MUSICA (XXIV, p. 124)
Il quindicennio 1934-49, per la sua posizione di mero prolungamento e sviluppo (talora di seppellimento) delle tendenze affermatesi nel quindicennio 1910-25, offre finalmente una prospettiva sufficiente a orientarsi in esse: prospettiva la cui prima conseguenza è il continuo crescere di dubbî sulla portata reale della cosiddetta rivolta all'impressionismo, proclamata appunto nel quindicennio attorno alla prima Guerra mondiale. Non solo infatti certi aspetti più visibili dell'impressionismo debussiano (la sintassi modale, gli accordi paralleli, certe atmosfere timbrico-armoniche) seguitano a riapparire continuamente, come fenomeni carsici, in quasi ogni linguaggio; ma anche altre sue più profonde lezioni continuano a essere tacitamente accolte. Tale è la rivalutazione dei timbri puri, la quale, immanente nella predilezione tipicamente novecentesca per la musica da camera, pervade persino molti tentativi di sperimentare nuove grandiose aggregazioni di colore (lo stesso gigantismo orchestrale del Sacre du printemps non si fondava su impasti, alla maniera wagneriana, bensì nasceva dalla aggregazione di un complesso di timbri individualmente rinverginati dall'esperienza debussiana).
Ma d'un altro valore, ben più importante, la musica d'oggi appare tuttora in credito verso Debussy: l'architettura del pezzo, il sentimento propriamente componistico. Di questo sentimento infatti la rivalutazione del ritmo, del disegno, dell'incisività tematica, compiuta da J. Stravinskij in antitesi col mero armonismo luministico di C. Debussy, non costituisce infatti che un aspetto, e neanche il più importante. In realtà non per questo si riconquista la dialettica sinfonica sviluppativa della civiltà classico-romantica (la civiltà "sonatistica", che va da D. Scarlatti a Brahms); né tanto meno valori costruttivi centrati sul canto, alla Verdi. Al contrario, ciò che prevale tuttora, in modi scoperti o dissimulati, è la costruzione che fu detta "a pannelli", e cioè per "illuminazioni" successive: dove ciò che vale a sostenere l'arco generale non tanto è la consequenziarità del discorso quanto l'autonomo peso lirico del frammento. Siamo dunque alla sintassi "russa" che appunto dalla mediazione di Debussy fu definitivamente convogliata alla musica europea. La stessa riconquista delle forme ottocentesche compiuta da Stravinskij negli ultimi venticinque anni non implicò infatti una reale adesione a un sentimento propriamente "sonatistico", ma fu un semplice volgersi verso nuovi occasioni da rielaborare (come già quelle del folclore russo) nelle immutabili categorie d'un atteggiamento fondamentale: che sempre pone l'accento, anzi che sul fluire d'un "discorso", sulla successione di rilevatissime illuminazioni, per quanto energicamente inquadrate nelle rispondenze d'un piano architettonico prestabilito.
Riprova in minore del fenomeno si può avere, del resto, in quel neoclassicismo che, nato nell'altro dopoguerra in Francia e ripercosso altrove (specie in Italia), è ormai quasi senza echi nelle nuove generazioni. La sua proclamata riconquista della forma-sonata non consisté infatti che nell'astratta assunzione di schemi settecenteschi, colti nella loro gracilità iniziale e per di più privati della loro tensione storica (che già implicava, invece, le più ricche germinazioni romantiche). La stessa "brevità" a cui quella forma era così ridotta la precipitò dunque facilmente nell'enunciazione, fra tenera e ironica, di meri aforismi: praticamente, a un'inconscia accettazione del principio impressionista della costruzione per frammenti.
Il fenomeno tuttavia è ravvisabile anche in direzioni lontane dallo stravinskismo; citiamo per tutti l'esempio di G.F. Malipiero, nel quale la stessa svolta (compiuta all'inizio del nostro quindicennio), da un'esplicita disposizione della costruzione a pannelli successivi e tematicamente autonomi verso più ampie strutture capaci di accogliere scambî e ritorni d'idee, non portò a un linguaggio propriamente sviluppativo ma lasciò all'estro dell'"illuminazione" la chiave di volta dell'architettura.
Ma la riprova maggiore è fornita da M. Ravel; il quale, senza rinunciare a quasi nessuna delle proposte di Debussy, ha lentamente innervato il linguaggio impressionista di tematismo e di ritmo, riscoprendo (A. Mantelli) il valore plastico dell'accordo, del giro armonico, e perciò accogliendo una serie di istanze ignote al debussismo; venendo così a sopprimere qualsiasi soluzione di continuità fra impressionismo e postimpressionismo. Testimonianza rinnovata, in forme non troppo diverse, da un'altra fortissima personalità pure venuta a mancare nel quindicennio: quella di M. De Falla (morto nel 1945).
Questo rifiuto di accedere a una forma qualsiasi di "discorso" vero e proprio, quello cioè capace di riassorbire totalmente in sé (com'era avvenuto, tipicamente, in un Beethoven) tutti i valori del linguaggio, è caratteristico della musica contemporanea. Esso permette infatti di volgere l'impegno a uno qualunque di quei valori isolandolo da tutti gli altri; e con ciò consente l'operazione tipica del compositore contemporaneaneo: che è il ripensamento stilistico di altri linguaggi del passato, intesi di volta in volta come simboli di realtà perente, da riconquistare alla propria nostalgia in un'assidua recherche du temps perdu. Questa operazione riuscirebbe infatti impossibile mantenendo quell'atteggiamento integralmente umano (e cioè completamente concorde con tutto l'uomo storico) che fu del sinfonismo classico-romantico, e che per definizione esclude la disintegrazione del linguaggio nei suoi astratti elementi.
È chiaro che questa operazione si svolge in modi assai diversi secondo i varî compositori; tra i quali sono da ricomprendere anche alcuni pretesi "romantici" (p. es., tra i maggiori, un Pizzetti; nel quale il culto della melopea gregoriana, della polifonia classica, e fino certa disposizione "affettuosa" dell'animo, non sono che materie o stimoli di nostalgie verso terre scomparse). D'altra parte un elenco di tali personalità, colla storia delle loro individue occasioni e soluzioni, sarebbe qui superfluo; ciò che importa notare in questa sede è la fondamentale comunanza della loro situazione, e insieme il suo significato storico. Il quale nasce da una comune condizione di solitudine, di non-partecipazione al totale travaglio dell'uomo contemporaneo, divenuto caotico e inafferrabile, nella crescente disgregazione dei valori del costume sociale. Solo nell'affermare questa condizione di solitudine il compositore riesce a esprimere, in qualche modo, il momento storico, e a recare la sua testimonianza umana.
Ad alcuni casi tipici, in quanto parzialmente divergenti dal panorama, conviene tuttavia accennare. Uno è quello di P. Hindemith (1895) che fornisce forse l'unico caso importante di tendenza radicalmente estranea a qualunque suggestione dell'impressionismo. Non per questo egli si ricollega al sinfonismo classico-romantico; in lui infatti ogni sintassi strutturale, ogni germinazione tematica e sviluppativa nasce esclusivamente dalle possibilità del contrappunto puro, alla maniera di Bach, esclusiva tuttavia di qualunque "ripensamento" o "ritorno", nel senso corrente del termine. Ciò nonostante anche Hindemith finisce coll'esprimere a suo modo un aspetto di solitudine e di crisi, nell'assoluto isolamento del fatto sonoro da riferimenti extramusicali; perché la sua "musica pura", diversamente da quella classica (sempre pronta, a dispetto delle apparenze, ad accoglierli) ha un aspro accento polemico che sottolinea drammaticamente, talora ironicamente, questa disintegrazione delle facoltà umane: e in questo appunto esprime un momento fondamentale dell'uomo contemporaneo.
Altra figura isolata, quella dell'ungherese B. Bartók; il quale, nonostante la data di nascita (1881), sembra appartenere soprattutto all'ultimo quindicennio, che ha visto nascere i suoi lavori più decisivi. Morto nel 1946, forse senza aver ancora fornito la parola definitiva, Bartók domina il panorama attuale come il fenomeno più scottante, più attuale e carico d'interrogativi. Riassorbito lentamente il folclore magiaro, slovacco e romeno, Bartók ha percorso in pari tempo tutte le principali direzioni della musica contemporanea senza cadere nell'eclettismo e restando sempre di là dalle nostalgie del compiacimento stilistico. La sua inquietudine, in luogo di glorificare esistenzialisticamente sé stessa sembra sempre aspirare a un riscatto. Appunto in questa tensione morale è la ragione del fascino crescente che egli esercita dappertutto sulle giovani generazioni.
Altra posizione almeno apparentemente divergente dalla sintassi d'origine impressionista è quella di coloro che, al loro apparire, furono catalogati sotto l'espressionismo. Dei tre più celebri rappresentanti della scuola, nata a Vienna, solo il fondatore A. Schoenberg (1874) è ancora vivente e operante; mentre A. Berg (1885) e A. Webern (1883), sono scomparsi, rispettivamente nel 1935 e nel 1945. Questa corrente è l'unica che, ai nostri giorni, si ponga come tale, e cioè come scuola, come esperienza collettiva. Ciò non è tuttavia avvenuto sotto il segno dichiarato dell'espressionismo bensì sotto quello della dodecafonia (v.): termine che di per sé non indica più una direzione spirituale, ma solo una determinata tecnica musicale, passibile quindi di significati spirituali diversissimi. Già nei tre iniziatori, intanto, sono differenze notevoli, dalle larghe espansioni di Berg (che nella sua suprema sensibilità timbrica accoglie evidentemente anche esperienze impressioniste, e in certe violenze foniche persino echi dell'Elektra di R. Strauss) al rigoroso ermetismo dell'ultimo Schoenberg e all'estremismo aforistico di Webern. Ciò che importerebbe sopra tutto accertare è se il movimento implichi un'apertura sull'avvenire, ovvero costituisca, al pari degli altri contemporanei, una semplice forma di ripensamento: nella specie, una radicale celebrazione del disfacimento romantico. Nelle nuove generazioni il suo rappresentante più insigne è l'italiano L. Dallapiccola (1904), autore di pagine esteticamente inconfutabili, sulla natura "espressionistica" delle quali è tuttavia lecito elevare dubbî.
Le considerazioni fatte più sopra sull'inopportunità di procedere in questa sede a una classificazione delle maggiori personalità contemporanee valgono a fortiori per i compositori affermatisi nell'ultimo quindicennio; ognuno dei quali più che mai tende a crearsi le proprie ascendenze per pura ragione di temperamento personale, all'infuori di continuità propriamente "storiche", e cioè in una crescente situazione di "solitudine". Carattere comune (tranne che nei dodecafonici) è l'affievolimento o la scomparsa d'una passione linguistica vera e propria, e cioè del fervore di scoperta stilistica, caratteristico del quindicennio 1910-25. Sì che il ripensamento di linguaggi passati non avviene più col fanatico impegno sulla pagina che prevaleva nella generazione precedente; esempio tipico, l'affresco sinfonico-corale dell'italiano G. Petrassi (1904), in cui rivive, attraverso una vivacissima rielaborazione della polifonia classica, il movimento del barocco romano, con un'ampiezza d'arco che supera l'attenzione sul particolare. Ma questo ripensamento si traduce poi in semplice eclettismo nell'inglese B. Britten (1913), l'autore più eseguito e "abile" della sua generazione, e nell'italo-americano G. Menotti (1913), autore di piccole opere per lo più comiche di enorme successo, arriva alla mera citazione di altri stili, a cui non una rielaborazione, ma la sola compresenza del testo scenico dà rilievo e sapore.
Decaduta del pari è la passione folcloristica, già in onore presso la generazione dell'80; tranne che nell'URSS, dove probabilmente adempie all'ufficio di risvegliare quelle tra le nazioni federate che non dispongono di una tradizione musicale colta; ma sull'URSS, dove fra le nuove generazioni emergono i nomi di D. Gostakovič (1906), A. Kačaturian (1904), D. Kabalevski (1904), A. Mosolov (1900), troppo scarse sono le nostre conoscenze per azzardare giudizî avvertiti.
Fra le personalità maggiori affermatesi, nonostante la data di nascita, nel quindicennio, sono comunque da citare quelle dello svizzero F. Martin (1890), dell'italiano G.F. Ghedini (1890), del russo-svizzero W. Vogel (1896), del tedesco C. Orff (1895). Fra i nati in questo secolo è da rilevare anzitutto il vivace risveglio del mondo anglosassone: tra gl'Inglesi, oltre al citato Britten, emergono W. Walton (1902), G. Finzi (1901) ed E. Rubbra (1901); fra gli Americani, oltre al citato Menotti, A. Copland (1900), G. Antheil (1901) e S. Barber. Nei paesi dell'Europa centro-orientale emergono l'ungherese S. Veress (1907) e i polacchi R. Palester (1907) e A. Panufnik; in Germania W. Egk (1901) ed E. v. Borck (1906); in Austria lo svizzero G. Einem (1910). Per la Francia e l'Italia rinviamo alle voci rispettive. Forse impossibile assegnare una nazionalità a due musicisti residenti da varî anni in Italia, come l'ucraino J. Markevic (1912), rivelatosi giovanissimo su un piano internazionale e ora dedito soprattutto alla direzione d'orchestra, e il romeno R. Vlad (1919).