MUSICA
(XXIV, p. 124; App. II, II, p. 372; III, II, p. 186; IV, II, p. 541)
Musica classica. - Alla fine degli anni Settanta i musicisti che continuano a far parlare di sé, sul piano internazionale, sono in genere gli stessi che si erano affermati nel primo ventennio del dopoguerra, quando era ancora vivo l'interesse per i problemi connessi a una radicale trasformazione del linguaggio musicale. In genere si ha però l'impressione che anche nei personaggi di maggiore spicco fra le avanguardie − quelle nate prevalentemente negli ambienti che facevano capo ai corsi estivi di Darmstadt o dalle esperienze della ''scuola americana'' di J. Cage − le scelte linguistiche tendano non soltanto ad accentuare il rifiuto di ogni sistematicità dogmatica, e quindi a testimoniare una sempre maggiore libertà operativa, ma spesso a rinunciare al concetto stesso di ''avanguardia'', che era stato fino a quel momento una sorta di stato d'animo, e quindi di comun denominatore, fra musicisti diversamente ''impegnati'' sul piano politico.
Di fatto, dopo la prematura scomparsa di un autentico caposcuola come B. Maderna (1973), la cui presenza fra le avanguardie europee avrebbe potuto avere imprevedibili conseguenze fra gli stessi musicisti che con lui erano stati partecipi delle esperienze di Darmstadt, gli anni Ottanta hanno visto consolidarsi, anche al di fuori degli ambienti specializzati nella diffusione della m. contemporanea, soltanto la produzione di alcuni dei musicisti emersi in precedenza. Fra questi sono da ricordare soprattutto: O. Messiaen (morto nel 1992), il cui grande lavoro teatrale Saint Francçois d'Assise è stato rappresentato all'Opéra di Parigi nel 1983 e ripreso al Festival di Salisburgo del 1992; il suo ''allievo'' (e ormai caposcuola indiscusso) P. Boulez, che continua ad avere grande risonanza internazionale anche come organizzatore e direttore d'orchestra di particolare bravura e originalità interpretativa; nonché L. Berio, le cui musiche figurano nei cartelloni di tutte le più importanti istituzioni e dei festival più famosi (le sue opere La vera storia e Un re in ascolto, rappresentate per la prima volta, rispettivamente, alla Scala di Milano nel 1982 e al Festival di Salisburgo nel 1984, sono state riprese in seguito più volte in importanti teatri). Non meno intensa è però la circolazione delle composizioni di K. Stockhausen, di cui egli stesso è quasi sempre interprete, sia come direttore che come organizzatore di complessi specializzati: fra il 1981 e il 1988 la Scala di Milano ha ospitato tre delle opere (Donnerstag, Samstag e Montag) del suo ''teatro totale'' Licht, il progettato ciclo che idealmente potrebbe essere collegabile, almeno per l'imponenza del suo impegno complessivo, con il Ring di Wagner.
Ma se una qualche aureola di ''avanguardia'' circonda ancora le composizioni dell'anziano G. Petrassi e dei più giovani G. Ligeti, F. Donatoni, H. W. Henze, L. Nono, S. Bussotti e S. Sciarrino, i cui lavori sono presenti periodicamente anche in teatri e centri di produzione destinati al normale repertorio teatrale e concertistico, un caso a sé stante è ancora quello del polacco K. Penderecki che, pur essendo partito da posizioni che lo avevano accomunato alle avanguardie degli anni Cinquanta e Sessanta, continua a far breccia (ma suscitando ancora la diffidenza di molti dei suoi ex compagni di strada) anche nel pubblico più prevenuto nei confronti della produzione musicale contemporanea: lo dimostrano il successo e la diffusione di tutte le sue opere, comprese quelle più recenti, come Paradise Lost, rappresentata a Chicago nel 1978 e subito dopo alla Scala di Milano, e Die Schwarze Maske, che ebbe la sua ''prima'' a Salisburgo nel 1986.
Non possono sfuggire tuttavia, in questo paesaggio internazionale che non ha subito sostanziali modificazioni rispetto agli anni Sessanta e Settanta, alcuni orientamenti culturali e di gusto che sono venuti affermandosi negli ultimi tempi. Fra questi è da segnalare l'insorgenza − a mano a mano che veniva meno l'interesse per i problemi del ''linguaggio'' e cresceva il rifiuto dei ''sistemi'' − di nuovi bisogni dichiaratamente ''espressivi'', che hanno fatto parlare di neo-impressionismo e addirittura di neo-romanticismo.
È il caso, per es., dell'italiano L. Ferrero (n. 1951) che si è dedicato, in particolare, al teatro musicale: in questo, facendo uso di un eclettismo nel quale convivono, linguisticamente aggiornati, lasciti del melodramma e stilemi della m. leggera e d'uso, il musicista torinese si è impegnato, con scelte di temi − scelte che sono apparse perfino provocatoriamente ''regressive'' −, a far rivivere un ''genere'' capace ancora di far spettacolo e di stabilire un'esplicita comunicativa, proprio perché accoglie problemi di attualità, legati alla cronaca e alle emozioni della vita quotidiana, come per es. nelle opere Marylin (dedicata alla memoria dell'attrice statunitense M. Monroe) su libretto di F. Bossi, rappresentata a Roma nel 1980, e Salvatore Giuliano, su libretto di G. Di Leva (ancora Roma, 1986).
E in questo ambito di rinnovati interessi per il mondo dell'opera, inteso non più come fatto archeologico e di élite, può essere inserito anche il compositore milanese M. Tutino (n. 1954) con l'opera La lupa (libretto di G. Di Leva: ''prima'' a Livorno, 1990), nella quale è ripreso e attualizzato il tema dell'omonimo dramma di Verga.
Una situazione particolare, dopo un lungo periodo d'isolamento forzato rispetto alle correnti più avanzate della m. europea e americana del Novecento, è ora quella dei musicisti formatisi nell'Unione Sovietica del dopoguerra e nelle aree, sino ad anni recenti, sotto la sua influenza politica e ideologica: a partire dagli anni Ottanta hanno cominciato infatti ad avere una circolazione internazionale, per quanto limitata, accanto alle composizioni da tempo consolidate di S. Prokof'ev e di D. Šostakovič, anche quelle di musicisti come E. Denisov (n. 1929), R. Ščedrin (n. 1932) e S. Slominskij (n. 1932), considerati i rappresentanti di un'ancor timida ''avanguardia'' sovietica di cui è prematuro prevedere gli ulteriori sviluppi, ma che testimonia almeno il definitivo superamento del vecchio ''realismo socialista''. Del resto, in connessione con gli avvenimenti succedutisi dopo la caduta del muro di Berlino, e in particolare con la dissoluzione dell'URSS, si avvertono nuovi orientamenti critici nella stessa valutazione di musicisti che per un lungo periodo erano stati indicati come le bandiere della politica culturale comunista.
Tale è, per es., il caso di Šostakovič, la cui fisionomia ufficiale di ''musicista del regime'', una volta solidissima in patria e all'estero, tende invece a esser considerata, specialmente tenendo conto dei lavori del suo ultimo periodo creativo, come una drammatica e profetica testimonianza del doloroso disagio esistenziale di un artista all'ombra della dittatura. A tale interpretazione, non priva di qualche occasionale forzatura, ha contribuito senza dubbio la pubblicazione postuma delle Memorie attribuite al celebre musicista, uscite a New York nel 1979 a cura di S. Volkov.
In sostanza, il quadro internazionale delle attività musicali non ha subito nel corso degli anni Ottanta sostanziali modifiche rispetto al decennio precedente, se non appunto nell'allentamento definitivo degli schemi ideologici e delle radicali contrapposizioni che avevano caratterizzato i primi decenni del dopoguerra. Si può semmai notare, parallelamente alla crisi delle ideologie e delle stesse ''scuole'' dichiaratamente ''di avanguardia'', l'accresciuto interesse di larghi settori del pubblico e fra gli stessi musicisti per il ripristino di antiche prassi esecutive attraverso l'uso dei cosiddetti ''strumenti originali'': di qui la nascita di molti complessi specializzati, particolarmente in Gran Bretagna, Germania, Olanda e Stati Uniti, seguiti con grande attenzione dalla stessa industria discografica, e l'emergere di figure di musicisti che di fatto svolgono anche attività musicologica, come gli olandesi F. Brüggen (n. 1934) e G. M. Leonhardt (n. 1928), il tedesco N. Harnoncourt (n. 1929), l'inglese R. Norrington (n. 1928) e l'italiano L. F. Tagliavini (n. 1929).
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Musica pop. - Con il termine pop music o con quello più corrente di pop (forma abbreviata dell'espressione inglese popular music) si indica una produzione musicale assai variegata, in cui si collocano i diversi generi musicali non colti, più genericamente rubricati come ''m. leggera'', che costituiscono gli esiti del processo di mutazione subito − specialmente negli ultimi decenni − dalla m. popolare, folclorica e melodica, nell'ambito della più ampia crisi delle tradizioni popolari innescata e fortemente condizionata dalla massiccia urbanizzazione e dalla diffusione capillare dei vari apparecchi di riproduzione fonografica.
Inizialmente l'avvento della radio fece calare le vendite dei dischi, perché offriva trasmissioni gratuite di concerti dal vivo e una migliore qualità sonora. Ma con l'introduzione del microfono elettrico le cose cambiarono sensibilmente, sia perché la qualità dei dischi tese a migliorare, sia perché trasformò completamente la natura stessa della canzone popolare. Prima dell'uso del microfono, per i cantanti era difficile farsi ascoltare al di sopra della m. suonata da un'orchestra, tanto che per far questo molti utilizzavano un megafono, che produceva naturalmente una tonalità piatta e dolce. Un buon cantante veniva da una tradizione vocale operistica, per la quale era naturale tenere delle note chiare e forti, mentre invece l'introduzione del microfono, con la sua sensibilità alle più diverse sfumature della voce, impose una nuova generazione di cantanti non dotati di voci potenti ma più attenti alle sfumature emozionali. Queste possono essere considerate le caratteristiche generali che portarono alla nascita della m. pop, quale oggi viene comunemente intesa. Ma proprio per la varietà dei generi che contiene, il pop ha avuto vita e sviluppi diversi da paese a paese, ed essendo una m. che è vissuta e cresciuta parallelamente allo sviluppo dell'industria discografica, porta indissolubilmente il marchio della cultura angloamericana, che ha in qualche modo condizionato lo sviluppo del pop in tutto il mondo.
Stati Uniti. − Parallelamente al processo di unificazione del paese nasce nell'America del Nord una prima forma di civiltà musicale non importata dall'immigrazione. Nell'Ottocento sorgono in provincia i minstrel shows, sorta di commedia dell'arte fatta da attori e cantanti bianchi che si dipingevano il volto di nero e che passavano dagli sketches all'operetta. Attono al 1830 gli spettacoli si organizzarono in una forma più compiuta e comparvero le prime compagnie itineranti; il fenomeno crebbe in popolarità anche nelle città. Alla fine dell'Ottocento i minstrel shows vennero inglobati nei più generici spettacoli di varietà e nei locali della provincia si affermarono i pianisti di ragtime, nato come forma di arte dotta, d'autore, scritta ed essenzialmente pianistica, la cui caratteristica consisteva nella sincopazione del ritmo scandito dalla mano destra, mentre la mano sinistra forniva un accompagnamento in 2/4 non sincopato. Il successo del ragtime fu straordinario e coinvolse città e campagne, locali equivoci ed eleganti, fino ad approdare con successo anche in Europa, riuscendo a interessare addirittura compositori come Debussy e Stravinskij. La fortuna del ragtime durò fino al 1920, quando sulla scena musicale americana si affermò il jazz, che dal ragtime in parte derivava.
La fine del successo dei minstrel shows, coincise con la nascita del vaudeville, altro spettacolo di varietà nel quale la m. giocava un ruolo importante e che costituì la base su cui nacque il musical, genere di spettacolo fiorito a Broadway tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, che fondeva gli elementi dell'operetta europea, del music-hall inglese e del minstrel show. La maggior parte delle m. e delle canzoni per questo tipo di spettacoli veniva prodotta e distribuita a Tin Pan Alley, la 28ª Strada di New York, dove avevano sede le più grandi case editrici musicali, che realizzavano già all'inizio del 20° secolo un volume d'affari valutato in milioni di dollari. Negli anni Trenta, quando il musical aveva definitivamente soppiantato il vaudeville come principale fonte di nuove canzoni, Tin Pan Alley divenne una sorta di ''conservatorio'' della m. commerciale, quella meno artisticamente improntata, più conformistica e avulsa dalla realtà in movimento della società statunitense.
Le canzoni avevano intanto assunto un'importanza sempre maggiore anche nel musical, che pian piano abbandonò i riferimenti all'operetta per dar spazio a compositori che fondevano tradizione melodica europea e tradizione musicale nera: musicisti come G. Gershwin, C. Porter, I. Berlin, J. Kern e R. Rodgers contribuirono in maniera determinante a definire il campo della m. pop, una m. capace di avere richiamo popolare ma che al tempo stesso poteva essere, nei casi migliori, un prodotto artistico di massa. La figura del cantante pop si affermò a partire dagli anni Quaranta e i personaggi più celebri, come B. Crosby (1903-1977), F. Sinatra (n. 1915), P. Como (n. 1912), Nat ''King'' Cole (1917-1965), divennero veri e propri divi, contribuendo non poco alla modernizzazione della canzone pop. Sinatra in particolare, con il suo stile poco formale e il suo amore per il jazz, divenne un ideale ''maestro'' per intere generazioni di cantanti in tutto il mondo, oltre a meritare per sé l'appellativo di The Voice.
Accanto al pop comunemente inteso, il jazz visse una vita propria, e in generale la m. nera continuò a evolversi, anche se spesso chiusa nell'ambito della cultura afroamericana. Allo stesso modo si sviluppò la country music. Il primo esempio di m. country incisa su disco, di circa settant'anni fa, porta la firma di un violinista texano, E. Roberts.
Le radici del country affondano nella cultura popolare del Sud, nata dalla fusione e dalla contaminazione di culture europee e africane: all'inizio del 20° secolo infatti la m. rurale americana era eseguita essenzialmente da fiddlers, suonatori di banjo e da string bands, che da un capo all'altro del Sud si esibivano in fiere e feste paesane e in ogni occasione rituale nella quale la m. fosse richiesta. Il repertorio delle prime string bands era basato essenzialmente sulle ballate e sulle canzoni popolari dei paesi d'origine, e in particolare su quelle irlandesi, ma anche su temi di generi musicali di diversa matrice, che venivano facilmente adattati alla sensibilità e allo stile dei suonatori.
I primi veri professionisti si affacciarono con l'avvento del disco e della radio, e appartenevano per lo più alla classe lavoratrice: nello stile proprio dei cantastorie raccontavano vita e sentimenti del Sud rurale e conservatore. Questa m. popolare prese il nome di hillbilly e sotto questo ''marchio'' cominciò ad assumere caratteri omogenei, sia nella forma che nei contenuti; i vari stili folk tesero a uniformarsi, proprio perché la diffusione attraverso dischi e radio permetteva di raggiungere un pubblico decisamente più ampio e meno identificabile. Con lo svilupparsi di uno stile, nacquero anche le prime composizioni originali, che si andarono via via sostituendo alle ballate e alle canzoni tradizionali. Le prime hillbilly bands, come quella di C. Poole e The North Carolina Ramblers, suonavano motivi da ballo di tradizione inglese, jeegs e reels irlandesi, ma erano aperti anche alla m. popolare contemporanea e non disdegnavano di accostarsi persino al ragtime.
Nella m. popolare la nozione di forme musicali separate è difficile da sostenere, perché il costante scambio di strutture musicali, di idee, di temi, di culture nel Sud degli Stati Uniti ha prodotto un vastissimo raggio di stili e di tipi musicali che presentano differenze caratterizzanti, ma al tempo stesso hanno moltissimi punti in comune. Per es., anche se il blues viene considerato come un corpo unico secondo criteri razziali e geografici, alcuni musicisti bianchi degli stati del Sud-Est suonavano blues in uno stile simile a quello del delta del Mississippi; e la fusione di boogie e blues può essere ritrovata virtualmente in ogni regione. La tradizione musicale è insomma simile a quella linguistica; e la relazione non è soltanto metaforica, perché sia gli stili musicali sia i dialetti nascono da condizioni d'isolamento culturale e geografico, ma si arricchiscono e si modificano quando questo isolamento viene a cadere.
Prima che si affermassero i dischi e la radio agivano altri fattori unificanti: la migrazione verso Ovest, verso il Mississippi, l'Arkansas, il Texas e oltre, nel 19° secolo, il diffondersi di una nuova m. religiosa e il costante movimento di persone verso nuove aree e nuove città, aiutato dalla costruzione delle ferrovie, contribuirono alla diffusione di m. nate in ambito locale. E non è così facile neppure distinguere una m. dai suoi elementi razziali, al punto che di alcuni bluesmen dei primi del Novecento, B. Rose per es., ancora si discute se fosse bianco o nero, date le innumerevoli influenze riscontrabili nel suo far musica.
Uno dei fattori che contribuì all'integrazione musicale fu il boogie, o boogie woogie, che si può ritrovare nelle produzioni musicali di ogni regione durante gli anni Venti e Trenta. Il boogie è conosciuto essenzialmente come m. per pianoforte e per la sua caratteristica ritmica in otto battute. La diffusione del boogie negli stati del Sud trovò spazio anche all'interno della m. tradizionale e dell'hillbilly, dando vita a una sorta di hillbilly boogie portato al successo da una delle stars bianche più famose dell'epoca, J. Rodgers; questi, insieme ad altre grandi stars, la Carter Family, forma il gruppo di maggior rilievo per lo sviluppo della country music dell'epoca. La Carter Family proveniva dalla Virginia e suonava una m. che riassumeva umori e stili di una terra conservatrice e contadina, con propensione al familiare e al religioso; Rodgers invece, figura di vagabondo cantastorie libero e ottimista, fondeva la tradizione bianca e nera, e divenne talmente famoso da meritare l'appellativo di ''padre del country''.
Tra gli strumenti tradizionali della string band iniziò ad assumere un ruolo sempre più rilevante la chitarra, a dispetto del banjo. Gli anni Trenta videro il proliferare di trasmissioni radiofoniche popolate da string bands e balladeers, che non disdegnavano persino di attingere al repertorio della grande canzone americana per le loro nuove composizioni. Le grandi trasmissioni, le cosiddette Radio Barn Dances, divennero popolari in tutte le grandi città, ma una in particolare fece da propulsore allo sviluppo del country, e fu Nashville, con la sua radio WMS Grand Ole Opry, battezzata così nel 1927 dal suo fondatore, G. D. Hay. Con il crescere del successo, crebbe anche la necessità da parte dei musicisti di dar forma a nuove idee; e mentre nel Sud-Est si continuava a concepire la m. in maniera piuttosto tradizionale, in Texas e in Oklahoma si affermarono rapidamente nuovi stili. Il personaggio più celebre di questo rinnovamento in senso pop della m. country fu G. Autry (n. 1907), un cantante hillbilly texano che nel 1934 approdò a Hollywood per iniziare una brillante carriera come attore. Il suo personaggio, il cow boy canterino, idealizzato e romantico, senza macchia e senza paura, aprì la strada al genere western che dominò nel cinema per parecchi anni. Le sue canzoni erano melodiche, come quelle di Roy Rogers (n. 1911), Rex Allen (n. 1922), Tex Ritter (1905-1974), personaggi che recuperavano gran parte della tradizione folk rileggendola però con occhi moderni e adattati alla grande diffusione di massa.
Ancora negli anni Trenta, ebbe sempre maggior diffusione il western swing, altra forma di contaminazione proposta da string bands influenzate dal jazz, con largo spazio all'improvvisazione e lunghe parti strumentali. Parallelamente si sviluppò un'altra forma di country, l'honky tonk, m. da bar, che però non disdegnava temi e commenti sociali. Un'ultima citazione va poi al bluegrass, ancora m. di contaminazione, derivata da quella suonata dalle string bands del Sud-Est, inventata da Bill Monroe (n. 1911), che pur mantenendo salde le caratteristiche del hillbilly, della canzone folk, si fece influenzare da gospel, blues e jazz, dando vita a un genere ancora oggi molto popolare negli Stati Uniti. Il country, che dalla metà del 20° secolo a oggi si è sviluppato negli Stati Uniti, si è andato via via uniformando al pop di consumo, anzi ne ha preso in gran parte il posto, subendo le influenze del rock e della m. leggera.
Fu alla fine degli anni Cinquanta che la m. pop tornò a essere influenzata dalla m. dei neri, con la nascita del rock and roll. Le basi della moderna industria musicale erano state gettate all'inizio del dopoguerra, attorno al 1945: come già era avvenuto ai tempi di Tin Pan Alley con le singole canzoni, il business musicale si organizza rafforzando il sistema di produzione e di distribuzione del disco, che viene controllato da un esiguo numero di grandi compagnie. Questa serie di eventi provoca la prima grande rivoluzione nell'ambito della m. e la definitiva modificazione del pop da genere d'intrattenimento di massa a m. di consumo. Persino la m. dal vivo, che fino ad allora aveva giocato il ruolo principale nella diffusione e nel successo di personaggi e di brani musicali, perde importanza, e anche lo sviluppo di concerti e performances viene sempre più condizionato dalle esigenze del mercato discografico. Vale la pena ricordare che l'industria della m. popolare, in quel periodo, era organizzata ancora com'era all'inizio del secolo, e sebbene l'avvento del grammofono e dei dischi avesse gradualmente conquistato il pubblico e l'industria fin dagli anni Venti, è solo alla metà degli anni Cinquanta che la vendita di dischi rappresenta per l'industria un guadagno maggiore della m. stampata.
Con l'arrivo del rock and roll, i giovani della generazione postbellica cominciano ad avere un ruolo diverso nell'appena nata ''società dei consumi''. Invece di accettare passivamente quello che i loro genitori consideravano ''buona m.'', i giovani degli anni Cinquanta iniziano a ''scegliere'' la propria m., cercando quella che poteva incorporare valori nuovi, significati diversi, sogni e passioni creative. Anche se la maggior parte degli stili rock and roll esistevano già nella m. afroamericana del dopoguerra, fu il nuovo ''significato'' che i giovani vi sovrapposero a cambiarne profondamente aspetto e contenuti. Ci volle del tempo perché l'industria discografica realizzasse che a questo nuovo, vastissimo pubblico giovanile non si poteva vendere m. secondo le vecchie regole commerciali, che volevano il pop per il mercato nazionale, il country per il mercato regionale e il rhythm and blues per il mercato afroamericano. Tra l'altro, negli anni del secondo conflitto mondiale le stazioni radio che puntavano sul pubblico afroamericano erano aumentate costantemente di numero in tutti gli Stati Uniti, soprattutto a causa del crescente interesse dei pubblicitari nel raggiungere un pubblico nero in grado, molto più che in passato, di consumare e spendere, vista la richiesta di lavoratori nelle varie zone industriali legate alla produzione di guerra. Sicché agli inizi degli anni Cinquanta le stazioni che trasmettevano rhythm and blues- una sorta di pop nero, derivato dal blues, ma assai marcatamente ritmato e pertanto più ballabile − erano virtualmente dovunque ed erano fedelmente seguite da un pubblico sempre più numeroso e, quel che più conta, interrazziale. Contemporaneamente anche il country ampliava l'ambito del successo trasformandolo da regionale a nazionale; e per combattere il riscontro sempre maggiore guadagnato dalla televisione, molte radio bianche regionali si associarono in networks nazionali, soprattutto per poter recuperare quella pubblicità che pian piano la televisione aveva loro sottratto. Anche se molto diversi, il country e il rhythm and blues avevano un elemento comune che li rendeva unici e ''appetibili'' per il pubblico dei teenagers: erano espressioni ''pure'' di esperienza, erano legate a una matrice folk genuina, avevano legami strettissimi con la realtà e rappresentavano in entrambi i casi una cultura e una popolazione ''di minoranza'', quella dei negri e quella dei bianchi poveri, affrontate in m. idealmente negli stessi termini, perché entrambe forme musicali fondate su di un'estetica sonora che privilegiava le qualità emozionali, al di là della forma e della tecnica. Le due ''idealità'' differivano soprattutto in questo: il blues si era adattato allo stile di vita delle città e aveva trovato nuove forme e significati nello sviluppo di una popolazione nera urbana divenuta proletariato industriale. Al contrario il country era formato sul vecchio concetto individualista su cui si basava il sogno americano, ed era diventato negli anni Cinquanta l'espressione di vita nostalgica e lontana di un'America rurale e pionieristica in netto contrasto con l'industrializzazione e la modernità. Il conservatorismo della country music e l'energia ribelle del rhythm and blues costituirono curiosamente l'essenza di quello che in breve diventò il rock and roll, incarnando l'ambivalenza, il contrasto, il gap che i giovani vivevano all'epoca: i teen-agers volevano ogni cosa diversa da quella dei loro genitori e al tempo stesso volevano essere come loro, vedevano la prosperità e il consumo come elementi essenziali della vita e al tempo stesso non ci credevano più. Il rock and roll ridusse tutto questo in una formula musicale che esprimeva sia la ribellione che il conformismo, come dimostrarono in breve le prime stars del genere, E. Presley soprattutto.
Il rhythm and blues, una delle componenti della nascita del rock and roll, ha proseguito in una sua evoluzione fino ai nostri giorni, nelle forme del funk, della soul music e, più recentemente, della disco music e del rap. Il pop viene influenzato profondamente dalla nascita del rock and roll: si può dire che gran parte del pop odierno sia un derivato delle infinite variazioni sul tema del rock, diventato, soprattutto negli Stati Uniti, il genere musicale più diffuso e commerciale. Con gli anni Sessanta e la nascita del beat in Inghilterra, il predominio internazionale del pop statunitense si è modificato in una sorta di grande ''coabitazione'' angloamericana che ha dato vita a molte altre forme musicali, rendendo virtualmente impossibile definire il pop come un unico genere. Semplificando, si può affermare che mentre il rock nasce come un'esperienza artistica non legata alle esigenze del mercato di massa, indirizzata com'è solo al pubblico giovanile e legata al suo linguaggio, ai suoi problemi, alla ricerca espressiva e artistica di intere generazioni, il pop resta la m. prodotta dall'industria discografica. Il che non vuol dire che manchino all'interno del pop autori di grande rilievo, come B. Bacharach (n. 1928), H. Mancini (n. 1928), o interpreti straordinarie come D. Warwick (n. 1940), B. Streisand (n. 1942). La grande canzone americana, dagli anni Quaranta in poi, ha condizionato il mercato occidentale attraverso il cinema, la radio, i dischi e le mode, diventando il filone principale per gli autori di tutto il mondo. Dalla fine del 1992 è attiva presso l'università Humboldt di Berlino la prima cattedra di m. pop, di cui è titolare P. Wicke.
Gran Bretagna. − La m. pop britannica segue in gran parte il percorso della m. statunitense, soprattutto per contiguità di lingua e di matrici culturali. Anche in Inghilterra alla canzone folk si sostituì pian piano il music-hall, che in realtà è un'''invenzione'' inglese, un genere di spettacolo di varietà con comici, ballerini, giocolieri e cantanti. Le canzoni del music-hall sono di derivazione folclorica, soprattutto nei temi, legati alla vita delle classi operaie urbane, ma conoscono l'influenza della m. francese e irlandese. Il music-hall si trasforma in varietà e in musical, seguendo l'onda lunga del jazz americano, dando vita a un pop molto ironico e ballabile. Una discreta influenza attorno agli anni Cinquanta hanno i ritmi e le armonie sudamericane e anche lo ska giamaicano, ma la principale influenza per lo sviluppo del pop sarà quella della musica skiffle, un genere veloce e leggero, suonato con strumenti ''poveri'', come il kazoo o il washboard (una semplice tavola da bucato), il cui maggior esponente fu L. Donegan (n. 1931). Fu proprio con l'evoluzione elettrica dello skiffle che all'inizio degli anni Sessanta nacque il beat, portato al successo in tutto il mondo dai Beatles. Il beat ha in realtà un forte debito con il rock and roll, ma è una forma che si sviluppa in maniera diversa a seconda dei gruppi che lo suonano: mentre i Beatles− che incidono il loro primo disco nel 1961 − si preoccupano principalmente della forma canzone e in questo senso restano più legati al pop, influenzandolo profondamente, i Rolling Stones (prima incisione 1963) e molte altre formazioni degli anni Sessanta prendono ispirazione dal blues afroamericano. Il beat britannico dà vita al nuovo pop e contemporaneamente alla moderna definizione di m. rock. Il beat diventa rapidamente un fenomeno di costume globale, influenzando assai più del rock and roll americano il mondo giovanile nella moda, nei comportamenti e nel linguaggio. Il beat stesso è alla radice di tutto il pop britannico seguente, che continuerà a lanciare a getto continuo nuove mode e nuovi stili.
La maggior parte delle m. e degli autori del pop britannico degli anni Sessanta-Settanta è legata a doppio filo allo sviluppo delle mode e delle tendenze giovanili, al punto che ogni ''innovazione'' nel campo del rock trova un suo immediato corrispettivo nel pop di consumo, ed è ben difficile separare fino in fondo i due campi, almeno fino alla metà degli anni Settanta, se è vero che addirittura personaggi dichiaratamente pop come Tom Jones (T.J. Woodward, n. 1940), Cliff Richard (H.R. Webb, n. 1940), P. Clark (n. 1932), hanno spesso e volentieri ''sconfinato'' in uno o nell'altro campo. La canzone britannica si modifica velocemente, seguendo i mutamenti del gusto, e riesce sempre a lanciare mode e personaggi che incontrano il favore del grande pubblico, non solo giovanile. Ma è soprattutto nel mercato della m. per i più giovani che il pop britannico assume un'importanza centrale, producendo innumerevoli generi, dal pop sinfonico al pop elettronico, dal rock leggero alla rinascita della canzone, secondo i più classici dettami pop tradizionali negli anni Ottanta, mescolando in forme nuove elementi del rock, della m. afroamericana, della melodia europea. Le stelle del rock e del pop sono quindi quasi sempre le stesse, da E. John (n. 1947) a D. Bowie (n. 1947), da A. Lennox (n. 1950) a Sting (pseud. di G.M. Summer, n. 1951), in un continuo ricambio di personaggi e di mode, non ultime quelle della m. da ballo, dall'elettropop alla house music. Mentre durante gli anni Settanta lo ''scettro'' del pop di consumo torna nelle mani degli artisti statunitensi, durante tutti gli anni Ottanta è la scena britannica a dominare, con i nuovi teen idols come i Duran Duran e gli Spandau Ballet, con giovani autori capaci di legare la tradizione della canzone a una nuova sensibilità, come Elvis Costello (D. MacManus, n. 1954), e Joe Jackson (n. 1955), o ancora con le stelle del rock degli anni Settanta passate definitivamente al campo del pop.
Francia. − Il primo vero chansonnier francese è, nell'Ottocento, A. Bruant (1851-1925), e alla sua scuola cresce un'intera generazione di cantanti che si avvicina volentieri al mondo dell'arte più che a quello del commercio musicale. I cabarets francesi sono veri e propri punti di ritrovo per gli artisti delle avanguardie dei primi del Novecento, e la canzone, parallelamente, entra stabilmente nei teatri, tramite il varietà e il music-hall. Con l'avvento dei dischi e della radio la canzone francese cresce e si sviluppa in forme molto diverse, spesso influenzate sia dalla m. americana, in particolare dal jazz, che dall'antica tradizione del café chantant, dalla melodia italiana e dal cabaret tedesco.
Una delle prime grandi vedettes della m. francese del 20° secolo è M. Chevalier (1888-1972): cantante, attore, entertainer di gran classe, Chevalier ha incarnato perfettamente il passaggio della m. francese dalla tradizione del café chantant alla canzone moderna, lavorando agli inizi del secolo alle Folies Bergères in compagnia di un'altra grande stella, Mistinguett (nome d'arte della ballerina e cantante J.-M. Bourgeois, 1875-1956), quindi, dopo la prima guerra mondiale, dedicandosi principalmente al cinema, nella doppia veste di attore e cantante. Tra i molti film che lo hanno visto protagonista vanno ricordati Love me tonight (Amami stanotte, 1932) di R. Mamoulian, nel quale cantava la celebre Mimi, e The merry widow (La vedova allegra, 1934) di E. Lubitsch, ma soprattutto Le silence est d'or (Il silenzio è d'oro, 1947) di R. Clair, e Gigi (1958) di V. Minnelli. Ma il ''padre'' della canzone francese moderna resta Ch. Trenet, autore e cantante di grandissime doti, che ha saputo interpretare nella maniera più completa ed efficace l'essenza e lo sviluppo della canzone francese, dalla tradizione popolare alla raffinatezza del secondo dopoguerra.
La canzone pop vive il momento di massimo splendore dopo la seconda guerra mondiale, grazie a cantautori come G. Brassens (1921-1981), L. Ferré (n. 1916), J. Brel (1929-1978), e a cantanti femminili come E. Piaf (1915-1963) e J. Gréco (n. 1926), vicini idealmente e praticamente alla cultura degli esistenzialisti. Personaggi come Brel (Ne me quitte pas, La valse à mille temps, Les vieux, ecc.) e Brassens (Le gorille, Le parapluie, ecc.) riescono a rinnovare radicalmente la canzone francese nelle forme e nei contenuti, legando modernità e tradizione, poesia e sentimento, con testi particolarmente raffinati, sofferti, e m. semplici ed essenziali.
Il pop di consumo francese viene fortemente influenzato da questa nuova canzone, e personaggi come G. Bécaud (n. 1927) e Ch. Aznavour (n. 1924), anche se in maniera molto diversa l'uno dall'altro, hanno pagato un evidente tributo, in termini di stile, ai ''rinnovatori''. Anche in Francia l'arrivo del rock contribuisce a un ulteriore rinnovamento, e il personaggio più carismatico della nuova generazione è Johnny Hallyday (pseud. di J.-P. Smet, n. 1943), dal gusto ''americano'' nell'immagine, ma ben legato alla m. francese per non tradirne lo spirito, capace di dare un importante scossone alla scena musicale degli anni Sessanta e di far da stimolo per un'intera nuova generazione di autori. Tra i più famosi interpreti degli anni Sessanta e Settanta vanno ricordati F. Hardy (n. 1944), Dalida (pseud. di J. Gigliotti, n. 1933), Richard Anthony (R.A. Bush, n. 1938), Adamo (S. Adamo, n. 1943), S. Vartan (n. 1944), S. Distel (n. 1933), C. François (1942-1978), M. Mathieu (n. 1946), mentre nella canzone d'autore il personaggio più importante e originale è senza dubbio il provocatorio S. Gainsbourg (1928-1991): autore estremamente prolifico (Le poinçonneur des Lilas, La recette de l'amour fou, Je t'aime moi non plus, ecc.) che ha contribuito a portare la canzone francese all'interno delle correnti più moderne del pop internazionale, dal reggae al rock alla m. africana, senza dimenticare la melodia e la poesia proprie della canzone di Francia. Negli ultimi anni la canzone francese non ha espresso grandi stelle internazionali, ma nel campo del pop si sono messe in luce formazioni originalissime come Mano Negra e Les Negresses Vertes.
Italia. − La prima canzone moderna italiana in lingua è comunemente considerata Santa Lucia, di E. Cossovich e T. Cottrau (1848). Bisognerà attendere però fino ai primi del Novecento per poter segnalare una vera e propria produzione musicale in italiano, perché fin dai primi dell'Ottocento si erano affermate quasi soltanto canzoni di derivazione dialettale, soprattutto a Milano, Roma e Napoli.
La tradizione napoletana in particolare gioca un ruolo importantissimo nello sviluppo della canzone italiana: comunemente indicato come il brano più antico della canzone napoletana, il Canto delle lavandaie del Vomero (13° secolo) è l'esempio più celebre e illuminante delle villanelle, una sorta di canzone agreste che è alla radice della grande tradizione napoletana: tradizione che conta moltissimi classici antichi, come Jesce Sole (secolo 13°), Michelemmà (1650), Fenesta vascia del Settecento; ma è nell'Ottocento che la canzone inizia a prendere forma moderna, e il passaggio dalla canzone popolare alla moderna canzone d'amore è segnato da Te voglio bene assaie (1835), la cui m. è comunemente attribuita a G. Donizetti. La svolta decisiva della canzone napoletana avviene attorno al 1880, con l'avvento di S. di Giacomo, autore di testi raffinati, tra i quali andranno ricordati almeno Era de maggio, musicata da M. Costa (1885), A marechiare, su m. di F. P. Tosti (1885), 'E spingule frangese (1888) con m. di E. De Leva, Catarì (1892) musicata ancora da Costa, e moltissime altre canzoni. Il trentennio 1885-1914 è il più ricco ed esaltante per la canzone napoletana, che si arricchisce di capolavori quali 'A vucchella (1892), testo di G. D'Annunzio e m. di Tosti; 'O sole mio (1898) di G. Capurro ed E. Di Capua; I' te vurria vasà (1900) di V. Russo e Di Capua; Voce 'e notte di E. Nicolardi ed E. De Curtis, Pusilleco addiruso di E. Murolo e S. Gambardella e Torna a Surriento di G. B. ed E. De Curtis, tutt'e tre del 1904; Core 'ngrato (1911) di A. Sisca e S. Cardillo; Guapparia (1914) di R. Falvo e L. Bovio. Accanto alle canzoni dialettali, nell'Ottocento la gente fa proprie alcune delle più celebri ''romanze da salotto'' di autori come Leoncavallo, Costa, Denza, Tosti, Gambardella, composizioni in bilico tra l'aria d'opera e la canzone, molte delle quali portate al successo da E. Caruso; ma è in realtà all'inizio del Novecento, con il successo del café chantant importato dalla Francia, che la canzone inizierà a vivere un'esistenza diversa da quella folclorica. Grande stella del café chantant italiano fu L. Cavalieri (1874-1944), ma vanno ricordati anche N. Maldacea (1870-1945), G. Pasquariello (1869-1958), Gea della Garisenda (pseud. di A. Druidi, 1878-1961), A. Gill (pseud. di A. Testa, 1877-1945), A. Fougez (pseud. di A. Pappacena, 1898-1966), E. Donnarumma (1888-1933), G. Mignonette (G. Andreatini, 1890-1953) e O. D'Avigny. I grandi interpreti sono in realtà molto pochi, perché a eseguire le canzoni, non solo nei cafés chantants e nei teatri di varietà, sono comunque per lo più musicisti ambulanti, che nelle feste di piazza o nei mercati si esibiscono pubblicamente.
Ma alla diffusione delle canzoni concorre soprattutto l'affermazione degli editori musicali e velocemente le canzoni di autori come Bovio, Di Giacomo, Capurro corrono da un capo all'altro della penisola. I brani sono semplici, con melodie ampie e cantabili, figlie spesso del melodramma, legate alla tradizione ottocentesca; e accanto alle canzoni d'amore fioriscono i numeri ironici, le canzoni satiriche, le ''macchiette''. La canzone scritta in italiano soffre naturalmente delle difficoltà di una lingua che ancora non è parlata da tutta la nazione, e forse proprio per questo risulta lontanissima anche dall'italiano parlato, eccedendo in toni romantici e sentimentali. Non per questo, però, ottiene meno successo, anche perché, depurata degli elementi più ''sofisticati'', nella vita del café chantant prende forma compiuta e si avvicina alla canzone attuale.
Negli anni Dieci, come del resto accadeva anche in Francia, in Italia arrivano il tango e il charleston; pertanto accanto alla ormai ben consolidata tradizione melodica si affaccia anche quella della m. da ballo, fino ad allora rimasta legata alle tradizioni popolari. La situazione comincia a cambiare con l'arrivo dei dischi e del cinema sonoro, anche se i vecchi canali di diffusione (esecuzioni dal vivo, i cosiddetti ''fogli volanti'', gli spartiti stampati dalle editrici musicali) restano attivi fino alla fine della seconda guerra mondiale. Le prime incisioni della Fonit risalgono al 1911, mentre nel 1912 nasce a Milano la Società nazionale del grammofono; con grandissima rapidità il nuovo supporto fonografico si afferma in tutta Italia, come nel resto del mondo. Assieme al disco arrivano al successo le prime canzoni italiane: Come le rose, Come pioveva, Cara piccina (tutte del 1918), brani che si fanno notare soprattutto per un uso della lingua italiana non più letterario e arcaico, ma decisamente più colloquiale e moderno.
Fino agli anni Trenta, anche se dall'avvento del fascismo ci fu una forte produzione di canzoni ''ispirate'' dal regime, la canzone italiana visse di mille diverse influenze, delle diverse realtà regionali, dell'americanismo che contagiava lo sviluppo del pop anche in Italia, accanto alle canzoni sentimentali vicine allo stile dei cantanti d'opera. È una m. che viene omogeneizzata dall'arrivo della radio, che il ministro delle Comunicazioni, C. Ciano, vuole diretta da un'unica società monopolistica, l'URI, che inizia a trasmettere regolarmente nel 1925 e nel 1927 viene sostituita dall'EIAR. La radio favorisce fortemente l'unificazione linguistica del paese e tende quindi a promuovere soprattutto le canzoni cantate in italiano, anche se grande importanza e successo ha soprattutto Radio Napoli. L'omogeneizzazione viene resa ancora più forte dalle tendenze autarchiche del regime, che nel 1939 decide d'impegnarsi a restituire alla canzone i suoi valori ''italici'' e a criticare la m. anglosassone, fino ad arrivare al ridicolo d'italianizzare il nome di Louis Armstrong in "Luigi Braccioforte". Va detto che lo sviluppo della radiofonia e il suo successo in Italia avvengono piuttosto lentamente, e solo dopo il 1935 la radio contribuisce davvero alla formazione di un nuovo gusto musicale, con la nascita di una vera e propria orchestra di m. leggera (al posto di quella più tradizionale di T. Petralia, del 1933): quella di P. Barzizza (n. 1902), particolarmente dotato in orchestrazioni jazzistiche, seguita nel 1938 da quella di C. Angelini (1901-1983), meno avanguardistica ma più raffinata; ambedue introdussero nel loro repertorio molte composizioni di autori internazionali e molto swing.
Comunque innumerevoli sono i successi dell'epoca che vanno ricordati, canzoni che mettono in primo piano i valori familiari e piccolo borghesi, Mille lire al mese (1938), C'è una casetta piccina (1940), o celebri, impagabili feuilletons come Balocchi e profumi di E. A. Mario o Rotaie di C.A. Bixio e B. Cherubini, o ancora le canzoni ricche di doppi sensi anche piuttosto pesanti. Negli anni Trenta gode di un enorme successo il teatro di rivista, una sorta di fusione tra l'operetta e il café chantant, che ha la sua stella incontrastata in Wanda Osiris (pseud. di A. Menzio, n. 1905); in esso si mettono in luce quelli che si possono considerare i primi ''cantautori'': R. De Angelis (pseud. di R. Tonino, 1893-1965), di cui andranno ricordati, oltre alla canzone Ma cos'è questa crisi, del 1933, i due saporosi volumi di ricordi Caffè Concerto (1940), e Storia del Café chantant (1946); R. Balzani (1892-1962), autore di celebri canzoni romane, fra cui L'eco der core, Barcarolo romano, ambedue del 1926, e di Pe' Lungotevere (1932) e O. Spadaro (1895-1965), che scrisse Firenze (1929), Porta un bacione a Firenze (1938), Il valzer della povera gente (1939).
Come nel resto del mondo, anche in Italia il cinema s'impone come spettacolo popolare e interclassista e come eccellente strumento di diffusione della m. pop: basti pensare che il primo film sonoro italiano, La canzone dell'amore, di G. Righelli (1930), segna il lancio di un brano che ancora oggi è celeberrimo, La canzone dell'amore di Bixio e Cherubini (con la famosa strofa iniziale Solo per te Lucia/va la canzone mia); e che V. De Sica portò alla celebrità se stesso e un dolce motivo di E. Neri e Bixio, Parlami d'amore Mariù nel film di M. Camerini Gli uomini che mascalzoni... (1932). Il cinema è per certi aspetti un veicolo di diffusione musicale più attivo del disco, e gioca tra l'altro un ruolo importantissimo per la diffusione della m. americana in Italia. Questo non vuol dire che la tradizione dialettale sia in ribasso, anzi: la canzone napoletana vive una stagione straordinaria, con autori come E. Murolo, L. Bovio, E. Tagliaferri, G.E. Pisano, G. Cioffi, interpreti come G. Pasquariello (1869-1958), canzoni come Dicitenciello vuie (1930), Passione (1934), 'Na sera 'e maggio (1938); e al tempo stesso gode di grande successo la canzone romana, con Bixio e Cherubini (Quanto sei bella Roma e Chitarra romana, ambedue del 1934), e vive la sua prima stagione di grande successo la canzone milanese, con autori come G. D'Anzi e A. Bracchi (Madonina, 1938; Quand sona i campan, 1939; La gagarella del Biffi Scala, 1941). Accanto a una canzone di stampo tradizionale si afferma comunque una canzone moderna e ritmata, che prende spunto sia dalla tradizione italiana che dai ritmi dello swing americano, e ha i suoi pionieri in N. Otto (1912-1969), A. Rabagliati (1908-1974) e soprattutto nel Trio Lescano (formato dalle sorelle Caterina, Giuditta e Sandra Leschan).
È comunque negli anni Quaranta che la canzone popolare italiana cresciuta sotto il fascismo arriva a darsi una forma definitiva, forma che, con piccole variazioni, è arrivata sostanzialmente indenne fino agli anni Sessanta. Basterà ricordare alcuni titoli celeberrimi, tutti del 1940: C'è una chiesetta, il sensuale Silenzioso slow, Ba-ba-baciami piccina, Pippo non lo sa; Ma l'amore no, lanciata nel 1942 da A. Valli nel film di M. Mattoli Stasera niente di nuovo; Tu musica divina, che A. Rabagliati modulava all'orecchio di C. Del Poggio in La scuola dei timidi di C. L. Bragaglia (1942); e indubbiamente segni di un nuovo clima musicale (orientato soprattutto verso moduli jazzistici) sono l'affermazione di personaggi come Pippo Starnazza (pseud. di L. Redaelli), E. Bonino, dell'orchestra ritmo-sinfonica di A. Semprini e del Quartetto Cetra (V. Savona, L. Mannucci, F. Chiusano, G. Giacobetti).
Alla caduta del fascismo e con l'ingresso in Italia dell'esercito americano, la canzone torna a vivere principalmente nel varietà, mentre la radio, tra i ritmi delle orchestre americane, propone sostanzialmente una canzone leggera, qualunquista, ben poco interessata alla contaminazione dei generi che avveniva invece altrove. E al tempo stesso, mentre in Francia o in America gli intellettuali stessi s'impegnano nell'opera creativa della canzone, in Italia questo non accade o accade assai sporadicamente: sicché la canzone resta relegata nel novero delle arti piccole e povere, destinata allo svago e al divertimento. La m. che si stacca con più decisione dagli schemi melodrammatici del pop nazionale è quella che vive fortemente l'influenza del jazz statunitense, che però non dimostra presa sufficiente e si fa componente secondaria, di puro colore, e perciò labile. Il mercato del disco non aveva ancora una diffusione di massa, quando nel 1951 si apre il Festival di Sanremo che, partito in sordina come spettacolo radiofonico, sarà negli anni successivi il più efficace veicolo promozionale dell'industria discografica: se nel 1950 si erano venduti solo sette milioni di dischi, nel 1958 la cifra toccò i 17 milioni, mentre il nuovo formato del 45 giri si avviava a sostituire il vecchio e ingombrante 78 giri.
Non cambiò certamente la m. pop, impermeabile a quanto accadeva all'estero e capace anche d'impoverire la grande tradizione delle m. regionali, destinate a scomparire, almeno nelle forme del grande successo che avevano ottenuto in passato. Grandi stelle dell'epoca furono soprattutto N. Pizzi (n. 1919), A. Togliani (n. 1924), L. Tajoli (n. 1920), C. Villa (pseud. di C. Pica, 1926-1987), interpreti di una canzone che si rifaceva al passato e cercava di ''consolare'' un'Italia uscita distrutta dalla seconda guerra mondiale.
Bisogna arrivare agli anni Cinquanta anche per vedere i primi segni di un rinnovamento nel pop italiano e l'avvicinamento alla sua forma moderna, con personaggi come R. Carosone (n. 1920), che mescolava la tradizione partenopea con l'ironia e il jazz, e come Fred Buscaglione (1922-1960), che faceva altrettanto con toni più cabarettistici, o come il Quartetto Cetra, prima formazione di pop moderno italiano. Altri ''innovatori'' importanti furono S. Bruni (n. 1921), R. Rascel (pseud. di R. Ranucci, 1912-1991) e R. Murolo (n. 1912).
La vera ''rivoluzione'' arrivò comunque nel 1958, con D. Modugno (n. 1930) che, con la sua Nel blu dipinto di blu, realizzò il primo grande successo internazionale della musica pop italiana. Ai primi interpreti di rock and roll d'oltre oceano che si muovevano in Italia, il pop nazionale rispose con la creazione di un pop leggero e moderno, cantabile e non legato a schemi precisi, lontanissimo dal melodramma ma non dalla melodia italiana, mentre tra gli interpreti si affermava una nuova generazione, detta degli ''urlatori'', che aveva il suo capostipite in Tony Dallara (pseud. di A. Lardera, n. 1936); e nella canzone napoletana si affacciava un altro ''innovatore'' legato all'ambiente dei night, Peppino Di Capri (pseud. di G. Faiella, n. 1939). I due personaggi di maggior spicco che emergono nella canzone italiana tra gli anni Cinquanta e Sessanta sono però Mina e A. Celentano.
Mina (nome d'arte di A.M. Mazzini, n. 1940) non è sicuramente una cantante di genere; lo fu all'inizio della carriera, quando, per ''combattere'' una m. italiana legata a doppio filo alla melodia tradizionale, aveva scelto le armi della nuova m. che arrivava d'oltreoceano: si faceva chiamare Baby Gate e giocava al rock and roll. Certamente la prima fase della sua carriera può essere assimilata a quella dei molti altri ''urlatori'', come vennero soprannominati, che contribuirono in maniera sostanziale allo svecchiamento della scena musicale italiana; ma dalla metà degli anni Sessanta in poi è sempre più difficile riuscire ad ''afferrare'' lo stile di Mina, a chiuderlo nelle gabbie facili dei generi, a dare un'etichetta buona per interpretare tutto il suo percorso musicale. In realtà Mina si libera dalle etichette fin d'allora, non ha più frequentato un solo genere, preferendo giustamente abbracciare il più vasto campo della ''cantabilità'', quell'universo fantastico e privo di confini che può mettere insieme melodie africane e arie d'opera, m. elettronica e jazz. L'universo del cantabile è quello che Mina esplora, con metodico impegno, da allora fino a oggi, non preoccupandosi di dover essere fedele a un personaggio o a uno stile, libera di spaziare in mondi musicali differenti, di seguire i sentieri di una capacità interpretativa che sembra conoscere pochissimi limiti. Non è una cantante di genere, e questo è il suo pregio e il suo limite: pregio, perché Mina può e sa affrontare stili e canzoni diverse con un piglio sempre originale e personale, sa trattare la melodia con una semplicità e una naturalezza spesso disarmanti, unendo capacità tecniche ed espressive in un insieme che riesce a essere sorprendente; limite, perché in fondo Mina non ha fatto scuola per intere generazioni di cantanti italiane che di questa sua mobilità non hanno saputo cogliere il frutto, e perché molte delle sue interpretazioni restano strettamente legate alla musicalità italiana, senza riuscire a superare i confini di un mercato nazionale, che ha sempre avuto difficoltà a confrontarsi con l'estero; e anche quando ha affrontato con sicurezza e grande passione il jazz o la musica brasiliana o le composizioni di grandi autori stranieri, Mina ha sempre tenuto salda la propria matrice melodica italiana, le sue radici, inevitabili e per questo ancora più importanti nel suo modo di cantare.
Celentano (n. 1938) è l'altro personaggio che segna uno spartiacque tra la musica italiana del primo dopoguerra e la nuova canzone pop. Non è soltanto in termini musicali e di stile che si può definire un innovatore, quanto soprattutto nel modo in cui si presenta in pubblico, con un atteggiamento strafottente e ribelle che, prima di lui, nessun altro aveva avuto. Il rock and roll è la chiave che gli serve per aprire le porte della m. italiana alle influenze americane, ma è con la produzione seguente a quella del suo esordio anticonformista che egli contribuisce a fare uscire la canzone italiana dal provincialismo, mettendo insieme storie personali e collettive, toccando temi sempre diversi, assumendo atteggiamenti e stili di vita particolari, scatenando mode, discussioni, dibattiti, riuscendo persino a utilizzare temi popolari e folk all'interno di una canzone che vive in bilico tra arte e consumo.
All'inizio degli anni Sessanta l'industria discografica assume un carattere sempre più preciso, nascono stelle e stelline destinate a restare al successo per il tempo di una sola canzone, nascono i primi ''complessi'' e si afferma un beat italiano che molto spesso si limita a tradurre nella nostra lingua grandi successi americani e inglesi. Irrompe comunque sul mercato discografico un'intera nuova generazione, sia di acquirenti che di interpreti; e accanto a personaggi di maggiore spessore come O. Vanoni (n. 1935) e Milva (pseud. di M.I. Biolcati, n. 1939) si fanno avanti giovanissimi come R. Pavone (n. 1945), G. Morandi (n. 1944), R. Zero (pseud. di R. Fiacchini, n. 1950), Mia Martini (D. Berté, n. 1947) e M. Ranieri (n. 1951).
Ma mentre il pop industriale si va internazionalizzando, nasce finalmente una nuova forma di canzone, quella denominata ''canzone d'autore''. I cantautori, emersi all'inizio degli anni Sessanta, sono insieme autori e interpreti delle proprie canzoni, prendono a modello l'avventura e l'evoluzione musicale degli chansonniers francesi e, all'opposto degli urlatori, rinnovano lo stile della canzone con toni sommessi e personali, cercando soprattutto di cambiarne il linguaggio e i contenuti. G. Paoli (n. 1934), U. Bindi (n. 1933), B. Lauzi (n. 1937), L. Tenco (1938-1967), E. Iannacci (n. 1935), G. Gaber (G. Gaberscik, n. 1939), S. Endrigo (n. 1933), F. De Andrè (n. 1940), P. Ciampi (1934-1980) sono i primi a portare temi e sonorità nuove nel campo della canzone italiana, lanciando non solo grandi successi discografici, ma soprattutto spostando definitivamente il baricentro dalla vecchia scuola melodica a una nuova forma, dove i contenuti, le parole delle canzoni, rivestono importanza essenziale. Alla fine degli anni Sessanta, mentre si sta esaurendo l'era del beat- che aveva avuto stelle come Patty Pravo (N. Strambelli, n. 1948), C. Caselli (n. 1946), l'Equipe 84, i Dik Dik, i Nomadi, i Giganti, i Pooh − arriva sulle scene un altro personaggio importante per lo sviluppo della canzone italiana, L. Battisti (n. 1943), senza dubbio uno dei più originali cantautori italiani (anche se la definizione di ''cantautore'' è inesatta, perché Battisti è autore delle musiche delle sue canzoni, mentre per i testi ha lavorato con un altro personaggio importante nel rinnovamento del linguaggio della canzone, G. Rapetti, in arte Mogol, n. 1936).
Battisti ha saputo mettere insieme gli stimoli della m. internazionale, dal rock al pop, dalla folksong americana al beat inglese, e legarli a una sensibilità italiana che tiene conto della tradizione melodica ma non sottostà a nessuna delle vecchie regole della canzone popolare. Come interprete, poi, Battisti porta all'estremo la rottura con la tradizione del ''bel canto'' che era già stata operata da cantautori della prima generazione, con un uso della voce assolutamente innovativo e ''sporco'', lontanissimo da tutti i canoni abituali del ''saper cantare''. Con la sua originale produzione ha dominato la scena dalla fine degli anni Sessanta a tutti gli anni Settanta, influenzando intere generazioni di autori e di interpreti, sia della canzone d'autore che del pop industriale.
A un analogo livello qualitativo si collocano poi altri cantautori, alcuni dei quali, forse perché più audacemente sperimentali − è il caso di L. Dalla e P. Conte − hanno dovuto attendere qualche tempo in più rispetto ai coetanei perché venisse tributato loro un successo adeguato alle capacità creative e d'interpretazione.
Passato attraverso numerose e disparate sperimentazioni musicali, ma formatosi soprattutto su esperienze jazzistiche, Dalla (n. 1943) si fa notare agli inizi più per l'anomalia di voce e abbigliamento che per lo stile personalissimo delle esecuzioni. Ottenuti i primi, modesti successi con alcune canzoni di costruzione sostanzialmente tradizionale, ma già caratterizzate da qualche tocco di originalità (Piazza Grande, Itaca, La casa in riva al mare, Silvie), Dalla s'impegna ben presto in contenuti fortemente improntati all'attualità, che avverte più rispondenti ai gravi interrogativi politici ed esistenziali del decennio Settanta (i testi sono quasi tutti del poeta R. Roversi), collegando questo suo mutamento a non pochi sperimentalismi musicali di notevole interesse (Anidride solforosa, Com'è profondo il mare, L'anno che verrà, Futura, La settima luna). Dapprima sconcertato, e spesso concretamente ostile, ma via via conquistato dalle indubbie qualità del musicista, dell'esecutore e, dal 1977, del paroliere, il pubblico decreta finalmente il successo, che arride negli anni Ottanta a ogni tournée (Banana Republic con F. De Gregori, 1979-81; Dallamericaruso, 1987; Dalla-Morandi, 1988-89) e a ogni nuovo album del cantautore bolognese (Viaggi organizzati, 1984; Bugie, 1986; Cambio, 1990; Attenti al lupo, 1992); nella cui intensa attività artistica (colonne sonore, produzione e promozione discografica, pubblicistica) non sembrano attenuarsi l'estro creativo e l'impegno sperimentale.
Il premio Montale 1991 ha sancito l'innegabile carica poetica presente nei testi del cantautore astigiano P. Conte (n. 1937), forse il più internazionale fra gli esponenti della m. pop italiana, largamente conosciuto e apprezzato in Francia (sei serate tutto esaurito all'Olympia di Parigi, 1986) e in molti paesi d'oltreoceano (tournées negli Stati Uniti e Canada, 1986-87). Col timbro roco della voce e il modo di porgere da chansonnier, con l'agile e sapiente pianismo, con testi sempre singolari e linguaggio apparentemente ''medio'', in realtà ricco di echi e moduli letterari, Conte disegna momenti di una vita di provincia che sogna l'evasione esotica o luoghi e atmosfere d'un passato non troppo lontano − più spesso gli anni Venti e Trenta −, nelle quali fra bonaria ironia e sorridente amarezza vengono evocati oggetti-simbolo (la Topolino amaranto, il gelato al limone) che, inseriti come sono quasi sempre in un contesto di sottile surrealismo, si colorano di una particolare malinconia. Musicalmente, soprattutto nella discografia più recente (Aguaplano, 1987; Mocambo, 1989; Novecento, 1992), Conte ha accentuato i richiami all'hot jazz degli anni Quaranta.
La canzone negli anni Settanta e Ottanta vive la sua stagione di maggiore successo per merito di autori come F. De Gregori (n. 1951), A. Venditti (n. 1949), F. Guccini (n. 1940), I. Fossati (n. 1951), V. Rossi (n. 1952), A. ''Zucchero'' Fornaciari (n. 1956), G. Nannini (n. 1956), C. Baglioni (n. 1951), R. Vecchioni (n. 1943), R. Cocciante (n. 1946), S. Caputo (n. 1954), L. Barbarossa (n. 1961), E. Ruggeri (n. 1957), L. Carboni (n. 1964), F. Concato (n. 1953), F. Baccini (n. 1960); anche se i confini tra canzone d'autore e m. di consumo si fanno sempre più labili e meno identificabili. Il pop odierno in Italia vive ancora principalmente tra queste due correnti: la m. pop dei cantautori, ognuno con un suo personale stile, non identificabile in un unico genere, e la m. pop commerciale, erede per molti versi della canzone italiana degli anni Quaranta e Cinquanta, anche se in forme decisamente rinnovate. L'Italia, va sottolineato, ha un'industria discografica molto meno sviluppata delle altre nazioni europee e ha subito la commercializzazione di prodotti musicali inglesi e statunitensi.
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Musica rock. - Il termine rock music o, più generalmente, rock deriva dall'originaria espressione rock and roll ("ondeggia e rotola"), attribuita al disc jockey ("annunciatore radiofonico di programmi musicali o addetto alla scelta dei dischi nei locali da ballo") statunitense A. Freed, e indica un genere musicale nato negli Stati Uniti agli inizi degli anni Cinquanta e formato dalla fusione di diversi stili musicali, tra cui principalmente il rhythm' and blues e il country western. Sebbene il brano Sh-Boom realizzato dai Chords nel 1954 sia considerato uno dei primi esempi di tale m., il termine rock ad essa attribuito deriva dal titolo della canzone di poco posteriore Rock around the clock di B. Haley, capogruppo dei Comets, che ebbe enorme successo.
Il rock and roll, molto adatto al ballo, è caratterizzato dall'uso di strumenti elettrificati, da una forte componente ritmica e da un linguaggio semplice ma vivace, che tratta inizialmente temi d'amore e di svago. L'evoluzione del rock and roll e la successiva fusione con altri stili ha prodotto la creazione di nuove mode musicali come il twist e il rockabilly, ma il genere che ha incontrato maggiormente il favore del pubblico è quello definito semplicemente rock.
Il primo grande protagonista del rock è E. Presley (1935-1977), che già alla metà degli anni Cinquanta riesce a ottenere un contratto discografico con la RCA. Fondendo il linguaggio del country con quello del rock and roll, il cantante diviene in pochi anni l'idolo del pubblico statunitense, grazie anche alla partecipazione a diversi film di carattere musicale. Non meno significativi sono i successi raggiunti nel medesimo periodo da B. Holly (1936-1959), Fats Domino (n. 1928), Chuck Berry (n. 1931), Little Richard (R. Penniman, n. 1932), B. B. King (n. 1925), e J.L. Lewis (n. 1935) nei concerti dal vivo. La diffusione del loro repertorio avviene tramite la vendita di dischi (determinante è in tal senso la produzione dei brani sui più pratici 45 giri, che intorno al 1955 supererà quella dei vecchi 78 giri), per la presenza sempre maggiore di juke boxes (mobili contenenti giradischi e numerosi dischi, funzionanti a gettone o a moneta) nei locali pubblici e attraverso trasmissioni radiofoniche curate da intraprendenti disc jockeys.
La struttura della m. rock, dal punto di vista compositivo estremamente semplice, è riconducibile, dagli anni Sessanta in poi, ai principi creativi del blues e della m. pop. Inizialmente molti gruppi, tra cui i Beatles e i Rolling Stones, hanno spaziato tra rock, pop e altre correnti musicali, prendendo elementi ora dall'uno ora dall'altro stile.
In Italia, come del resto in gran parte dell'Europa, la m. rock ha avuto un'influenza determinante sulle scelte musicali e discografiche. A un primo fenomeno di assimilazione del rock attraverso la radio e i dischi (i successi di Presley vengono diffusi dalla RCA a partire dal 1958), si è passati successivamente a una produzione autonoma con adattamenti delle musiche originali e la creazione di nuovi brani, sviluppando così un notevole mercato discografico. Tony Dallara (A. Lardera, n. 1936), J. Sentieri (n. 1925), A. Celentano (n. 1938), Bobby Solo (R. Satti, n. 1945) e Little Tony (A. Ciacci, n. 1941) diventano nei primi anni Sessanta alcuni dei rappresentanti del rock italiano. In quello stesso periodo vengono organizzate le tournées delle più famose formazioni rock-pop: a Milano e a Roma si esibiscono, fra gli altri, i Beatles, i Rolling Stones, i Who, i Pink Floyd. Sulla loro scia nascono i primi complessi italiani (i Nomadi, l'Equipe 84, i Camaleonti, la Premiata Forneria Marconi, il Banco del Mutuo Soccorso, ecc.), che orbitano, quale più quale meno, nel campo della m. leggera. Nel 1965 A. Crocetta apre a Roma il Piper, un locale concepito esclusivamente per i nuovi generi musicali: contemporaneamente prendono avvio le trasmissioni radiofoniche dedicate al lancio della m. leggera, tra cui molto celebre Bandiera Gialla, curata da R. Arbore e G. Boncompagni.
Di una certa importanza è stato, dalla fine degli anni Sessanta, il legame di alcuni artisti rock (J. Joplin, 1943-1970; Jefferson Airplane, Grateful Dead, Velvet Underground, P. Smith, n. 1946) sia con i movimenti culturali (si pensi a intellettuali come J. Keruac e A. Ginsberg) sia con i movimenti politici, soprattutto quelli, allora in pieno svolgimento, come la contestazione giovanile e le manifestazioni pacifiste contro la guerra nel Vietnam. La distinzione fra blues, rock e pop esiste ormai, tuttavia, solo a livello teorico e sono pochi i complessi che si attengono scrupolosamente a un unico stile. In una fase più recente il rock si è diviso in varie correnti (hard-rock, punk-rock, jazz-rock, rock melodico, fusion, new wave, funky, rap, ecc.) che, spesso in contrasto con la forma musicale originaria, hanno sviluppato linguaggi ben lontani dai modelli degli anni Sessanta.
Di tale panorama musicale fanno parte complessi come i Led Zeppelin, i Doors, i Soft Machine, i Genesis, gli Yes, i Police, gli U2, i Queen, i Simply Minds, gli Spandau Ballet; più vicina ai moduli del jazz appare una serie di artisti dalle notevoli qualità strumentali, come il tastierista K. Emerson, il chitarrista Pat Metheny (n. 1954), il bassista J. Pastorius (n. 1951-1987) e C. Santana (n. 1947), chitarrista e arrangiatore particolarmente sensibile ai ritmi e alle sonorità sudamericane; mentre tra i cantanti si ricordano J. Cocker (n. 1944), S. Wonder (n. 1950), Tina Turner (A. M. Bullock, n. 1939), Elton John (R. K. Dwight, n. 1947), D. Bowie (D. Jones, n. 1947), e ancora Ray Charles (R. C. Robinson, n. 1930), profondamente legato al blues, Bob Marley (1945-1981), con il suo inconfondibile stile reggae. B. Springsteen (n. 1949), pur improntando lo stile alla m. rock, non è esente da influssi di altri generi, come del resto i Sex Pistols, i Clash e Nina Hagen (n. 1959), dal taglio prettamente punk. Per l'Italia merita di essere citata l'attività di I. Fossati (n. 1951), A. ''Zucchero'' Fornaciari (n. 1956), E. Bennato (n. 1949), G. Nannini (n. 1956) e V. Rossi (n. 1952).
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Musica folk. - L'espressione, derivata dall'inglese folk music o designata semplicemente dall'aggettivo sostantivato folk, indica quel repertorio che, pur avendo attinto profondamente dal patrimonio musicale popolare, è stato successivamente rielaborato e interpretato attraverso la mediazione di generi musicali più recenti (country, rock, pop). Non rientra perciò nell'ambito del folk la m. di tradizione orale delle cosiddette culture ''primitive'', la m. orientale, nonché il folclore musicale delle popolazioni euro-bianche, cioè tutto quel repertorio che ha mantenuto pressoché intatte le proprie peculiarità, senza subire gli influssi della m. europea colta, e che è oggetto di studio dell'etnomusicologia (v. in questa Appendice).
I primi studi sulla m. folk vengono dagli Stati Uniti, dove si sono sviluppati diversi generi, come lo spiritual, legato agli ambienti delle comunità religiose, il blues, che trae origine dai canti di lavoro, il bluegrass e il più generico country western. Intorno agli anni Trenta lo studioso statunitense A. Lomax, unendo le sue ricerche etnomusicologiche con gli studi sulla m. popolare legata all'ambiente urbano delle metropoli statunitensi, ha dato vita al cosiddetto folk revival, alla riscoperta cioè della m. folk. La sua opera è stata ripresa negli anni Cinquanta da P. Seeger, un intellettuale attivo anche come musicista, cui si devono varie ricerche sulla canzone politica e sociale. Si è così sviluppato un filone della m. folk che, partendo dalle canzoni di H. Ledbetter e W. Guthrie, è giunto alla produzione di J. Baez, T. Paxton e B. Dylan.
Negli anni Sessanta, con l'espansione delle case discografiche e il sorgere di nuovi generi musicali, la m. folk si arricchisce di ulteriori elementi, manifestando così il suo tipico carattere eclettico. Un esempio evidente è rappresentato dal festival di m. folk tenuto a Newport nel 1965, dove i tradizionali strumenti acustici vennero in parte sostituiti dalle chitarre elettriche. Negli anni Settanta, oltre ai gruppi folcloristici statunitensi che orbitavano attorno a Nashville, centro per antonomasia della m. country, vengono alla ribalta nuovi artisti che, pur appartenendo alla sfera della m. leggera, inseriscono tematiche popolari nei loro brani e adottano soluzioni strumentali affini a quelle delle formazioni country. Tra i maggiori esponenti di questa corrente si ricordano J. Taylor, Simon & Garfunkel e J. Denver.
Anche in Europa la m. leggera si è ispirata al repertorio folk, sviluppando caratteri peculiari per ogni nazione. In Italia il Festival di Sanremo (prima edizione 1951), sebbene rivolto ai temi della canzone popolare (D. Modugno, C. Villa, Peppino di Capri), si è occupato marginalmente del genere folk. Alla fine degli anni Cinquanta, però, negli ambienti intellettuali italiani si sono formati dei musicisti che hanno mirato al recupero delle tradizioni popolari: a Torino nel 1957 nasce il gruppo dei Cantacronache, mentre a Milano G. Bosio e R. Leydi riscoprono il canto politico. Agli inizi degli anni Sessanta ha origine il Nuovo Canzoniere Italiano (G. Marini, G. Bertelli, I. Della Mea, P. Pietrangeli, D. Del Prete, il Duo di Piadena, ecc.) e nel 1965 ha luogo a Torino il primo Folk Festival, con la presenza di G. Gaber, E. Jannacci, B. Lauzi, G. Paoli e di molti altri cantautori. A Roma il Folkstudio, creato nel 1960 da G. Cesaroni, promuove la riscoperta della m. folk, con il contributo di L. Settimelli, D. Moscati e A. Infantino, allargando successivamente i propri spazi alla nuova generazione di cantautori della m. leggera italiana (E. Bassignano, F. De Gregori, A. Venditti, ecc.). Agli inizi degli anni Settanta F. Guccini e C. Lolli animano a Bologna l'Osteria delle Dame, luogo d'incontro della m. d'autore. Anche F. De Andrè, ispirandosi alle opere dello chansonnier francese G. Brassens, sviluppa tematiche della canzone popolare, mentre fra le interpreti femminili si ricordano M. Carta, impegnata nella ricerca e nell'esecuzione del repertorio tradizionale sardo, e T. Gatta, legata ai temi della canzone romanesca e successivamente a quelli del femminismo.
Un concreto recupero delle tradizioni folcloriche è presente a Napoli nelle canzoni della Nuova Compagnia di Canto Popolare (1967) cui hanno collaborato E. Bennato (passato nel 1976 al gruppo Musicanova), G. Barra, dedicatosi in seguito all'attività teatrale con M. Scaparro, e T. De Sio. Un caso a sé rappresenta A. Branduardi, che unisce elementi del folclore italiano ad altri della musica celtica e del Nord Europa. Particolare interesse merita infine quel filone napoletano che si pone al centro tra teatro e m. e che vede in primo piano le figure del compositore R. De Simone e della cantante-attrice L. Sastri.
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Musica per film. - Il rapporto fra cinema e m. è sempre stato difficile, anche prima che il film acquistasse la dimensione sonora. Del resto il cinema muto non è mai stato veramente tale, perché è stato costantemente accompagnato da suoni: il pianino, un'orchestrina, uno strumento meccanico, un cantante, un rumorista, ecc. Da sempre, insomma, il cinema tende alla dimensione sonora. Si è teorizzato il bisogno di m. nel film muto sostenendo che, poiché il cinema è movimento, non è possibile percepire il movimento senza il suono che l'accompagna: come se, svolgendosi nel tempo, la m. costituisse una specie di terza dimensione del film.
Da quando, nel 1927, il cinema diventa ufficialmente sonoro inizia un periodo frenetico in cui si fa a gara a ''riempire'' il più possibile la colonna sonora. Poi, a poco a poco, il rapporto fra la dimensione visiva e quella acustica si stabilizza. Nei primi tempi la m. è concepita come ''sfondo'' e non come ''commento'' o tanto meno come elemento espressivo, ma poi la situazione si evolve per merito di alcuni compositori illuminati, al di qua e al di là dell'oceano.
Prima dell'ultimo conflitto la m. per film accompagna le immagini con una continuità eccessiva, in una tendenza (specialmente a Hollywood, organizzata industrialmente anche per quanto riguarda il lavoro di compositori, orchestratori, arrangiatori, revisori, ecc.) di tipo sinfonico. Ci si basa soprattutto sull'espandersi colorito della ''bella'' pagina, entro un ambito − reputato dai produttori il più accetto agli spettatori, timorosi di linguaggi moderni − di tipo romantico o post-romantico. Dopo la guerra il panorama cambia dappertutto: la lezione del neorealismo italiano e la tendenza di tante cinematografie ad avvicinarsi più che in passato alla realtà delle cose portano all'uso di una m. più asciutta, più contenuta, più disposta a lasciar parlare le immagini e i silenzi. Alcuni registi (per es. M. Antonioni o I. Bergman) riducono sempre di più i suoni dei loro film in un processo di ''condensazione'' che, lungi dal mortificare la m., la esalta proprio perché non usata genericamente ma calibrata per quella determinata, significativa situazione. Dopo il sinfonismo ''espanso'' dei compositori statunitensi M. Steiner, A. Newman, H. Stothart, D. Tiomkin, F. Waxman, V. Young e altri, musicisti come B. Herrmann, M. Rózsa, E. Gold, E. Bernstein, A. North, L. Rosenman dimostrano come si possa essere drammaticamente efficaci con partiture asciutte e interventi ad hoc.
In Italia, dopo la stagione dei compositori di canzoni e di pagine leggere (soprattutto nel periodo delle commedie d'evasione e dei ''telefoni bianchi'') e quella dei musicisti che attraversano l'esperienza del neorealismo senza però rendersi conto fino in fondo della portata di essa (A. Cicognini, R. Rossellini, G. Rosati; il pioniere della vecchia guardia è comunque E. Masetti), G. Fusco (1906-1968), prematuramente scomparso, segna il passaggio da una m. naturalistica, e comunque di supporto, a una m. psicologica e creativa, mediante l'uso di strumenti singoli o di singolari impasti strumentali, lontana quindi dalla grande orchestra e dal gonfio sinfonismo. Non per niente Fusco fu il musicista fisso di Antonioni.
Mentre l'apporto al cinema di personaggi attivi soprattutto nel campo della m. ''colta'' come G. F. Ghedini, F. Lattuada, G. F. Malipiero, R. Zandonai, I. Pizzetti (e più tardi L. Dallapiccola, A. Lualdi, G. Petrassi, A. Veretti, M. Zafred) è abbastanza occasionale, si affermano alcuni musicisti specializzati come A. F. Lavagnino, C. Rustichelli, A. Trovajoli, P. Piccioni, R. Ortolani. N. Rota (1911-1979), dotato di un'inesauribile vena melodica, non soltanto riesce a materializzare i fantasmi sonori di F. Fellini, ma è anche colui che offre a registi italiani e stranieri puntuali soluzioni, combinando organicamente fra loro immagini e suoni; F. Mannino propone soluzioni moderniste che però si saldano sempre agli insegnamenti dei classici; R. Vlad ricorre al pastiche in maniera creativa; E. Macchi (1928-1992) utilizza linguaggi d'avanguardia. Particolarmente importante M. Nascimbene, che restringe solitamente la sua attenzione a pochi strumenti e accoglie in orchestra effetti caratteristici in funzione di un'intelligente interpretazione dei significati dei film che gli sono affidati. Dagli anni Sessanta Nascimbene si dedica alla creazione e alla registrazione di suoni nuovi, applicandoli con esiti suggestivi a diverse pellicole e alla produzione televisiva dell'ultimo Rossellini.
Intanto in tutto il mondo la m. da film va in crisi in conseguenza dell'affermarsi della m. pop e dei suoi sviluppi, come la disco-music e il rock: i suoni spesso prescindono dal legame drammaturgico e scorrono secondo un flusso continuo, basato sull'appagamento un po' ipnotico del ritmo che afferma continuamente la sua esclusiva presenza; negli anni Settanta a questa tendenza si aggiunge la svolta tecnologica, determinata dall'uso sempre più diffuso di apparati produttori di suoni elettronici, i synthesizers, capaci di straordinarie possibilità creative e mimetiche. Non mancano risultati interessanti ottenuti con essi, come nel caso di The clockwork orange (L'arancia meccanica, 1972, di S. Kubrick), in cui i suoni − prodotti da un'apparecchiatura chiamata Moog- hanno un intenzionale sapore artificiale. I suoni elettronici a dire il vero dominano da molto il panorama musicale e le applicazioni cinematografiche, fin da quando sono stati usati dalle avanguardie storiche; quando però tali apparecchiature diventano accessibili a tutti, il fenomeno genera la proliferazione dei tastieristi, dando luogo, conseguentemente, al dilettantismo. Comunque negli anni Settanta e Ottanta le possibilità tecnologiche sono state talvolta applicate positivamente al cinema; citiamo i risultati di W. Carlos (Shining, 1980, di S. Kubrick), del gruppo Popol Vuh (Nosferatu, 1979, di W. Herzog), del regista-musicista J. Carpenter (Fog, 1980, diretto dallo stesso Carpenter), dei tastieristi-divi come Vangelis (Chariots of fire, Momenti di gloria, 1981, di H. Hudson) e G. Moroder (Flashdance, 1983, di A. Lyne).
L'importanza crescente delle tastiere elettroniche porta, soprattutto negli Stati Uniti, a una reazione, cioè alla riproposta della grande orchestra e delle partiture tradizionali. La nuova spettacolarità hollywoodiana torna così al sinfonismo post-wagneriano specialmente con musicisti come J. Williams, straordinariamente dotato sia nell'esaltazione eroica delle vicende fantascientifiche che nell'intimismo di vicende del quotidiano (alla prima categoria appartengono alcuni noti titoli come Star wars, Guerre stellari, 1977, di G. Lucas, e i suoi seguiti; Close encounters of the third kind, Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977, di S. Spielberg; E.T., 1982, ancora di Spielberg) e J. Goldsmith, che riesce a conciliare le sue propensioni per un linguaggio di chiara derivazione dodecafonica con le esigenze filmiche. Anch'egli ha ottenuto risultati notevoli in popolari pellicole di fantasia come Alien (1979) di R. Scott; Star trek (1980) di R. Wise; Poltergeist (1982) di T. Hooper.
Naturalmente l'uso delle tastiere invade tutte le cinematografie nazionali: anche compositori fedeli alla tradizione accettano le possibilità offerte dalla tecnologia inserendo i sintetizzatori in orchestra, e facendoli così diventare uno strumento fra gli altri, una possibilità in più. Vi fanno ricorso per esempio, in Francia, compositori come M. Jarre, G. Delerue (1925-1992), Ph. Sarde, G. Yared, M. Portal, mentre più o meno legati alla tradizione sono M. Legrand (formatosi nella stagione della nouvelle vague, poi attivo soprattutto negli Stati Uniti) e F. Lai, un melodista fedele al regista C. Lelouch. I nuovi mezzi musicali penetrano in produzioni che lasciano spazio alle novità, come quella tedesca, canadese e giapponese; trovano invece una certa resistenza nell'ambito di cinematografie ''chiuse'' (almeno fino al crollo dei muri) come quelle dell'Europa orientale. Seguendo le trasformazioni dell'industria cinematografica, a Hollywood per contro sono caduti gli steccati fra i vari generi e si può contare su una pattuglia agguerrita di nuovi musicisti di varia origine, quali D. Byrne, Ry Cooder, J. Corigliano, D. Elfman, H. Hancock, J. Horner, M. Kamen, J. Nitzsche.
Negli anni Ottanta (il fenomeno prosegue negli anni Novanta) la m. da film è andata conquistando un'attenzione sempre maggiore, soprattutto da parte dei giovani. Anche se il cinema è in crisi e la m. si imparenta in diversi casi con manifestazioni spurie (di derivazione televisiva, come per es. il videoclip), le colonne sonore fanno talvolta da richiamo al film e sono ascoltate anche in disco cosicché l'industria discografica influisce spesso sulla qualità e sulle caratteristiche di una colonna sonora, puntando alla sua commercialità. Non di rado la scelta di cantanti alla moda contribuisce al successo di alcune produzioni.
Musicisti come i citati Vangelis e Moroder sono diventati internazionalmente noti. Tra i compositori italiani, quello che ha conquistato in questi ultimi anni maggior popolarità in tutto il mondo è E. Morricone, dalle solide basi tecniche, autore di partiture di norma molto attente alle scansioni e ai valori dei singoli film. Musicisti italiani delle leve più recenti sono P. Donaggio, N. Piovani, F. Piersanti, C. Siliotto, A. Centazzo.
Tipico del settore, in tutto il mondo, è il vertiginoso aumento di giovani compositori che lavorano per il cinema, e che quasi sempre non vanno al di là del primo o del secondo incarico. Anche questo è un segno dei problemi e delle contraddizioni che investono il campo della m. da film. Solo i compositori più dotati sono capaci di adeguare il loro stile alle necessità del discorso che si svolge sullo schermo, mentre gli altri si accontentano di soluzioni banalizzanti o indifferenti. Dopo un periodo di deterioramento, si è tornati di recente − in diversi contesti − a impostare seriamente la questione, tenendo presente anche che non necessariamente si richiedono partiture originali, ma risultati ottimi si possono ottenere in determinate circostanze con l'uso di musica preesistente, ossia con il ricorso ai classici, a materiali ''poveri'' (per es. canzoni), al jazz, ecc. Una forma raffinata di utilizzo di m. classica inserita, anzi fusa, in procedimenti moderni si ha nei film dell'inglese P. Greenaway, le cui colonne sonore sono curate soprattutto dal ''minimalista'' M. Nyman. In certi casi si arriva all'assemblaggio di frammenti o alla combinazione eterogenea: nel film L'ultimo imperatore di B. Bertolucci (1987) la colonna sonora, frutto dell'intesa tra il giapponese R. Sakamoto, esponente del pop elettronico, lo statunitense D. Byrne, ex chitarrista di un gruppo rock e il cinese Cong Su, attento al colore locale, riflette quella tendenza alla fusione di apporti che è caratteristica di certa m. d'oggi.
Più feconda appare la possibilità di fondere insieme i due aspetti del rapporto suono-immagine in un risultato sinestetico: interessanti i tentativi compiuti dal regista D. Reggio e dal musicista Ph. Glass in film come Koyaniqatsi (1983) e Powaggatsi (1988). Da sempre del resto si ricerca la corrispondenza tra suono e immagine, considerati dai più attenti due entità non separate ma tendenti a un'''unità ontologica'', in un'ideale realizzazione del vero film sonoro in cui la m. non sia un elemento aggiunto ma costitutivo.
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