Nabide
Re di Sparta, s’impadronì del potere con l’inganno nel 206 a.C., succedendo a Macanida nella tutela del giovane Pelope, figlio del re Licurgo. Dopo la morte di Pelope, che si sospetta da lui causata, assunse il titolo di re. Come Cleomene III, al cui audace riformismo ispirò la sua politica, si sforzò di vincere l’opposizione dei ceti possidenti mediante il favore di quelli più poveri, ai quali distribuì le terre che aveva confiscato ai suoi avversari. Al fine di risolvere a suo favore il conflitto con la lega achea, che, abbandonata le neutralità, aveva aderito alla guerra contro la Macedonia iniziata da Roma nel 200 a.C., affrancò un grande numero di iloti, che arruolò nel suo esercito, e strinse alleanza con Filippo V, ottenendo in compenso la custodia di Argo, nella quale introdusse riforme analoghe a quelle che aveva introdotto a Sparta. Convintosi della scarsa utilità di quest’alleanza, venne a un accordo con i Romani; che tuttavia, essendo poco disposti a tollerare che in una vicina provincia si prendessero iniziative atte a sconvolgere l’ordine sociale, incoraggiarono la decisione di muovere guerra al tiranno di Sparta, presa a Corinto nel 195 dagli altri Greci, ai quali assicurarono il decisivo contributo delle legioni agli ordini (dall’estate del 198) del console Tito Quinzio Flaminino, costringendo N. a chiedere la pace, nonostante la fiera resistenza che aveva opposto alle truppe del console e degli alleati greci. Nel 193 N. riprese le ostilità contro gli Achei, accostandosi agli Etoli e ad Antioco III di Siria. Tuttavia, cercò di evitare uno scontro aperto con Roma, della quale aveva riacceso l’ostilità. Per conseguenza gli Etoli, decisi a contrastare con ogni mezzo l’imperialismo romano, presero a diffidare di lui, e nel 192 lo fecero uccidere a tradimento da un loro inviato.
Nel cap. x (§ 10) del libro I dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio M. include N. tra i tiranni che hanno meritato di essere «sommamente vituperati», il cui elenco, accanto a quelli di Falaride e di Dionisio, ospita anche il nome di Cesare. Ciononostante, nel cap. ix (§ 19) del Principe, dedicato al «principato civile» (→ principato), il giudizio viene rovesciato e N. è considerato un significativo esempio dei principi che hanno potuto vincere ogni difficoltà per aver avuto «il populo amico» (tesi ribadita in Discorsi I xl), benché sia impossibile dire se il suo «principato» meriti l’attributo di «civile», che lo scrittore riserva (§ 1) ai principati retti da coloro che si sono impadroniti del potere senza «scelleratezza o altra intollerabile violenzia». Può essere utile avvertire che anche in questo capitolo con il termine populo M. intende riferirsi alla classe sociale che, per la ragione spiegata con estrema chiarezza subito dopo (§ 2), contrappone ai «grandi»:
Perché in ogni città si truovono questi dua umori diversi: e nasce, da questo, che il populo desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi ed e’ grandi desiderano comandare e opprimere el populo.
Chi di una repubblica, in cui lo scontro sociale non possa più essere mediato dalle istituzioni, intenda fare un principato sarà dunque costretto a scegliere i propri alleati, e l’unica scelta che conferisca stabilità al suo potere è quella mediante la quale conquista il favore del popolo annientando la prepotenza dei grandi, come aveva fatto Nabide. Appare, tuttavia, difficile comprendere su quali basi lo scrittore fondi il nuovo giudizio che dà del riformatore spartano, ritenuto dagli storici antichi pervenutici un abominevole tiranno, profondamente odiato dai sudditi. Ragioni inerenti alla tradizione manoscritta dei testi greci e alla rarità (o parzialità) delle traduzioni inducono a escludere che abbia avuto conoscenza della maggior parte dei luoghi, e in particolare di Polibio (Storie XIII vi-viii, XVI xiii, XVIII xvii 1-5, XXI xi 10) e di Diodoro (XXVII i, XXVIII xiii), che avrebbero potuto metterlo in imbarazzo. Di Polibio non avrà avuto neppure occasione di leggere IV lxxxi 12-14, che non figura nella lacunosa traduzione dei primi cinque libri delle Storie dovuta a Niccolò Perotti, stampata a Roma nel 1473 e a Venezia nel 1498. Tuttavia, è impossibile che ignorasse, come è del resto dimostrato da Discorsi I x, la durissima condanna reperibile tanto nella plutarchea Vita di Tito Quinzio Flaminino (xiii), tradotta in latino da Guarino Veronese e inclusa nella raccolta delle Vite curata da Giovanni Antonio Campano, più volte ristampata dopo il 1470, quanto nella quarta deca liviana (XXXIII xliv 8, XXXIV xxxii 3). E mentre si può comprendere che il grande Fiorentino abbia considerato con diffidenza il giudizio di uno storico acheo, desta sorpresa la scarsa considerazione in cui tenne il giudizio di Livio, dalla cui opera aveva ricavato, come ha notato Laurence Arthur Burd nel suo prezioso commento, le rare notizie che Principe ix fornisce sul signore di Sparta. Benché nessuna testimonianza potesse invocare per giustificare il mutamento imposto all’immagine del «tiranno», ammettere che fosse universalmente odiato dovette, tuttavia, sembrare a M. incompatibile con la resistenza opposta dalla città da lui governata all’«ossidione di tutta Grecia e di uno esercito romano vittoriosissimo», comandato da Tito Quinzio Flaminino, che aveva appena sconfitto a Cinocefale le agguerrite truppe di Filippo V di Macedonia. In Discorsi I xl 37-38 si legge:
Donde nasce che quegli tiranni che hanno amico l’universale e inimici i grandi, sono più sicuri, per essere la loro violenza sostenuta da maggiori forze che quella di coloro che hanno per inimico il popolo e amica la nobilità. Perché con quello favore bastono a conservarsi le forze intrinseche; come bastarono a Nabide tiranno di Sparta, quando tutta Grecia e il popolo romano lo assaltò: il quale, assicuratosi di pochi nobili, avendo amico il popolo, con quello si difese, il che non arebbe potuto fare avendolo inimico.
Il passo ripete la tesi esposta nel cap. ix del Principe e conferma il ruolo esemplare assegnato a N. nonostante l’unanime esecrazione degli storici greci e latini. Poiché la quarta deca liviana costituisce la «fonte» da cui M. ha tratto – tanto nel Principe, quanto nei Discorsi e nell’Arte della guerra – tutto ciò che si riferisce a questo cruciale periodo della storia di Sparta, è ragionevole presumere che in quella stessa deca abbia trovato motivo di capovolgere il giudizio dell’autore. Non era stato, del resto, lo stesso Livio a narrare che, quando N. aveva esposto le condizioni di pace pretese dai Romani, i suoi sudditi prope una voce omnes nihil responderi et bellum geri iusserunt («quasi con una sola voce tutti dissero di volere che non si rispondesse nulla e che si facesse la guerra», XXXIV xxxvii 4)? Di un così eroico comportamento lo storico latino aveva indicato la ragione nelle riprovevoli iniziative per mezzo delle quali il «tiranno» – che non aveva esitato a ricorrere alla menzogna per rendere più pesanti e vergognose le richieste di Tito Quinzio (XXXIV xxxvii 3) – si era procurato il favore degli schiavi da lui affrancati e di tutti quelli che erano entrati in possesso dei beni confiscati ai cittadini più ricchi (XXXIV xxxvi 5-6). Ma qualsiasi cosa se ne dovesse pensare sul piano del diritto e della morale, nessuno poteva dimenticare che con quelle rivoluzionarie iniziative N. aveva ottenuto il consenso che gli aveva permesso di opporre una strenua resistenza a nemici tanto potenti. E, soprattutto, non lo poteva dimenticare l’autore dell’opuscolo sui principati.
I capp. xxii-xl del trentaquattresimo libro liviano narrano con dovizia di particolari la guerra condotta dal console romano contro il riformatore spartano. Sui singoli episodi del conflitto non mette conto soffermarsi, ma meritano attenzione gli argomenti con i quali Tito Quinzio giustifica la sua propensione a concedere una pace alla quale gli alleati greci, convinti perseuerandum in bello esse et tollendum tyrannum («che si dovesse continuare la guerra e liberarsi del tiranno»), erano – e rimasero – fortemente contrari (XXXIV xxxiii 5-7; xlviii 5-6):
Ipsius imperatoris animus ad pacem inclinatior erat. Videbat enim compulso intra moenia hoste nihil praeter obsidionem restare, eam autem fore diuturnam; non enim Gytheum, quod ipsum tamen traditum, non expugnatum esset, sed Lacedaemonem, ualidissimam urbem uiris armisque, oppugnaturos. Unam spem fuisse si qua admouentibus exercitum dissentio inter ipsos ac seditio excitari posset; cum signa portis prope inferri cernerent, neminem se mouisse.
L’animo dello stesso comandante romano propendeva piuttosto per la pace. Vedeva infatti che se il nemico fosse stato costretto entro le mura, non sarebbe restata altra via che l’assedio, il quale peraltro sarebbe stato lungo; essi infatti avrebbero dovuto attaccare non Giteo, che comunque si era arresa e non era stata espugnata, ma Sparta, città fortissima per uomini e armi. C’era stata un’unica speranza, ossia se fosse stato possibile suscitare una qualche discordia e rivolta tra gli Spartani avvicinando l’esercito alla città; ma quando avevano visto le insegne spinte fin quasi alle loro porte, nessuno si era mosso (XXXIV xxxiii 9-11).
È probabile, come lascia intendere Livio (XXXII xxxii 6-7, XXXIV xxxiii 12-14), che Tito Quinzio abbia voluto chiudere al più presto lo scontro; ma il grande Segretario non avrà certo sottovalutato le sue dichiarazioni circa la tenace resistenza degli Spartani, che avevano lasciato trascorrere invano una facile occasione di rovesciare il «tiranno» e respinto a lungo ogni trattativa di pace. Se così stavano le cose, era lecito mettere in dubbio ciò che Livio aveva detto di N., che, secondo il resoconto di XXXIV xxvii 3, ne quid intestini motus oreretur, metu et acerbitate poenarum tenebat animos («per evitare che scoppiasse qualche rivolta interna, opprimeva l’animo dei cittadini con il timore e l’asprezza delle pene»). Dunque il testo liviano doveva essere interpretato. E M. lo interpretò mediante i criteri che aveva tratto da «una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche» (Principe, dedica), giungendo alla conclusione che, consapevolmente o no, Livio era venuto meno all’austero proposito enunciato nella praefatio.
I capitoli della quarta deca dedicati al primo colloquio che N. aveva avuto con il console (poi proconsole) romano permettono di comprendere da che cosa l’autore del Principe si sentisse autorizzato a operare con tanta sicurezza una sorta di radicale critica della sua fonte. Senza indugiare sui sottili argomenti giuridici con i quali N. respinge le accuse dei Romani, ecco come riassume le grandi linee delle rivoluzionarie riforme che esacerbavano l’ostilità della conservatrice lega achea:
Ceterum nomen tyranni et facta me premunt, quod seruos ad libertatem uoco, quod in agros inopem plebem
deduco.
Ma su di me pesano il nome di tiranno e le mie azioni, perché chiamo gli schiavi alla libertà e assegno delle terre ai plebei più poveri (XXXIV xxxi 11).
Queste le iniziative per le quali sostiene di potersi inscrivere nella tradizione licurgica, respingendo l’accusa di aver sovvertito il pàtrion politèuma («la costituzione tramandata dai padri»):
Quod ad multitudinem seruis liberandis auctam et egentibus diuisum agrum attinet [...] dico [...] illud me more atque instituto maiorum fecisse
Quanto all’aumento della popolazione per mezzo della liberazione degli schiavi e della distribuzione di terre agli indigenti, affermo di avere agito secondo la tradizione e l’insegnamento dei nostri avi (XXXIV xxxi 14-16).
Conclude la sua autodifesa un’esortazione che, sotto la veste di un illuminato relativismo, cela una radicale critica della costituzione di Roma:
Nolite ad uestras leges atque instituta exigere ea que Lacedaemone fiunt. Nihil comparare singula necesse est. Vos a censu equitem, a censu peditem legitis et paucos excellere opibus, plebem subiectam esse illis uultis; noster legum lator non in paucorum manu rem publicam esse uoluit, quem uos senatum appellatis, nec excellere unum aut alterum ordinem in ciuitate, sed per aequationem fortunae ac dignitatis fore credidit ut multi essent qui arma pro patria ferrent. Non valutate i provvedimenti presi a Sparta secondo le vostre leggi e le vostre istituzioni. Non è affatto necessario confrontarle una per una. Voi scegliete i cavalieri e i fanti sulla base del censo, e volete che pochi si segnalino per la loro potenza e che la plebe sia loro sottomessa; il nostro legislatore ha voluto che lo Stato non fosse in mano di pochi, di quelli che voi chiamate Senato, e che non vi predominasse una classe o un’altra, ma ritenne di ripartire in egual misura ricchezze e cariche, in modo che molti sarebbero stati quelli che avrebbero preso le armi in difesa della patria (XXXIV xxxi 17-18).
Diviene pertanto evidente che il contrasto non riguardava soltanto il dominio del Peloponneso: a conflitto erano venute due concezioni della società e dello Stato – quella, egualitaria, di Sparta, e quella, timocratica, di Roma –, la cui inconciliabilità è confermata dalla replica del proconsole:
Seruorum ad libertatem uocatorum et egentibus hominibus agri diuisi crimina tibi obici dicebas, non quidem nec ipsa mediocria
Tu dicevi che ti vengono rimproverati come delitti l’aver chiamato gli schiavi alla libertà e l’aver diviso la terra tra gli indigenti, cose, anche queste, non di poco conto (XXXIV xxxii 9).
Vero è che Tito Quinzio accenna a crimini – per altro riassunti da M. con un breve cenno nel quale non si potrebbe trovare traccia di disapprovazione: «e gli bastò solo, sopravvenendo il periculo, assicurarsi di pochi» (Principe ix 19) – ancora più gravi della liberazione dei servi e della divisio agrorum; ma nella sua replica è facile cogliere l’insofferenza del senato romano verso le rivoluzionarie iniziative di Nabide. E sebbene non potesse condividere la critica delle istituzioni repubblicane di Roma (della cui crisi tuttavia quella critica lascia intravedere la causa), M. non avrà potuto evitare di pensare che Livio non avrebbe condannato con altrettanta severità lo Spartano, dietro il quale si ergeva lo spettro di Tiberio Gracco, se la riforma agraria che aveva introdotto ovunque gli era stato possibile non avesse risvegliato in lui dolorosi ricordi. Duas faces nouantibus res ad plebem in optimates accendendam («due torce, per i rivoluzionari, tali da infiammare la plebe contro i nobili») aveva definito lo storico latino le proposte di legge che N. aveva fatto approvare dall’assemblea da lui convocata per introdurre anche ad Argo riforme analoghe a quelle con le quali, secondo gli antichi, aveva sconvolto la costituzione della sua città (XXXII xxxviii 9).
Che cosa ha indotto M. a fare un così teso esercizio della sua incomparabile intelligenza critica? Per alcuni versi non condivisibile, l’autodifesa di N. toccava un punto nevralgico della concezione della società e della politica che i Discorsi contrappongono alla disastrosa insipienza di quanti, per innata cecità o eccessivo amore della quiete, mostrano di non comprendere che solo uno Stato in cui il popolo è in grado di resistere all’oppressione dei «grandi» può sconfiggere gli assalti dei nemici e della «fortuna». E la tesi che in Discorsi I vi era stata formulata con specifico riferimento alle libere repubbliche trova riscontro nella teoria dello Stato monarchico (quale doveva considerare Sparta chi, come M., rifiutava di scorgere in N. un autentico tiranno): così come una repubblica decisa a sottrarsi agli agguati della storia doveva consentire che il popolo disponesse del potere necessario per porre freno alla prepotenza della classe dominante, un principe deciso a evitare la rovina deve ottenere il favore del popolo mediante la decisa politica antiottimatizia suggerita dal capitolo De principatu civili. A M. sembrò dunque che l’odioso «ritratto» di N. tracciato da Livio fosse il risultato del pregiudizio immobilista e filoaristocratico che, nei Discorsi, aveva criticato con appassionata energia e implacabile logica. Per conseguenza si sforzò di restituire al «tiranno» la sua autentica fisionomia.
Il positivo giudizio che ne scaturì include i mezzi con cui N. aveva ottenuto il favore del popolo? L’unica cosa che, nel silenzio dell’autore, è possibile e doveroso dire è che la sicura conoscenza che ne ebbe non gli impedì di manifestare il suo positivo apprezzamento e d’innalzare a esempio il re spartano. Né, a ben guardare, vi erano ragioni che glielo impedissero. È pur vero che la liberazione di un certo numero di schiavi poteva essere considerata un precedente pericoloso, nondimeno Livio riferisce che, dopo la rotta di Canne, i Romani avevano fatto ricorso a un espediente analogo (XXII xi 8, XXIII xxxii 1); e, in ogni caso, nessun pericolo appariva maggiore della completa rovina a cui N. aveva sottratto la «patria», trasformando dei servi in fedeli sudditi, pronti a difendere, insieme con la propria, la libertà di Sparta. Maggiori problemi suscita invero la divisio agrorum, che coinvolge profondamente, e, secondo Cicerone, sconvolge, la struttura della società. Ma dove Livio aveva scorto un motivo di condanna, M. vide la lungimirante decisione che aveva consentito a N. di allontanare l’incombente catastrofe e di giungere a una pace non disonorevole.
Durante il colloquio di cui si è detto, N. aveva ricordato al proconsole romano come Licurgo per aequationem fortunae et dignitatis fore credidit ut multi essent qui arma pro patria ferrent («ritenne che stabilendo l’uguaglianza delle fortune e delle dignità, molti sarebbero stati coloro che avrebbero impugnato le armi in difesa della patria», XXXIV xxxi 18). E se non si è dimenticato il nesso stretto da Discorsi I vi tra la necessità di soddisfare le aspirazioni delle classi subalterne e quella di disporre di un potente esercito, senza il quale gli Stati sono destinati a perire, si potrà comprendere con facilità quanto dovesse essere diverso da quello di Livio l’animo con cui M. accolse l’autodifesa di colui che a quella decisione diceva di essersi ispirato. In agros inopem plebem deduco («distribuisco la terra agli indigenti»): nel leggere queste parole M., che non aveva esitato ad approvare le riforme con cui Agide IV e Cleomene III avevano preceduto N. nel tentativo di arrestare la decadenza di Sparta (come si legge in Discorsi I vi e ix), non avrà per certo condiviso la sdegnata condanna di Livio e di Cicerone. Pertanto non gli sembrò che le riforme che avevano consentito allo Spartano di ottenere l’«amicizia» del popolo impedissero d’innalzarlo a esempio. Sebbene sia sicuramente errato confondere la divisio agrorum imposta da N. con la riforma voluta dai Gracchi, come sarebbe errato confondere la maniera in cui la disuguaglianza economica aveva operato a Roma e quella (sulla quale, in verità, diversamente da Plutarco, M. non si sofferma) in cui aveva operato a Sparta, non si può del tutto trascurare che, dei Gracchi (→), il quondam Segretario aveva approvato, se non la «prudenzia», almeno l’«intenzione» (Discorsi I xxxvii 26), convinto che, deliberata e rigorosamente osservata fin dai primi giorni della Repubblica, la legislazione agraria avrebbe evitato la crisi dalla quale fu travolta la sua «perfetta» costituzione, la cui unica debolezza era la mancanza di una legge che limitasse l’ammontare della ricchezza privata. Nonostante il silenzio dello scrittore, ciò non consente d’ignorare che del provvedimento con cui è possibile assicurare lunga vita alla costituzione repubblicana (per quanto numerosi siano i dubbi che si possono sollevare al riguardo), N. si sia servito per consolidare l’assoluto potere che aveva usurpato. Dunque la sua pretesa di aver restaurato la costituzione licurgica non poteva essere condivisa; e se si considera che della Repubblica laconica aveva fatto un «principato», l’accusa di aver sconvolto il pàtrion politèuma non appare infondata. Ma l’autore dei Discorsi, persuaso che questa sia l’unica maniera di sottrarre alla rovina le repubbliche «corrotte» – come ben sa chi abbia prestato qualche attenzione a Discorsi I xviii e, in primo luogo, alla «genesi» del Principe –, non avrà creduto di doverglielo rimproverare. Benché nel secondo capitolo del commentario liviano avesse affermato (§ 28) che Licurgo «fece uno stato che durò più che ottocento anni, con somma laude sua e quiete di quella città», della corruzione che aveva invaso Sparta, sulla quale Plutarco si era a lungo soffermato sia nella Vita di Licurgo (xxx) sia in quella di Lisandro (xvi-xvii), M. aveva infatti dimostrato di essere perfettamente consapevole, come è dimostrato da Discorsi I ix 15. E poiché non vi è dubbio che ancora più grave ritenesse quella dominante in Italia, a chi legga «sensatamente» il capitolo De principatu civili il «tiranno» spartano appare un chiaro esempio della via che avrebbe dovuto seguire colui che avesse raccolto l’appello a operare, mediante la sua «estraordinaria» virtù e una decisa politica antiottimatizia e filopopolare, un estremo tentativo di riscatto.
Bibliografia: Fonti antiche: Livio, XXXII vi, vii, xxxviii-xl, XXXIII xliv 8, XXXIV xxii-xl, xlviii 3-6; Plutarco, Flaminino xiii, Filopemene xii-xiv, Lisandro xvi e seg., Licurgo xxx; Pausania, IV xxix 10-11, VII viii 4, VIII i 5-10.
Per gli studi critici si vedano: G. De Sanctis, Storia dei Romani, 4° vol., parte prima, Torino 1923, passim; W.W. Tarn, Hellenistic civilisation, London 19302, pp. 23, 114; F. Pozzi, Sparta e i partiti politici tra Cleomene III e Nabide, «Aevum», 1970, 5-6, pp. 389-414; J.G. Texier, Nabis, Paris 1975; J.G. Texier, Un aspect de l’antagonisme de Rome et de Sparte à l’époque hellénistique. L’entrevue de 195 avant J.C. entre Titus Quinctius Flamininus et Nabis, «Revue des études anciennes», 1976-1977, 78-79, pp. 145-54; D. Mendels, Polybius, Nabis, and equality, «Athenaeum», 1979, 67, pp. 311-33; M.J. Fontana, Nabide tiranno fra Roma e i Greci, in Φιλίας χάριν. Miscellanea di studi classici in onore di Eugenio Manni, 3° vol., Roma 1980, pp. 917-45; V. Neri, Costituzione romana e costituzione spartana: nota a Liv., XXXIV, 31, 17-19, «Rivista storica dell’antichità», 1980, 10, pp. 79 e segg.; J. Briscoe, Tito Quinzio Flaminino e la politica romana, in Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, 9° vol., Milano 1989, pp. 5-20. Per il rapporto con M.: A. Renaudet, Machiavel, Paris 19565, p. 205; L. Strauss, Thoughts on Machiavelli, Glencoe (Ill.) 1958 (trad. it. Milano 1970, passim); G. Sasso, Principato civile e tirannide e Paralipomeni al «Principato civile», in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 361-63, 533 e segg.; G. Cadoni, Machiavelli e i tardi riformatori di Sparta, in Id., Crisi della mediazione politica e conflitti sociali, Roma 1994, pp. 47-70; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995, p. 77; Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ottobre 1997, Roma 1998 (in partic. M. Martelli, Machiavelli e i classici, pp. 288-90; Discussioni, pp. 640 e segg.); G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006, pp. 66, 77-79.