Vedi Myanmar dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Collocato tra il subcontinente indiano e la Cina, il Myanmar fino al 2010 era, assieme alla Corea del Nord, uno degli ultimi due stati asiatici ancora quasi totalmente chiusi in se stessi. Ora il paese si presenta come un interessante caso di sistema totalitario che per volontà degli stessi vertici militari si è gradualmente aperto innescando un processo di transizione verso un regime democratico. Nonostante il forte scetticismo mostrato dagli osservatori internazionali in un primo momento, quel che è certo è che il paese sta effettivamente procedendo lungo la linea riformatrice dando vita ad una vera eccezione storica. Il Myanmar dunque si proietta come un attore di rilievo nell’area, puntando a ritrovare il ruolo che aveva rivestito sino all’occupazione inglese, avviata nel 1824. Fino ad allora, infatti, il paese aveva dato dimostrazione di notevole forza bellica dapprima espellendo gli invasori portoghesi, poi resistendo ai tentativi di conquista da parte dell’impero cinese e compiendo a sua volta reiterate invasioni ai danni del confinante Regno del Siam, l’attuale Thailandia. Nel 1962, dopo quattordici anni di governo democratico seguiti all’indipendenza del 1948, i militari riuscirono a prendere il controllo del paese grazie a un colpo di stato e a instaurarvi un regime di natura dittatoriale. La crisi economica scoppiata nel 1987 portò a una grande ondata di proteste che, seppur represse nel sangue, condussero all’indizione, nel 1990, delle prime elezioni libere nel paese dopo trent’anni di dittatura. Dai risultati dello storico appuntamento elettorale, al quale parteciparono più di duecento partiti in rappresentanza delle varie minoranze etniche, emerse chiaramente l’impopolarità della giunta militare. Aung San Suu Kyi, leader della Lega nazionale democratica e figura assai popolare in quanto figlia di Aung San, uno dei due capi della lotta indipendentista birmana, ottenne il 60% delle preferenze, nonostante fosse costretta agli arresti domiciliari. La decisione della giunta militare di non riconoscerne la vittoria, sciogliendo la neo-eletta Assemblea popolare e traendo in arresto la dirigenza della Lega nazionale democratica, creò allora una profonda frattura socio-politica all’interno del paese. Nel novembre del 2010 si sono tenute le prime elezioni multipartitiche in venti anni, circostanza che ha segnato un timido segnale di apertura del regime, nonostante il Partito dell’unione per la solidarietà e lo sviluppo, che sostiene la giunta militare, abbia ufficialmente ottenuto circa l’80% delle preferenze e il voto sia stato denunciato come fraudolento dalla comunità internazionale. Le elezioni suppletive dell’aprile 2012 hanno assegnato 43 dei 45 seggi vacanti in Parlamento alla Lega nazionale democratica guidata da Aung San Suu Kyi, principale partito dell’opposizione birmana e la stessa leader è stata eletta alla camera bassa. Nonostante ciò, l’esercito continua ad esercitare una notevole influenza ed il vero banco di prova saranno dunque le elezioni generali del 2015, quando dallo scontro tra il governo sostenuto dal Partito dell’unione per la solidarietà e lo sviluppo e la Lega nazionale democratica emergeranno alcune probabili risposte sulla credibilità del processo di liberalizzazione politica in atto e sugli sviluppi futuri della politica birmana. Se la tornata elettorale risulterà essere libera e competitiva, con ogni probabilità il partito di Aung San Suu Kyi si ritroverà alla guida del Myanmar, i cui rapporti con l’Occidente godranno di un ulteriore stimolo. Sembra invece improbabile che vengano apportate alla costituzione modifiche tali da permettere alla Lady di ottenere la presidenza, attualmente preclusale a causa dei figli di nazionalità non birmana. Ad oggi gli sforzi del governo birmano sono stati ripagati dall’allentamento delle sanzioni da parte di Stati Uniti e Unione Europea; gli Stati Uniti, in particolar modo, hanno avviato un dialogo diretto con Naypyidaw, funzionale all’implementazione della strategia del rebalancing verso il Pacifico che sta informando la politica estera americana. Se la visita di Barack Obama il 19 novembre 2012, all’indomani della propria rielezione, ha sancito il reingresso del Myanmar nella comunità internazionale dal punto di vista diplomatico, economicamente l’abolizione delle sanzioni da parte di Unione Europea e Stati Uniti ha messo la parola fine all’isolamento del paese. Nell’aprile 2013 Bruxelles ha, infatti, eliminato in toto le sanzioni ad eccezione dell’embargo sulle armi, mentre Washington sta procedendo gradualmente mantenendo in vigore quelle relative ai minerali preziosi. Tali sviluppi denotano una svolta storica se si considera che il lungo periodo di isolamento al quale è stato sottoposto il Myanmar da parte dei paesi euro-atlantici, negli anni passati ha portato Naypyidaw ad avvicinarsi in misura sempre maggiore alla Cina. Nonostante le pressioni esercitate dalle diplomazie occidentali sulla Cina affinchè quest’ultima interrompesse l’assistenza al regime birmano e a esercitare la propria influenza per spingere la giunta militare ad aperture in senso democratico, la Cina non ha infatti rinunciato alle relazioni con il proprio vicino, secondo la celebre formula del ‘Beijing Consensus’ – la via cinese allo sviluppo economico. Tra il 1988 ed il 2012, infatti, Pechino ha versato nelle case birmane mediamente 800 milioni di dollari di investimenti esteri all’anno, per un totale di oltre 20 miliardi. Tuttavia il nuovo contesto accresce la competizione e il governo birmano è meno vincolato. La sospensione forzata nel settembre 2011 della costruzione della diga di Myitsone, progetto da 3,7 miliardi di dollari affidato a due compagnie cinesi, simboleggia il nuovo corso della politica estera birmana; non più dipendente da Pechino, ma aperta all’Occidente e al rinnovato interesse della maggior parte degli stati asiatici, India e Giappone su tutti. Un elemento di criticità che permane tutt’oggi è dato dalla circostanza che, dopo essere stati banditi a seguito delle elezioni del 1990, molti dei partiti che rappresentavano le varie minoranze etniche (specie quelli nella zona orientale del paese, dove risiedono i gruppi karen, shan e karenni) si sono organizzati anche militarmente, forti dei profitti derivanti dal mercato dell’oppio. Sebbene alcuni di essi abbiano negoziato negli anni un accordo di cessate il fuoco in cambio di una certa autonomia a livello locale, la costante repressione di ogni espressione contraria al regime portata avanti in passato ha continuato ad alimentare focolai di ribellione. Il governo birmano, che a differenza del passato si trova oggi ad agire sotto lo scrutinio della comunità internazionale, ha dato segni tangibili della propria volontà di risolvere il conflitto interetnico, ponendosi come obiettivo quello di portare alle urne nel 2015 tutte le minoranze etniche e firmando un accordo per un cessate il fuoco a livello nazionale con diciassette minoranze etniche nel novembre 2013. Resta però difficilmente colmabile la distanza tra le priorità del governo e le istanze delle minoranze a favore di un modello federale. Altra fonte di tensione emersa in modo sempre più cruento nell’ultimo periodo riguarda le violenze perpetrate da frange estremiste della maggioranza buddista ai danni della minoranza musulmana nello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh. Pertanto, nonostante i recenti sviluppi positivi, il permanere di questi fattori di rischio contribuisce a rendere il Myanmar uno dei paesi più fragili dell’area.
La popolazione birmana è molto giovane e composta per oltre il 50% da persone al di sotto dei trent’anni d’età, mentre gli ultrasessantenni rappresentano poco più dell’8%. Tuttavia, fino a che non saranno resi pubblici i dati del censimento condotto nella primavera del 2014, il primo dal 1983, continuerà a regnare grande incertezza. Nel 1983, infatti, non sono state incluse le aree periferiche colpite da insurrezioni armate e quindi era dal 1931 che non veniva eseguito un censimento delle minoranze etniche: i dati di allora avevano rilevato che l’etnia maggioritaria birmana comprendeva il 65% della popolazione, quella karen il 9%, il gruppo dei shan il 7%, e i meno numerosi chin, mon e kachin una quota intorno al 2%. I risultati preliminari indicano che il numero totale degli abitanti era sovrastimato, attestandosi a 51,4 milioni anziché attorno ai 60. Anche i dati relativi all’ambiente socio-economico sono incerti: l’alfabetizzazione, ufficialmente dichiarata al 92,6%, è probabilmente sovrastimata, dato che i fondi dedicati all’istruzione sono ancora scarsi e il lavoro minorile è un fenomeno diffuso. Negli anni Novanta, inoltre, la giunta ha chiuso molte università per evitare il rafforzarsi del dissenso e, nonostante le riaperture registrate all’inizio del Ventunesimo secolo, il sistema universitario resta fortemente arretrato. Anche sulla corruzione resta ancora molta strada da fare, ma la direzione sembra essere quella giusta come dimostrano i risultati dell’indice di corruzione percepita di Transparency International: dal penultimo posto di tre anni prima, il paese nel 2013 ha registrato una performance migliore rispetto ad altri diciotto stati. Altra criticità è il flusso di rifugiati verso i paesi vicini. Anche in questo campo si sono però registrati segnali di cambiamento in senso positivo: il nuovo governo ha rilasciato centinaia di prigionieri politici, ha varato leggi che rendono possibile formare sindacati o altre forme di associazione, riducendo l’incentivo ad abbandonare il paese. Da segnalare anche l’abolizione dell’ufficio della censura preventiva e la liberalizzazione dei quotidiani privati nella primavera del 2013 e dei visti ai giornalisti stranieri che ora possono muoversi senza restrizioni.
Attualmente il Myanmar sta vivendo una fase di forte espansione, avviandosi a chiudere il 2014 con una crescita: nel 2014 il pil è cresciuto dell’8,5%. Tuttavia, un’economia ancora fortemente legata al settore agricolo e lo scarso sviluppo del capitale umano, unite all’inadeguatezza delle infrastrutture e a una debole domanda interna, provocata dal basso pil pro capite, sono punti di debolezza strutturali ancora lungi dall’essere superati. Se le riforme verranno implementate, però, l’economia del Myanmar è destinata a subire profonde e rapide trasformazioni nel breve-medio termine: entro il 2030 il pil potrebbe quadruplicarsi, i consumatori passare da 2 a 19 milioni, gli investimenti esteri ammontare a 170 miliardi di dollari e 10 milioni di birmani passare a professioni non agricole. Per quanto riguarda gli scambi commerciali, Cina e Thailandia sono i principali partner del paese; la prima soprattutto come fornitore (nel 2015 circa il 30% dell’import) e la seconda come mercato per le esportazioni birmane (nel 2013 quasi la metà del totale). Per quanto concerne gli investimenti, invece, Pechino fino all’inizio della transizione ha investito massicciamente nel settore dell’energia nel quale, nell’anno fiscale conclusosi nel marzo 2010, ha riversato più di otto miliardi di dollari – una quantità di denaro pari ai due terzi di tutti gli investimenti cinesi in Myanmar nei vent’anni precedenti. La gran parte di questi capitali è stata destinata al settore dell’energia idroelettrica, che da solo ha assorbito circa cinque miliardi di dollari, mentre la restante parte è stata investita principalmente nel gas, nel petrolio e nel settore minerario. Tuttavia l’anno fiscale 2012/2013 ha mostrato che il quadro sta cambiando rapidamente tanto per quanto concerne la provenienza dei capitali, quanto in relazione al settore. Stanno, infatti, emergendo paesi asiatici come Vietnam e Singapore e occidentali come i Paesi Bassi, mentre manifatturiero e turismo stanno guadagnando terreno rispetto al settore dell’energia.
Il paese gode di una stabile indipendenza energetica, garantita dalle ingenti riserve petrolifere e di gas naturale, stimate rispettivamente in 50 milioni di barili e 280 miliardi di piedi cubi, che gli permettono di esportare le eccedenze. Nel secondo trimestre del 2014, per esempio, le esportazioni di gas naturale hanno rappresentato il 42% dell’export totale. Il consumo interno è invece basato per il 75,5% sull’utilizzo di biomasse, dal momento che il Myanmar detiene un’area forestale di circa 350.000 km², ovvero più della metà della superficie totale del paese. Il vero potenziale energetico del paese, non ancora adeguatamente sviluppato, è infine rappresentato dall’idroelettrico, che dati ufficiali del 2005 descrivono come sfruttato solamente per lo 0,5% dell’effettiva capacità. Gli ingenti capitali che Pechino vi sta destinando potrebbero rendere verosimile un rapido sviluppo di tale settore, anche se le resistenze già evidenziate da parte delle comunità locali e le difficoltà negoziali rappresentano degli ostacoli.
Il settore della difesa in Myanmar beneficia di massicci investimenti statali, sia in termini economici che di risorse umane. L’8% circa della popolazione compone l’esercito del paese, che ha in dotazione oltre 5000 carri armati. L’obiettivo primario delle forze armate è il mantenimento della sicurezza interna, messa a repentaglio dagli scontri con le minoranze etniche. Negli ultimi anni tale minaccia è aumentata perché alcuni gruppi, che precedentemente avevano accettato il cessate il fuoco con la giunta in cambio della promessa di avere una maggiore autonomia e benefici economici, hanno rivisto la loro politica e hanno ripreso le attività di guerriglia contro l’esercito. Attualmente i negoziati stanno procedendo, ma le complicazioni e le incertezze restano. La questione delle minoranze è cruciale anche per quanto riguarda i rapporti con la Cina. L’offensiva lanciata dall’esercito birmano nel 2009 contro i ribelli kokang, di etnia cinese e organizzati militarmente nell’Esercito dell’alleanza democratica del Myanmar (Mndaa), ha fatto salire la tensione con Pechino, che ha visto affluire nel proprio territorio decine di migliaia di profughi in fuga. Ancora a inizio 2013 le tensioni con le comunità kachin al confine con la provincia cinese dello Yunnan hanno richiesto misure d’urgenza da parte di Pechino sul piano diplomatico e su quello militare. Tali episodi non hanno tuttavia pregiudicato la relazione tra i due vicini: la Cina non è intenzionata a rompere i rapporti con uno stato tramite il quale può affacciarsi direttamente sull’Oceano Indiano e perseguire così la strategia dei ‘due oceani’, che consente a Pechino di aumentare la sua proiezione navale e ridurre tempi e costi di parte delle importazioni provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente
Nel novembre del 2005, senza preavviso alcuno, la giunta militare ha deciso di trasferire la capitale presso la cittadina di Pyinmana, collocata nel centro del paese, 320 chilometri a nord della vecchia capitale Rangoon. Pyinmana è stata poi ribattezzata Naypyidaw, che in birmano significa ‘città del re’. Sebbene già nel 2002 vi fosse stato trasferito il quartier generale delle forze armate, la gran parte degli analisti internazionali, così come i diplomatici di stanza a Rangoon e gli stessi funzionari governativi locali, non avevano previsto una decisione tanto drastica e repentina. Oggi la nuova capitale ospita tutte le sedi governative e sta attraversando una fase di eccezionale espansione demografica e urbanistica, favorita dall’ingente mole di finanziamenti provenienti non solo dal governo, ma anche dalla Cina, che ha stanziato per esempio i cento milioni di dollari previsti per la costruzione di un nuovo aeroporto. Le principali motivazioni che avrebbero spinto il regime alla decisione di trasferire la capitale sembrano essere state essenzialmente tre: la prima, di carattere strategico, consiste nella maggior sicurezza di Naypyidaw rispetto a Rangoon, che può essere attaccata più facilmente via mare; la seconda riguarda invece l’obiettivo di aumentare il controllo sulle zone periferiche, dove operano i vari gruppi etnici ribelli; la terza e ultima motivazione si può ricondurre alla possibilità di isolare i funzionari governativi dagli ambienti anti-regime tradizionalmente presenti a Rangoon.