MUSICA (XXIV, p. 124; App. II, 11, p. 372; III, 11,p. 186)
Se il primo decennio del dopoguerra significò, in gran parte di Europa e nella cultura musicale occidentalizzante, una vastissima legittimazione della tecnica dodecafonica, e delle sue conseguenze più radicali che facevano soprattutto capo alle esperienze di A. Webern (e si è trattato di un fenomeno cosi diffuso da non identificarsi necessariamente con la produzione dei musicisti più giovani e di avanguardia), si può dire che già prima degli anni Sessanta ha cominciato ad affermarsi la tendenza a reagire a qualsiasi dogmatismo di linguaggio quali che fossero i suoi presupposti teorici. Si dava per scontato pressoché ovunque il definitivo tramonto del sistema tonale, ma la stessa razionalità del sistema dodecafonico, e l'accentuata serializzazione del linguaggio musicale da parte dei suoi continuatori, veniva considerata come una sorta di "restaurazione" di quella credenza in un sistema precostituito che aveva caratterizzato il passato della m. europea ed "eurocentrica". A tal proposito, il documento più clamoroso e autorevole si è avuto con un articolo di P. Boulez, Schoenberg est mort (1952), che per primo ha rimescolato le carte delle avanguardie del dopoguerra, registrando il momento di passaggio a una Nuova Musica - com'è stata chiamata - nella quale la contestazione del passato "storico" ha significato, pur attraverso i più eterogenei risultati e i più diversi orientamenti ideologici e di gusto, un senso esasperato di libertà fino alla mistica dell'"alea", la negazione della m. come "linguaggio" legato al proprio svolgersi nel tempo, e invece la "gestualità" insita in ogni manufatto sonoro, e cosi via.
Gli estremi del radicalismo di derivazione viennese si toccano così con le tendenze orientaleggianti e nichilistiche delle avanguardie che fanno capo all'americano J. Cage, la cui azione volutamente dissacrante della m. "eurocentrica" ha senza dubbio influenzato musicisti anche da lui costituzionalmente molto diversi come K. Stockhausen in Germania, lo stesso Boulez, e gl'italiani L. Berio e S. Bussotti. E ne è derivata, anche sul piano degli orientamenti critici, una nuova stagione, con prospettive di giudizio sostanzialmente divergenti rispetto a quelle degli anni fra le due guerre mondiali e dell'immediato dopoguerra: grosso modo, dal 1960 in poi non è più l'apostolato dodecafonico di R. Leibowitz a tener cattedra fra le avanguardie, quanto piuttosto la lettura - sulle basi delle dottrine di T.W. Adorno - dei testi teorici di Cage, Boulez e Stockhausen e, in Italia, dei saggi critici di M. Bortolotto. E se, per es., fino al tramonto del neoclassicismo novecentesco si tendeva ad accentuare l'importanza di un musicista come M. Ravel, considerandolo insieme con Stravinskij il più originale dirimpettaio di Schönberg, negli orientamenti della Nuova Musica è soprattutto a Debussy che si guarda come all'iniziatore, in anticipo sulle esperienze della "scuola di Vienna", delle profonde trasformazioni della civiltà musicale del Novecento, e anzi quasi come al profeta di una musica svincolata dalla tirannia della storia e dello svolgimento temporale. A questi presupposti si riferisce, fra l'altro, anche il recente recupero delle musiche un tempo dimenticate di Ch. Ives, il compositore americano che da qualche anno si tende a considerare come un originale precursore delle avanguardie sbocciate negli Stati Uniti nell'ultimo dopoguerra.
La situazione dei fenomeni musicali, di fatto, è diventata negli anni Settanta estremamente fluida, non esistendo più, come ai tempi delle prime avanguardie novecentesche, nette dicotomie sul problema allora centrale del linguaggio. Si può dire, anzi, che riaffiorano da più parti - o sotto l'aspetto dell'impegno politico o semplicemente di quello estetico ed espressivo - soprattutto esigenze di contenuto, come si deduce dall'ultima produzione di autori quali L. Nono, L. Berio, S. Bussotti e S. Sciarrino in Italia, e come si riscontra anche nei lavori dell'ungherese G. Ligeti, dell'inglese P. Maxwell Davies, del tedesco H.W. Henze e del polacco K. Penderecki, questi ultimi in accentuata polemica con lo spirito di sperimentazione e di ricerca propagatosi negli anni Cinquanta dai corsi estivi di Darmstadt. Più legati, invece, al radicalismo della Nuova Musica di ascendenza darmstadtiana sono B. Maderna, F. Donatoni, il belga H. Pousseur, l'argentino M. Kagel, il giapponese Toshiro Mayuzumi, oltre ai già ricordati Stockhausen e Boulez, che conservano un rilievo di autentici capiscuola.
Fra i musicisti più illustri del Novecento, ma appartenenti a generazioni più anziane di quelle che hanno avuto le loro prime affermazioni soltanto dopo la seconda guerra mondiale, Stravinskij e G.F. Malipiero hanno dato prova fino all'ultimo di una sorprendente operosità e freschezza di fantasia; gli ultimi decenni hanno dato definitiva rilevanza internazionale a L. Dallapiccola (il cui Ulisse, rappresentato per la prima volta a Berlino nel 1967, è stato uno degli avvenimenti musicali più importanti del dopoguerra) e a G. Petrassi. Anche B. Britten, il più autorevole musicista inglese del nostro secolo e senza dubbio uno dei più originali fra i maestri contemporanei, ha confermato il suo solitario spicco soprattutto con un'intensa produzione teatrale; mentre l'austriaco C. Orff, noto per alcuni pezzi sinfonico-corali, ha continuato una stanca ripetizione delle sue formule più fortunate. E lo stesso può dirsi di G.C. Menotti, sempre infaticabile nel settore teatrale, anche se le sue opere non suscitano più l'interesse e le polemiche di trenta o quarant'anni fa. Al contrario, la produzione di O. Messiaen, additato come un caposcuola negli orientamenti delle avanguardie, è riuscito a mantenere inalterato il suo prestigio fra i musicisti francesi più anziani.
Bibl.: N. Dufourcq, La Musique, les hommes, les instruments, les oeuvres, voll. 2, Parigi 1965; R. Siohan, Histoire du public musical, Losanna 1967; A. Daniélou, Sémantique musicale, Parigi 1967; H. Pousseur, Fragments théoriques sur la musique expérimentale, Bruxelles 1970.