Napoli
La città al momento della scomparsa di Guglielmo II nel 1189 e dello scoppio della guerra per la sua successione tra i sostenitori dell'imperatore Enrico VI, in quanto marito di Costanza d'Altavilla, e quelli di Tancredi di Lecce, figlio naturale di Ruggero II, contrariamente a quanto finora si è creduto, era tutt'altro che immobile all'interno della 'cerchia antica' e ripiegata su se stessa. Sono invece molti gli elementi che inducono a vederla pienamente coinvolta nei processi allora in atto nel resto dell'Italia e dell'Europa occidentale, e decisamente avviata a inserirsi in quel grande spazio economico euromediterraneo che cominciava a formarsi attraverso la disponibilità di capitali e il bagaglio di conoscenze tecniche, geografiche e ambientali dei mercanti dell'Italia centrosettentrionale. È indubbiamente in età angioina che Napoli diventa una grande piazza commerciale, ma già alla fine del sec. XII essa si va configurando per genovesi e pisani come il centro più importante della costa tirrenica del Mezzogiorno. A loro si aggiunsero fin dai primissimi anni del regno di Federico II mercanti della Borgogna e della Provenza, ma soprattutto marsigliesi, che si insediarono nell'area adiacente all'attuale piazza Mercato, dando vita a una colonia stabile che cercò ben presto di crearsi un punto di riferimento sul piano religioso, facendo capo all'inizio a chiese preesistenti (prima quella di S. Andrea e poi quella di S. Maria della Calcara), che da quel momento furono dette 'dei francesi', e poi a S. Eligio, da loro stessi fondata nel 1270. Della loro attività abbiamo notizie abbondanti per l'anno 1248, al quale risalgono una quarantina di contratti di commenda e di lettere di cambio emesse a Marsiglia e pagabili a Napoli, che mostrano quanto meno il passaggio per la città di un certo numero di mercanti francesi, e marsigliesi in particolare (Blancard, 1884-1885). Che non si trattasse di semplici transiti è dimostrato da un contratto di nolo, stipulato da cinque mercanti marsigliesi il 23 marzo 1248, nel quale il proprietario precisa che la nave noleggiata avrebbe dovuto prendere il largo entro la metà di aprile, per poi ripartire da Napoli entro la decima settimana dalla sua entrata nel porto di quella città: clausola che evidentemente serviva a cautelarlo non dal rischio che gli armatori si recassero con la nave altrove (in questo caso sarebbe bastato vietarlo in modo esplicito), bensì da quello che essi restassero troppo a lungo a Napoli, dove si presumeva che avrebbero potuto trattenerli per più tempo del previsto i loro affari.
Ma di quali affari si trattava? La stragrande maggioranza dei contratti di commenda si riferisce all'immissione sul mercato napoletano di panni di varia natura, ma non mancano quelli relativi al commercio di metalli (rame, stagno) e oggetti metallici (mole per affilare lame), vetro, ambra, materie coloranti (indaco), in alcuni casi utilizzate per la concia delle pelli (scòtano, sommacco).
Ad attirare a Napoli pisani, genovesi e marsigliesi erano i prodotti dell'agricoltura campana e soprattutto delle zone più vicine alla città (dalla costiera sorrentina alla zona flegrea): prodotti che vi arrivavano sia per terra sia per mare a bordo di un gran numero di piccole imbarcazioni, condotte da quei marinai-contadini nei quali Mario Del Treppo ha individuato una delle figure che hanno caratterizzato nel lungo periodo la struttura economico-sociale di tante aree costiere del Mezzogiorno tirrenico. Tra quei prodotti già allora doveva occupare un posto di rilievo il vino, destinato nel corso degli anni seguenti ad alimentare, in maniera sempre più consistente, le attività del porto di Napoli e che Federico II faceva imbarcare per le necessità della sua corte itinerante, oltre che, probabilmente, per le sue speculazioni commerciali nell'area del Mediterraneo. Che i mercanti marsigliesi ne facessero incetta già allora è dimostrato da una scrittura del 19 giugno 1248, relativa alla società tra due mercanti, uno dei quali certamente marsigliese (Pierre Sartre de Saint-Jean), per il noleggio da Napoli a Marsiglia di ben quattrocentoventicinque barili.
Nelle campagne circostanti era largamente presente anche il castagno, che ebbe allora in Campania una diffusione enorme, di gran lunga superiore a quella consigliata dalle condizioni ambientali, risultando presente anche in aree pianeggianti, da cui è scomparso in epoca moderna. Le castagne, insieme a noci, nocciole, mandorle e ad altri prodotti dell'agricoltura, non venivano assorbite solo dal mercato locale, ma erano anche esportate, soprattutto verso il Nordafrica e il Medio Oriente, previo il pagamento del dazio di 1 tarì a salma, come si evince dalle istruzioni che nel 1231 Federico II impartì ai fundicarii di Napoli (Vitolo, 1992, pp. 105-107). È da considerare pertanto del tutto corrispondente alla realtà quanto afferma il sovrano svevo nella lettera circolare del 5 giugno 1224, con la quale dà avvio all'attività dello Studio di Napoli, a proposito della facilità con cui studenti e professori avrebbero potuto trovare in città a buon prezzo generi alimentari, oltre a case comode e spaziose.
In sintonia con quanto avveniva nel resto dell'Italia, e quindi meno statico di quello che potrebbe sembrare, era anche il quadro generale dell'organizzazione ecclesiastica e della vita religiosa. Agli inizi del Duecento il territorio cittadino era ancora diviso in quattro grandi parrocchie, che facevano capo ad altrettante chiese battesimali, dette catholicae maiores: in ordine cronologico di fondazione, S. Giorgio Maggiore, SS. Apostoli, S. Maria Maggiore e S. Giovanni Maggiore, officiate da collegi di chierici, alla cui testa c'era un canonico della cattedrale. Al loro interno però cresceva continuamente il numero delle chiese che, pur non essendo dotate della pienezza dei diritti parrocchiali, prestavano assistenza religiosa agli abitanti dei quartieri e delle strade in cui sorgevano, conseguendo poi successivamente il titolo di parrocchie. Si tratta di un fenomeno che in altre parti d'Italia è meglio documentato, ma che si verificò anche a Napoli in collegamento con le dinamiche urbanistiche e sociali.
Qui non sono attestate associazioni del clero urbano e di quello in cura d'anime in particolare, che troviamo altrove e con un forte carattere corporativo, di tutela degli interessi della categoria; ma ancora una volta non si tratta di assenza del fenomeno, quanto piuttosto di particolarità di esso nel contesto napoletano. L'associazionismo chiericale vi era infatti assai diffuso, ma con finalità ora di carattere devozionale (le congregazioni della Sexta feria per la pratica della devozione alla s. Croce) ora a scopo genericamente assistenziale (confraternite), ma in ogni caso sempre come fenomeno limitato a cerchie più o meno ristrette e mai esteso alla totalità del clero.
In pieno movimento appare tra il sec. XII e il XIII anche il quadro delle associazioni promosse dai laici, che potevano vantare una tradizione antichissima, quella delle staurite, finalizzate al culto della s. Croce e all'esercizio della carità verso i poveri, e fortemente radicate nella vita del loro quartiere. Su questo tessuto associativo assai fitto s'innestavano ora le nuove istituzioni confraternali, che rompevano con le antiche appartenenze territoriali e sociali, radicandosi nelle aree della recente espansione edilizia e legandosi alle correnti più vive della religiosità del tempo, impegnate nella riscoperta del modello di vita apostolica e in una pratica della vita religiosa più attenta ai bisogni dei poveri e dei sofferenti (Vitolo, 2000, pp. 4-13).
Non sempre però queste nuove forme di carità cristiana riuscivano a soddisfare e a incanalare le inquietudini che a Napoli come altrove serpeggiavano nell'ambito del laicato pio e che probabilmente erano anche alimentate dalle suggestioni di esperienze di cui si aveva notizia attraverso viaggiatori, operatori economici forestieri e, forse, anche attraverso alcuni che se ne facevano attivi propagandisti. Certo è che intorno al 1165 abbiamo notizia della presenza a Napoli di un vescovo cataro, dal quale si recano quattro nuovi adepti del catarismo provenienti da Milano per approfondire la loro conoscenza delle dottrine dualistiche, trattenendosi poi in città per quasi un anno (v. Catari). Ora, se si considerano l'organizzazione delle chiese catare e l'importanza della figura del vescovo, la cui presenza presupponeva l'esistenza in loco di un nutrito gruppo di fedeli in grado di accoglierlo e di proteggerlo, appare fondata l'ipotesi che a Napoli il fenomeno della dissidenza religiosa avesse una certa consistenza. Di catari a Napoli, comunque, non abbiamo altre notizie prima del 1231, in piena epoca federiciana. Nel febbraio di quell'anno l'imperatore ne fece arrestare un numero imprecisato dal suo maresciallo Riccardo di Principato e dall'arcivescovo di Reggio; ma la repressione non dovette sortire effetto, se l'arcivescovo di Napoli Pietro chiamò in suo soccorso i Frati predicatori (v.), insediandoli nell'ex monastero benedettino di S. Arcangelo a Morfisa. Del resto, che allora fosse in atto una vera e propria campagna di proselitismo nel Regno lo afferma lo stesso Federico II nelle Costituzioni di Melfi, là dove dichiara che i catari "dai confini d'Italia, specialmente dalle terre di Lombardia" facevano giungere fin nelle sue terre "rivoli della loro perfidia".
Dell'attività antiereticale dei Frati predicatori non abbiamo comunque notizie più precise per l'età sveva, al pari del resto di quella dei Frati minori (v.), i quali avevano in città due insediamenti. Il primo (S. Maria a Palazzo) si era formato probabilmente alla fine degli anni Venti del Duecento con caratteristiche perfettamente aderenti allo spirito originario del movimento francescano, collocato com'era fuori della città, nell'area che sarà poi occupata a partire dal 1279 dal Castel Nuovo angioino e in cambio della quale i Frati ne otterranno un'altra all'interno delle mura, dove fonderanno il convento di S. Maria La Nova. Il secondo sorse, qualche anno dopo l'arrivo dei Domenicani, intorno alla chiesa di S. Lorenzo (attuale S. Lorenzo Maggiore), concessa dal vescovo di Aversa, da cui essa dipendeva, su richiesta del ministro provinciale di Terra di Lavoro. Della cosiddetta quadrilogia mendicante mancavano a Napoli in età federiciana gli Agostiniani, che non erano ancora nati, mentre vi erano già arrivati sul finire degli anni Trenta i Carmelitani, i quali però, insediati presso quella che è ora la chiesa di S. Maria del Carmine, non avevano ancora compiuto quel processo evolutivo che, dall'originaria impronta eremitica, li avrebbe portati a una piena assimilazione agli altri Ordini mendicanti (Di Meglio, 2003, pp. XXVII-XXIX).
Questi dunque furono sostanzialmente presenti a Napoli nell'ultimo ventennio dell'età federiciana con tre conventi: due minoritici e uno domenicano. Su di essi sono in corso ricerche approfondite e certamente se ne saprà qualcosa di più nei prossimi anni; ma fin d'ora può dirsi con buona approssimazione che la loro incidenza sulla vita religiosa della città non dovette essere notevole in quegli anni. Certamente vi contribuì la scarsa simpatia che ebbe per loro Federico II, ma probabilmente il motivo principale è da ricercare nella difficoltà che essi ebbero inizialmente a farsi largo in un ambiente caratterizzato dalla saldezza e dalla capillare presenza all'interno del perimetro urbano delle istituzioni che facevano capo alla Chiesa cittadina, compresi i numerosi monasteri.
Ma, più che in ambito religioso, è sul piano politico che Napoli mostra un dinamismo e uno spirito di iniziativa la cui portata siamo ora in grado di valutare meglio alla luce della lettura dei sistemi monarchici medievali proposta da Mario Caravale (1994) e volta a superare la concezione tradizionale di un insanabile contrasto tra potere monarchico e realtà territoriali, quali i feudi e le città. Nei momenti di crisi politica del Regno seguiti alla morte prima di Guglielmo II e poi di Tancredi e di Enrico VI, infatti, Napoli conseguì grandi spazi di autonomia, al pari del resto delle altre più intraprendenti città della Campania e della Puglia, ma senza mai rifiutare e contestare in via di principio il potere monarchico, mostrando così come il rafforzamento dello spirito civico e della coscienza cittadina non fosse incompatibile con la nascita di un sentimento nuovo, quello della coscienza di far parte ormai di una 'patria comune'.
Un momento assai significativo è quello iniziato nel 1197 con la morte di Enrico VI e la reggenza, per conto del piccolo Federico, prima della madre Costanza d'Altavilla e poi del pontefice Innocenzo III: un periodo di anarchia, durante il quale il paese rimase in balia dei comandanti militari tedeschi, che rivendicavano il diritto di esercitare la potestà tutoria sul piccolo sovrano. La Campania divenne così il teatro delle operazioni di Diopoldo di Hohenburg, conte di Acerra, il quale aveva come basi Salerno e Acerra, e non è chiaro se operassero in accordo con lui gruppi di sbandati tedeschi, che costituivano una continua minaccia per i centri abitati di Terra di Lavoro.
La necessità di provvedere alla propria difesa indusse Napoli a stringere un'alleanza con Aversa, da cui era separata da un'antica rivalità, dato che entrambe erano esposte alle scorrerie provenienti da Cuma, diventata un vero e proprio covo di ladri e masnadieri. Maturò così il progetto di un'azione comune per distruggere Cuma, progetto ritardato dall'emergere di contrasti sull'assetto da dare alla città una volta conquistata. Essa infatti era appartenuta almeno fino al 1044 a Napoli, ma nel 1134 era diventata feudo di un barone aversano; allora, agli inizi del Duecento, appariva priva di un signore legittimo, ma aveva un vescovo suffraganeo dell'arcivescovo di Napoli, città nella quale si era rifugiato appunto il vescovo Leone, evidentemente perché impossibilitato dai nuovi venuti a esercitare il suo ministero. Se pertanto Aversa accampava diritti in base al recente possesso di quel territorio, Napoli si richiamava a sua volta sia alla situazione dei secoli precedenti sia soprattutto alla dipendenza di quella sede vescovile dalla Chiesa napoletana.
La vicenda si concluse nel 1207 con la distruzione di Cuma da parte dei napoletani, i quali agirono con il pieno accordo di tutte le componenti sociali e probabilmente anche dell'arcivescovo Anselmo, che svolse in quegli anni un ruolo assai importante per mantenere nel rispetto della sovranità regia il regime autonomistico napoletano, di cui peraltro non si conosce per quegli anni la precisa configurazione. Non sono attestati, infatti, né consoli né funzionari regi, ma appaiono in ruoli eminenti il conte Pietro Cottone, forse fratello di quell'Aligerno Cottone che nel maggio 1190 aveva sottoscritto come compalazzo un privilegio a favore degli amalfitani, e Goffredo di Montefuscolo, parente dello stesso Pietro Cottone, grazie alla cui influenza fu nominato capitano in occasione della spedizione contro Cuma e della lotta con Diopoldo di Hohenburg; né l'uno né l'altro ebbero però poteri assimilabili a quelli di un podestà o di un signore, sembrando piuttosto l'arcivescovo, per il momento, il principale punto di riferimento della città. Egli agiva in piena sintonia con la politica legittimistica di Innocenzo III, fermamente deciso a salvaguardare i diritti del piccolo Federico e a cacciare i tedeschi dal Regno, tanto è vero che proprio lui era stato inviato dal papa al seguito delle truppe pontificie che il 21 luglio del 1200 avevano sconfitto in Sicilia Marcovaldo di Annweiler, il più potente dei capi tedeschi rimasti in Italia meridionale.
L'intesa tra l'arcivescovo e la città non era però destinata a durare a lungo; anzi sfociò nel 1211 in lotta aperta quando Napoli ‒ per ragioni che non sono del tutto chiare, ma riconducibili probabilmente alle prime avvisaglie dei progetti di restaurazione dell'autorità monarchica, manifestati dal giovane Federico appena uscito dalla minorità nel dicembre del 1208 ‒ gli si ribellò, approfittando dell'arrivo in Italia meridionale dell'imperatore Ottone IV. L'arcivescovo condannò duramente l'iniziativa, lanciando contro la città l'interdetto, che successivamente fu confermato dallo stesso Innocenzo III. È vero che già nel 1213 il gravissimo provvedimento risulta revocato, probabilmente in occasione di un temporaneo ritorno dei napoletani all'obbedienza a Federico II, ma ciò nondimeno l'episodio dimostra come anche al Sud, così come accadeva nel resto dell'Italia, il potere e l'influenza dei vescovi potessero dispiegarsi con tutta la loro efficacia all'interno di comunità cittadine dinamiche e socialmente articolate, quale era appunto Napoli, solo nella misura in cui erano in grado di tutelarne gli interessi (Fuiano, 1972, pp. 182 ss.).
Con questi precedenti si comprende come Federico II, una volta ritornato nel Regno dopo il lungo soggiorno in Germania e l'incoronazione imperiale a Roma il 22 novembre del 1220, si sia posto il problema di assicurarsi il pieno controllo di Napoli e delle altre città la cui popolazione si era mostrata nel passato particolarmente irrequieta. Per quel che riguarda Napoli, operò su due piani convergenti: da un lato fece consolidare i due castelli posti a difesa e a controllo della città (gli attuali Castel dell'Ovo e Castel Capuano), dall'altro insediò al vertice dell'amministrazione cittadina, con il tradizionale titolo di compalazzo, un personaggio autorevole quale Enrico di Morra (v.), maestro giustiziere del Regno. La sua nomina può avere una duplice chiave di lettura: se, infatti, essa nasceva dal desiderio di avere in una situazione certamente non facile una persona di assoluta fiducia, capace di reprimere eventuali rigurgiti di insofferenza nei confronti di un potere regio in via di progressivo consolidamento, nello stesso tempo era anche prova della considerazione che il sovrano mostrava di avere per la città, ponendo al vertice della sua amministrazione non un qualsiasi uomo d'arme, ma un personaggio di prestigio.
Nella stessa direzione andavano anche la scelta di Napoli come residenza del camerario di Terra di Lavoro e del Principato, e del castello del Salvatore (oggi Castel dell'Ovo) come sede del tesoro regio, il coinvolgimento di esponenti della nobiltà napoletana nella pubblica amministrazione, la costruzione nel cosiddetto gualdo (bosco) di Napoli, oggi nel territorio del comune di Quarto, presso Pozzuoli, di una dimora destinata alla caccia e al riposo (domus pro venationibus et solaciis), che per la sua posizione panoramica prese poi il nome di Belvedere, nonché l'emanazione proprio a Napoli, nel 1242, delle Ordinanze, che regolarono in maniera nuova il funzionamento della cancelleria, un organismo molto importante nel contesto dell'apparato del governo federiciano.
Egli inoltre mostrava di avere un'idea chiara della dinamica realtà economica e sociale della città, prevedendo per essa, come per Salerno e Capua, un organico di otto notai, anziché di sei come per gli altri distretti urbani, e ciò a causa del gran numero di contratti che vi venivano stipulati.
La decisione più importante che Federico II prese per Napoli fu, tuttavia, la 'fondazione' dello Studio (v. Studio di Napoli). Sul problema esiste un lungo dibattito, ripreso negli ultimi anni da Girolamo Arnaldi (1982) e da Manlio Bellomo (1991). Il nodo da sciogliere è ancora quello che già appassionava gli storici nel Settecento: lo Studio fu una creazione ex novo del sovrano svevo o questi provvide piuttosto a riformare e a dare ulteriore impulso a preesistenti scuole private di diritto? Come sempre accade, la verità sta probabilmente nel mezzo. Fondare una scuola di istruzione superiore in un ambiente del tutto privo di istituzioni culturali, doveva essere, allora come ora, impresa temeraria; ma negare che l'iniziativa sia stata solo e interamente dell'imperatore sembra del tutto improponibile. Non ci si dovrebbe pertanto allontanare troppo dal vero ipotizzando che il sovrano e i suoi consiglieri abbiano fatto la loro scelta sulla base di tutta una serie di considerazioni, tra le quali anche la preesistenza di strutture non solo materiali, ma anche culturali, idonee a sostenere la nuova istituzione, anche se essa non si configurava, al pari di quelle di Bologna e di Parigi, come una loro naturale evoluzione. Certo è che Federico II attribuiva grande importanza alla sua iniziativa, la quale giungeva a coronamento delle riforme amministrative da lui varate negli anni 1220-1222, per la cui realizzazione era indispensabile l'impiego di funzionari con adeguata preparazione giuridica (Kamp, 1982). L'interesse del sovrano per lo Studio di Napoli è dimostrato ancora di più dall'impegno con cui continuò a occuparsene nel 1234 e nel 1239.
A Napoli Federico II soggiornò quattro volte negli anni 1220-1235 e due volte negli anni 1235-1250 (nell'aprile del 1242 e nel maggio del 1249): un numero di soggiorni non elevato, ma neanche trascurabile, considerato che egli si spostava continuamente attraverso tutta l'Italia. Per lo più alloggiava nei suoi accampamenti mobili, dotati di un efficiente sistema di tende, ma nei suoi soggiorni a Napoli è da credere che abbia preso alloggio in uno degli edifici pubblici della città. Ma quale? La domanda è tanto più legittima se si tiene presente la tradizione dell'esistenza a Napoli di un palazzo federiciano, dove, peraltro, avrebbe risieduto più volte anche Pier della Vigna. La notizia è in realtà fondata su un'errata interpretazione della Cronaca scritta agli inizi del Trecento da Francesco Pipino, frate predicatore del convento di S. Domenico di Bologna. Il suo testo recita infatti: "In Neapolitano palatio imperatoris et Petri effigies habebantur" (Francesco Pipino, 1726, pp. 660-668), dove si vede chiaramente che il genitivo imperatoris et Petri è complemento di specificazione non del Neapolitano palatio, bensì di effigies, e, secondo le norme del latino classico, che il cronista mostra di conoscere, precede il soggetto; diversamente, peraltro, non si capirebbe di chi fossero le effigies esistenti nel palazzo. Il cronista trecentesco voleva dire quindi che nel palazzo napoletano c'erano le immagini di Federico II e di Pier della Vigna, aggiungendo che il primo era seduto in trono, il secondo su un seggio. Prostrato ai piedi dell'imperatore c'era il popolo nell'atto di chiedere giustizia: "O Cesare, o amore delle leggi, Federico piissimo fra i re, sciogli le fila delle nostre dispute". L'imperatore, a sua volta, indicava con un dito Pier della Vigna, come se avesse voluto rispondere: "Nelle vostre querele rivolgetevi a costui. Egli vi darà il giudizio o pregherà che da me sia elargito. Della Vigna è il suo cognome, Pietro, il giudice, il suo nome" (Kantorowicz, 1976, p. 535).
La scena descritta da Pipino non solo è del tutto verosimile, ma doveva corrispondere a quanto effettivamente avveniva nei giudizi dell'Alta Corte, per cui giustamente Kantorowicz ritiene che "qui venisse rappresentata la vita stessa, quella che si aveva sott'occhio" (ibid.). Essa, del resto, si inseriva perfettamente nel clima dell'ultimo decennio del regno di Federico che vide, a opera soprattutto di Pier della Vigna, una sempre più forte accentuazione del carattere sacrale e messianico della figura dell'imperatore, che si compiaceva nell'atteggiarsi a dispensatore della giustizia per diretta investitura divina e per il tramite dei suoi ministri e giudici, veri e propri sacerdoti addetti al culto della giustizia: alla loro testa Pier della Vigna, novello principe degli apostoli. La scena, inoltre, trovava la sua naturale collocazione proprio a Napoli, sede di quello Studio che, per quanto destinato anche all'insegnamento di altre discipline, aveva un'impronta fortemente giuridica ed era finalizzato alla formazione di coloro che avrebbero dovuto materialmente di-spensare la giustizia ai sudditi dell'imperatore.
È possibile identificare questo palazzo? Il problema è già stato affrontato da chi scrive in occasione del convegno federiciano svoltosi a Napoli nel 1995, quando propose di identificarlo con il Castel Capuano, abituale luogo di residenza dei sovrani a Napoli a partire da Guglielmo I, che, secondo la tradizione storiografica, lo avrebbe fatto ampliare nel 1165, e fino alla costruzione del Castel Nuovo da parte di Carlo d'Angiò, scontrandosi però con la difficoltà che esso non viene mai indicato nelle fonti come palazzo, ma sempre come castrum.
L'identificazione non è apparsa convincente a Fulvio Delle Donne, il quale ha proposto invece il citato palazzo del Belvedere, che potrebbe essere stato anche una delle sedi della cancelleria. Essa stava cominciando a perdere negli anni Quaranta il suo tradizionale carattere itinerante al seguito dell'imperatore e, oltre a produrre documenti, accoglieva anche le petizioni rivolte dal popolo al sovrano. Orbene, a parte il fatto che la scena descritta da Pipino si addice più a un'aula di giustizia che agli uffici di una cancelleria, la cui ubicazione a Napoli è peraltro solo ipotizzata, sono da considerare altri due elementi. Innanzitutto neanche il palazzo del Belvedere, il quale effettivamente in età angioina fu una delle sedi dell'archivio della cancelleria, è definito nelle fonti Neapolitano palatio. Ma, ed è quello che più conta, esso sorgeva in aperta campagna, per cui la rappresentazione dell'imperatore come dispensatore della giustizia, essendo sottratta allo sguardo dei più, veniva a essere privata del suo valore propagandistico.
Si vorrebbe ora proporre una terza identificazione, la quale prevedibilmente non sarà esente da critiche, ma che ha almeno il merito di richiamare l'attenzione su un problema finora scarsamente considerato dalla storiografia napoletana, quello della sede del potere a Napoli tra la morte dell'ultimo duca, Sergio VII, nel 1137, e l'ultimazione nel 1282 dei lavori per la costruzione del Castel Nuovo, dove prese a risiedere stabilmente la corte angioina. Orbene, è certo che il palazzo ducale sorgeva sull'altura del Monterone, nell'area occupata oggi dagli istituti universitari del complesso di S. Marcellino. Non doveva essere una costruzione spregevole, data la diffusa monumentalità degli edifici napoletani ammirati da Ruggero II, ma neanche un edificio grandioso e particolarmente sicuro, dato che i sovrani normanni risiedettero prima in Castel dell'Ovo e poi, come si è detto, in Castel Capuano; quello che è certo è che di esso non c'è più traccia nelle fonti. Il che è tanto più strano se si considera che l'inizio della dominazione normanna non fu caratterizzato da nessuna forma di damnatio memoriae della dinastia precedente e che il rappresentante regio in città ebbe il titolo di comes Neapolitani palatii (in seguito trasformato in compalazzo): titolo che sembra far riferimento proprio al palazzo ducale, inteso evidentemente, secondo l'uso del tempo, sia come edificio sia come apparato di potere. Il fatto che dopo di allora non se ne parli più ha indotto a credere che il titolare dell'ufficio, sulle cui attribuzioni si ritornerà tra poco, si sia ben presto trasferito in Castel Capuano e di qui, in una data imprecisata, nella sede che occupava alla fine del Duecento presso i gradini della chiesa di S. Paolo Maggiore, vale a dire nel cuore della città antica. Questa sede viene indicata nei documenti con nomi vari: palazzo dell'università degli uomini della città, casa dell'università della città di Napoli, curia di S. Paolo, corte del compalazzo nonché, a partire dai primi del Trecento, curia del baiulo o curia del baiulo e dei giudici di Napoli nella casa dell'università della città (Schipa, 1906, p. 83).
Ma quali erano le sue attribuzioni in età normanno-sveva? Egli era il responsabile della riscossione di servizi e tributi dovuti al sovrano dalla città nonché dell'amministrazione della giustizia civile e criminale, avendo Ruggero II concesso ai napoletani il privilegio di non doversi recare fuori della città per presentarsi davanti a un tribunale regio: privilegio confermato dagli Angioini, ma che fu attuato in altre forme, dato che l'insediamento in città, in quanto capitale del Regno, della corte del gran giustiziere, della vicaria e della corte del capitano ridusse le competenze della corte del compalazzo al solo ambito civile, per cui egli, ridotto in sostanza al rango di un semplice baiulo, finì con l'assimilarsi anche nel nome. Nelle sue funzioni di amministratore della giustizia era assistito da un collegio di giudici o contestabili, espressi, fin dal tempo di Ruggero II, dalla nobiltà napoletana, la quale era arbitra dell'amministrazione cittadina. In conclusione, nella Napoli di età sveva la giustizia, sia quella civile sia quella penale, si amministrava in un solo luogo, la corte del compalazzo, che probabilmente aveva ancora sede nel Neapolitano palatio di età ducale e normanna. Di qui, per motivi che ci sfuggono ma che potrebbero essere ricondotti alle esigenze di ampliamento del monastero di S. Marcellino, si trasferì tra Due e Trecento nei pressi dei gradini della chiesa di S. Paolo Maggiore, in quella che venne a configurarsi, nel contesto delle accresciute autonomie cittadine di età angioina, come la sede non solo di un funzionario regio, ma anche dell'università degli uomini della città di Napoli.
fonti e bibliografia
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