Vedi Myanmar dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il Myanmar, Birmania fino al 1989 – anno in cui il governo decise di modificare molti nomi ereditati dall’Impero britannico – è uno stato del Sud-Est asiatico, collocato tra il subcontinente indiano e la Cina. Precedentemente all’occupazione inglese, avviata nel 1824, aveva dato dimostrazione di notevole forza bellica, poiché dapprima ricacciò gli invasori portoghesi e poi resistette ai tentativi di conquista da parte dell’impero cinese, compiendo a sua volta reiterate invasioni ai danni del confinante regno del Siam.
Nel 1962, dopo 14 anni di governo democratico seguiti all’indipendenza del 1948, i militari riuscirono a prendere il controllo del paese con un colpo di stato e a instaurare un regime dittatoriale. La crisi economica scoppiata nel 1987 ha scatenato una grande ondata di proteste che, seppur represse nel sangue, hanno portato, nel 1990, alle prime elezioni libere dopo trent’anni. Dai risultati dello storico appuntamento elettorale, al quale parteciparono più di 200 partiti in rappresentanza delle varie minoranze etniche, emerse l’impopolarità della giunta militare. Aung San Suu Kyi, leader della Lega nazionale democratica e figura assai popolare in quanto figlia di Aung San, uno dei due capi della lotta indipendentista birmana, ottenne il 60% delle preferenze, nonostante fosse costretta agli arresti domiciliari. La decisione della giunta militare di non riconoscerne la vittoria, sciogliendo l’eletta Assemblea popolare e traendo in arresto la dirigenza della Lega nazionale democratica, creò una profonda frattura socio-politica. Si è dovuti arrivare al novembre del 2010 perché si tenessero di nuovo elezioni multipartitiche. Si è trattato però soltanto di un timido segnale di apertura del regime, benché il Partito dell’unione per la solidarietà e lo sviluppo, che sostiene la giunta militare, abbia ufficialmente ottenuto circa l’80% delle preferenze e il voto sia stato denunciato come fraudolento dalla comunità internazionale. Le elezioni suppletive dell’aprile 2012 hanno assegnato 43 dei 45 seggi vacanti in Parlamento alla Lega nazionale democratica guidata da Aung San Suu Kyi, principale partito dell’opposizione birmana: nonostante ciò, il potere rimane ancora saldamente nelle mani della giunta militare guidata da Thein Sein. Il vero banco di prova saranno dunque le elezioni generali del 2015, quando la sfida tra il governo sostenuto dal Partito dell’unione per la solidarietà e lo sviluppo e la Lega nazionale democratica renderà più o meno credibile il processo di liberalizzazione politica in atto e farà luce sugli sviluppi futuri della politica birmana. In effetti, nonostante l’iniziale scetticismo degli osservatori internazionali, il paese sta realizzando una transizione di regime dall’alto verso il basso. Tra il 2011 e il 2012 gli sforzi del governo birmano sono stati ricompensati con la riduzione delle sanzioni da parte di Usa e Unione Europea. Washington, in particolar modo, ha avviato un dialogo diretto con Naypyidaw (capitale dal 2005), funzionale alla strategia del rebalancing verso il Pacifico che guiderà la loro politica estera nei prossimi anni. Se la visita in Myanmar del presidente Barack Obama il 19 novembre 2012, all’indomani della rielezione, ha sancito il reingresso del paese nella comunità internazionale, l’abolizione parziale delle sanzioni da parte di Unione Europea e Usa ha messo la parola fine al suo isolamento economico. Nell’aprile 2013 Bruxelles ha eliminato in toto le sanzioni con l’eccezione dell’embargo sulle armi, mentre Washington sta procedendo gradualmente: sono ancora in vigore quelle sui minerali preziosi. Il lungo isolamento al quale è stato sottoposto il Myanmar da parte dei paesi euroatlantici ha portato Naypyidaw ad avvicinarsi in misura sempre maggiore alla Cina. Nonostante le pressioni delle diplomazie occidentali affinché sospendesse l’assistenza al regime birmano, la Cina non ha rinunciato alle relazioni con lo stato vicino, secondo la celebre formula del ‘Beijing Consensus’, la via cinese allo sviluppo economico. Negli ultimi 25 anni, Pechino ha versato nelle casse birmane all’incirca 800 milioni di dollari di investimenti all’anno, per un totale di oltre 20 miliardi. Tuttavia i recenti sviluppi accrescono la competizione e il governo birmano è meno vincolato. La sospensione nel settembre 2011 della diga di Myitsone, progetto da 3,7 miliardi di dollari affidato a due compagnie cinesi, incarna il nuovo corso della politica estera birmana: la preferenza accordata alle ragioni degli ambientalisti in barba alle vivaci proteste di Pechino ha stupito la stessa popolazione birmana.
Sul processo di ‘normalizzazione’ grava però la circostanza che, dopo essere stati banditi a seguito delle elezioni del 1990, molti partiti che rappresentano le varie minoranze etniche (specie quelli nella zona orientale del paese, dove risiedono i gruppi Karen, Shan e Karenni) si sono organizzati anche militarmente, forti dei profitti derivanti dal mercato dell’oppio. Sebbene alcuni di essi abbiano negoziato negli anni un accordo di cessate il fuoco in cambio di una certa autonomia, la repressione attuata dal regime contro la libertà di espressione ha continuato ad alimentare focolai di ribellione. Il governo birmano, che a differenza del passato si trova oggi ad agire sotto lo scrutinio della comunità internazionale, ha dato segni tangibili della volontà di risolvere il conflitto interetnico, ponendosi come obiettivo quello di portare alle urne nel 2015 tutte le minoranze. In quest’ottica è stato firmato un accordo per un cessate il fuoco a livello nazionale con 17 minoranze il 2 novembre 2013. Un’altra fonte di tensione è alimentata dalle violenze di frange estremiste della maggioranza buddista ai danni della minoranza musulmana nello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh.
La popolazione birmana – sulle cui statistiche regna grande incertezza – è molto giovane e composta per oltre il 50% da persone al di sotto dei trent’anni d’età. Gli ultrasessantenni rappresentano poco più dell’8%. Dal 1931 non viene eseguito un censimento delle minoranze etniche: i dati di allora avevano rilevato che l’etnia birmana comprendeva il 65% della popolazione,
quella Karen il 9%, il gruppo dei Shan il 7%, e i meno numerosi Chin, Mon e Kachin si attestavano su una quota del 2% circa. Tuttavia è in programma dal 30 marzo 2014 il primo censimento, dopo quello del 1983, che per 12 giorni impegnerà oltre 100.000 addetti. Anche i dati relativi all’ambiente socio-economico sono incerti: l’alfabetizzazione, ufficialmente dichiarata al 92%, è probabilmente sovrastimata, dato che i fondi dedicati all’istruzione sono ancora scarsi e il lavoro minorile è un fenomeno diffuso. Negli anni Novanta, inoltre, la giunta ha chiuso molte università per evitare il rafforzarsi del dissenso e, nonostante le riaperture registrate all’inizio del 21° secolo, il sistema universitario resta fortemente arretrato. Il fenomeno della corruzione, sviluppato a tutti i livelli dell’amministrazione politica e statale, è così diffuso da fare del Myanmar il quinto stato più corrotto al mondo, dietro Sudan, Afghanistan, Corea del Nord e Somalia. Ciononostante qualche miglioramento a partire dall’inizio della transizione si è potuto apprezzare: solo due anni fa il paese si classificava penultimo. Altro punto critico, diretta conseguenza della repressione che si abbatte su dissidenti e minoranze etniche, è il flusso di rifugiati che da Myanmar si riversa sui paesi vicini, così come l’alto numero di sfollati e di apolidi – pari rispettivamente a 429.000 e oltre un milione di persone. Nel 2012 il nuovo governo ha provveduto al rilascio di centinaia di prigionieri politici, ha varato alcune leggi che rendono possibile organizzare sindacati o altre forme di associazione. In più è stata abolita la censura preventiva e sono stati liberalizzati i quotidiani privati nella primavera del 2013. Meno restrittivi anche i visti ai giornalisti stranieri anche se molte zone del paese, attraversate da disordini e guerriglia, non sono raggiungibili.
Il regime non pubblica né rende noti i dati che descrivono le performance economiche del paese e i capitoli del bilancio governativo. Si stima, tuttavia, che le spese maggiori siano destinate alle forze armate e al settore delle infrastrutture, soprattutto da quando è stata decisa la costruzione della nuova capitale, Naypyidaw.
L’inadeguatezza delle infrastrutture rappresenta uno dei principali fattori di debolezza del Myanmar, unitamente alla scarsa domanda interna, provocata dal basso pil pro capite, e alla cronica insufficienza di capitali e investimenti. Superando Singapore, la Cina è diventata negli ultimi anni il secondo partner commerciale del Myanmar, dopo la Thailandia. Pechino negli scorsi anni ha investito massicciamente nel settore dell’energia nel quale, nell’anno fiscale conclusosi nel marzo 2010, ha riversato più di otto miliardi di dollari – una quantità di denaro pari ai due terzi di tutti gli
investimenti cinesi in Myanmar nei vent’anni precedenti. La gran parte di questi capitali è stata destinata al settore dell’energia idroelettrica, che ha assorbito circa cinque miliardi di dollari, mentre la parte restante è stata investita principalmente nel gas, nel petrolio e nel settore minerario. Tuttavia l’ultimo anno fiscale birmano 2012-13 mostra che il quadro sta cambiando rapidamente tanto per quanto concerne la provenienza dei capitali, quanto in relazione al settore. Stanno emergendo partner asiatici come Vietnam e Singapore e occidentali come i Paesi Bassi, mentre settore manifatturiero e turismo stanno guadagnando terreno rispetto al comparto energetico. Se le riforme verranno implementate, l’economia del Myanmar è destinata a subire profonde e rapide trasformazioni nel breve e medio termine: entro il 2030 il pil potrebbe quadruplicarsi, i consumatori passare da 2 a 19 milioni, gli investimenti esteri ammontare a 170 miliardi di dollari e 10 milioni di birmani potrebbe lasciare l’agricoltura per altri mestieri.
Il paese gode dell’indipendenza energetica, garantita dalle ingenti riserve petrolifere e di gas naturale, stimate rispettivamente in 50 milioni di barili e 280 miliardi di piedi cubi, che permettono di esportare le eccedenze. Il consumo interno è invece basato per il 75,5% sull’utilizzo di biomasse, dal momento che il Myanmar possiede un’area forestale di circa 350.000 km2, ovvero più della metà della superficie totale del paese. Il vero potenziale energetico del paese, non ancora adeguatamente sviluppato, è infine rappresentato dall’idroelettrico, che, secondo dati ufficiali del 2005, è sfruttato solamente per lo 0,5% dell’effettiva capacità. Gli ingenti capitali che Pechino vi sta destinando potrebbero rendere verosimile un rapido sviluppo, anche se le resistenze delle comunità coinvolte rappresentano un serio ostacolo.
Il settore della difesa in Myanmar beneficia di massicci investimenti statali, sia in termini economici sia di risorse umane. Ben l’8% circa della popolazione compone l’esercito, che ha in dotazione oltre 5000 carri armati. Il primo obiettivo delle forze armate è mantenere la sicurezza interna, messa a repentaglio dagli scontri con le minoranze etniche, in particolare con l’Esercito di liberazione nazionale della minoranza Karen. Negli ultimi anni la minaccia è cresciuta perché alcuni gruppi, che precedentemente avevano accettato il cessate il fuoco in cambio di una maggiore autonomia e di benefici economici, hanno giudicato gli accordi inattesi e hanno ripreso la guerriglia.
La questione delle minoranze è cruciale anche per quanto riguarda i rapporti con la Cina. L’offensiva lanciata dall’esercito birmano nel 2009 contro i ribelli Kokang, di etnia cinese, organizzati nell’Esercito dell’alleanza democratica del Myanmar (Mndaa), ha fatto salire la tensione con Pechino, che ha visto affluire nel proprio territorio decine di migliaia di profughi. Ancora a inizio 2013 le tensioni con le comunità Kachin al confine con la provincia cinese dello Yunnan hanno richiesto misure d’urgenza da parte di Pechino sia sul piano diplomatico sia su quello militare. Questi episodi non hanno tuttavia pregiudicato la relazione tra i due paesi, visto che la Cina non è intenzionata a rompere i rapporti con uno stato attraverso il quale può affacciarsi sull’Oceano Indiano. Ciò si inquadra nella strategia dei ‘due oceani’, che consente a Pechino di aumentare la sua proiezione navale e ridurre tempi e costi di parte delle importazioni provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente.
Nel novembre del 2005, senza preavviso alcuno, la giunta militare ha deciso di trasferire la capitale presso la cittadina di Pyinmana, collocata nel centro del paese, 320 chilometri a nord della vecchia capitale Rangoon. Pyinmana è stata poi ribattezzata Naypyidaw, che in birmano significa ‘città del re’. Sebbene già nel 2002 vi fosse stato trasferito il quartier generale delle forze armate, la gran parte degli analisti internazionali, così come i diplomatici di stanza a Rangoon e gli stessi funzionari
governativi locali, non avevano previsto una decisione tanto drastica e repentina. Oggi la nuova capitale ospita tutte le sedi governative e sta attraversando una fase di eccezionale espansione demografica e urbanistica, favorita dall’ingente mole di finanziamenti provenienti non solo dal governo, ma anche dalla Cina, che ha stanziato, per esempio, i cento milioni di dollari previsti per la costruzione di un nuovo aeroporto. Il regime avrebbe disposto il trasferimento della capitale per motivi diversi: prima di tutto di carattere strategico, ossia perché Naypyidaw è più sicura rispetto a Rangoon, che può essere attaccata più facilmente via mare. In secondo luogo si aumenta così il controllo sulle zone periferiche, dove operano i vari gruppi etnici ribelli. Infine si possono in questo modo isolare i funzionari governativi dagli ambienti antiregime attivi a Rangoon.