1988; Bertolino, Lucchetti 1992). Una ricaduta sulla didattica dell'ascolto è venuta anche dalle ricerche effettuate negli ambienti della psicologia cognitivista, per quel che concerne l'iter di sviluppo delle capacità percettive nei bambini in relazione alla sensibilità tonale, la percezione del tempo, la costruzione della memoria ritmica e melodica, l'assegnazione individuale di significati agli stimoli musicali, le motivazioni della risposta estetica (Imberty 1969, 1979; Musical beginnings, 1996).
I repertori destinati all'ascolto in ambito didattico sono andati sempre più allargandosi. Negli anni Sessanta erano limitati a una serie di brani famosi e accreditati del repertorio classico e operistico. Si deve alla scoperta di un approccio funzionale l'inserimento di brani scelti per la loro relazione con eventi extramusicali (m. religiosa, pubblicitaria, bellica ecc.), alle tendenze semiotiche quello dei repertori più suggestivi (m. a programma, impressioniste ecc.), a quelle musicologiche e analitiche la copertura di tutti gli spazi cronologici (dal Medioevo al Novecento, con tentativi di contestualizzazione) e di buona parte degli espedienti compositivi (ambienti scalari, configurazioni ritmiche, forme ecc.). L'affermarsi delle tesi sulla valorizzazione del vissuto musicale dei bambini e dei ragazzi ha indotto alla ricerca di una didattica per le m. giovanili e, in seguito all'inserimento sempre più massiccio di alunni stranieri, per le m. di altri continenti (Baroni, Nanni 1989; Imparerock, 1994; Facci 1997).
Le attività pratico-esecutive
I metodi didattico-musicali dei primi del Novecento hanno messo in crisi la priorità della teoria musicale in quanto propedeutica a qualunque prassi esecutiva. Oggi il solfeggio parlato è quasi del tutto assente nelle scuole di base e sostituito da procedimenti di apprendimento della scrittura musicale che partono dall'esperienza musicale viva. Sono stati ricercati sistemi di rappresentazione grafica alternativi al pentagramma (scritture di tipo neumatico, intavolature ecc.), e utilizzati anche come approccio propedeutico al pentagramma (prescrittura). In alcuni casi, e soprattutto per la realizzazione di particolari repertori (rock, pop, jazz, m. etniche tradizionali), si è tentata anche la strada del recupero dell'oralità.
Per l'educazione della voce, superata la concezione di una 'inguaribilità' dei cosiddetti stonati, si è perseguito l'obiettivo della padronanza nell'intonazione, soprattutto da quando ne sono state evidenziate le forti correlazioni con un buon funzionamento percettivo (Korn 1987; Liguori Valenti 1986). Parallelamente si è assistito a una scoperta della vocalità in chiave espressiva. La piena utilizzazione delle potenzialità vocali (potenza, registri, risonanze) viene attualmente perseguita come parte integrante dei processi di armonico sviluppo psicocorporeo.
La pratica strumentale è limitata, nelle scuole di base, ad alcuni strumenti definiti 'didattici' per la facilità nella produzione del suono (flauti dolci, tastiere elettroniche, piastre sonore e altre percussioni) e per il loro uso in repertori 'popolari' o giovanili (chitarra). La capillare diffusione di scuole di m., però, ha alimentato il convincimento dell'importanza della formazione musicale precoce. L'avvio della prassi strumentale presso i bambini piccoli ha dato il via a ricerche metodologiche che mirano a un uso immediato dello strumento, attraverso repertori costituiti da brani brevi e semplici. Spesso, soprattutto nella prima infanzia, si raccomanda di acquisire la melodia da suonare attraverso il canto e di accompagnare le prime esecuzioni dei bambini in modo da aumentarne la gradevolezza attribuendo un senso musicale pieno.
L'approccio alla gestualità strumentale è, nelle procedure più avanzate, associato a una generale padronanza del corpo. Dalla ritmica di Dalcroze, ai metodi di autocontrollo della postura come la tecnica Alexander (1932), alle teorie nate dalla musicoterapia, che vedono la macrogestualità corporea come propedeutica alla motilità fine necessaria per suonare, si arriva sino all'applicazione della bioenergia per il controllo della tensione muscolare. Il rapporto bambino-strumento è anche visto nella sua dimensione di contatto con la materia sonora. Molte esperienze didattiche si basano proprio sulla sonorità di oggetti e materiali e sulla costruzione-invenzione di strumenti musicali (Neulichedl 1989).
Negli ultimi anni, con l'affermazione dell'informatica e della multimedialità nella scuola, sono in corso processi sperimentali di uso del computer come strumento per la creazione musicale e per l'apprendimento con modalità interattive (Gaggiolo 1989).
La danza, sviluppata in Italia attraverso suoi particolari canali, è entrata nelle scuole di base come corollario dell'educazione musicale. La sempre maggiore importanza attribuita alla correlazione musica-movimento ha trovato infatti nell'apprendimento e invenzione di coreografie uno dei possibili percorsi per l'ampliamento della musicalità.
Le attività pratiche con la voce o gli strumenti trovano applicazioni particolarmente motivanti nelle ricerche ed esperienze didattiche relative all'invenzione musicale, sia essa sotto forma di semplici composizioni che di improvvisazione. Sulla scia delle indicazioni di personalità già citate quali J. Paynter e B. Porena, molti docenti puntano alla creatività come punto nodale della loro pratica educativa elaborando strategie e tecniche specifiche (Progettare la melodia, 1992; Cappelli, Tosto 1993; Suoni e idee per improvvisare, 1995).
bibliografia
E. Jaques-Dalcroze, Le rythme, la musique et l'éducation, Paris-Lausanne-Neuchâtel 1919 (trad. it. Milano 1925, Torino 1986).
F.M. Alexander, The use of the self, New York 1932.
M. Imberty, L'acquisition des structures tonales chez l'enfant, Paris 1969.
J. Paynter, P. Aston, Sound and silence. Classroom projects in creative music, London 1970 (trad. it. Roma 1980).
R. Goitre, Cantar leggendo, Milano 1972.
B. Porena, Kindermusik, Milano 1973.
G. Stefani, Insegnare la musica, Firenze 1977, 1980².
M. Baroni, Suoni e significati, Firenze 1978, Torino 1997².
B. Porena, Musica prima, Treviso 1978.
A. Tomatis, L'oreille et le langage, Paris 1978 (trad. it. Como-Pavia 1995).
C. Delfrati, Progetti sonori. Corso di educazione musicale per la scuola media, Napoli 1979.
M. Imberty, Entendre la musique, Paris 1979 (trad. it. parziale Suoni emozioni e significati, Bologna 1986).
G. Piazza, Orff-Schulwerk. Musica per bambini. Manuale, Milano 1979.
E. Seritti, R. Goitre, Canti per giocare, Milano 1980.
M. Della Casa, Il linguaggio dei suoni, Brescia 1981.
G. Stefani, La competenza musicale, Bologna 1982.
F. Delalande, La musique est un jeu d'enfant, Paris 1984.
M. Della Casa, Educazione musicale e curricolo, Bologna 1985.
P. Ritscher, G. Staccioli, Giocare la musica, Scandicci 1985.
B. Liguori Valenti, La vocalità infantile, Milano 1986.
S. Korn, L'uso della voce e l'educazione dell'orecchio musicale, Udine 1987.
Didattica della musica e percezione musicale, a cura di J. Tafuri, Bologna 1988.
M. Baroni, F. Nanni, Crescere con il rock, Bologna 1989.
C. Delfrati, Orientamenti di pedagogia musicale, Milano 1989.
A. Gaggiolo, Il computer nell'ora di musica, Bologna 1989.
R. Neulichedl, Obiettivo suono, Milano 1989.
F. Ferrari, Ascoltando, in Scoprire la musica. Proposte per l'autoaggiornamento, a cura di C. Delfrati, J. Tafuri, in Quaderni della SIEM, 1991, pp. 78-100.
S. Bertolino, S. Lucchetti, Alle origini dell'esperienza musicale, Milano 1992.
J. Paynter, Sound and structure, Cambridge 1992 (trad. it. Torino 1996).
Progettare la melodia. Proposte per una didattica creativa?, a cura di M.M. Novati, in Quaderni della SIEM, 1992.
F. Cappelli, M.I. Tosto, Geometrie vocali, Milano 1993.
F. Delalande, Le condotte musicali, a cura di G. Guardabasso, L. Marconi, Bologna 1993.
L'educazione musicale tra passato, presente e futuro, a cura di G. Grazioso, in Quaderni della SIEM, 1994.
Imparerock, a cura di F. Ferrari, E. Strobino, in Quaderni della SIEM, 1994.
Pedagogia della musica: un panorama, a cura di M. Piatti, Bologna 1994.
Io-tu-noi in musica: identità e diversità, a cura di M. Piatti, in Quaderni di musica applicata, 1995.
Suoni e idee per improvvisare, a cura di G. Guardabasso, M.T. Lietti, in Quaderni della SIEM, 1995.
J. Tafuri, L'educazione musicale. Teorie, metodi, pratiche, Torino 1995.
Musical beginnings. Origins and development of musical competence, ed. I. Deliège, J. Sloboda, New York 1996.
S. Facci, Capre, flauti e re. Musica e confronto culturale a scuola, Torino 1997.
Musica per gioco. Educazione musicale e progetto, a cura di F. Mazzoni, Torino 1997.
Sincretismi e contaminazioni
di Vincenzo Perna
Concetti come 'sincretismo' e 'contaminazione' offrono la possibilità di descrivere fenomeni musicali in cui prevalgono l'eclettismo stilistico e l'ibridazione delle forme che hanno condotto, alle soglie del terzo millennio, verso una crescente fusione culturale. Le origini del processo di fusione possono essere ricondotte a condizioni di ordine tecnologico, economico, geopolitico e ideologico. Innanzitutto va osservato l'impatto prodotto dalla circolazione di suoni riprodotti e l'espansione di nuove forme di fruizione del suono in cui l'ascolto mediatizzato è largamente prevalente sull'ascolto 'dal vivo'. La riproduzione, che ha reso il suono ripetibile e commerciabile, ha creato nuove dimensioni di consumo, dando origine a generi musicali tecnomorfici in cui mediatori culturali con competenze diverse da quelle musicali tradizionali 'compongono' (mettono insieme) la materia sonora. I media elettronici svolgono un ruolo centrale in una cultura di massa caratterizzata da un crescente eclettismo, facendo nascere quella che W. Ong ha definito oralità secondaria, dove la dimensione orale convive con la 'scrittura' elettronica. Aspetti come ripetibilità e intertestualità sono evidenti nella m. popolare contemporanea, che vive in una dimensione mediatizzata e tende al riciclaggio di materiali decontestualizzati.
Un altro fattore è individuabile nel processo di globalizzazione dell'economia, in cui flussi finanziari e informativi percorrono oggi il pianeta, indifferenti alle tradizionali divisioni geopolitiche. Ciò non ha prodotto un'omogeneizzazione culturale, ma ha comportato una relativa redistribuzione della tecnologia, aprendo la strada alla circolazione globale di prodotti culturali (Global cultures, 1990). Inoltre va segnalato l'aumento della mobilità di massa, per ragioni come emigrazione, lavoro stagionale, fuga da zone di guerra e turismo. Al crescente livello di eterogeneità etnica degli stati-nazione corrisponde oggi la nascita di m. transculturali che combinano elementi delle m. 'originarie' con strutture grammaticali della m. dominante del paese ospite. Occorre infine considerare il mutato clima ideologico: nelle società occidentali, alla fine del 20° sec., m. popolare e cultura di massa occupano un ruolo estetico ed economico centrale, e si è assistito alla progressiva erosione delle distinzioni tra generi musicali e tra colto e popolare, cui ha contribuito anche la crescente rilevanza assunta dalle m. extraeuropee.
Sincretismo/contaminazione
Il concetto di 'contaminazione', impiegato in ambito letterario per descrivere un'opera prodotta dalla fusione di elementi eterogenei, si ricollega all'idea di un'entità pura, corrotta dall'intervento di elementi estranei. Il termine è stato spesso applicato al campo culturale, non di rado con implicazioni di tipo morale: da un lato le culture (e razze) pure, dall'altro quelle ibride, creole, sincretiche. Tale approccio implica però severe difficoltà teoriche: esiste, ed è mai esistita, una cultura 'incontaminata'? E se esiste, com'è possibile stabilirne il grado di purezza?
Il termine sincretismo rimanda invece al lavoro condotto tra gli anni Trenta e Cinquanta dall'antropologo statunitense M. Herskovits, che analizzava la cultura delle società afroamericane dell'America centrale e meridionale come risultante della fusione di forme culturali distinte di discendenza africana e ispanica o portoghese. L'importanza di Herskovits consiste nell'aver affrontato come oggetto proprio di studio etnografico culture all'epoca considerate da molti studiosi 'adulterate' rispetto a quelle 'originali' africane (Apter 1991). Alla luce della storia recente appare evidente come tali condizioni di meticciato culturale siano oggi tipiche di gran parte del mondo contemporaneo, e il concetto di sincretismo, benché privo delle connotazioni allora quasi rivoluzionarie, presenta tuttora una certa utilità nell'analisi del contatto culturale.
L'antropologo della m. A. Merriam ha definito il sincretismo come "la fusione di elementi provenienti da due culture, processo che comporta la modifica di valori e forme originali" (Merriam 1964, p. 313), e il concetto è stato utilizzato da vari studiosi per spiegare la fusione di elementi provenienti da due sistemi musicali diversi: R. Waterman (1952) e B. Nettl (1978) hanno ipotizzato come condizione necessaria per il sincretismo l'esistenza di similitudini tra due sistemi musicali, ma tale teoria resta difficile da dimostrare, ed è problematica nel caso frequente di sintesi di elementi provenienti da più culture.
M. Kartomi (1981) e K. Malm, R. Wallis (1984) hanno suggerito come più appropriato l'uso del termine 'transculturazione', coniato dal folklorista cubano F. Ortíz negli anni Quaranta. Numerosi studiosi oggi concordano sull'impossibilità di individuare meccanismi specificamente musicali che favoriscano il sincretismo tra culture musicali, e Kartomi conclude che "la spinta [...] alla transculturazione musicale è normalmente di tipo extra-musicale" (Kartomi 1981, p. 245). Anche J. Guilbault (1997) sottolinea come il sincretismo musicale non possa essere spiegato in base a compatibilità essenziali, ma considerando quali elementi musicali siano ritenuti compatibili e quali no da una determinata cultura.
La letteratura etnomusicologica recente si è progressivamente allontanata da una concezione essenzialista delle origini centrata sulla ritenzione passiva di 'forme' musicali originarie, orientandosi verso uno studio delle 'pratiche' culturali in cui le 'tradizioni' sono continuamente ridefinite (il concetto di 'tradizione' è spesso oggetto di contesa anche politica tra gruppi dominanti e subordinati; cfr. The invention of tradition, 1983). In alcuni casi recenti l'etnomusicologia ha così focalizzato l'attenzione su culture musicali urbane extraoccidentali in cui elementi 'tradizionali' si coniugano con stili, forme e tecnologie di influenza occidentale (Manuel 1988). In effetti tale campo appare come uno dei terreni più fertili per nuove e imprevedibili fusioni culturali. Tuttavia è difficile sostenere che sincretismo e contaminazione, intesi nel senso ampio di processo di sintesi o transculturazione, siano fenomeni che riguardano solo alcune culture, aree geografiche o stili musicali, dal momento che ogni m. rappresenta la sintesi di elementi distinti.
L'intricata geografia degli incontri e scontri culturali e la circolazione planetaria di m. riprodotta nel 20° sec. mettono a dura prova teorie che cerchino di spiegare unilinearmente l'evoluzione di uno stile musicale. Così nel jazz contemporaneo si ritrovano elementi propriamente ascrivibili alla tradizione jazz, strumenti e forme della m. europea colta e popolare, riappropriazione di elementi della m. africana, legami con la m. popolare afroamericana come soul e rap. È evidente che alla base di tali orientamenti stanno sì ragioni per così dire 'genealogiche', ma anche scelte estetiche, affiliazioni ideologiche e pressioni commerciali. Un discorso analogo si può fare con il rock, una categoria musicale apparentemente omogenea, ma in realtà estremamente ampia e vaga, e sincretica per eccellenza, sotto la cui bandiera militano stili e ideologie diversissime. Con ciò non si vuole sostenere l'impossibilità di tracciare relazioni tra sistemi musicali e stili diversi, ma sottolineare come l'eclettismo di molta della produzione musicale contemporanea, oltre a essere diventato una sorta di 'meta-stile' in sé, imponga un'analisi in molteplici direzioni degli elementi, non solo musicali, che vi convergono, e suggerire l'opportunità di considerare il sincretismo come un fenomeno non soltanto contemporaneo, ma ravvisabile lungo tutta la storia della m. eurocolta.
Diversi sono gli assi lungo i quali è possibile interpretare la contaminazione musicale, come colto/popolare, popolare/folklorico ecc. Rispetto all'asse colto/popolare, la contaminazione viene spesso concettualizzata in senso unidirezionale dal colto al popolare, ma è importante mettere l'accento sulla bidirezionalità di questo scambio sul piano del passaggio di concezioni artistiche, sonorità e modalità fruitive da un contesto all'altro. La trattazione che segue, senza pretendere di essere esaustiva, si focalizzerà su alcuni momenti della produzione musicale del 20° sec., e in particolare su alcune 'zone grigie' tra popolare/colto e popolare/folklorico, in cui sincretismo e contaminazione emergono come elementi fondanti. Nel far ciò si utilizzeranno etichette di uso corrente come rock, jazz, m. colta, pur sapendo che si tratta di categorie concettualmente spurie. L'espressione musica popolare sarà impiegata come equivalente dell'inglese popular music, in luogo di espressioni come musica leggera o pop, categorie più restrittive e connotate negativamente.
Popolare/colto
Le m. popolari del Novecento sono state il terreno di coltura per eccellenza della contaminazione, e sia jazz che rock sono nati dalla confluenza di elementi stilistici eterogenei, attingendo a più riprese ai campi popolare, colto e folklorico.
Nella m. popolare il sincretismo non è un fenomeno recente. Lo stile di Tin Pan Alley di compositori bianchi come C. Porter e G. Gershwin, che ha dominato la scena internazionale tra le due guerre, prendeva abbondantemente a prestito da blues e jazz neri, riciclando anche m. 'esotiche' e temi di compositori colti. Anche il rock 'n' roll degli anni Cinquanta rappresenta una sintesi di rhythm and blues nero (che impiega struttura e stile vocale del blues) e m. country bianca, unificando per un breve periodo pubblico bianco e nero. Il rock degli anni Sessanta ha attinto di nuovo da blues, rhythm and blues, rock 'n' roll nero, restando tuttavia essenzialmente m. prodotta da bianchi per un pubblico bianco, mentre i neri d'America producevano generi notevolmente diversi per stile, fini e pubblici. Rispetto alla contemporanea m. soul nera, sostanzialmente m. d'intrattenimento, l'ideologia rock, per es., ha accentuato la dimensione artistica (m. d'ascolto e non da ballo, musicista come artista). Da questo orientamento sono derivati i grandiosi apparati scenici utilizzati dall'art rock (Pink Floyd e Genesis) e i tentativi di fusione con la m. colta (Emerson, Lake and Palmer) tra gli anni Sessanta e Settanta.
Se gli anni Sessanta hanno visto il rock affermarsi come asse portante del mercato discografico mondiale, essi hanno dato inizio anche a una moltiplicazione di stili, pubblici e aree di mercato destinati a metterne in discussione l'egemonia: prima l'emergere del soul, poi, negli anni Settanta, di funk e disco music, e infine il successo del reggae, m. prodotta in un paese non occidentale che aprirà le porte alla cosiddetta world music negli anni Ottanta.
Tra la metà degli anni Settanta e primi Ottanta, rispettivamente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, sono emersi i fenomeni del punk e del rap, che destabilizzano l'uniformità stilistica e ideologica del rock, accelerando il passo della contaminazione e producendo effetti di lungo termine su tutta la m. successiva. Il punk ha reagito alla pretenziosità del rock degli anni Settanta sostanzialmente semplificandone le strutture e le sonorità, e coniugando populismo e avanguardia (M. McLaren, fondatore e manager dei Sex Pistols, è un artista situazionista che teorizza la 'guerriglia comunicativa'). Il rap, nato invece dalla cultura del ghetto dei nordamericani neri, ha portato alle estreme conseguenze la decostruzione della m. popolare iniziata dal punk. Nato come pratica legata al ballo e ispirato a sua volta a una tecnica sviluppata dai disc-jockeys giamaicani, utilizza registratori e campionatori digitali per produrre sequenze ritmiche tratte da dischi su cui vengono improvvisate linee vocali. La tecnologia elettronica ha consentito così di fare a meno di strumenti e competenze musicali tradizionali, conducendo operazioni metatestuali di montaggio di frammenti e citazioni; si segnala dunque la possibilità di una riappropriazione della m. 'dal basso' attraverso un fai-da-te tecnologico che rimette in discussione valori come quello dell'originalità artistica e della proprietà intellettuale.
Prima disco music e poi rap, accentuando la dimensione dell'artificialità del fare m., hanno indicato la possibilità di espandersi verso terreni in cui pratiche sperimentali infiltrano la m. da ballo organizzandosi intorno a una struttura ritmica ripetitiva, sfruttando la manipolabilità elettronica del suono sperimentata per primi dai disc-jockeys giamaicani con il dub (una tecnica creativa di rimixaggio del reggae). La galassia dance ha prodotto numerosi sottogeneri (house, techno, trance, jungle), dando talvolta origine a confluenze con il rock d'avanguardia, come nel caso della ambient, in cui la pulsazione ritmica scompare in un oceano di frammenti e suoni 'trovati', m. periferica utilizzata all'interno delle discoteche in opposizione alla saturazione uditiva della pista da ballo. Benché questa dimensione sperimentale sia stata a volte portata in pubblico con performances tecnologiche, e alcuni nomi siano oggi conosciuti al grande pubblico, la produzione di tali m. tende per lo più a restare anonima, rappresentando un polo antitetico al 'rock alternativo' bianco (esemplificato da Nirvana o REM): dove questo coltiva il mito dell'autenticità del musicista e presuppone l'esistenza di una comunità stabile, quella enfatizza l'artificiosità, l'identificazione del musicista (spesso un disc-jockey) con la macchina, e implica un concetto mobile di alleanza dei pubblici intorno a un asse musicale in continua trasformazione in cui predomina il valore della novità (Straw 1991).
Dalla metà degli anni Ottanta - a causa di cambiamenti demografici, sviluppo tecnologico e circolazione di m. a livello internazionale, diversificazione del gusto - l'industria musicale ha cominciato a guardare allo sfruttamento commerciale delle m. prodotte nei paesi non occidentali e dalle minoranze etniche. Rispetto a quelli degli anni Cinquanta e Sessanta, i pubblici di fine secolo appaiono estremamente frammentati, hanno a disposizione una massa di suoni riprodotti mai accessibile prima e consumano contemporaneamente diversi tipi di musica. Non stupisce quindi che i musicisti, come componenti di quei pubblici, siano essi stessi particolarmente inclini all'eclettismo.
Rock e avanguardia. - Il rock degli anni Sessanta ha espresso alcuni personaggi estremamente eclettici che hanno esercitato una grande influenza sulle generazioni successive: è il caso del chitarrista J. Hendrix (1942-1970), che ha proposto un raro esempio di rock nero fondato sul blues e coniugato con l'utilizzo dell'elettronica, o di F. Zappa (1940-1993), ammiratore di E. Varèse, autore di pezzi che mescolano rock e blues e fautore di collaborazioni colte con P. Boulez. Notevole è stato anche l'influsso della scuola dell'art rock degli anni Settanta, da cui proviene l'inglese B. Eno (n. 1948), un personaggio di cui non si deve sottovalutare l'influenza sull'intera scena della m. popolare. Eno è un designer sonoro dedicatosi con successo sia alla produzione discografica pop sia alla performance art, dove ha teorizzato l'ascolto 'decentrato', ossia un ascolto di sottofondo in cui la m. perde centralità rispetto all'ambiente sonoro. Ma diversi artisti pop hanno familiarità con idee delle avanguardie artistiche, come gli statunitensi L. Anderson e D. Byrne; quest'ultimo ha raggiunto il successo con le canzoni pop dei Talking Heads, ma esplora l'elettronica con Eno e collabora con musicisti non occidentali.
Intorno a un altro gruppo di musicisti emersi anch'essi negli anni Settanta si è sviluppata negli anni Ottanta una vasta zona di confine in cui si mescolano, in un collage postmoderno, citazioni, pratiche aleatorie, improvvisazione jazz ed elettronica; artisti radicali, come il chitarrista britannico F. Frith, incontrano a New York l'avanguardia post-punk, in cui operano musicisti statunitensi come il chitarrista 'atonale' A. Lindsay, o il compositore G. Branca, che ha prodotto dissonanti sinfonie per chitarre elettriche e lavori per orchestra. Fondamentale per l'avanguardia rock (ma anche jazz), è infine il sassofonista J. Zorn (n. 1953), musicista di estrazione classica che dimostra perfetta padronanza della tecnica bebop ma sposa la causa dell'hardcore (una variante più veloce e aggressiva del punk). Maestro nella trasgressione creativa dei generi, Zorn spazia tra avanguardia, jazz e rock reinterpretando in chiave hardcore composizioni di O. Coleman, componendo e compiendo incursioni nella m. per film.
Jazz. Il jazz, la cui storia ha spesso visto polemiche tra innovatori e custodi dell'ortodossia, incarna forse meglio di ogni altro genere tensioni e contraddizioni tipiche, al tempo stesso, di m. di massa e d'arte. Tuttavia non esistono dubbi sulle origini sincretiche di questa m., nata dalla convergenza di stili folk e popolari, e focalizzatasi geograficamente (anche se non esclusivamente) intorno a New Orleans, dove la m. degli ex schiavi neri ha incontrato la sottocultura dei creoli di discendenza francese.
Il jazz è rimasto a lungo m. popolare da ballo dei neri, raggiungendo con lo swing degli anni Trenta una notevole unificazione del pubblico bianco e di quello nero. Anche il bebop degli anni Quaranta, benché - in reazione allo swing - elitario sul piano artistico, riutilizzava il blues e i cosiddetti standards, ossia motivi di Tin Pan Alley (Feather 1949).
Allo stesso tempo, il jazz ha a più riprese attinto alla tradizione d'arte europea e, fin dalle sue prime fasi, suoi musicisti (per es. D. Ellington) hanno manifestato interesse per aspetti quali forma, arrangiamento e composizione. In alcuni casi si sono prodotti specifici tentativi di fusione con la m. colta, come nel caso del 'jazz sinfonico' di Gershwin (in cui è però del tutto assente l'improvvisazione), o del 'Third stream' ispirato da G. Schuller negli anni Cinquanta. Quel decennio, sulla scorta della tendenza del jazz a diventare m. d'arte, ha costituito una fucina di sperimentazioni, con musicisti come Ch. Mingus (composizione, rottura degli schemi formali, improvvisazione collettiva), pianisti come C. Taylor (esplorazione della percussività e della dissonanza, ai limiti dell'atonalità) e G. Russell (elaboratore della teoria del jazz modale, primo contributo jazz alla teoria musicale generale).
Considerando i fermenti del decennio precedente, il free jazz degli anni Sessanta non appare dunque totalmente nuovo. Anche qui, nonostante le profonde differenze di prospettiva e di background culturale, non è difficile scorgere il parallelismo con aree della sperimentazione colta di matrice europea. O. Coleman rompe con le strutture tradizionali del jazz e teorizza una forma di improvvisazione eterofonica chiamata harmolodic. Altri musicisti sperimentano con l'elettronica, incorporano materiali folk di derivazione asiatica e, significativamente, africana (D. Cherry, E. Blackwell). J. Coltrane sperimenta con modalità e politonalità, utilizzando scale provenienti da altri sistemi musicali. Nelle cacofonie astrali di Sun Ra (del quale un critico ha scritto che "porta con sé tutta la storia della musica nera") si incontrano ironicamente tradizione, avanguardia e fantascienza.
È significativo che alcuni grandi musicisti afroamericani di quegli anni come Coleman, Coltrane e A. Shepp abbiano iniziato la carriera suonando in gruppi di rhythm and blues, e abbiano spesso resistito all'impiego del termine 'jazz', simbolo dello sfruttamento bianco della m. degli afroamericani. La stessa resistenza concettuale e stilistica, già manifestata da Ellington e M. Davis, si è rivelata in una moltitudine di percorsi incrociati del post-free, come le esplorazioni dell'Art Ensemble of Chicago (da bop a folk, da free a m. africana), o l'interesse per la composizione di musicisti come A. Braxton, al confine tra jazz e m. colta europea. Il jazz-rock (o fusion), battezzato da Davis sul finire degli anni Sessanta, ha esercitato un'influenza decisiva nell'abbattimento delle barriere tra jazz e rock, introducendo gli strumenti elettrificati e perdendo l'impulso regolare del walking bass - ritenuto fino agli Sessanta elemento centrale del jazz - fino a raggiungere la massima popolarità con il gruppo dei Weather Report.
Oggi il jazz per molti aspetti è m. colta. Si studia nei conservatori e si ascolta nei teatri, possiede una vastissima letteratura, e conta virtuosi in grado di affrontare agevolmente il repertorio classico, come il trombettista W. Marsalis, esponente del revival neo-bop e custode dell'ortodossia jazz in polemica con il tardo Davis. Ma stili differenti convivono, i pubblici sono frammentati e i musicisti si riappropriano idiosincraticamente di stili del passato o di m. non occidentali (per es. A. Moreira e A. Ibrahim), con una tendenza alla fusione con rock, folk ed elettronica lungo il percorso indicato da Davis. È impossibile non vedere in questo eclettismo una tendenziale convergenza con il lavoro di musicisti attivi nell'area del rock d'avanguardia come Zorn, B. Laswell e Frith.
L'emergere del rap (nato in uno scenario sociale non dissimile da quello del jazz) e del nazionalismo nero, inoltre, ha contribuito a un riesame della storia della m. popolare nera nordamericana da cui emerge una continuità ideologica e culturale che accomuna vari generi (blues, jazz, soul, funk e rap), e ha prodotto collaborazioni tra rappers e jazzisti neri di diverse generazioni. A dispetto dei puristi, un veterano del jazz come M. Roach ha dichiarato: "[il rap] vive nel mondo del suono - non nel mondo della musica - e per questo motivo è così rivoluzionario. I neri hanno sempre dimostrato che il mondo del suono è più vasto di quello immaginato dai bianchi" (intervista con J. Powers 1989, in R. Pratt 1994, p. 210).
Colto/popolare. - Accanto ad artisti popolari e jazz che si sono mossi in direzione del territorio colto, numerosi musicisti nordamericani di estrazione colta hanno percorso il cammino inverso. È il caso di generi come il 'minimalismo' (L.M. Young, T. Riley, S. Reich, Ph. Glass), sostanzialmente basato sulla reiterazione di motivi e sul progressivo sfasamento temporale delle parti, che ha preso a prestito idee dell'avanguardia colta del Novecento (E. Satie, J. Cage), influenze extraoccidentali (il gamelan indonesiano), sonorità, strutture armoniche, canali di diffusione e pubblici dal campo popolare. Glass, in particolare, ha scritto m. da camera, opere e colonne sonore, e lavorato con musicisti pop come Byrne e Anderson. Legato a esponenti del minimalismo è anche il polistrumentista J. Hassell (n. 1937) - musicologo, collaboratore di Stockhausen e studioso di m. indiana - che ha elaborato uno stile da lui denominato Fourth world, in cui mescola m. etnica e tecnologia rock alla ricerca di un "equilibrio tra identità indigena e globale attraverso varie estensioni elettroniche" (Toop 1995, p. 168).
Gruppi come il Kronos Quartet, quartetto d'archi non conformista, esemplificano l'eclettismo delle generazioni del dopoguerra includendo nel proprio repertorio composizioni colte e pezzi pop: da Riley e C. Nancarrow a Hendrix e J. Brown, da B. Bartók a Coleman e Zorn.
Musiche extraoccidentali
La fascinazione occidentale per l'esotico musicale ha una lunga storia. Dalle 'turcherie' del Settecento alla scoperta da parte di C. Debussy della m. di Bali e Giava, soccombono al fascino dell'esotico anche musicisti tra loro tanto diversi come Bartók, O. Messiaen e K. Stockhausen. Ma l'emergere verso la fine degli anni Ottanta della world music (etichetta generica sotto cui sono catalogate m. popolari, folk e colte extraeuropee, e folkloriche occidentali), ha dato alle m. extraoccidentali accesso diretto al mercato discografico internazionale. Ciò ha esercitato un notevole impatto sulle m. e sulle economie locali (Grenier, Guilbault 1997), ha fatto nascere canali di comunicazione artistica tra aree non occidentali (per es. Caraibi e Africa), e ha visto la riesportazione di generi sincretici nati nelle diaspore verso i paesi di origine.
Le aree su cui si è focalizzata l'attenzione del pubblico occidentale sono state quelle della m. popolare africana (il raï algerino; lo mbalax del senegalese Y. N'Dour; la m. del Mali di S. Keita e M. Kanté; l'afro-beat di F. Kuti e il jùjú di K.S. Adé, nigeriani; le m. da ballo di Camerun e Zaire; la m. vocale sudafricana), afrolatina (specie Cuba, Martinica-Guadalupe e Brasile), e del subcontinente indiano. È da segnalare anche l'emergere di m. folk e popolari dei paesi occidentali, come m. celtica, cajun-zydeco e tejano (Stati Uniti), flamenco (Spagna), bhangra (India-Gran Bretagna), klezmer (ebrei dell'Europa orientale e degli Stati Uniti). L'emergere di stili sincretici mette in discussione la legittimità del paradigma puristico dell'etnografia classica e il quadro statico talvolta definito come 'tradizione'. Waterman ha descritto come la m. jùjú nigeriana, grazie all'utilizzo della tecnologia di riproduzione del suono, abbia attraversato un processo di 'ri-africanizzazione', in linea con la frequente nascita di m. 'neo-tradizionali' nelle società postcoloniali. Rispetto al paradigma sincretico di Herskovits, con le sue aree culturali nettamente definite, i percorsi dei sincretismi musicali appaiono oggi estremamente intricati. Le m. urbane africane del 20° sec., per es., sono state influenzate dalla m. da ballo europea, dalla m. vocale e dal jazz dei neri nordamericani, dalle m. caraibiche (son cubano, calypso, reggae), dal rock e dal soul, cioè molto spesso da m. sincretiche a loro volta nate dalla diaspora transatlantica nera.
La m. assume un ruolo centrale nella costruzione dell'identità delle 'comunità immaginarie' (Anderson 1983) delle culture diasporiche: laddove il rapporto tra aree geografiche, gruppi etnici, cultura subalterna e dominante è particolarmente intricato, essa offre infatti uno strumento unico di negoziazione di identità. Gli ultimi anni hanno visto, per es., il revival della m. klezmer, l'emergere di stili panlatini come la salsa, pancreoli come lo zouk, e panindiani come la bhangra (danza originaria del Panjab che, incorporando la pulsazione ritmica della disco-music, si è affermata come m. da ballo tra i giovani asiatici nati in Gran Bretagna, perdendo il referente etnico specifico, ed è oggi riesportata verso il subcontinente indiano). Le produzioni musicali di tali culture transnazionali, in cui m. 'tradizionali' di minoranze (spesso esse stesse ibridazioni di folk e popolare) si fondono con elementi della m. locale dominante, esemplificano paradigmaticamente il processo di sincretismo, mettendo in discussione il concetto di autenticità su cui si fondano stabili distinzioni tra folk e popolare.
In conclusione, il traffico di suoni che oggi pervade il pianeta sembra riflettere la frammentazione dell'esperienza sensoria contemporanea e il crescente nomadismo culturale di un mondo sempre più 'creolizzato' (Hannerz 1987), in uno scenario musicale estremamente diversificato. Settori della m. popolare oggi incorporano idee, tecniche e fini tradizionalmente propri del campo colto, e musicisti jazz esplorano il terreno della composizione. Molti musicisti colti, d'altro canto, accettano la condizione di relativismo culturale inglobando concezioni, sonorità e procedimenti provenienti da altri sistemi musicali. Questa erosione delle barriere tra colto e popolare genera talvolta nostalgie per le vecchie categorie dell'arte, ma ha il pregio di mettere chiaramente in luce la storicità e la convenzionalità del valore estetico.
L'elettronica, oltre a mettere in circolazione suoni lontani nello spazio e nel tempo, ha fatto emergere un interesse dei compositori per la 'grana' del suono, e prodotto una maggiore coscienza dell'ambiente sonoro (Schafer 1977). Allo stesso tempo, il consumo di m. riprodotta e la comunicazione mediatizzata hanno certamente influenzato l'attenzione musicale, conducendo al formato temporale breve di molta produzione contemporanea e a un primato dell'ascolto 'decentrato' (v. sopra) rispetto a quello 'da concerto', memore della fruizione 'tattica' dell'arte suggerita da W. Benjamin.
Il paradigma eurocentrico è oggi messo in discussione non soltanto dall'esistenza di m. colte extraoccidentali che vantano antiche tradizioni e ampi corpus teorici, ma anche dalle m. urbane non occidentali. Tali m., e particolarmente quelle prodotte all'interno delle diaspore, sembrano resistere a classificazioni come tradizionale/moderno, folk/popolare, occidentale/non occidentale, e impongono con sempre maggiore urgenza la necessità di interpretare formazioni culturali che non possono essere lette come espressione di culture chiuse, legate in modo stabile e univoco a identità geografiche o etniche.
In ultima analisi, il sincretismo musicale ha origini e conseguenze che vanno assai al di là del piano puramente musicale, e che sono in buona parte politiche, perché mettono in discussione la centralità della m. e della cultura dominante (spesso, ma non sempre, occidentale), le forze che a vari livelli (industria, media, istituzioni culturali, musicisti) tentano di imporre forme di controllo sui mezzi di produzione e diffusione, e sulla legittimità e rilevanza di una m. (stabilendo, per es., polarità come colto versus popolare, arte versus intrattenimento, centralità versus marginalità). Tali tentativi di controllo e di appropriazione, come le varie forme con cui i musicisti pop occidentali hanno presentato ai propri pubblici le m. extraeuropee, sono tutt'altro che ininfluenti, ma occorre ricordare che ciò non equivale necessariamente a controllo culturale: uno sguardo alle m. sincretiche subalterne sottolinea la varietà e la creatività con cui queste si adattano e resistono alla cultura dominante, smentendo tesi come quelle dell''imperialismo culturale' o del 'villaggio globale' che postulano un'omogeneità di usi, significati ed effetti sociali di messaggi uguali in contesti diversi, e contraddicendo previsioni apocalittiche sulla omogeneizzazione culturale globale.
bibliografia
W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936 (trad. it. Torino 1967⁶).
L. Feather, Inside jazz, New York 1949, rist. col titolo Inside be-bop, New York 1977.
R. Waterman, African influences on the music of the Americas, in Acculturation in the Americas, ed. S. Tax (Proceedings 29th International congress of americanists, New York 1949), Chicago 1952.
M.J. Herskovits, Acculturation: the study of culture contact, Gloucester (Mass.) 1958.
A.P. Merriam, The anthropology of music, Evanston 1964 (trad. it. Palermo 1983).
L. Berio, Commenti al rock, in Nuova rivista musicale italiana, 1967, 1, pp. 125-35.
R.M. Schafer, The tuning of the world, New York 1977 (trad. it. Il paesaggio sonoro, Milano 1985).
F. Tirro, Jazz. A history, New York 1977.
B. Nettl, Some aspects on the history of world music in the twentieth century. Questions, problems, and concepts, in Ethnomusicology, 1978, 1, pp. 123-36.
M. Kartomi, The processes and results of musical culture contact, in Ethnomusicology, 1981, 2, pp. 227-49.
W. Ong, Orality and literacy: the technologizing of the word, London-New York 1982.
B. Anderson, Imagined communities: reflections on the origins and spread of nationalism, London 1983, 1991².
C. Hamm, Music in the New World, New York 1983 (trad. it. Milano 1990).
The invention of tradition, ed. E. Hobsbawm, T. Ranger, Cambridge-New York 1983.
K. Malm, R. Wallis, Big sounds from small peoples: the music industry in small countries, London-New York 1984.
B. Nettl, The western impact on world music: change, adaptation, and survival, New York 1985.
K. Barber, Popular arts in Africa, in African studies review, 1987, 3, pp. 1-78.
E. Eisenberg, The recording angel. Explorations in phonography, New York 1987 (trad. it. L'angelo con il fonografo. Musica, dischi e cultura da Aristotele a Zappa, Torino 1997).
U. Hannerz, The world in creolisation, in Africa/Journal of the international African institute, 1987, 4, pp. 546-59.
J. Schaefer, New sounds: a listener's guide to new music, New York 1987, London-New York 1990².
J.L. Collier, Jazz, in The new Grove dictionary of jazz, ed. B. Kernfeld, 2 voll., London 1988, vol. 1, pp. 580-606.
P. Manuel, Popular musics of the non-western world, Oxford-New York 1988.
World music, politics and social change, ed. S. Frith, Manchester-NewYork 1989.
S. Banerij, G. Baumann, Bhangra 1984-8: fusion and professionalization in a genre of South Asian dance music, in Black music in Britain. Essays on the Afro-Asian contribution to popular music, ed. P. Oliver, Milton Keynes-Philadelphia 1990.
Global cultures: nations, globalization and modernity, numero speciale di Theory, culture & society, ed. M. Featherstone, London 1990.
The Penguin encyclopaedia of popular music, ed. D. Clarke, London-New York 1990.
C.A.Waterman, Jùjú. A social history and ethnography of an African popular music, Chicago-London 1990.
A. Apter, Herskovits's heritage: rethinking syncretism in the African diaspora, in Diaspora, 1991, 3, pp. 235-60.
W. Straw, System of articulation, logics of change: communities and scenes in popular music, in Cultural studies, 1991, 3, pp. 368-88.
J. Clifford, Travelling cultures, in Cultural studies, ed. L. Grossberg, C. Nelson, P.A. Treichler, New York 1992, pp. 580-606.
K. Malm, R. Wallis, Media policy and music activity, London-New York 1992.
M. Roberts, World music & the global cultural economy, in Diaspora, 1992, 2, pp. 229-43.
S. Cohen, Ethnography and popular music studies, in Popular music, 1993, 2, pp. 123-38.
V. Erlmann, The politics and aesthetics of transnational musics, in The world of music, 1993, 2, pp. 3-15.
P. Gilroy, 'Jewels brought from bondage': black music and politics of authenticity, in Black Atlantic: modernity and double consciousness, Cambridge (Mass.) 1993, pp. 72-110.
P. Manuel, Cassette culture. Popular music and technology in North India, Chicago 1993.
R. Pratt, Rhythm & resistance. The political uses of American popular music, Washington-London 1994.
World music: the rough guide, ed. S. Broughton et al., London 1994.
Ethnicity, identity and music: the musical construction of place, ed. M. Stokes, Oxford-Providence 1994.
A. Goodwin, J. Gore, World beat and the cultural imperialism debate, in Sounding Off!, ed. R. Sakolsky, F. Wei-Han Ho, New York 1995, pp. 121-31.
D. Toop, Ocean of sound: aether talk, ambient sound and imaginary worlds, London-New York 1995.
Migrants and refugees, ed. R. Buckley, nr. monografico di Understanding global issues, 1996, 9.
L. Grenier, J. Guilbault, Créolité and francophonie in music: socio-musical repositioning where it matters, in Cultural studies, 1997, 2, pp. 207-34.
J. Guilbault, Interpreting world music: a challenge in theory and practice, in Popular music, 1997, 1, pp. 31-44.
Aree culturali
di Giovanni Giurati
Negli ultimi decenni del 20° secolo, alcune tradizioni musicali originarie di aree storicamente marginali rispetto alle correnti dominanti della produzione internazionale, sia colta sia popolare, hanno assunto una rilevanza crescente tanto nei gusti del pubblico, quanto nella stessa rivisitazione dei linguaggi e delle forme musicali più diffusi. Quelle qui presentate sono dunque culture musicali di antica ascendenza, tuttora vitali e in piena evoluzione tanto al loro interno, quanto nei reciproci influssi. In una prospettiva prevalentemente legata, come accennato, agli sviluppi attuali delle maggiori correnti musicali internazionali, si trovano presentate in questa Appendice le culture musicali dell'Africa subsahariana, del mondo arabo, del subcontinente indiano, del Sud-Est asiatico e dell'Estremo Oriente, completando e aggiornando, anche alla luce degli studi etnomusicologi degli ultimi decenni, quanto già esposto alle voci della Enciclopedia Italiana e delle Appendici (si veda, in partic.: Africa, I, p. 774; Arabi, III, p. 870; Cina, X, p. 317; Giappone, XVII, p. 60; App. V, ii, p. 443; India, XIX, p. 80; Khmer, XX, p. 184). L'individuazione e la suddivisione qui scelte per le aree in questione, pur funzionali alla trattazione, possono presentare alcuni svantaggi, lasciando in ombra caratteristiche rilevanti o determinate connessioni con altre tradizioni, ma anche, per converso, evidenziare tratti culturali comuni a regioni apparentemente distanti e mettere in luce cesure e continuità. Se ne sottolinea perciò in partenza il carattere provvisorio e inevitabilmente parziale.
La ragione principale che porta a distinguere fra le prime due è da far risalire alla cosiddetta arabizzazione dei paesi africani del Mediterraneo avvenuta da più di un millennio e che ha interessato, oltre la lingua e l'organizzazione sociopolitica, anche la musica. La storia dei rapporti, spesso difficili, e dei reciproci influssi tra le culture africane e quella araba è ancora da scrivere e necessita dell'apporto del repertorio storiografico arabo. Ci si limiterà in questa sede a riassumere l'attuale stato delle conoscenze sulle due aree così come si presenta nella bibliografia scientifica occidentale. Il processo di diffusione dell'Islam ha portato per converso notevoli elementi di continuità tra le tradizioni propriamente arabe e mediorientali, da un lato, e quelle indiane, in particolare del Nord, dall'altro, tanto nelle concezioni teoriche quanto nelle modalità esecutive.
Tratti comuni ed elementi oppositivi rispetto a regioni limitrofe sono individuabili anche fra le diverse culture musicali asiatiche qui presentate. Primo elemento è lo spessore storico della tradizione musicale, riscontrabile attraverso fonti dirette (notazioni, intavolature, trattati) e indirette (iconografia, archeologia, resoconti e descrizioni di viaggio). Esiste dunque una musicologia asiatica a tutti gli effetti, con fonti scritte di epoca anteriore a quella occidentale. Uno dei più autorevoli studiosi di musicologia storica orientale, L. Picken, ipotizza una continuità nella storia musicale eurasiatica, per cui fonti e ricerche sulla storia della m. orientale possono contribuire a far luce su questioni di musicologia antica europea. Altri importanti studi di carattere storico-musicale sono stati dedicati al Giappone e, recentemente, a particolari periodi della storia musicale dell'India. Un secondo elemento comune nell'area asiatica è costituito dall'elaborazione di sistemi di teoria e notazione musicale. Così come la m. europea fin dai tempi di Pitagora ha sviluppato teorie a proposito dell'organizzazione dei suoni e ha formalizzato in termini filosofici e matematici queste riflessioni, anche in Oriente la m. è stata oggetto di speculazione teorica. In India sono stati scritti numerosi trattati tra cui il Nāṭya-śāstra (4°-5° sec. d.C.), e il Saṅgīta-ratnakāra ("L'oceano della musica"), del 13° sec.; in Cina il Liji ("Libro dei Riti", 3° sec. a.C.). Anche se la notazione musicale non ha mai avuto e non ha oggi in Oriente la diffusione e il valore che essa ha assunto in Occidente, la grafia musicale è stata usata e viene ancora oggi impiegata in molte civiltà orientali a fini didattici e mnemonici. L'apprendimento si svolge per imitazione, da maestro ad allievo, nei modi tipici della tradizione orale. Tuttavia, in determinati casi forme di notazione sono usate come ausilio della pratica didattica. La notazione non è usata nel momento dell'esecuzione, a differenza della m. eurocolta occidentale. Diversi sistemi tradizionali sono usati in India, Cina, Corea, Giappone, Tibet, Giava. In ciascuno di essi sono notati quei parametri sonori e musicali ritenuti fondamentali dalla cultura in questione: in alcuni casi curando in particolare gli aspetti timbrici del suono (Cina), in altri evidenziando lo 'scheletro' melodico e le formule ritmiche di base (Giava), in altri ancora notando esclusivamente il profilo melodico, senza dare precise indicazioni di durata (Tibet). Soprattutto in India e nel Sudest asiatico un impulso all'uso della grafia musicale è venuto negli ultimi decenni dal contatto con l'Occidente, portando all'elaborazione di nuovi sistemi.
In Asia si trova, al pari dell'Occidente, una complessa e articolata stratificazione sociale, dalla quale risultano in una stessa cultura repertori musicali e stili molto diversi tra loro: corte, monasteri, città e campagne hanno espressioni musicali molto differenti, pur se con reciproche influenze. Anche se maggiore attenzione è stata dedicata, sia dai musicologi asiatici che da studiosi occidentali, alle musiche di corte, la più recente etnomusicologia si è rivolta allo studio del folklore musicale. Inoltre, soprattutto nella seconda metà del 20° sec., in seguito a forti fenomeni di urbanizzazione e di contatto con l'Occidente, hanno assunto rilievo anche nuovi generi popolari nati nei contesti urbani e legati alla musica di consumo. La stretta relazione tra esecuzione musicale e rito costituisce un altro aspetto diffuso nelle culture musicali asiatiche. La m. è concepita spesso come offerta alle divinità e come contributo umano all'ordine cosmico. Nel già citato Liji si afferma, per es., che attraverso 'i principi dell'armonia' si può ristabilire l'ordine del mondo fisico. A ciò si aggiunge la stretta interrelazione fra le arti dello spettacolo (teatro, m. e danza) che ha dato luogo in tutta l'area a forme molto elaborate di teatro musicale, teatro-danza e teatro delle ombre (v. oltre in riferimento alle singole culture).
Tipica delle tradizioni musicali asiatiche è infine la particolare attenzione conferita agli aspetti timbrici del suono. La fonosfera orientale si caratterizza per il ruolo importante delle percussioni intonate, specie dei metallofoni. L'Asia è infatti luogo privilegiato per l'uso del metallo (bronzo in particolar modo) nella costruzione di strumenti. Anche negli strumenti a corda la cura degli aspetti timbrici è evidente e questo parametro viene codificato più di altri quali il ritmo, specie nell'Asia orientale.
Africa subsahariana
di Serena Facci
"Lo studio della musica africana consiste innanzitutto nel capire l'unità e la diversità" (Nketia 1974; trad. it. 1986, p. 9). La m. subsahariana è un insieme poliedrico di tradizioni musicali distinte. Alcuni caratteri di questo insieme, soprattutto le procedure di base, lo rendono ben distinguibile da altre grandi tradizioni, come quelle europee o asiatiche. Ma le singole culture musicali che lo compongono sono estremamente parcellizzate, associate a comunità ristrette e localizzabili in aree limitate. La conoscenza di questa realtà musicale è, peraltro, ancora incompleta. Nell'Africa subsahariana la scrittura è entrata nell'uso da poco tempo. Tutta la storia, musicale e non, è affidata alla tradizione orale che, è bene ricordarlo, si esprime in una varietà enorme di lingue. Gli studi etnomusicologici, dunque, sono di fatto una costellazione di monografie nate dal contatto diretto e sul campo dei ricercatori con piccoli gruppi di musicisti. Molte zone del continente sono state fino a oggi indagate approfonditamente nei loro usi e stili musicali, ma molte restano ancora poco o per niente conosciute.
Per queste ragioni, se è relativamente facile tracciare linee generalissime di caratterizzazione della m. africana, molto più complesso è entrare in un livello più profondo di conoscenza in cui vengano delineate precise aree stilistiche. Useremo dunque solo dove possibile la distinzione, divenuta usuale negli studi socioantropologici, tra Africa occidentale, sahariana, orientale, centrale (o equatoriale), interlacustre, meridionale. Vanno inoltre sottolineate sia la grande permeabilità di molte culture musicali africane agli influssi esterni, di derivazione europea, araba, indiana e di altre tradizioni africane, sia le evoluzioni endogene degli stili e delle abitudini. Un approccio storico allo studio della m. africana delinea dunque un panorama in continua trasformazione.
Storia degli studi
Le fonti più antiche disponibili in Occidente per la ricostruzione della m. africana sono le cronache degli europei che nei secoli passati hanno avuto contatti diretti con l'Africa. Si tratta di un repertorio prezioso anche se assolutamente frammentario e il più delle volte caratterizzato da valutazioni negative. È a partire dal 20° secolo che le informazioni diventano scientificamente più mirate, attraverso le inchieste promosse da alcuni governi coloniali, come quella belga del 1934 sulla m. del Congo (Enquête sur la vie musicale du Congo, 1963), e la partecipazione di alcuni musicologi (A. Schaeffner, G. Herzog, P. Kirbi) alle spedizioni etnologiche degli anni Trenta e Quaranta. Le prime pubblicazioni di un certo rilievo risalgono agli anni Cinquanta, come Talking drums of Africa di J.F. Carrington (1949), Studies in African music di A.M. Jones (1959), i saggi di K. Wachsmann e A. Merriam sulla zona dei laghi, le prime ricerche di J. Blacking nel Sudafrica. Negli stessi anni, inoltre, viene fondata a Johannesburg l'International Library of African Music, che con H. Tracey ha dato vita a due importanti iniziative: la registrazione e pubblicazione in disco di m. tradizionali di vaste zone del continente e la pubblicazione della rivista African music.
Una consistente svolta nella maturità degli studi musicologici africanisti si è avuta tra gli anni Sessanta e Settanta. J. Blacking, G. Rouget, A. Merriam, S. Arom, G. Kubik, H. Zemp hanno trovato spunto dalla m. africana non solo per eccellenti registrazioni e monografie, ma anche per la messa a punto di un bagaglio teorico fondamentale per gli sviluppi dell'etnomusicologia. Le indagini più recenti, cui contribuiscono anche studiosi africani, mirano soprattutto alla comprensione approfondita di specifici repertori nel loro duplice valore musicale e antropologico, e si volgono anche verso le innovazioni ormai sopraggiunte nel panorama musicale del continente.
L'epica e gli strumenti solistici
Per le culture africane, il canto è un veicolo privilegiato per la conservazione della memoria storica, per l'affermazione dei principi morali ed etici, per la diffusione delle cronache. Ogni tradizione dispone di un suo particolare repertorio, quasi sempre solistico, che può comprendere racconti cantati o semicantati a carattere favolistico, concatenazioni di proverbi e modi di dire, canti di lode nei confronti di personaggi famosi, genealogie cantate, narrazioni cantate di episodi storici e di imprese condotte da personaggi di rilievo.
Generalmente questo tipo di canti è accompagnato da strumenti a corde quali l'arpa-liuto kora, diffusa in Africa occidentale e usata, nel vecchio regno Malinke, come strumento privilegiato dai griot, suonatori di casta al servizio dei notabili; l'arpa arcuata, rinvenibile in una vasta zona dell'Africa centrale e in particolare in Gabon, dove riprende il nome di ngombi e ricopre un significativo ruolo nei riti terapeutici di possessione (Sallée 1978); i vari tipi di cetra, dall'idiocorde mvet del Camerun, alla tubolare valiha del Madagascar, alla cetra a scudo, con nomi derivati dal radicale -nanga, dell'area interlacustre (particolarmente nota in Europa la cetra inanga, del Burundi, a causa dell'emissione afona dei cantanti che si accompagnano con questo strumento); le lire, strumenti diffusi nell'antichità nel Medio Oriente, che sopravvivono in una consistente fascia dell'Africa orientale; i liuti ad arco, quasi sempre monocordi, diffusi sia nella zona orientale (ricordiamo il masenqo etiope con cassa a forma di losanga e, più a sud, dall'Uganda fino al Mozambico, vari tipi con una piccola cassa tubolare) sia nell'Africa occidentale, dove sono caratterizzati da una cassa semisferica.
Anche i lamellofoni, strumenti tipicamente africani costituiti da una serie di lamelle di metallo o bambù fissate su una cassa di risonanza, hanno un rilevante ruolo epico. Conosciuti in Europa come sanza o mbira, assumono nomi diversi a seconda delle lingue: nell'area interlacustre, per es., derivano il loro nome dalla radice -kembe (erikembe, likembe, ikembe ecc.). Sono molto diffusi in tutto il continente, ma la loro rilevanza nei repertori delle singole popolazioni varia di luogo in luogo. Nell'Africa australe, in particolare nello Zimbabwe, la mbira è considerata lo strumento principale, ed è presente in molti tipi, diversi per grandezza, numero e ordine delle lamelle. Oltre che nei repertori epici, viene utilizzata nei rituali di possessione, nelle danze ecc. (Berliner 1978). È anche divenuta simbolo dell'identità nera nella nuova m. fiorita durante le lotte per l'indipendenza.
A partire dagli anni Ottanta molti di questi strumenti stanno vivendo una consistente divulgazione anche in Occidente, a opera delle nuove correnti della world music e della massiccia migrazione africana in Europa. È, per es., il caso della kora e dei suoi interpreti griot.
Pur con consistenti differenze tra uno strumento e l'altro e tra un repertorio e l'altro, si può dire che le procedure di accompagnamento fatte con gli strumenti 'epici' rispondono a caratteristiche comuni:
a) in genere alcune corde o lamelle hanno un'intonazione fissa (spesso quelle che devono essere accordate all'unisono, all'ottava e talvolta alla quarta e alla quinta), mentre le altre, pur rispondendo a un'organizzazione intervallare di massima (scala pentatonica o eptatonica), variano sensibilmente da suonatore a suonatore;
b) l'accompagnamento è organizzato in ostinati variati, caratterizzanti dei vari canti e generati dalla melodia base dei canti stessi;
c) la voce segue normalmente un andamento sillabico. L'interpretazione può essere ricca di pathos. Gli interludi di solo strumento scandiscono la narrazione consentendo al suonatore-cantore di riposarsi, ma anche di creare attesa nel piccolo pubblico di ascoltatori;
d) nei villaggi l'esecuzione di questi repertori è riservata ai momenti di intrattenimento sia fra le pareti domestiche sia nei luoghi pubblici di ritrovo.
La musica rituale e gli insiemi orchestrali
I tamburi hanno nel complesso della m. africana un ruolo estremamente rilevante. Grosso modo (e con vistose eccezioni) si può dire che mentre i cordofoni hanno il ruolo di 'raccontare' e conservare la cultura della comunità e sono riservati a esecuzioni solistiche e di carattere estemporaneo, i tamburi hanno un più netto ruolo rituale, sono strumenti da orchestra e vengono suonati in occasioni determinate.
La simbologia extramusicale del tamburo è fortemente significativa per la comprensione di molte culture africane. Nella zona interlacustre i tamburi hanno una connotazione politica. Gli antichi regni di questa zona (Burundi, Ruanda, Buganda, Bunyoro, Buhaya ecc.) erano simbolicamente rappresentati da specifici tamburi sacri, e solo il possesso di questi strumenti poteva garantire la legittimità dell'assunzione del potere. In altri casi essi sono legati al culto e alla memoria degli antenati. I tamburi sacri sono talvolta ben distinti da quelli ordinariamente utilizzati per le esecuzioni musicali.
I tamburi a membrana possono avere la cassa cilindrica, a tronco di cono, a calice, a clessidra, a scodella. Le dimensioni sono estremamente varie. Altri strumenti a percussione tipicamente africani e spesso presenti negli ensembles sono i tamburi a fessura e gli xilofoni. Gli xilofoni sono diffusi a macchia di leopardo su tutto il continente. Nella zona occidentale è più frequente l'uso di strumenti con risuonatori di zucca posti sotto le barre. A Est invece (dall'Uganda al Mozambico) sono più diffusi i grandi xilofoni positivi in cui le barre sono poste trasversalmente su due tronchi di banano stesi in terra.
I tamburi di legno o a fessura sono costruiti in modo che le labbra possano produrre suoni di diversa altezza e sono usati sia come strumenti musicali, sia come comunicatori di messaggi. Il fenomeno degli strumenti parlanti interessa sia i tamburi sia gli xilofoni ed è molto diffuso e consistente. Spesso sono proprio le strutture linguistiche, caratterizzate melodicamente grazie alla presenza dei toni in molte lingue africane, a generare le formule suonate in contesti apparentemente solo musicali. Nelle batterie usate durante le danze nell'Africa occidentale e centro-orientale molto spesso uno dei tamburi, o uno degli xilofoni, ha il compito di 'parlare' agli astanti e ai ballerini, descrivendo le situazioni o i significati della danza stessa.
Molte delle scoperte sulla concezione ritmica dei musicisti africani sono derivate dall'analisi, condotta da studiosi europei e africani, delle m. per tamburo e per altri strumenti, essenzialmente idiofoni, utilizzati negli ensembles. Quasi sempre si tratta di m. collegate alla danza (Chernoff 1979) che ha, insieme al canto, una parte da protagonista nella m. africana. Nella maggioranza delle culture sono evidenti alcune correlazioni tra m. per gruppi strumentali e danza, in virtù delle quali ogni danza è caratterizzata da specifici modelli musicali, alle variazioni coreutiche corrispondono variazioni musicali, e, infine, la pulsazione isocrona, impalcatura di tutto l'insieme, corrisponde al passo base della danza.
I gruppi strumentali si organizzano generalmente in maniera polifonica. Ovvero, ogni componente del gruppo ha una sua specifica parte ben distinta da quella degli altri. In questi insiemi è osservabile chiaramente quella che è stata definita poliritmia africana, caratterizzata come segue.
In primo luogo, l'intero gruppo fa riferimento a una pulsazione di base isocrona, che può essere esplicitata da uno degli strumenti oppure rimanere implicita. Generalmente questa pulsazione (derivata, come si è già detto, da schemi coreutici) è ben radicata nella coscienza motoria dell'intera comunità, tanto da essere caratterizzante di determinati villaggi. Può capitare che la pulsazione isocrona sia sentita come sdoppiabile in beat e off-beat, e che alcuni suonatori abbiano come riferimento il beat, altri l'off-beat (Kubik 1983).
In secondo luogo, la costruzione formale dell'insieme è ciclica, costituita da cicli più o meno lunghi che vengono di solito ricostruiti numericamente a partire dalle cosiddette micropulsazioni, cioè i colpi di durata minima prodotti sui vari strumenti. Non sempre le varie parti comprendenti l'insieme hanno cicli di uguale durata; così, per es., un ciclo complessivo di 12 micropulsazioni può risultare dalla sovrapposizione di parti aventi cicli da 6, 4 e 3 pulsazioni (v. figura).
Le singole parti, si è detto, sono anch'esse organizzate ciclicamente e sono costituite da formule ritmico-melodiche. In altre parole, ogni strumento esegue un breve ostinato ben caratterizzato sia dalla quantità di colpi sia dalla loro intensità e dal tipo di tocco. La dislocazione degli accenti, il punto e il modo in cui viene colpita la pelle (o la superficie di altri strumenti a percussione) sono tutti elementi costitutivi della formula stessa.
Nei tamburi e negli xilofoni il modello di ogni singolo strumento è dato dalla risultante dei movimenti dei modelli prodotti dalle due mani; ne vediamo in figura un esempio tratto da Nketia (1974, p.141).
Generalmente in un insieme ci sono strumenti incaricati di ripetere in modo più o meno costante la loro formula. Altri hanno margini più o meno ampi di improvvisazione, ovvero di variazioni sulla formula base.
Le osservazioni riportate finora sono valide per molti insiemi strumentali, soprattutto in Africa occidentale e centrale, mentre la zona orientale presenta eccezioni a questo sistema. Citiamo le orchestre di tamburi del Burundi, note anche in Europa, formate generalmente da gruppi di 19 tamburi di diversa dimensione. In queste orchestre - spettacolari soprattutto per la potenza sonora e per la danza acrobatica del suonatore che, a turno, svolge il ruolo di direttore - le parti sono solo due: la prima, riservata ai tamburi più acuti, coincide con la scansione regolare della pulsazione di base; la seconda si articola in lunghe frasi, derivate da modelli verbali e gestuali, che vengono prodotte in assoluta sincronia dai tamburi più gravi.
Anche le orchestre di aerofoni rivestono un particolare interesse. Ricordiamo in Africa centrale i gruppi di trombe o di fischietti monotoni, suonati con una procedura definita a hochetus da S. Arom (1985), che ha dedicato uno studio particolare alle trombe iniziatiche dei Banda Linda. Ogni strumento produce infatti una breve formula costituita da una sola nota e inserita in un ciclo generale: l'architettura dell'insieme, molto complessa, è generata da un modello melodico unico, derivato da un canto.
Gli aerofoni possono anche essere usati in solo, come accade per il flauto a tacca, dalla connotazione pastorale e diffuso in tutto il continente. Meno diffusi, ma rilevanti in alcune aree, sono gli strumenti ad ancia sia semplice sia doppia. Da citare inoltre i rombi e i mirliton, legati generalmente a occasioni rituali (ne ricordiamo l'uso nei funerali dei Dogon del Mali).
La musica corale
Come si è già accennato, il canto è basilare per la m. africana. In quasi tutte le esecuzioni, di uso quotidiano o rituale, con strumenti in solo o con ensemble, ci sono momenti in cui interviene il canto. La più diffusa forma di organizzazione del gruppo corale è quella antifonale, in cui un leader si alterna agli interventi di un coro. Gli spazi riservati al solista, che spesso è anche improvvisatore, e al coro sono in genere precisamente delimitati, anche se può accadere che il solista si sovrapponga alla cadenza del coro e viceversa. L'insieme corale può essere unisono o a più parti: in questo caso esse procedono frequentemente per terze parallele e, nelle realtà in cui è più forte il pentatonismo, anche per quarte e quinte.
I repertori più ricchi sul piano polifonico sono sicuramente quelli dei gruppi di Pigmei della foresta (Aka, Baka, Ba-benzelé, Bambuti ecc.) e dei Boscimani del Kalahari. La maggior parte dei canti sono in queste realtà di tipo corale contrappuntistico. Ogni partecipante o gruppo di partecipanti dispone di una breve formula melodica, spesso su sillabe nonsense, che partecipa alla costituzione di un ciclo in genere molto lungo (anche 32 pulsazioni) ed estremamente complesso. Altre forme di polifonia contrappuntistica sono diffuse in Africa meridionale (Zulu, Xhosa, Swazi) e orientale (Dorzé). Ricordiamo anche forme di bivocalità in Madagascar e di sovrapposizione a canone come, in Burundi, i saluti cantati delle donne akazehe (Facci 1996).
Nuove tendenze
Negli ultimi decenni del 20° secolo la progressiva accelerazione dei contatti tra l'Africa e l'Occidente ha trovato, per quanto riguarda la m., una concretizzazione nella circolazione vicendevole e sempre più capillare di registrazioni musicali. Questa divulgazione di repertori e sonorità ha condotto a un forte potenziamento dei fenomeni di contaminazione musicale, da sempre esistiti anche se conseguenti a periodi e contingenze sociopolitiche critiche e sovente dolorose (deportazione schiavista, colonizzazione ecc.). Per alcuni musicisti occidentali, rappresentanti sia della popular music come P. Gabriel, che della m. colta come S. Reich, G. Ligeti, L. Berio, R. Travis, timbri e tecniche costruttive della m. africana sono stati tra le fonti dell'invenzione creativa.
Ma la novità più consistente degli ultimi decenni è l'autonoma capacità di protagonismo dell'Africa e dei suoi musicisti sulla scena mondiale. A fianco della m. tradizionale possiamo infatti individuare diverse correnti di m. moderna. Le più note in Occidente sono quelle riconducibili alla popular music, come l'highlife del Ghana, la rumba e il soukous zairo-congolesi, lo mbaqanga del Sudafrica, lo mbalax senegalese, il fuji nigeriano, il tarab di Zanzibar e di altre zone dell'Africa orientale (Ewens 1991). Si tratta di stili e generi in continua evoluzione, in cui alcuni elementi originali africani si innestano su un tessuto armonico e timbrico euro-americano. Per molti di questi generi il punto di partenza è stato mutuato, negli anni Sessanta e Settanta, da modelli caribici o sudamericani (rumba, salsa e reggae). Non sono da sottovalutare, in alcuni generi, gli influssi arabi e indiani.
Un esempio tipico di come le innovazioni siano state assorbite dai musicisti africani è il vasto e variegato repertorio per chitarra. Fin dagli anni Sessanta alcuni strumentisti come lo zairese J. Mwemba Bosco hanno inaugurato uno stile chitarristico originale, in cui i giri armonici più semplici (i-v-i, i-iv-v-i) vengono utilizzati per ostinati di accompagnamento a canzoni dall'inconfondibile stile 'narrativo' africano, realizzati attraverso una tecnica a 'pizzico' con il pollice e l'indice della mano sinistra.
Sia gli innumerevoli musicisti di ispirazione pop, che quelli di formazione jazzistica, come il camerunense Manu Dibango, hanno vissuto una doppia stagione: quella, intorno agli anni Cinquanta e Sessanta, in cui massimo è stato lo sforzo di assorbimento dalla cultura euro-americana, e la successiva in cui, al contrario, si è affermata la ricerca e rivalutazione della tradizione autoctona.
I compositori africani di tradizione scritta, o m. d'arte, si sono formati nel passato principalmente in contesti religiosi cristiani. L'evangelizzazione in Africa, infatti, è stata sovente accompagnata dalla creazione e divulgazione di canti sacri nelle lingue africane, con un impianto molto simile al corale protestante, ma con scale e ritmi di ispirazione locale. Oggi i cori legati alle varie Chiese sono un fenomeno diffusissimo in tutta l'Africa, e cospicua è anche la produzione di registrazioni di gospel africani. Nel corso del 20° secolo, però, anche la m. d'arte ha assunto una sua autonoma consistenza. J.H.K. Nketia (1998) afferma: "La creatività contemporanea va verso la sfida di creare alternative africane alle forme occidentali trapiantate in Africa nel periodo coloniale". A partire dagli anni Novanta il numero dei compositori e delle iniziative legate alla m. d'arte africana è andato costantemente aumentando. Ricordiamo nel 1992 l'incisione di un disco del Kronos Quartet, Pieces of Africa, in cui compaiono brani di otto compositori di diversi paesi africani; nel 1995 a Würzburg, in Germania, il primo Festival di m. da camera africana, in cui furono presentati pezzi di 25 compositori. Tra i nomi dei musicisti attivi nel campo della m. d'arte ricordiamo la Pan-African orchestra di Danso Abian, interamente costituita da strumenti tradizionali di diversi paesi africani; Ephraim Amu, pioniere nell'uso di strutture musicali africane anche di derivazione popular; Atta Anan Mensah, in cui si fondono la tradizione euro-americana e diverse tradizioni africane; Akin Euba, Nketia, Gyimah Labi, Solomon Mbabi-Katana, Justinian Tamusuza.
Mondo arabo
di Serena Facci
È consuetudine distinguere in questa ampia regione due aree geografiche: il Maghreb (Maġrib "Occidente") che designa la parte del Nordafrica che va dal deserto libico all'Atlantico, e il Mashreq (Mašriq "Oriente"), che comprende l'Egitto e il Vicino e Medio Oriente.
Nel Mashreq alcune ricostruzioni storiche (Guettat 1980) hanno messo in luce la sopravvivenza, nella m. classica, di tratti già affermati nella penisola arabica durante il periodo preislamico (l'epoca della ǧāhiliyya, ovvero dall'ignoranza rispetto all'Islam), come la terminologia, buona parte degli strumenti, alcuni generi, la rilevanza dei poemi cantati e in generale del canto affidato alle cantatrici qaynāt. Occorre inoltre ricordare i vicendevoli influssi con culture vicine, in particolare la persiana, la mongola e la turca, quest'ultima divenuta particolarmente significativa durante la lunga dominazione ottomana. Nel Maghreb, invece, la cultura araba si è innestata sull'originario substrato africano, che comunque mantiene ancora forme autonome nelle zone più interne (abitate da popolazioni berbere, quali i Kabili e i Tuareg), e, sul finire del 15° secolo, ha assistito a un profondo arricchimento dovuto alla massiccia migrazione in queste aree dei gruppi islamizzati dell'Andalusia, dove era fiorita una ricca cultura musicale con influssi arabi, ispanici, ebraici, zigani.
La storia
Dall'avvento dell'Islam gli storici della m. araba (Farmer 1957) individuano tre o talvolta quattro periodi. Il primo va dal 7° al 9° secolo, e fu dedicato alla costruzione culturale: gli sforzi maggiori dei teorici musulmani puntarono a realizzare un sistema musicale omogeneo e integrato con la cultura araba e con la nuova religione. Il secondo periodo, intorno al 9° secolo, è considerato il periodo 'd'oro', in cui viene localizzato l'apogeo politico-culturale del califfato; a esso fece seguito un lungo e lento declino, che si protrasse fino al 16° secolo. La m. impegnò attivamente filosofi, fisici e matematici rappresentanti della cosiddetta scuola degli 'udisti' (al-Mawṣilī, al-Munaǧǧim, al-Kindī) nell'elaborazione di un coerente sistema teorico in cui la tastatura del liuto ῾ūd fosse modello concreto per la costruzione scalare e modale. La pratica musicale, dal canto suo, era parte integrante della cultura di corte. Molti califfi erano essi stessi musicisti e si preoccupavano di disporre di compositori, cantanti e suonatori validi. Si dice che il califfo al-Waṯiq (832-47), fece del suo palazzo un 'conservatorio musicale', sotto la direzione di Isḥāq al-Mawṣilī.
Con il decadere del califfato di Baghdād, gli influssi persiani si fecero sempre più consistenti, portando, per es., all'introduzione del ṭunbūr, un liuto a cassa più piccola, manico più lungo e maggior numero di tasti rispetto allo ῾ūd. La scuola dei 'tunburisti' si contrappose anche in modo polemico a quella degli antichi udisti, e riuscì a imporre alcune modifiche organologiche nello ‚ūd stesso. Parallelamente altri teorici (al-Fārābī in particolare) si preoccupavano di ricostruire storicamente le connessioni tra la teoria musicale greca antica e quella araba contemporanea. Nel 13° secolo il sistema teorico subì sostanziali e definitive innovazioni da parte dell'importante scuola dei 'sistemisti', il cui maggior rappresentante fu Ṣafī al-Dīn al-Urmawī, ideatore di una scala suddivisa in 17 intervalli.
La m. andalusa viene considerata una derivazione di quella del Mashreq: un allievo di Isḥāq al-Mawṣilī, Ziryāb, si trasferì infatti nel 9° secolo alla corte ommayade di Cordova, dando continuità alla scuola degli udisti. Da quel momento la musica del Maghreb si sviluppò autonomamente rispetto a quella orientale seguendo (Guettat 1980) un percorso inverso: mentre infatti nel Mashreq la costruzione della m. d'arte era avvenuta grazie a un lento processo di unificazione ed evoluzione di stili e consuetudini popolari, nel Maghreb il patrimonio della m. classica trovò favore nelle corti, ma conquistò via via anche gli ambienti popolari, arricchendosi di nuovi influssi e trasformandosi in m. di popolo. Molti furono in Andalusia i teorici e i musicisti, anche se la maggior parte delle loro opere è andata perduta. Ricordiamo nel periodo degli Ommayadi (756-1012) Ibn al-Firnās, Ibn ῾Abd Rabbih, Ibn ῾Abd al-Azīz, in quello degli Almoravidi (1056-1146) Ibn Bāǧǧa, considerato il più grande musicista dopo Ziryāb, Abu al Calt, e in quello degli Almohadi e dei Nasridi, rimasti a Granada fino alla definitiva conquista dell'Andalusia da parte dei Castigliani, nel 1492, Ibn Rušd (Averroè), al-Šaqundī, Lisān al-Dīn.
Il terzo periodo della m. araba va dal momento della decadenza dell'impero islamico fino ai nostri giorni. Viene considerato un periodo di oscurità fino alla fine del 19° secolo, quando la volontà di indipendenza politica nei paesi arabi cominciò ad accompagnarsi a una riscoperta e riaffermazione dell'identità culturale. Il culmine di questo processo può essere considerato il Primo congresso di m. araba, tenuto al Cairo nel 1932. In realtà, se la decadenza politica portò con sé una chiara battuta d'arresto nell'ampia trattatistica teorico-musicale, la pratica della m. sopravvisse negli ambiti popolari e religiosi o si trasferì a interferire con la cultura musicale dei dominatori. Il congresso del Cairo, dunque, sancì l'esistenza di una consistente vita musicale, nei paesi sia del Mashreq sia del Maghreb. Da allora molti sono i musicisti che hanno riscoperto e coltivano i principi classici della m. araba; citiamo in Tunisia Salah el-Mahdi, in Algeria Mohamed Khazadji, in Iraq Munīr Bašīr, noti anche in Europa. Tra i conservatori o scuole di m. classica araba sorti in alcune città, ricordiamo il conservatorio di Beirut, in cui si sono formati diversi musicisti arabi del 20° secolo seguendo sia i corsi di m. mediorientale sia quelli di m. occidentale.
Strumenti, forme e sistemi modali in Mashreq e in Maghreb
La m. araba presenta una notevole ricchezza di forme, strumenti musicali e stili. Un primo problema nella definizione dei caratteri di questo antico e ingente patrimonio viene dalla complessità terminologica. Nella trattatistica, infatti, alcuni termini hanno assunto differenti significati a seconda dell'epoca e degli autori. Inoltre, data la vastità dell'area geografica interessata, un notevole elemento di variazione è anche nella pronuncia dei termini, cui ha fatto seguito una disomogenea trascrizione e traslitterazione nelle lingue occidentali (al-Faruqī 1981).
In linea di massima gli strumenti maggiormente usati in tutta l'area sono il liuto ῾ūd, la cetra qānūn, la viella rabāb, il flauto nāy, l'oboe zurna, il clarinetto zammāra, il tamburo a cornice ṭār (o daff) e il tamburo a calice monopelle darabukka nel Maghreb, ṭabla nel Mashreq.
Un valore particolare ha il canto. A parte i repertori religiosi (v. oltre), un po' dovunque è diffusa la poesia cantata di argomento profano, sia nei repertori popolari sia nella m. classica. Quest'ultima presenta tratti sensibilmente differenti in Mashreq e in Maghreb. Lo stile orientale è maggiormente solistico-virtuosistico rispetto all'occidentale, caratterizzato da insiemi strumentali più numerosi e da una più strutturata composizione dei brani. Un genere particolarmente praticato dai solisti e dagli insiemi classici del Vicino Oriente è il taqsīm, una forma di improvvisazione modale a ritmo libero che funge da introduzione o interludio a brani cantati con ritmo definito. Il genere classico tipico del Maghreb è invece la nūba, una suite di canti, preceduta da un'introduzione strumentale ed eseguita da insiemi il cui organico varia sensibilmente a seconda dei paesi e delle scuole.
Sia in Oriente che in Occidente la pratica si basa su un sistema teorico modale. La scala base, ǧadwal, di tre ottave suddivise in quarti di tono, dà origine a un notevole numero di segmenti tetracordali o pentacordali, detti aǧnās (sing. ǧins). L'unione di due aǧnās dà luogo a un'ottava eptatonica con una tonica detta qarār. I modi, basilari per la composizione e l'improvvisazione, comprendono in genere due ottave ascendenti e discendenti. Non sempre l'andamento ascendente è identico al discendente. Le distanze intervallari possono essere microtonali (1/4, 1/2, 3/4 di tono) o macrotonali (1,1+1/4, 1+1/2). Il termine oggi maggiormente in uso per la definizione dei numerosissimi modi arabi è maqāmāt (sing. maqām), essendo caduti in disuso alcuni termini più antichi. Nel Maghreb è fondamentale, anche per i suoi valori simbolici (v. oltre), il termine ṭab, indicante i 24 modi melodici derivati dai modi principali uṣūl (sing. aṣl). Anche il ritmo è organizzato secondo un sistema modale. I modi o cicli ritmici sono detti īqā῾āt (sing. īqā῾) e vengono memorizzati attraverso una successione di sillabe onomatopeiche indicative dei tipi di colpi da dare sul tamburo.
Accanto alla m. classica moltissime sono le forme popolari di espressione musicale. È difficile darne conto, legate come sono alla eterogenea koiné dei popoli arabi e arabizzati. In particolare hanno repertori specifici i Berberi nel Maghreb, i Beduini dei vari paesi d'Oriente, i nomadi di origine zigana (Hassad 1980; Lortat-Jacob 1980).
Musica e valori extramusicali, tendenze mistico-musicali
Il Corano non contiene alcuna esplicita condanna della m.; alcune fonti parlano anzi della presenza di esecuzioni musicali durante il matrimonio del Profeta. La cantillazione è detta taǧwīd, "lettura", ma è una forma di melodia ornata. La condanna della m. venne fin dai primi secoli da alcune frange oltranziste, ma non ebbe mai vero seguito, anche se alcune limitazioni sono diventate consuetudini, come l'interdizione all'uso di strumenti, eccetto il tamburo, nelle moschee. Al contrario, diverse correnti islamiche, in particolare quella mistica del sufismo, hanno riservato all'ascolto musicale un ruolo di primissimo piano nei processi rituali di meditazione e trance.
Un testo chiave in questo senso è il Kitāb ādāb al-samā'wa al-waǧd (Libro sui buoni usi dell'ascolto e dell'estasi, compreso nell'ampia opera Iḥyā' ‚ulūm al-dīn, La vivificazione delle scienze religiose) di Abū Ḥāmid al-Ghazzālī (m. 1111). I termini samā' ("ascolto", ma anche "musica") e waǧd ("estasi", "trance") sono il perno intorno a cui ruota il processo di estasi che conduce alla comunione diretta con Dio, obiettivo della pratica religiosa ṣūfī (Rouget 1980). Il tipo di m. impiegato per raggiungere la trance estatica dalle diverse confraternite spazia dal canto, con cui vengono intonati i testi mistici e gli inni, alla danza, alla sola m. strumentale, ed è molto vario, anche perché i confini del misticismo islamico vanno ben al di là del mondo arabo. Il flauto nāy e il tamburo bāndir sono tra gli strumenti più usati, talvolta accompagnati da cordofoni come la cetra qānūn o diversi tipi di liuto. Li troviamo, per es., nell'accompagnamento alla danza dei Dervisci rotanti dell'Anatolia. Gli Gnaua del Marocco hanno un particolare tipo di castagnette (qarqabāt) la cui forza guaritrice può essere dominata solo dal maestro (mu‚allim). Il liuto ṭunbūr era lo strumento privilegiato di Ostād Elāhi, il mistico iraniano della cui m. il violinista Y. Menuhin disse: "Non avevo mai sentito nulla di simile. Non sono mai stato a tal punto impressionato". Molto conosciuto in Occidente è anche il pakistano Nusrat Fateh Ali Khan (1948-1997), stimato esecutore, assieme ai due fratelli Sabri, dei canti estatici qawwālī.
Ma nella cultura araba i richiami extramusicali sono presenti anche nella m. profana. I modi (tab) usati nella nūba del Maghreb sono associati a quattro umori corporei (atrabile, bile, sangue e flemma). I repertori di nūba a essi legati sono collegati a precisi momenti della giornata, a loro volta rappresentativi di particolari stati d'animo e sensazioni quali profumi e colori.
Le nuove tendenze e la musica urbana
La crescita delle grandi città mediterranee, l'affermazione della radio e della discografia, gli scambi con l'Occidente, hanno favorito nel corso del 20° secolo lo sviluppo di nuove tendenze musicali e, in particolare, di un tipo di canzone in lingua araba, in cui la prassi classica del poema cantato si è mescolata con influssi occidentali. L'Egitto e successivamente il Libano sono stati, a partire dagli anni compresi tra le due guerre mondiali, i centri di maggiore irradiazione di questi nuovi repertori, in cui la raffinatezza poetica dei testi, generalmente a contenuto amoroso, si univa alla tecnica particolarmente curata e alla carica emotiva espressa dalla voce degli interpreti.
Alcuni cantanti, come la libanese Fayrūz e gli egiziani Muḥammad ‚Abd al-Wahhāb, Layla Murād e soprattutto Umm Kulṯum (m. 1975), con la loro ricchissima produzione discografica, sono apprezzati e amati in tutto il mondo arabo, e si sono affermati largamente anche sulla scena internazionale. Tra i compositori ricordiamo Sayyd Darwiš, morto nel 1923, considerato l'iniziatore della nuova m. nazionale egiziana. Oltre ai poemi cantati di stile classico (muwaššahāt e adwār), ha composto diverse operette, in cui sensibili sono le innovazioni imposte dall'accoglimento di influssi occidentali: l'organico orchestrale europeo, la scelta di modi compatibili con il pianoforte ecc. Analoga operazione hanno condotto i fratelli libanesi 'Āssī e Manṣūr Rahbānī, particolarmente attivi negli anni Cinquanta. Una nuova leva di musicisti, a partire dagli anni Settanta, ha impresso un diverso carattere alla m. e alla canzone egiziana, rinnovandone il linguaggio e le tematiche. Tra questi Sayyed Makawi, Muḥammad Munīr e Ali Hassan Kuban. Tra i musicisti libanesi contemporanei citiamo Ziyād Rahbānī, figlio di ῾Assī e della cantante Fayrūz, Marcel Khalife, Rabī‚ al-H̠ūlī. La canzone mediorientale ha avuto un forte seguito tra gli immigrati arabi in tutto il mondo. Sua particolare derivazione può essere considerato il tarab africano, genere misto, generalmente in lingua swahili, fiorito a Zanzibar e in tutta la fascia costiera orientale dell'Africa.
In Algeria, e in particolare a Orano, è nato invece il genere urbano in lingua araba maggiormente conosciuto e apprezzato anche in Europa: il raï. Il termine, che deriva dall'arabo (ra'ī, "idea", "opinione"), è entrato nell'uso a partire dagli anni Settanta. Sembra che le origini del raï vadano rintracciate nei repertori contadini importati nei caffé e nei cabaret della città fin dagli inizi del 20° secolo. Inizialmente accompagnate da strumenti tradizionali come il flauto gasba, il tamburo metallico guellal e il tamburo cilindrico darabukka, le canzoni rappresentative del raï primitivo risentivano degli influssi delle m. di ogni tipo (dal jazz, al flamenco, alla m. berbera) che era possibile ascoltare a Orano, e venivano largamente usate in occasioni festive e rituali come i matrimoni. Dagli anni Ottanta il cosiddetto pop-raï , che ha assorbito strumenti occidentali, è diventato il genere giovanile e ribelle per eccellenza. I suoi maggiori rappresentanti hanno adottato l'appellativo di Cheb (Chaba al femminile, dall'arabo šabb, giovane) e possono essere annoverati tra le vittime, effettive e designate, della repressione integralista algerina della fine del 20° secolo. L'uccisione di Hasni nel 1994 e di Baba-Ahmed nel 1995 ha indotto altri famosi musicisti, come Khaled e Mami, a emigrare in Francia. Qui, grazie anche a interpreti nati tra i cosiddetti beurs, gli immigrati arabi di seconda generazione, il raï sta diventando, sul finire del millennio, un nuovo ponte tra mondo arabo e Occidente. Sorte simile al raï sta subendo la nuova m. berbero-kabila, che per la sua forte connotazione di rivendicazione dell'identità culturale è oggetto di una vera e propria persecuzione in Algeria.
bibliografia
J.F. Carrington, Talking drums of Africa, London 1949.
A. Merriam, Musical instruments and technics of performance among the Bashi, in Zaire, 1955, 9, 2, pp. 121-32.
H.G. Farmer, La musica dell'Islam, in The new Oxford history of music, 1° vol., London 1957, pp. 471-529 (trad. it. Storia della musica, 1° vol., Milano 1978).
A.M. Jones, Studies in African music, 2 voll., London-New York 1959.
Enquête sur la vie musicale du Congo, éd. P. Collaert, Tervuren 1963.
K.P. Wachsmann, Harp songs from Uganda, in Journal of international folk music council, 1964, 8, pp. 23-25.
K. Reinhard, U. Reinhard, Turquie. Les traditions musicales, Paris 1969.
S. Arom, Conte et chantefables ngbaka-ma'Bo: République centrafricaine, Paris 1970.
H. Zemp, Musique Dan, la pensée et la vie sociale d'une société africaine, Paris 1971.
S. el Mahdi, La musique arabe, Paris 1972.
Classic Persian music: an introduction, Cambridge (Mass.) 1973.
J.H.K. Nketia, The music of Africa, New York 1974 (trad. it. Torino 1986).
M. Guignard, Musique honneur et plaisir au Sahara, Paris 1975.
H.H. Touma, Die Musik der Araber, Wilhelmshaven 1975 (trad. it. Firenze 1982).
J. Jenkins, P.R. Olsen, Music and musical instruments in the world of Islam, London 1976.
P. Berliner, The soul of Mbira: music and traditions of the Shora people of Zimbabwe, Berkeley (Calif.) 1978.
P. Sallée, Études sur la musique du Gabon, Paris 1978.
J.M. Chernoff, African rhythm and African sensibility, Chicago 1979.
M. Guettat, La musique classique du Maghreb, Paris 1980.
S.Q. Hassad, Les instruments de musique en Irak et leur rôle dans la société traditionnelle, Paris-La Haye 1980.
B. Lortat-Jacob, Musique et fêtes au Haut-Atlas, Paris 1980.
G. Rouget, La musique et la transe, Paris 1980, nuova ed. 1990 (trad. it. Torino 1986).
L.I. al-Faruqī, An annotated glossary of Arabic musical terms, Westport (Conn.) 1981.
R. Stone, Let the inside be sweet, the interpretation of music event among the Kpelle of Liberia, Bloomington (Ind.) 1982.
F. Giannattasio, Somalia: la terapia coreutico-musicale del mingis, in Culture musicali, 1983, 2, pp. 93-120.
G. Kubik, Emica del ritmo musicale africano, in Culture musicali, 1983, 2, 3, pp. 47-92.
J. During, La musique iranienne. Tradition et évolution, Paris 1984.
S. Arom, Polyphonies et polyrythmes instrumentales d'Afrique Centrale, Paris 1985.
A. Merriam, African music in perspective, New York 1985.
V. Dehoux, Chants à penser Gbaya, Paris 1986.
J. During, Musique et exstase. L'audition mystique dans la tradition soufi, Paris 1988.
F. Giannattasio, Strumenti musicali, in Aspetti dell'espressione artistica in Somalia, a cura di A. Puglielli, Roma 1988.
G. Ewens, Africa o-ye!: a celebration of African music, Enfield 1991 (trad. it. Bologna 1993).
S. Facci, I Nande e la loro musica, in Etnografia nande III, a cura di C. Buffa, S. Facci, C. Pennacini et al., Torino 1996, pp. 11-57.
S. Facci, Akazehe del Burundi. Saluti a incastro polifonico e cerimonialità femminile, in Polifonie. Procedimenti, tassonomie e forme: una riflessione a più voci, a cura di M. Agamennone, Venezia 1996, pp. 123-61.
J.H.K. Nketia, The arts in contemporary context. An overview, in Arts international, in Roads, on line paper, http://iserver.iie.org/ai/inroads/nketia.html 1998.
Subcontinente indiano
di Giovanni Giuriati
La tradizione musicale più importante e più studiata del subcontinente, di cui fanno parte culturalmente India, Pakistan, Nepal, Bangla Desh e Śrī Laṅkā, è quella della m. classica indiana. Con questo termine si suole indicare la m. eseguita un tempo nelle corti e nei templi, oggi trasferitasi nelle sale da concerto e negli studi di registrazione. Nella m. indiana si possono riconoscere, a grandi linee, due stili principali, l'industano, caratteristico della parte settentrionale del subcontinente (India del Nord e Pakistan), influenzata dalla cultura islamica e nella quale si parlano lingue del ceppo indoario, e il carnatico, tipico dell'India meridionale, maggiormente legata alle tradizioni culturali induiste e dove si parlano lingue del ceppo dravidico. I due stili si distinguono per l'uso di diversi generi e strumenti e, nel passato, per l'ambiente nel quale la pratica musicale era coltivata (generalizzando, nelle corti - sia islamiche, sia hindu - al Nord, nei templi al Sud).
Al di là delle distinzioni, vi sono tuttavia alcuni elementi di base condivisi dai due stili: monodie eseguite da uno strumento solista o dalla voce, l'importanza del tamburo per l'accompagnamento ritmico e l'improvvisazione, l'uso di composizioni basate su rāga (modi) e tāla (cicli ritmici).
Nelle esecuzioni musicali vi sono tre componenti sonore principali: uno strumento improvvisatore melodico (voce, strumento a corda o a fiato), un tamburo che accompagna contrappuntando ritmicamente lo strumento melodico, e uno o più strumenti con funzione di bordone.
Il sistema modale dei rāga, dal termine sanscrito che significa "emozione, affetto, passione", è elemento fondamentale nello sviluppo melodico. Il rāga è allo stesso tempo una scala musicale, ma anche una determinata gerarchia di suoni all'interno della scala, e una successione di formule melodiche. Al rāga sono inoltre associati simbologie e significati extramusicali: stati d'animo, ore del giorno, stagioni.
Il sistema dei tāla, o cicli ritmici, regola le durate. Il tāla è composto da gruppi di pulsazioni di lunghezza uguale o diversa (simmetriche o asimmetriche), la prima delle quali accentata. Per es., il tīntāl, uno dei più usati nella m. industana, è composto da sedici pulsazioni, con quattro gruppi di quattro unità ciascuno (4+4+4+4). Il jhaptāl, anch'esso molto diffuso, è invece asimmetrico: dieci pulsazioni (2+3+2+3). Sul sam, tempo forte e primo tempo del ciclo, i due musicisti che improvvisano si ritrovano assieme. Un concetto teorico importante è inoltre quello di rasa (linfa, essenza) che indica il carattere e lo stato d'animo associato a un determinato brano musicale.
L'esecuzione musicale ha uno svolgimento in parti dall'ordine predeterminato, anche se la loro durata relativa può variare considerevolmente. Nella m. industana ci sono due parti principali: un preludio in ritmo non misurato (ālāp), nel quale lo strumento melodico solista 'esplora' e presenta musicalmente a chi ascolta il rāga prescelto. Nell'ālāp lo strumento melodico suona senza l'accompagnamento delle percussioni. Gradatamente il musicista espone le caratteristiche sonore del rāga prescelto: i gradi più importanti, le specifiche formule melodiche, l'estensione. Terminata questa parte ne inizia un'altra detta gat, nella quale allo strumento melodico si unisce il tamburo, che esegue un tāla precedentemente concordato. L'esecuzione si conclude in un crescendo di virtuosismi e abbellimenti.
Nella m. carnatica l'esecuzione ha uno svolgimento simile, anche se prevale la m. vocale nelle forme del kṛti e del pallavi, nelle quali assume maggior rilievo l'esecuzione di composizioni preesistenti.
Tra gli strumenti più importanti al Nord il sitār, un liuto a manico lungo con sette corde principali e altre corde che risuonano per simpatia, e il sarod, anch'esso un liuto, a sei corde pizzicate con un plettro. Al Sud lo strumento principale è la vīṇā, a sette corde pizzicate, con risonatore ricavato da una zucca. Anche il violino ha trovato larga diffusione come strumento solista e per accompagnare il canto. Tra le percussioni del Nord i tablā, coppia di tamburi a una membrana a tensione variabile, e il pakhāwaj, tamburo a due membrane usato per accompagnare il canto dhrupad. Anche al Sud il tamburo principale è a due membrane, il mṛdangam. La funzione di bordone è svolta principalmente dalla tāmpurā, strumento le cui corde vengono continuamente pizzicate senza venire tastate.
Importante è poi il ruolo della m. nelle varie forme di danza e teatro-danza (Bhārata Nāṭyam, Kaṭhakalī, Kathak, Oḍissī) accompagnate da complessi formati da un cantante, strumenti melodici e percussioni di tamburi e cimbali. Diffuso è poi il canto devozionale associato all'induismo o al sufismo islamico, come nel caso del qawwalī, divenuto celebre in Occidente grazie al cantore pakistano Nusrat Fateh Ali Khan (1948-1997; Qureshi 1986). Nel subcontinente indiano è infine enorme la varietà di stili e repertori del folklore musicale, studiati e documentati solo in parte.
Nel 20° secolo, specie in seguito all'indipendenza dell'India conseguita nel 1947, il sistema tradizionale sopra descritto si è in parte trasformato. Esauritosi il mecenatismo delle corti, i musicisti si sono rivolti al pubblico dei centri urbani. Il vasto pubblico delle sale da concerto priva l'esecuzione di quelle sottigliezze che nascevano da uno stretto rapporto tra il musicista e il ristretto pubblico di conoscitori delle corti. Distanza ancora più grande si verifica nelle esecuzioni per la radio o per registrazioni fonografiche, oggi sempre più diffuse e rivolte a un pubblico non solo indiano ma internazionale, soprattutto occidentale. La m. indiana è infatti sempre più diffusa in Occidente a partire dagli anni Sessanta, quando alcuni interpreti la fecero conoscere in Europa e negli Stati Uniti. Il musicista indiano forse più celebre in Europa, noto presso un largo pubblico anche per le sue numerose tournées, è R. Shankar (v. in questa Appendice), autore di numerose incisioni discografiche e compositore (anche di un Concerto per sitār e orchestra sinfonica). Sempre più numerosi sono gli interpreti di m. indiana provenienti da paesi dell'Occidente, conosciuti e apprezzati nella stessa India.
Larga diffusione ha infine nel subcontinente un repertorio di m. popolare sorta assieme alla fiorente industria cinematografica indiana, formato da colonne sonore e canzoni (filmī gīt, "canzoni dei film") nelle quali si fondono stilemi della m. di consumo occidentale con altri più propriamente indiani (Manuel 1993).
Sud-Est asiatico
di Giovanni Giuriati
L'area musicale del Sud-Est asiatico, denominata dei carillon di gong (Hood 1980), comprende Birmania, Thailandia, Cambogia, Laos, Indonesia, Malesia e, in parte, Filippine. In tutta la regione si trovano infatti orchestre formate da strumenti a percussione intonata. Metallofoni, xilofoni e tamburi sono accordati con scale pentatoniche o eptatoniche e vengono usati per eseguire elaborate melodie. In particolare i metallofoni (una serie di gong o barre di bronzo intonate) sono presenti sotto diverse forme in tutta la regione. Bonang e saron a Giava, reong e gender a Bali, kong in Cambogia e Thailanda, kyi-waing in Birmania, sono solo alcuni tra i tanti strumenti in bronzo che conferiscono alle m. del Sud-Est asiatico una particolare sonorità brillante, ricca di componenti acute, che si percepisce anche a grandi distanze.
Le orchestre hanno diversi nomi: gamelan (da gamel, "martello") in Indonesia, dove possono arrivare fino a più di quaranta strumenti; pinpeat in Cambogia, piphat in Thailandia, hsaing-waing in Birmania, kulintang nelle Filippine. Le loro scale hanno un'intonazione non temperata. Nel Sud-Est asiatico continentale il modello scalare prevalente sembra essere quello eptatonico equalizzato (con sette intervalli di uguale distanza), mentre in Indonesia l'accordatura basata sulle due scale principali sléndro (pentatonica) e pélog (eptatonica) può variare anche da gamelan a gamelan.
Gli insiemi strumentali si organizzano musicalmente secondo il principio della 'stratificazione polifonica'. A partire da una melodia fissa di riferimento gli strumenti eseguono il brano con densità ritmiche differenti rispetto a questa melodia; ci sono strumenti che eseguono 2 pulsazioni per ogni unità ritmica della melodia fissa, altri 4 pulsazioni, altri ancora 8, 16, 32, fino anche a 64 (Hood 1989). Si crea così un particolare tessuto sonoro con strati di densità differente. La melodia di riferimento può essere implicita, vale a dire non eseguita in quanto tale da alcuno strumento, come nel caso del Sud-Est asiatico continentale (Giuriati 1993). A Giava e a Bali è invece esplicitamente eseguita da una famiglia di strumenti dell'orchestra e a essa viene attribuito il nome, rispettivamente, di balungan e pokok (Hood 1954; McPhee 1966).
Tipica del Sud-Est asiatico è inoltre una modalità esecutiva in cui più strumenti melodici elaborano, variandolo, uno stesso modello melodico. I musicisti improvvisano simultaneamente variazioni della melodia fissa, ciascuno secondo uno stile individuale e idiomatico del proprio strumento. In tal modo si crea una sorta di 'dialogo' fra i musicisti, che si rinnova a ogni esecuzione di uno stesso brano. Comune è anche, nella m. di quest'area, la struttura ritmica costituita da cicli di quattro (o più spesso multipli di quattro) pulsazioni, definita colotomica da J. Kunst (1973). Il tempo forte cade sull'ultima pulsazione del ciclo, scandita da un colpo del grande gong o della pelle più grave del tamburo a due membrane. Il ciclo è poi suddiviso al suo interno da sezioni marcate da colpi di gong più piccoli o da cimbali.
Un'altra caratteristica comune al Sud-Est asiatico è la preminenza delle due epiche hindu del Rāmāyana e del Mahābhārata nelle rappresentazioni di teatro delle ombre e teatro-danza. Ciascun paese, con varianti e adattamenti locali, impernia la sua tradizione teatrale (nella quale teatro, m. e danza sono strettamente legati) su temi e motivi tratti da questi due poemi epici nei quali vengono esposti, e ribaditi a ogni rappresentazione, principi e codici di comportamento derivati dalla cultura indiana che a sua volta ha fortemente influenzato le culture del Sud-Est asiatico (Brandon 1967).
Nella storia di questa regione si sono avvicendate importanti civiltà, tra le quali l'impero dei Khmer, sviluppatosi nella regione pianeggiante dell'odierna Cambogia, che ha dominato gran parte del Sud-Est asiatico continentale dal 9° al 15° secolo, e la dinastia degli Śailendra che, con profonde influenze indiane, ha regnato sull'isola di Giava e parte dell'isola di Sumatra dal 6° all'11° secolo. Queste civiltà, pur non avendo lasciato documenti scritti sulla m., hanno raffigurato strumenti e scene musicali sui bassorilievi dei templi di Borobodur (Giava) e Angkor Vat (Cambogia). Alcuni degli strumenti raffigurati sono in uso ancor oggi, come il carillon di gong, lo xilofono, i cimbali, mentre altri sono scomparsi, come per es. l'arpa, oggi presente solo in Birmania. In tutta l'area non mancano gli strumenti a corda usati per i generi non cerimoniali. Tra questi particolamente conosciuta è l'arpa arcuata in Birmania, oggi usata nella m. classica come strumento solista o per accompagnare il canto.
Nel Sud-Est asiatico sono presenti anche numerose tradizioni musicali appartenenti alle minoranze etniche, stanziate soprattutto nelle regioni montuose. Tra queste popolazioni, nelle quali la m. ha una forte valenza rituale, gli strumenti più importanti sono i tamburi di bronzo di origine antichissima, e insiemi di gong. Altro strumento diffuso nella regione, particolarmente in Laos, è l'organo a bocca khaen.
Dopo la Seconda guerra mondiale, in seguito ai processi di modernizzazione e scolarizzazione, si è parzialmente interrotto il tradizionale metodo di apprendimento per imitazione, da maestro ad allievo. Nelle scuole e accademie di m., fondate a partire dagli anni Cinquanta, è stato introdotto l'uso della notazione cifrata (a ciascun grado della scala corrisponde un numero), e ciò ha comportato modificazioni nella peculiare pratica basata sull'improvvisazione; a questa si è talvolta sostituita una mera esecuzione di formule predeterminate concatenate l'una all'altra e ciò ha generato un interessante dibattito, tuttora in corso, sull'uso della notazione musicale.
Le musiche del Sud-Est asiatico hanno influenzato fin dalla fine del 19° secolo numerosi compositori europei e soprattutto statunitensi. Negli anni Cinquanta è poi iniziato un movimento di diffusione, prima negli Stati Uniti, poi anche in Europa, di orchestre giavanesi e balinesi suonate da musicisti 'occidentali'. Orchestre gamelan sono presenti oggi nelle maggiori università statunitensi e nelle principali città europee ed eseguono sia repertori tradizionali sia nuove composizioni.
Estremo Oriente. - Nell'Estremo Oriente vi sono tre tradizioni musicali principali, quelle presenti in Cina, Corea e Giappone, alle quali si può aggiungere il Vietnam, fortemente influenzato dalla tradizione musicale cinese. Nella storia musicale appaiono connessioni evidenti fra questi tre paesi. Per es., gli studiosi rilevano tratti (strumenti musicali, repertori, occasioni cerimoniali) della m. di corte cinese dell'epoca Tang, oggi scomparsa, nella giapponese gagaku ("m. elegante"), o nella coreana aak, antiche m. di corte tuttora eseguite. Anche negli strumenti musicali si rilevano tipologie simili nei tre paesi, frutto di continui contatti e reciproche influenze.
Queste tradizioni musicali sono accomunate da alcuni tratti fondamentali:
a) una larga presenza di m. a programma. Nei repertori musicali strumentali di Cina, Corea e Giappone si è sviluppata una particolare sensibilità per composizioni musicali basate su poesie che descrivono simbolicamente la natura e gli stati d'animo. Frequenti sono anche m. tratte da narrazioni di episodi storici o fantastici. La descrizione musicale viene resa attraverso associazioni simboliche tra suoni e significati, oppure nell'imitazione di suoni della natura. In particolare in Cina la cetra qin e, in periodi più recenti, il liuto pipa sono stati gli strumenti sui quali la programmaticità della m. è stata particolarmente sfruttata, con enfasi virtuosistica nel caso del repertorio moderno per liuto;
b) l'importanza del timbro. Le caratteristiche sonorità di quest'area sono prodotte da strumenti a corda e da percussioni tra cui spiccano gong e cimbali. Specialmente negli strumenti a corda si è sviluppata un'estetica timbrica per la quale il modo di pizzicare la corda, o lo stesso silenzio che segue la produzione di un suono hanno importanza determinante. Si distinguono, per es., nel repertorio per la cetra qin più di sessanta tipi di vibrato; sono anche codificati i diversi timbri prodotti dalla corda se pizzicata dall'unghia o dal polpastrello, verso l'interno e verso l'esterno. Nel suo studio su questo strumento (1938-40), R.H. Van Gulik cita alcuni manoscritti cinesi nei quali frasi simboliche vengono associate a determinate posture della mano. Per es., la postura per eseguire un bicordo con pollice e medio è paragonata a 'un drago volante che afferra le nuvole';
c) lo sviluppo, accanto a forme cerimoniali, appannaggio di musicisti professionisti, di una m. riservata a 'dilettanti': letterati, intellettuali, cortigiani, principi. Lo stesso Confucio, o, in tempi più recenti, il principe Zhu Zaiyu della dinastia Ming sono ricordati anche come valenti musicisti. In Giappone il Genji Monogatari (Storia del principe Genji) descrive la vita musicale di corte del periodo Heian (794-1185), nella quale nobili dilettanti si dedicavano alla miasobi ("augusto svago"), raffinata musica privata e di intrattenimento (Sestili 1996);
d) la rilevanza di forme di teatro musicale. In Cina e Giappone si sono sviluppate elaborate forme di teatro musicale. L'opera cinese, nelle sue diverse varianti, ha assunto, soprattutto a partire dal 19° secolo, una grande importanza. Nel periodo medio della dinastia Ming si affermò lo stile classico Kunqu, che ha dominato la scena per circa trecento anni prima di essere soppiantato dall'Opera di Pechino nel corso del 19° secolo. In questo genere d'opera, oggi il più diffuso, il canto, quasi esclusivamente solistico, si accompagna a scene di danza e mimo e ad acrobazie. Ciascun episodio musicale è composto da un'introduzione di strumenti a percussione, seguita da un preludio melodico e dal canto, scandito da strumenti a percussione che enfatizzano carattere e stato d'animo dei personaggi. Il suonatore del piccolo tamburo xiao gu, dal suono penetrante, dirige l'insieme strumentale.
Anche in Giappone si sono sviluppate forme di teatro nelle quali la m. ha un ruolo fondamentale. Nella forma più antica, il teatro Nō, la m. è eseguita da un flauto, tre tamburi e un coro. Lo stile vocale solenne deriva dal canto buddhista, con un caratteristico timbro determinato da un modo di emissione con spinta dall'addome. L'orchestra del teatro Kabuki è molto più ampia, con il liuto shamisen come strumento principale. I musicisti sono seduti sul palcoscenico, ma alle volte suonano anche fuori scena, nascosti agli occhi degli spettatori da un sipario di bambù.
In Corea, pur non essendosi sviluppata una forma locale di teatro d'opera, si ha una m. vocale d'arte, come per es. il ciclo di ventisette canti kagok, risalente al 17°-18° secolo. Forma drammatica vocale del folklore musicale coreano è il p'ansori, nel quale un solo cantante narra una storia interpretando anche dialoghi con più personaggi.
Tra gli strumenti, particolarmente caratteristica della regione è la tipologia delle cetre su tavola, diffuse nei tre paesi. Il qin, lo strumento degli intellettuali e dei letterati dell'antica Cina, è una cetra con sette corde di seta. La mano destra pizzica le corde mentre la mano sinistra determina l'altezza del suono e produce abbellimenti tra cui suoni armonici e glissati. Il sistema di notazione per questo strumento risale al 6° secolo. In Corea, il kayagum a dodici corde di seta ha ponticelli mobili. Ponticelli mobili ha anche la cetra su tavola giapponese, koto, a tredici corde.
Tra gli altri strumenti del Giappone la biwa, liuto piriforme suonato con un plettro, accompagna il canto epico; lo shamisen, liuto tricorde, anch'esso suonato con un plettro, è usato per una molteplicità di generi musicali. Al periodo Edo (1615-1868) risale la diffusione dello shakuhachi, flauto a tacca, originariamente suonato dai komuso, monaci girovaghi. In Cina, oltre agli strumenti già citati, particolarmente diffusa è la viella bicorde erhu, originaria, come molti altri strumenti, dell'Asia centrale.
In Corea un ruolo importante è svolto nel folklore musicale e nei rituali sciamanici dai tamburi e dai gong. Particolarmente diffuso e importante è il changgo, tamburo a due membrane a forma di clessidra, suonato con una mano e una bacchetta. Oltre a essere usato nel folklore musicale, il changgo accompagna il kayagum (o altri strumenti melodici) nel sanjo, forma di improvvisazione strumentale nata nel 19° secolo. Si tratta di variazioni melodiche in sei sezioni, la prima delle quali ha andamento lento mentre le ultime divengono sempre più rapide e virtuosistiche.
Gli studi sul folklore musicale dell'intera area, quantomeno quelli pubblicati nelle lingue occidentali, non sono molto numerosi, anche se negli ultimi tempi l'etnomusicologia ha dedicato maggiore attenzione a repertori regionali e folklorici. Per la Cina, il recente studio di S. Jones (1995) sulla m. strumentale costituisce un primo momento di sintesi.
Nel 20° secolo, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, i contatti sempre più frequenti con l'Occidente hanno determinato delle trasformazioni nei repertori e, soprattutto in Giappone e Corea, il nascere di una generazione di musicisti divenuti celebri nel campo della stessa m. classica europea. Fenomeno particolarmente interessante degli ultimi decenni è anche l'affermarsi di compositori in Giappone e Cina che combinano stilemi, poetiche, strumenti della m. contemporanea euroamericana con quelli tradizionali dei propri paesi (Ryker 1991). I nomi di Tōru Takemitsu (v. in questa Appendice) per il Giappone e di Tan Dun per la Cina costituiscono solo degli esempi di una tale tendenza oggi sempre più diffusa.
bibliografia
R.H. Van Gulik, The lore of the Chinese lute: an essay on the ideology of the ch'in, in Monumenta Nipponica, 1938, pp. 94-146, 1939, pp. 75-104, 1940, pp. 127-76, nuova ed. 1969.
M. Hood, The nuclear theme as a determinant of Pathet in Javanese music, Groningen-Jakarta 1954.
W.P. Malm, Japanese music and musical instruments, Rutland (Vt.)-Tokyo 1958.
C. McPhee, Music in Bali. A study in form and instrumental organization in Balinese orchestral music, New Haven (Conn.) 1966.
J.R. Brandon, Theatre in Southeast Asia, Cambridge (Mass.) 1967.
W. Kaufmann, Musical notations of the Orient. Notational systems of continental East, South and Central Asia, Bloomington (Ind.)-London 1967.
J. Becker, Percussive patterns in the music of mainland Southeast Asia, in Ethnomusicology, 1968, 2, pp. 173-91.
E. Harich-Schneider, A history of Japanese music, London 1973.
J. Kunst, Music in Java. Its history and its technique, ed. E. Heins, The Hague 1973.
D. Morton, The traditional music of Thailand, Berkeley-London 1976.
B. Wade, Music in India. The classical traditions, Englewood Cliffs (N.J.) 1979, Riverdale (Md.) 1987.
M. Hood, Southeast Asia, in The new Grove dictionary of music and musicians, 17° vol., London 1980, pp. 762-67.
M. Liang, Music of the Billion. An introduction to Chinese musical culture, New York 1985.
L. Picken, Music from the Tang court, Cambridge 1985.
R. Qureshi, Sufi music of India and Pakistan. Sound, context and meaning in Qawwali, Cambridge 1986.
P. Manuel, Popular musics of the Non-Western world. An introductory survey, Oxford-New York 1988.
M. Hood, L'arte della composizione e dell'improvvisazione nella musica tradizionale giavanese, in Ethnomusicologica. Seminari internazionali di etnomusicologia, 1977-1989, a cura di D. Carpitella, Siena 1989, pp. 91-106.
N. Sorrell, A guide to the Gamelan, London 1990.
H. Ryker, New music in the Orient. Essays on composition in Asia since World War II, Buren 1991.
G. Giuriati, Musica tradizionale khmer, Modena 1993.
P. Manuel, Cassette culture: popular music and technology in North India, Chicago 1993.
A. Miner, Sitar and sarod in the 18th and 19th centuries, Wilhelmshaven 1993.
S. Jones, Folk music of China. Living instrumental traditions, Oxford 1995.
R. Widdess, The ragas of early Indian music: modes, melodies and musical notations from the Gupta period to c. 1250, Oxford 1995.
D. Sestili, Musica e danza del principe Genji. Le arti dello spettacolo nell'antico Giappone, Lucca 1996.
L. Galliano, Yogaku. Percorsi della musica giapponese nel Novecento, Venezia 1998.