Narratori dell'Ottocento e del primo Novecento
Nella prima metà dell'Ottocento nasce in Italia, e decade, la passione per il romanzo storico. Romanzi ambientati nel passato, più o meno remoto, non mancarono anche dopo: ma interessi, e intenti, degli autori erano affatto diversi, e non si potrebbe più parlare di passione, e nemmeno di una moda. Tuttavia, poiché gli aspetti e gli indirizzi di quel periodo furon molteplici, poteva l'uno o l'altro d'essi riuscire a più riposata o meditata espressione nei narratori che ambientavano storicamente qualche loro opera pur quando l'età del romanzo storico era cosa passata. V'erano cioè, nei romanzi più stretti alla maniera, alla moda, interessi che non si consumavano del tutto nella polemica patriottica, né in un cliché letterario: i due elementi più vistosi, ma di più corto respiro, nei quali si venne irrigidendo il gusto per quel tipo di narrativa. Come fatto letterario, era nato non da curiosità archeologiche o storiche, ma da un combattivo orgoglio di modernità: sulla via larga e inquieta, piuttosto che ordinata o soddisfatta, delle prime avvisaglie, in Italia, della polemica romantica, piena degli spiriti della cultura lombarda degli ultimi decenni del Settecento. Nacque cioè, il romanzo storico, come strumento più di altri «utile», e proprio in nome della «utilità» messo a confronto e preferito alla storia quando ancora si parlava di romanzo solo in generale, e non era moda il nome di Walter Scott. Si può dire che l'esempio, ed alcune sentenze, del Foscolo fossero presenti ai primi osservatori o assertori della fortuna che il romanzo veniva rapidamente guadagnando. Del Foscolo, soprattutto il celebre passo della prolusione tenuta nell'ateneo pavese il 22 gennaio 1809, dell'invito alle storie: «L'alta letteratura riserbasi a pochi, atti a sentire e ad intendere profondamente; ma que' moltissimi che per educazione, per agi e per l'umano bisogno di occupare il cuore e la mente sono adescati dal diletto e dall'ozio tra' libri, denno ricorrere a' giornali, alle novelle, alle rime; così si vanno imbevendo dell'ignorante malignità degli uni, delle stravaganze degli altri, del vaniloquio de' verseggiatori; così inavvedutamente si nutrono di sciocchezze e di vizi, ed imparano a disprezzare le lettere. Ma indarno la Ciropedia e il Telemaco, tramandatici da due mortali cospicui nelle loro patrie per dignità e per costumi, ne ammoniscono che la sapienza detta anch'essa romanzi alla Musa e alla storia; indarno il Viaggio d'Anacarsi ci porge luminosissimo specchio quanto possa un romanzo senza taccia di menzogna iniziare i men dotti nel santuario della storica filosofia; indarno i Germani e gl'Inglesi ci dicono che la gioventù non vive che d'illusioni e di sentimenti». Sansone Uzielli poneva le parole del Foscolo, sulla sapienza che «detta anch'essa romanzi alla Musa e alla storia», a epigrafe di un ampio saggio sul romanzo (Considerazioni sul romanzo in prosa, desunte dalle diverse vicende della letteratura in Italia, e in Francia, e dalla condizione sociale delle donne) pubblicato nella «Antologia» del dicembre 1823, e il cui seguito comparve l'anno successivo, nel marzo e aprile nella stessa «Antologia» col titolo Del romanzo storico, e di Walter Scott. L'Uzielli diceva favorita la Francia dalla impoeticità della lingua, che aveva dato stimolo a romper le regole in generale: esempio Fénelon che «scrisse in prosa il suo Telemaco»; lo stesso fatto favorì l'influenza crescente «delle donne sulla politica e i costumi di quel regno»: esse «senza preoccupare il giudizio coi libri e con le teorie generali ed astratte, si addestrarono a considerar l'uomo modificato dalle abitudini sociali, e relativamente ai tempi», finché «divenute competenti a giudicare, e arbitre della censura e della lode, in tempi ove la loro opinione darà forte impulso all'opinion pubblica, indurranno anche le migliori menti a coltivare il genere loro prediletto. Sicché l'azione della società sulle lettere, e quei più intimi rapporti morali, che si saranno stabiliti fra l'uno e l'altro sesso, ampliando e facilitando la vicendevole osservazione degli affetti, avranno accresciuto pregio al pratico studio della specie umana, e vedranno la luce libri, come quelli di Pascal, Labruyère, La Rochefoucauld, e simili. Qui la morale, o la scienza dell'uomo, era trattata in massime e precetti. Facilmente si riconoscerà che il romanzo è forma propria a trattarla per via di fatti e d'esempi: ed anche un filosofo, profondo ed acuto come Le Sage, consegnerà i suoi titoli all'ammirazione dei posteri nelle pagine del Gilblas». È la descrizione d'una situazione a cui contrasta la tradizione classicistica dell'Italia: «Ma in questo secolo, perché la verità par risoluta di farsi strada, anche tra noi si è riconosciuto il merito dei buoni romanzi, e uno scrittore filosofo, in una sua gravissima dissertazione» (e riferisce in nota il passo della prolusione del Foscolo da noi ricordato) «se ne è dichiarato panegirista, dopo aver tradotto Sterne ed imitato Goethe. Ma pure è da rammentarsi che troppo lungo tempo chi dicea in Italia autore di romanzi, dicea poco meglio che canta storie». All'amore delle tradizioni locali e al gusto per la vita domestica degli inglesi faceva risalire il genere legato al nome dello Scott, nella seconda parte del saggio, dedicata al romanziere inglese.
Ma già anni prima, nel 1816, Pietro Borsieri, autore di uno dei più acuti documenti della polemica romantica, le Avventure letterarie di un giorno, aveva con analoghi criteri trattato del romanzo nel settimo capitolo del suo opuscolo. Dopo aver detto che la storia, a differenza del romanzo, non può distinguere tra virtù e scelleratezza nella esposizione dei fatti, aggiunge «che la storia avendo un aspetto uniforme e generando sazietà, tanto più divengono necessarie queste inaspettate, varie e saggie creazioni dell'umana fantasia; e che per tale guisa non si provvede al diletto soltanto, ma ben anche alla grandezza dell'animo ed al progresso de' costumi. Dopo un tanto suffragio che è comune ai romanzi d'ogni specie, o sieno in verso o sieno in prosa, io sono persuaso che i nostri scrittori non adempiono come dovrebbero l'ufficio loro; e che mancando noi di romanzo, di teatro comico e di buoni giornali, manchiamo di tre parti integranti d'ogni letteratura, e di quelle che sono destinate ad educare e ingentilire la moltitudine». Ecco affacciarsi, intanto, il problema della prosa e del verso; dall'Uzielli, decisamente risolto a favore della prosa: ma il romanzo storico sarà sempre considerato come avente in sé non poco delle creazioni di poesia, anche per il tipo d'eloquenza connesso, nella tradizione retorica italiana, con il concetto stesso di un'opera di soggetto storico. E, con quello della prosa, l'altro problema, dell'universalità del pubblico, e quindi d'una particolare efficacia del romanzo nella formazione d'una società moderna: «il romanzo appartiene al genere filosofico ed all'eloquenza propriamente detta, più che alla poesia», avverte il Borsieri, e «la vera grandezza in politica e in filosofia di non pochi autori inglesi, o tedeschi, o francesi, diffonde su tutti quei popoli una certa luce per la quale appariscono e più civili e più colti»; veniva così rovesciato anche l'altro appunto, che il romanzo fosse nato come genere letterario in età di decadenza: che era il luogo comune più diffuso ancora quando prese voga il romanzo storico.
Il Manzoni era scrittore di formazione culturale più europea che italiana, e rientrava comunque, per quanto concerne quest'ultima, negli interessi fin qui accennati, dei romantici eredi diretti dell'illuminismo della fine Settecento in Milano, anche se non facesse proprio il generico e appassionato e toccante invito del Foscolo, che sarebbe riuscito, alla sua mente, freddo e viziato di tutte le debolezze del vecchio sistema letterario. Tuttavia i caratteri accennati fin qua rappresentano anche i primi motivi del suo interesse per un esempio di creazione artistica quale quello rappresentato dai romanzi dello Scott. Paride Zaiotti scriveva, nella «Biblioteca italiana», del settembre e ottobre 1827 (Del romanzo in generale ed anche dei «Promessi sposi» romanzo di Alessandro Manzoni): «La sola notizia che l'autore dell’Adelchi, il poeta degli Inni sacri scriveva un romanzo, nobilitò la carriera e trasse alcuni chiari intelletti ad entrarvi»: frase portata in genere ad esempio della poca o nulla stima concessa al genere stesso, ma più interessante perché sia pure indirettamente spiega la curiosità del Manzoni per una produzione libera dagli impacci delle regole e del linguaggio tradizionali, e che, più d'ogni altra, sembrava concedere a una rappresentazione viva e immediata e personale e, al tempo stesso, tradotta in interessi larghi, storici, involgenti quell'ansioso e rigoroso studio del vero, su cui s'era venuto affinando negli ultimi quattro o cinque anni il suo concetto dell'arte: dagli anni, cioè, della polemica romantica, attraverso i saggi in difesa della sua idea del teatro, e dell'arte in generale, e attraverso la composizione delle sue tragedie che, in parte, s'intreccia con quella del romanzo. L'esempio del suo romanzo riuscì, e vieppiù col tempo, dopo i primi e, in certi casi, forti disorientamenti, determinante. Al disorientamento delle prime impressioni corrisponderà la risoluzione del genere, sempre più pedissequamente, in una formula, dietro il modello dei Promessi sposi: il rigido fine patriottico del quadro storico; alle passioni, sostituito un rispetto morale coincidente per lo più con la morale cattolica: col risultato di render sempre più occasionale e posticcia l'ambientazione storica, limitato l'ufficio patriottico, superficiale l'invenzione, l'ideazione.
Fu il destino dei romanzi del Grossi, del Cantù, del D'Azeglio: anzi, del romanzo storico. Ma il fatto non si esauriva nel prevalere d'una formula polemica, dovuto alla straordinaria autorità dei Promessi sposi. anzi nel successo veramente straordinario del capolavoro del Manzoni il fatto stesso aveva dimostrato una sua ragion d'essere, una sua opportunità, una sua rispondenza a interessi reali. Non se ne cercherà l'espressione nei romanzi che uscirono l'anno stesso dei Promessi sposi e negli anni immediatamente successivi, quindi indipendenti ancora dal modello manzoniano ma sull'avvio, al pari di questo, dei romanzi dello Scott: nessuno di quei primi volumi vale per se stesso più dei celebri romanzi fioriti in seguito sull'esempio dei Promessi sposi. ma neppure, direi, meno. Interessi e ricerche, esperimentate dapprima nel romanzo storico, ebbero tempo a decantarsi più tardi, e questo spiega che abbiamo escluso dalla nostra silloge un qualunque esempio del romanzo storico della prima metà Ottocento pur risultando, come fatto artistico e culturale, determinante quell'esperienza nel corso della narrativa italiana del secolo.
Le premesse, i princìpi da cui moveva Manzoni nello scrivere il suo romanzo riflettono una puntuale consapevolezza delle difficoltà e delle incertezze connesse con la novità stessa dell'impresa: un romanzo in lingua moderna, e che si fondi su un rapporto, inusitato nella tradizione letteraria in Italia, col vero, e con la storia. Nell'Introduzione al Fermo e Lucia denunciava l'impaccio circa la lingua: «Scrivo male . . . scrivo male a mio dispetto; e se conoscessi il modo di scriver bene, non lascerei certo di porlo in opera». Parole e frasi d'uso generale, e che soccorrano spontaneamente a chi parla e a chi scrive, sono le condizioni d'una lingua non municipale: «è quistione di fatto; e il fatto su cui si disputa è appunto se esista o no questo universale o quasi universale uso d'una lingua comune. E a dir vero il solo cercarla è un gran pregiudizio ch'ella non vi sia»; e «Io per me, ne conosco una, nella quale ardirei promettermi di parlare, negli argomenti ai quali essa arriva, tanto da stancare il più paziente uditore, senza proferire un barbarismo; e di avvertire immediatamente qualunque barbarismo che scappasse altrui: e questa lingua, senza vantarmi, è la milanese». Anzi, sempre a proposito del milanese, non è facile prescinderne a uno scrittore: «Non è cosa facile certamente; e non è certo se questo sia un mezzo di far buoni libri». Tuttavia, spiega come si sia sforzato d'arrivare a un tipo di lingua «comune», e ci riconduce a una premessa che ha generale valore culturale: di uno stile lombardo «due classi ne ritengono meno degli altri: quegli che hanno fatto uno studio particolare della lingua toscana; e quegli altri che trattando materie generali, discusse dai primi scrittori di Europa, si sono serviti di uno stile per dir così europeo etc. etc.»; qui veramente Manzoni non solo parla di sé, ma il rifiuto della lingua nativa rientra in scelte più generali, anzi d'ambito diverso, rientra cioè nella scelta di un diverso mondo culturale, al quale gli è bastato appena accennare, come si fa di cosa ormai, piuttosto che sottintesa, risolta.
E il problema, in effetti, trattato nel primo progetto di introduzione, d'un romanzo: «genere proscritto nella letteratura italiana moderna, la quale ha la gloria di non averne o pochissimi».
La difesa del romanzo s'articola polemicamente, in questo abbozzo, in un rifiuto di tutta la tradizione letteraria, e linguaiola, attenta ai vezzi del linguaggio e non curante dell'ufficio delle lettere in una data società, in una data età: ufficio cui il romanzo risponde «quand'anche non sia altro che una esposizione di costumi veri e reali per mezzo di fatti inventati». Termini come «verisimile», e il «colore del tempo», riflettono già polemicamente un mondo astratto e pigro di pregiudizi letterari: «appena avranno letto qualche pagina cominceranno a trovare che la tal cosa non è verisimile, che la tal altra non ha il colore del tempo, e simili scoperte»: l'autore sceglierà altrove i lettori: tra le donne, innanzi tutto, poiché «elle non conoscono la maniera dotta e ingegnosa di leggere per cavillare lo scrittore, ma si prestano più facilmente a ricevere le impressioni di verità, di bellezza, di benevolenza che uno scritto può fare»: parole che anticipano la nota conclusione di questo abbozzo: «se dopo aver letto questo libro voi non trovate di avere acquistata alcuna idea sulla storia dell'epoca che vi è descritta, e sui mali dell'umanità, e sui mezzi ai quali ognuno può facilmente arrivare per diminuirli» ecc., la quale, a sua volta, richiama alla conclusione della Digressione sull'amore, con cui s'apre il primo capitolo della seconda parte del Fermo e Lucia, con la storia della «Signora»: «Se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe d'uomini che non fa quasi altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la più servile, l'ultima delle professioni» con quel che segue. La storia di queste intime convinzioni è anche descritta negli scambi epistolari col Fauriel, e con altri. Ma la radice era tuttavia in profonde esitazioni, in dibattiti intimi, che porteranno ben presto, già nel '30, lo scrittore fuori dal fiducioso gusto sperimentale, inventivo, da cui nacque il romanzo.
Non manca, anche in questa parte, la reticenza, connessa con la consapevolezza della gran parte che lo scopo generale o l'interesse complessivo del romanzo gli fanno scartare: l'amore; anzi: la passione. D'amore, e passione, la prima redazione «trabocca»: «e deggio confessare che sono anzi la parte la più elaborata dell'opera»; e appena dopo rincara: «quale è lo scritto dove sia trasfuso l'amore quale il cuor dell'uomo può sentirlo?». Su queste esitazioni intime si orientarono i dubbi, le riserve, anche di ammiratori sinceri. Il non averle sentite, l'aver creduto che bastasse l'esempio dei Promessi sposi. così apparentemente pacato e normale nella lingua, negli affetti, così progressivamente castigato o ripulito da passare spento affatto nelle mani loro, nocque ai manzoniani, e fu l'errore di fondo che condannò il genere stesso del romanzo storico a una fredda mediocrità. Questo, nei seguaci del Manzoni.
Ma, contemporaneamente ai Promessi sposi. il romanzo storico offriva in Italia altre prove nelle quali, irrisolti, si ripresentano i temi delle scelte cui s'è accennato per il Manzoni: la lingua, innanzi tutto. Irta di barbarismi, dialettalismi; e disorganica, provvisoria ove s'azzardi a tenersi più vicina alla lingua parlata; ma, assai più spesso, stretta, anche per suggestione delle fonti storiche, al toscano dei puristi. La prima impressione suscitata dai Promessi sposi. attesissimi, non riguardò che in menoma parte, e verso spiriti per lo più prevenuti, i fatti di lingua. Nel campo degli affetti fu avvertita subito la potenza, e, anche, quanto di polemico o più intenzionale fosse, o potesse apparire, nel libro. Alla spontanea commozione s'accompagnava, spesso in uno stesso lettore, un'adesione combattuta o contrastata: fu il caso dello Scalvini, del Berchet, del Tommaseo. Era facile indicare nel quietismo cattolico l'aspetto più appariscente di una intima generale difficoltà, quasi di una costrizione: il ridurre la passione ad affetti ormai senza più battaglia. Quest'impressione ci è conservata con particolare chiarezza nella lettera del Berchet alla Costanza Arconati, dell'11 settembre 1827: «tutto insieme è una bellissima cosa, e chiunque alle forti emozioni sa sostituire una più pacata emozione come oggetto di compiacenza, quegli deve sentir gusto alla lettura di Manzoni. Il rimprovero che forse io farei a Manzoni sarebbe tutt'altro che letterario. Considerato come letteratura il suo romanzo è, torno a dirlo, una gran bella cosa». Il rimprovero verteva verso certa ristrettezza morale conseguente al cattolicesimo dell'autore; la «pacata emozione» indica solo un limite, ma risolutivo, nel separare dai romanzi storici nati dopo il precedente manzoniano, gli altri, contemporanei, e ai quali in libertà s'accosta più che alle prove dei seguaci il romanzo stesso del Manzoni. Di qui che esitazioni e incertezze si conservassero sempre, sinceramente unite all'ammirazione.
Confusamente, provvisoriamente, quello che s'esprimeva pur nel romanzo storico era un senso nuovo della libertà propria dell'arte. Sotto tale riguardo, un netto confine separa la storia dall'immaginazione: mentre si respinge l'intreccio come falsità e arbitrio (e da nessuno con rigore come da Manzoni, al quale sempre ci occorre di tornare), la storia è allontanata in un ufficio di precedente, ma generico, al di fuori dell'effettivo contributo, di valore anche storico magari ma che in tutto appartiene all'immaginazione, chiesto al romanzo. Di fatto, quindi, vi rientrano i conflitti e i precipizi d'ogni passione, e, senza limiti o riguardi, lo studio della passione sembra esigere quella penetrazione, quel rigore, quella verità, che già Manzoni aveva superbamente dimostrato ma solo verso una zona particolare d'affetti: e che è esigenza dello stesso ordine che porta a rappresentare in fatti e dati della storia i parti dell'immaginazione. Tale appunto era concepito il romanzo, e per tale intima sua natura sentito come poesia, non distinto veramente da questa, anche se s'esprimesse spontaneamente nella prosa.
Da un orientamento di tale specie movevano i primi ampi saggi sul romanzo, e lo s'avverte forse più chiaramente nelle recensioni ai volumi che meno sembrassero allontanarsi dal vero e proprio contributo storico, come il Cabrino Fondulo di Vincenzo Lancetti, recensito da Giuseppe Montani nell'agosto del '27 nell'«Antologia». All'epigramma contro i romanzi storici, «che se per essi non s'è ancora ottenuto che il romanzo diventi storia, s'è almeno ottenuto che la storia si confonda col romanzo», obiettava un fatto: «il gran rigore di studi storici, per cui oggi si ricompongono gli annali di tutti i popoli, e si cercano, fin con dispendio della vita, i materiali onde ricomporli. Il lettore sagace intenderà facilmente che il gusto de' romanzi storici non potea nascere che col gusto della vera storia»: che ci riporta al campo culturale dei programmi del «Conciliatore» e poi dell'«Antologia», e forse con una sfumatura letteraria che ricorda il giornale milanese piuttosto che gli studi preferiti dal Vieusseux, direttore dell'«Antologia», nella quale la letteratura doveva rimanere marginale (ed era, appunto, rappresentata soprattutto dal Montani e da Tommaseo). Miserie sono le riserve dettate da altri interessi, di cui forse l'esempio più tipico è la ricordata lunga recensione al romanzo del Manzoni, dello Zaiotti. Questi mancava del senso della particolare natura della creazione artistica, il quale regge invece la recensione del Tommaseo ai Promessi sposi. nell'«Antologia» dell'ottobre del '27, pur tra riserve e incertezze. «L'autore degl'Inni sacri e dell'Adelchi si è abbassato a donarci un romanzo; ma volle che fosse un romanzo il più possibile degno di lui; che abbracciasse, a dir cosi, tutti i gradi dell'umana condizione, tutti gli stati del cuore umano»: sembra una riserva, incontrata già nello Zaiotti. Ma le parole del Tommaseo si spiegano in una sua idea sugli umili nell'opera d'arte, e nel romanzo: che siano non «agenti» ma «pazienti»; che si muovano in un'unità in cui l'immaginazione riassorbe in sé completamente e in ogni particolare il fatto storico facendolo spirito e idea. Idea religiosa, s'intende; ma non sarà facile distinguere dove passione e amore si facciano senso religioso o piuttosto il senso religioso sia divenuto arma per esaltare e approfondire ogni accidente minuto delle passioni, dell'amore.
Tra il '27 e il '28 il Tommaseo affinava tale suo concetto recensendo alcuni romanzi storici, dello Scott, e d'autori italiani. Nel recensire nel luglio del '28 La fidanzata ligure di Carlo Varese sottolineava il campo che s'apre al romanziere nel ripercorrere i progressi d'un fatto storico apparentemente straordinario: e citava Manzoni che, trattando della Monaca, dell'Innominato, della fame, della peste, «si gettò in questo quasi rapido fiume di verità, ne diresse il corso, le ineguaglianze del terreno sottoposto adeguò con la sapienza dell'arte; cioè gli affetti e gli avvenimenti che oltrepassavano il noto corso della natura qual noi la veggiamo, seppe preparare, maturare, congiungere con gli avvenimenti e con gli affetti a noi più familiari e più noti». Ma il romanzo che più profondamente lo colpì, con l'impressione del capolavoro, La battaglia di Benevento del Guerrazzi, uscita alla fine del '27, egli recensiva con entusiasmo (che è documentato anche dalle lettere con cui annunciava tra il giugno e l'agosto la recensione stessa, al Vieusseux) nell'agosto del '28 sull'«Antologia». Qui tornava su quella fusione, già da noi indicata, del fatto storico con l'immaginazione sorretta da una salda spiritualità, in cui avvertiva la conquista d'una unità più intima: «Giova intanto notare queste minute oscurità della storia, le quali sui fatti e sulle cagioni de' fatti più rilevanti diffondono un dubbio che può sovente aprir gli occhi a più certa e più splendida luce. Ed ecco come il contraddire alla storia conduce l'ingegno creatore ad inverosimiglianze di azioni, d'affetti, e di caratteri, delle quali non si sa la ragione dai più, ma si sente l'effetto». Nel settembre dello stesso '28 recensiva la Gertrude della Ortensia Allart, trasferendo quella sua ansia di unità spirituale nel campo delle sottili indagini degli orgogli e della passione amorosa nelle donne. Sempre, respinto l'intreccio, e quel che di combinato porta con sé: viceversa, un ampio dominio aperto all'azione delle passioni, e un gusto già sperimentale nello studiarne le tracce nel passato. Questo, è quanto d'originale porterà poi, in generale, il romanzo storico fuori dagli schemi usuali: dal Duca d'Atene, del Tommaseo stesso (che anticipa il tutto attuale e quasi diaristico Fede e bellezza), all'Angelo di bontà, del Nievo, fino alla Giovinezza di Giulio Cesare, del Rovani. Quest'ultimo romanzo, anche perché d'un gusto quasi esclusivamente sperimentale, e in campi affatto nuovi d'interessi, meglio sembra rappresentarci l'ultime conseguenze di quelle lontane premesse sulle quali ci siamo trattenuti fin qua.
Ed erano premesse originali, nate con la prima spontanea attrazione per quanto di nuovo sembrava consentire il genere stesso; il quale, ora poteva orientarsi verso una forma di descrizione di date regioni, con riguardo ad avvenimenti, ed età, d'eccezione di quelle regioni, come per la figura del Medici e la sua breve signoria sul lago di Como nel primo Cinquecento, nella Guerra di Musso di Giovan Battista Bazzoni; o più mirare a costumi in particolari età, come nella Preziosa di Sanluri del Varese; o, nella Fidanzata ligure dello stesso Varese, restringersi ad illustrazioni e rievocazioni; o, come nell’Alessio, della Angelica Palli, ispirarsi, e più romanzescamente, a guerre popolari e insurrezioni d'anni recenti: che sarà una delle vie seguite, con i romanzi di Giovanni Ruffini, e i Cento anni del Rovani, dalla formula patriottica del romanzo storico, a un tempo con l'altra, e più tipica, rappresentata da D'Azeglio e Guerrazzi. Poco rende, degli intenti della Guerra di Musso, il prologo in forma di raccontino (d'un tipo affatto diverso: di vaghi intrecci sentimentali), che offre l'occasione al Bazzoni per parlare del romanzo storico. Più interessante il saggio che Varese premetteva alla Preziosa di Sanluri: I romanzi di W. Scott e le opere di Rossini, che è un elogio della intensità e mobilità d'immaginazione, da cui la compattezza dell'invenzione nel romanziere e nel musicista. Il gusto della cronaca, della descrizione di costumi, e l'immediato scopo polemico accostano, ai romanzi storici, romanzi di denuncia variamente sociale, come Ginevra o l'orfana della Nunziata, di Antonio Ranieri, che anticipa nella violenza della denuncia l'asprezza di certi romanzi anticlericali del Guerrazzi. Si passa cosi ad un tempo diverso, dal decennio tra la prima e la seconda guerra d'indipendenza all'età dell'Italia appena uscita dal Risorgimento e avviata a vita nuova: del '53, e del '55, il Lorenzo Benoni e II dottor Antonio del Ruffini. Invece, polemica, ma antirisorgimentale, tutta la produzione romanzesca del Bresciani. Per quanto variamente accurati, o felici come invenzione, e per esecuzione, i romanzi che più propriamente rientrano sotto il segno patriottico non superano la provvisorietà non solo come fatto d'arte ma nel modo di trattare interessi generali. Romanzo storico, e romanzo patriottico, si prolungano per tutto il secolo. A partire già dal secondo decennio, con le Lettere siciliane di Santorre Santarosa e l'abbozzo d'un romanzo su Manfredi, di Cesare Balbo: piemontesi puristi in fatto di lingua. Ma come modulo letterario il romanzo storico s'esaurì in una ridotta tastiera di variazioni al modello del Manzoni. E un modello adattato, come s'è detto; mentre molto più vicini agli interessi che avevano determinato il Manzoni a rivolgersi al romanzo ci appariscono scrittori o più liberamente contaminanti il ricorso a temi storici con una curiosità per costumi, o esperienze particolari, del passato, o volti ad arricchire del profondo dominio manzoniano delle passioni romanzi ispirati (come si avrà col Nievo) a un'educazione degli affetti, del cuore, e a una più larga, complessa partecipazione, su tale indirizzo, con fatti popolari, sociali, con la realtà nuova della nazione che si viene costituendo, che vien prendendo coscienza di sé.
È vero dunque che il capolavoro del Manzoni ha ininterrottamente accompagnato per l'intero secolo le esperienze delle successive generazioni di narratori. Ma con i contributi, e le riserve, a cui s'è accennato. E che son da tener presenti, per intendere il fatto in cui sembrò più irrigidirsi il manzonismo: il modello della lingua. Vale, anche qui, quanto osservato per un suo magistero nel dominio, infinito e oscuro troppo spesso, delle passioni. La chiarezza limpida e complessa del suo periodo; certi moduli stilistici più propriamente narrativi, nelle descrizioni, nei dialoghi; certi tagli della narrazione; l'esempio d'una familiarità del pensiero, quasi come attrazione d'una possibile ulteriore popolarità: questi, e troppo più numerosi particolari, e il concorso delle minuzie su cui s'educa chi dello scrivere, anzi del narrare faccia professione, portavano i narratori a subire la suggestione o l'invito d'una scrittura razionalmente ordinata, d'un pensiero sottilmente articolato fino al sospetto d'una mancanza di colori, o d'una eccessiva democraticità: come poteva apparire a chi avesse presente tuttora e vivamente sentisse l'altra tradizione, più propriamente poetica. Come, cioè, accadeva a Carducci, pur curioso delle esperienze narrative dei suoi giorni e sincero estimatore del Guerrazzi romanziere. O come appariva a narratori, impazienti nell'ansia d'una confessione tutta diretta e immediata. A Tarchetti magari: non però a Tommaseo, né a Nievo, né ai veristi. Solo su questo residuo, di un controllo troppo consumato (e denunciato perennemente, si può dire, anche dai più sensibili tra quanti si rifanno a Manzoni), opera costantemente la suggestione, a suo modo potente, dei lontani esempi del Foscolo, assunti quasi a mito di una scrittura più ispirata e rivelatrice, e di valori d'una più libera modernità e nel campo degli affetti e degli ideali umani e politici.
Il trattato di Campoformio, da cui il Foscolo derivava la commossa narrazione del suo Iacopo Ortis, è ancora presente nel ritratto giovanile del protagonista delle Confessioni d'un italiano del Nievo. Però è un ricordo tutto versato nel presente quanto più sentito come lontana memoria: e voce, quindi, serena e confortatrice e quasi augurio per l'oggi, e per il domani. È lo stesso addio di Carlino ai sogni della giovinezza, addio impaziente di misurarsi con impegni più virili, che apre la seconda parte del romanzo ma, nella conclusione del suo frammentario racconto San Marco, più direttamente unito alle memorie di Venezia: «Oh! San Marco! San Marco, il tuo nome fu un grido di gioventù che forse non sarà più ripetuto dal senno pratico e virile; ma è una buona memoria, e tu, santo Evangelista, meriti a buon conto la nostra gratitudine. Del resto la giovinezza delle nazioni non è l'età dei poemi? e qual uomo non serba un religioso amore all'età prima del caldo entusiasmo? e chi dispererà mai di avverare nell'età matura qualche sogno dell'età fiorita?»: cui segue il celebre «addio» alla giovinezza, che ritroviamo nelle Confessioni, e appena un poco mutato da questa prosa: «Addio, fresca e spensierata giovinezza» ecc. Nulla più del romanticismo, per dir così, del protagonista del romanzo foscoliano; e più nulla dell'ossequio a fermi princìpi, in cui sfociava la riduzione di tutti gli interessi a quello, che tutti li comprendeva, del vero, nel romanzo del Manzoni. Nei Promessi sposi il perenne imminente richiamo a un vero che è oltre le vicende umane e le umilia della presenza d'alcuni princìpi, per quanto non tocchi la sostanza poetica, il valore dell'opera, pone tuttavia come uno stacco preciso tra l'interesse per i protagonisti popolani e il mondo spirituale dell'autore, li allontana, per così dire, dall'autore. Invece nel Nievo l'energica riduzione, alle passioni e ai sogni della propria giovinezza, d'ogni interesse, d'ogni programma, ci mostra un rapporto più confidente e intimo, un'educazione a un realismo quotidiano e dimesso, un programma di fronte alla vita, al domani, tradotto in interessi pratici e concreti, e, in questo, popolare, diretto a rappresentare e spiegare mentalità, affetti, ragioni, e destini del popolo, ma entro il preciso confine storico d'una data situazione, d'una data regione, il Friuli magari, e lo si estenda a Venezia, e alla Lombardia, e con curiosità anche più articolate, che è dato seguire e nel narratore e nel saggista politico. Comunque, il distacco da Manzoni non potrebbe esser più netto. E dal Foscolo. Non solo per l'Ortis, ma anche in una zona dove l'affinità parrebbe intima, nello spirito sterniano, o, più genericamente, per l'attrazione che Nievo sentì forte, sempre, per un venato, discreto umorismo; proprio in questa parte, l'aristocraticità che un simile atteggiamento assume nel Foscolo impedisce di portare oltre un generico richiamo l'amore per l'umorismo del Nievo narratore, nel quale anche questo tratto rientra in un amore d'ogni dato distintivo, del particolare, e del semplice: ha, cioè, origine e trae motivo da quella cerchia d'interessi di cui s'è detto, e ci dà una componente dell'accento particolare che acquistano in lui.
L'attività del Nievo rientra nel decennio tra il '50 e il '60. Col Nievo, ha non origine, ma trova concreta materia d'interessi e di rappresentazione ed elaborazione artistica un prospettarsi nuovo dei problemi del paese negli anni in cui l'Italia si veniva costituendo in nazione: un guardare alla storia non più in nome di princìpi generali o di provvisoria polemica, com'era avvenuto quando l'Italia non era ancora un fatto presente, un problema nuovo, e irto di nuove difficoltà, e di residui, e di incognite; una prospettiva diversa della propria stessa educazione, dei compiti pel prossimo avvenire. Di qui, quel confidente guardare al passato di Venezia, nell'Angelo di bontà e nelle Confessioni, che preannuncia per questa parte - e solo con un prevalere della fiducia, pur negli scoramenti momentanei, sul disagio, sulle difficoltà - l'età che Nievo non arrivò in tempo a conoscere. È una confidenza, verso le memorie storiche della propria città, che muove dalla riduzione d'ogni dato dell'esperienza propria a un controllo interiore nuovo, e che intende determinarsi non in sfoghi, altro elemento caduco del passato, ma in ricognizioni concrete, da cui l'interesse per il popolo, e per un senso tutto fresco, originale, dell'esperienza sentimentale, del mondo degli affetti, delle passioni. Naturalmente, non trovan luogo nella nostra silloge scrittori ai quali son dedicati volumi a parte; come Nievo, appunto (e come sarà per Verga). Perciò s'è accennato al Nievo limitatamente a quanto interessa la descrizione dell'età apertasi con la costituzione del Regno.
Sembrava venuta l'ora degli esami di coscienza, del paragone della nuova con le precedenti generazioni: pigmei di fronte agli spiriti grandi del recente passato. In tutto pareva di scorgere una riduzione a piccole cure: e di nuovo anche il romanzo - trionfava già il romanzo d'appendice - ne faceva le spese. Era un'impressione soltanto, nulla più, ma spiega l'autorità, la suggestione di nomi come Guerrazzi, Foscolo, e poi Mazzini, Gioberti, Tommaseo, adatti tutti a significare un'età di princìpi ideali, di alta ispirazione lirica: e vi rientrava in pieno, e come poeta e come autore dei Promessi sposi. il Manzoni. Ma con gli altri, a rappresentare un passato, e, al più, un'eredità, e quanto mai genericamente. Il Guerrazzi poteva esser amato ora unito al Mazzini ora al Tommaseo, da laici al pari che da cattolici, e mai pacificamente, ma senza impazienze e rivolte contro l'uno o l'altro degli aspetti di quegli scrittori: quel che li univa, che manteneva il senso di una grandezza, era più un'inclinazione degli affetti, una forza individuale, che non una ragionata adesione a precisi indirizzi di pensiero da parte degli uomini delle nuove generazioni. Era il tipo d'ammirazione che in quegli anni riscuoteva ancora il Byron. Si trattava d'un interesse volto a forme e caratteri d'espressione lirica, poetica, e in cui operava sempre, in diverse maniere, la suggestione della tradizione. «Il cervello forse correrebbe da una parte e il cuore dall'altra», diceva, dell'umorismo inglese e veneziano, a spiegare la sua adesione al secondo, il Nievo: ed era una condizione generale, degli anni in cui pur si veniva affermando il proposito d'una attenzione al particolare reale, al vero.
Prima del '60 il Tommaseo aveva accolto con energia e ricchezza interiore e originalità straordinaria le tendenze e le aspirazioni nuove indirizzando l'individualità passionale (prima rovesciata nella confessione amorosa di Fede e bellezza - che è del '40) sulla via di una progressiva conquista della confessione diaristica come strumento narrativo, e cioè di un'espansione ancora passionale, accentrata negli affetti, ma aperta a intendere caratteri e valori spirituali nelle tradizioni e nel linguaggio popolare. Questo, nella revisione decennale del romanzo; e, negli stessi anni, orientandosi verso nazioni o genti di lingua diversa, affinando un linguaggio dimesso e popolare («il fiorentino delle mercatine») a un tempo con l'ideazione e l'attuazione, in parte, di libri in molteplici lingue. Cercava, nelle tradizioni e nelle usanze popolari di terre e regioni particolari, un senso al destino della cultura, e una ragione alle forme del linguaggio proprio alla commozione lirica, alla poesia. La Toscana dei giovani Carducci e Nencioni - il primo, sospettoso d'ogni novità straniera; il secondo («Ma tu sai, meglio d'ogni altro, caro Martini, che io aveva fin d'allora opinioni letterarie in gran parte opposte a quelle dei miei amici, e che peccavo, e ho poi peccato, e pecco forse ancora oggi, nell'eccesso opposto. Avevo e ho sempre conservato un culto per i grandi poeti stranieri moderni ; e allora le mie letture favorite erano Goethe e Byron, Schiller e Victor Hugo. Gli amici pedanti mi volevano bene ma mi compativano come uno sviato») non meno stretto a tradizioni locali perché rivolto alla letteratura europea - restava la sede ideale d'una carriera come quella cui s'è accennato, del Tommaseo, e che sfociava nelle nuove poesie nate dal secondo esilio, in Corfù, posteriori al '50.
Impazienza verso ricerche non determinate, non precise nella scelta degli indirizzi culturali; insofferenza di una poesia di generica astratta modernità, senza parentali, senza origini: tale l'indirizzo che il giovane Carducci impresse alla cultura in Toscana, orientando le ricerche filologiche verso tradizioni popolari o esempi di pensiero nazionali: e nella poesia, giovenilmente, promettendo: «sosterremo a mezza spada, finché morte ne segua, la scuola antica e con lavori di nostro e con osservazioni su gli altri» (che spiega la stima sproporzionata per una poesia come quella del Giusti, anche fuori di Toscana: nel Nievo giovanile, ad esempio, per l'illusione che nel Giusti vi fosse come una ripresa di certo animo pariniano). Era tendenza sostanziata di un'educazione all'espressione lirica, però volta a programmi del tutto attuali e caratterizzati, intenzionalmente, da una coscienza delle tradizioni locali, regionali: non contro il significato generale dei fatti culturali; piuttosto, contro certe soluzioni del recente passato: ancora, l'impazienza per i «significati» dei Promessi sposi. L'aprirsi di quel gusto storicizzante, lo studio dell'ambiente nativo, verso nuovi orizzonti, era già nelle relazioni implicite nel fatto delle particolari tradizioni della poesia popolare: di regione in regione, di paese in paese; un tema già coltivato nella prima metà del secolo ma che prendeva prospettive nuove in Italia in questi anni.
Nel settembre del '58 il Carducci scriveva il proemio al periodico del gruppo di cui era capo in Firenze, «Il Poliziano», e prima della fine dell'anno, il saggio Di un migliore avviamento delle lettere italiane moderne al proprio lor fine, che conteneva programmi e ideali comuni: quei programmi che, per parte propria, il Procacci verrà svolgendo nelle sue ricerche sulla poesia popolare nel Sei-Settecento, e che son da tener presenti, a intendere la narrativa toscana dal Pelosini a Fucini, Procacci, Martini, cioè per la seconda metà del secolo. Poesia di popolo: e poesia originale, dal Tre a tutto il Quattrocento, e, innanzi tutto, nel teatro, dove «la commedia della vita intrecciasi alla tragedia del sacrifizio, e al fervore delle passioni e al furore del martirio e al mistero della religione s'accompagna il dialogo famigliare, e i personaggi del Testamento hanno movimenti quasi d'uomini contemporanei come negli affreschi di Masaccio: e potrebbesi metter pegno che il Prometeo e le Supplicanti più rassomigliano ad alcuna di queste rozze rappresentanze che non a una pulitissima tragedia del teatro francese». Poesia oggi viva tuttora nei canti delle processioni, che Carducci ricordava d'aver trovato in pubblicazioni «stampate in carta straccia dai Vestri e Vannuccini in Prato, dai Martini in Colle, in Lucca dai Marescandoli Benedini e Baroni, nelle canestre dei rivenduglioli di piccole merci tratte intorno per i mercati e le fiere del senese e del pisano e per le montagne di Pistoia e di Lucca».
Vi manca, si potrebbe dire, la Toscana delle città ; Firenze innanzi tutto: la Firenze del Collodi. Ma è vero solo in parte. Il Collodi sta a sé, quasi fiorentino d'una Firenze che a Carducci doveva finir per dispiacere, e, dopo il '60, caratterizzata da «circostanze piccole, anguste, angolose». La tradizione, cui Carducci aveva guardato, e un po' in astratto, era un fatto generale, che si determinava in tradizioni locali di volta in volta diverse, unite da una comune istintiva aristocraticità d'umori, di spirito, anche nelle campagne, sui monti, e che al Carducci, troppo diverso, diversamente popolano, non poteva parlare, come invece aveva parlato a Tommaseo, e come parlerà ai narratori che pur avevan fatto cerchio a Carducci negli anni del suo soggiorno in Toscana, dal '55 al '60 soprattutto. Bologna consentiva a Carducci di passare ad altri orizzonti d'interessi culturali. Ma quella istintiva signorilità dei modi, certa arguzia, a volte consumantesi in gratuita sottigliezza; e gli interessi, del resto, precipuamente narrativi, verso cui si veniva indirizzando l'ambiente artistico toscano, e innanzi tutto fiorentino, estranei ormai a Carducci, costituivano un terreno comune a scrittori rivolti a tradizioni paesane, come Procacci, Pelosini, Fucini, Pratesi, e cittadini come Collodi, Martini, Nobili. Interessi narrativi: a Firenze era arrivato, nel '64, Capuana; a Firenze erano operanti Procacci, Martini, e vivaci le dispute sull'arte nuova, anche se sempre con un gusto provvisorio e sperimentale. Che non doveva dispiacere a Capuana; e, del resto, i fiorentini facevano gran parte ai rapporti con altre arti, e liberamente coglievano suggestioni e suggerimenti da manifesti e programmi, artistici e letterari, che venissero dalla Francia, con la quale i rapporti culturali in generale s'eran mantenuti fitti e costanti fin dai tempi del granducato.
Però tutto, in Firenze, e nella Toscana, era accolto e discusso liberamente e, per così dire, alla giornata, con gusto sperimentale. Con sospetto, quindi, dell'eccezione, cioè del passaggio dalle innovazioni nelle forme dell'arte - in cui è sempre un rapporto tecnico, artigianale quasi, con l'esperienza dell'artista - alla innovazione nel concetto stesso di quel che possa esser dominio o campo dell'arte. Si fa sentire con forza la presenza, in questa parte, d'una tradizione non solo letteraria e culturale ma anche, nella Toscana granducale, d'una civiltà o di un'unità regionale abbastanza nettamente distinta. Ma su questo si dovrà tornare più avanti. Del Fucini, scriveva Procacci presentando la prima edizione delle Veglie di Neri, nell'82: «Tra lui e l'oggetto della sua osservazione nessun'ombra, nessuna nebbia, nessun tremore crepuscolare»; è, il suo, il comporre dei «macchiaioli», aggiunge, più adatto al bozzetto: «Qui si presenterebbe a tentarmi il tema dell'obiettività dell'arte secondo le teorie del Flaubert, dello Zola e del Verga. Ma non farò al lettore un brutto tiro, né mi metterò con sì poca vela in questo mare dove naviga da padrone il mio vecchio amico Capuana». Intanto, scarta come «diario» la teoria dei «fatti diversi», e dell'«impersonalità», parole che cita da un passo della lettera a Salvatore Farina che apriva L'amante di Gramigna del Verga. «Diario» che non «potrà mai sostituire il Dramma e il Romanzo». È un omaggio alla tradizione. Non alla autorità, ma alla comodità pratica: il nuovo, considerato nella vita, fuori da strutture tradizionali, normali, fuori dal semplice o dal solo approfondimento in sede espressiva, lo trova dubitante, anzi, disinteressato. Il sentimento della vita, e della vita moderna, sì, ma normale ancora della normalità della tradizione: al Fucini «non gli manca il sentimento dei mesti e gravi problemi dell'età sua»: l'espressione non va, e non vuole andare, oltre un senso generico.
Questa tradizione toscana era tuttavia una forza: consentiva, intanto, un confronto concreto, nella polemica attuale che investiva tutta Italia, d'insoddisfazione dei tempi nuovi: anche oltre l'occasione, così provvisoria e limitata, della scontentezza per l'invasione - seguita al trasferimento della capitale a Firenze, e poi a Roma - di abitudini e di misure che urtavano il costume locale, s'offriva ricco d'elementi il confronto, e paragone, con la vita locale d'un passato ch'era ancora memoria e nostalgia di ieri. Quindi uno sperimentare il nuovo ma riconoscendone le ragioni in quel recente passato; un proporre, e avviare l'unità generale della nazione nuova su quel contributo reale, preciso, quanto pur circoscritto: elemento popolare, studio del vero, insinuazione costante di apporti più specificatamente locali, sicurezza nella ricognizione d'elementi non solo nazionali ma europei nel costume, nel pensiero, nell'arte.
E l'impressione particolare di civiltà, di complessità, che rendono le pagine, quando riuscite, dei toscani dell'Ottocento. Ed è la ragione delle contraddizioni e delle difficoltà in cui si svolse la produzione degli Scapigliati.
Il Carducci tuonava facilmente contro la poesia degli Scapigliati, esaltando, in Dieci anni a dietro, del 1880, il Betteloni, né, veramente, risparmiava la prosa narrativa in uno dei loro più tipici rappresentanti, il Tarchetti: la ragione, la solita sempre: che senza forma non c'è arte. E questo, quanto alla loro scrittura, ad una parte cioè in cui più vivamente condussero la polemica contro il recente passato e vollero comportarsi da innovatori. Anche la loro fu una produzione sperimentale. Ma non, come nei toscani, per netto gusto del nuovo, fiducioso sempre in ragione d'un ben radicato costume, e i cui arricchimenti e apporti si concretano e traducono nel campo dei fatti espressivi, e la polemica si medica e si concreta, o circoscrive, nel campo delle memorie, sullo spontaneo ricorso e confronto con la Firenze o la Toscana di pochi anni a dietro. Questo termine naturale, familiare, locale, stretto bensì alla esperienza individuale ma non astrattamente privata, è reso impossibile dalla situazione storica: Milano, o più in generale Lombardia e alta Italia, erano stati occupati militarmente, campo d'un dominio straniero, o comunque reazionario, e privo, come il Piemonte, di effettive operanti tradizioni comuni e patrie, popolari, originali, come invece la Toscana: non concedeva quindi un qualunque concreto termine di confronto alla polemica contro i tempi nuovi, contro l'Italia uscita dalle guerre risorgimentali e che per tante parti apparisce come un compiaciuto mondo borghese contro il quale la Scapigliatura s'atteggia a rivolta. Ma questa rivolta non può non urtare contro la società stessa che rappresenta la rivoluzione, il Risorgimento: troppi legami uniscono la mediocrità dell'oggi ai sogni eroici del recente passato, che prevalgono su ogni diverso fatto tradizionale, e divengono limiti fortissimi alla polemica stessa. Milano, negli Scapigliati, risulta una città necessariamente ridotta, nei tratti più spiccatamente locali, a minute note del costume: teatri, caffè e trattorie. Vi si insinua bensì il rapporto con un mondo reale ma, innanzi tutto, conquistato letterariamente, come la Parigi della poesia e del romanzo francesi a metà Ottocento. L'attaccamento a note minutissime del costume locale, a volte gelosamente ricostruite nelle loro tradizioni - i Cento anni del Rovani - contrasta con un sottolineato distacco dalla realtà popolare e sociale della città stessa per l'atteggiamento ribelle dello scrittore, che non trova reale inserzione nei problemi né della città né del paese, della nazione; e non si inserisce nel costume stesso attuale, non lo interpreta, combatte, dirige: più che di aristocratici o di isolati il loro resta un atteggiamento sofferto bensì ma, nelle forme in cui si determina, un atteggiamento solo letterario, di letterati più o prima che di narratori.
Il loro impegno non trova addentellati spontanei per le ragioni indicate, perché alla polemica contro la realtà del giorno manca un concreto termine di paragone: il potersi rifare a dati concreti dell'ambiente stesso e legare a ragioni effettive la battaglia per il domani. L'eredità risorgimentale è inutilmente esaltata, come fatto locale, quale tradizione culturale su piano nazionale: la tanto contraddittoria esaltazione del Manzoni deve slittare verso zone affatto diverse d'interessi e ricerche, dal ricorso immediato alla confessione individuale, allo spontaneo orientare questa verso più connaturali intime ambiguità nel campo dei valori, dei princìpi. Di qui lo spostarsi del romanzo storico, per tanta parte tradizione locale, verso una satira governata dalla fantasia, o verso il gusto dell'eccezionalità e straordinario delle tradizioni, del costume cittadino, già trasparente travestimento dell'interesse per eccezionalità, e irregolarità, e straordinario, delle passioni, degli affetti. Anche polemicamente, offriva il pretesto, o legittimava simile atteggiamento l'esplicita riserva, proprio su questa parte, dell'autore dei Promessi sposi. Ma era non un'integrazione, era una sovversione: l'avvento del dominio dichiarato dello studio della passione, nell'individuo e nella società, in quanto ha di patologico, di strano, diverso. Fu programma nel Rovani, e, in diverse direzioni, fu il campo degli esperimenti degli scrittori della Scapigliatura.
Apparentemente, il Rovani, nelle dichiarazioni di massima che accompagnano i Cento anni e La Libia d'oro, sembra muoversi sulle orme del Manzoni; ma quel che l'interessa, dell'uomo, e del passato, lo pone in troppo diversa sfera: nel Preludio della Libia d'oro scriveva: «Le opere del pensiero che si propongono di pescare nel procelloso oceano dell'umanità tornano assai più utili mettendone in mostra tutte le malattie di essa, e meglio ancora se codeste malattie sono strane e di ambiguo aspetto, che esponendo quadri d'impossibili idealità rosate, che fanno ridere i tristi, e non scaltriscono gl'ingenui. Chi ha sortito dalla natura lo spirito di osservazione, e, un po' per l'istinto, un po' per l'esperienza, ebbe più sicuro il modo d'esplorare nel profondo dei cuori e delle attitudini, può nella sfera psicologica fare scoperte, che riescono impossibili a chi, nato per tutt'altro genere di studi, ha l'osservazione ottusa e fallace. I libri d'arte che drammatizzano la filosofia e la psicologia non saranno mai inutili, quando esporranno all'attenzione e alla riflessione di chi legge tutte le varietà delle malattie del cuore e dello spirito umano. Fu detto che l'arte deve sdegnare le eccezioni umane, ovvero sia le deformità; e non ammettere sul campo che i tipi, ovvero sia le generalità, che l'intelletto anche il più ottuso riconosce a prima vista, perché li vede tutti i giorni e dappertutto. Ma se questo è un precetto antico, circoscrive di troppo il cerchio dell'arte, di quell'arte che si confedera alla scienza e non sta paga al solo diletto. Tutte le eccezioni sono un modo dell'esistenza e della vita; rifiutarle e condannarle vuol dire non mostrare che un lato solo del vero; ma la verità si falsa se non la si scopre da tutte le parti. Il naturalista non raccoglie soltanto i modelli della natura più normale e più perfetta, ma fa una sezione di tutte le imperfezioni, di tutte le anomalie. Ora l'arte della parola deve spingersi molto più oltre delle altre arti, e dev'essere vasta come l'umanità; ciò che è conteso alla plastica, perché essa ha ad occuparsi esclusivamente del bello, il suo solo istituto essendo quello di rappresentare all'occhio le armonie visibili; è conteso alla musica, perché, volere o non volere, il suo primo debito è di provocare sensazioni gradevolissime all'orecchio, ed è esonerata dall'obbligo dell'insegnamento; se insegna qualche cosa, non è per se stessa, ma per gli aiuti che tiene dalla poesia, la quale nelle opere drammatiche le fa costantemente da suggeritore». Non si potrebbe più disavvedutamente trattare i rapporti tra le arti, la musica e la letteratura: ed era pure il principio cui più, forse, tenne il Rovani. Si trattava d'un fatto pratico, almeno in parte, conseguente alla sua professione di critico musicale e di critico d'arte: attività provvisorie, rette da una informazione appena giornalistica e dalla necessità di seguire, più che l'arte in se stessa, le forme di spettacolo in quanto elementi della storia del costume: era quanto veramente lo interessava come romanziere.
Né soltanto, come pur s'è detto, era un fatto pratico, o esteriore: l'osservazione professionale dei dati espressivi particolari alla musica, e alle arti, gli offriva l'occasione di sperimentare i contributi che da quelli potevan venire allo scrittore, e credeva d'acuirli, di penetrare oltre i dati sensibili delle varie forme espressive, col ricorrere a termini e processi delle scienze naturali, o della medicina: ma, in generale, ad orecchio, per così dire; per cui monche e generiche e provvisorie restano le osservazioni e i giudizi suoi sulle diverse arti e sui reciproci rapporti tra queste. Ma non è un motivo per trascurare del tutto l'uso cui pur potessero servire, in Rovani già orientato verso la rappresentazione di stati passionali del tutto d'eccezione e anormali e patologici. È la via consapevolmente scelta, e con progressiva determinazione, dai Cento anni alla Libia d'oro fino alla Giovinezza di Giulio Cesare. S'è preferito per tale ragione presentare quest'ultimo romanzo, pur tralasciando alcuni capitoli, o perché aggiunti fuori dal quadro effettivo delle «scene», o perché ripetizione di situazioni già descritte, o superflui: condizioni che si verificano in tutti i romanzi del Rovani, scritti sempre in appendice alla «Gazzetta di Milano», con perpetue interruzioni, riprese, giustificazioni, parentesi: e più nella Giovinezza di Giulio Cesare. che uscì l'anno stesso della morte dello scrittore, e compiuta in condizioni ancor più del solito accidentate.
Uno studio, quale s'indica nel Rovani, si dimostra più insistente nel rilievo e nella espressività chiesti al termine, alla parola, più ancora che cercati nei fatti stilistici, limitati invece a una fissità e ad un rilievo della scena, o del ritratto, che riproducono in sostanza lo studio d'effetti più scoperto o più accentrato nella eccezionalità del singolo termine. Questa parte è condotta molto più avanti nella Giovinezza di Giulio Cesare che negli altri romanzi. La povertà estrema del pensiero è medicata o distratta nella risoluzione totale dell'effetto chiesto al termine, che porta fuori dalle forme d'esperienza comuni, e propone già un'eccezionalità di ricerche; questo nella Giovinezza, mentre la prosa della Libia d'oro e dei Cento anni era quanto mai dimessa. Il passaggio stesso alla sostenutezza della pagina conferma l'esteriore provvisorietà e la scarsa incidenza d'ogni ricerca del genere: per così dire, era lo scotto del suo aver rinunciato decisamente alla suggestione del modello manzoniano, pur esaltato sempre come un capostipite, come lo stabile termine d'una tradizione in cui iscrivere ogni progresso ulteriore. E a qualcosa, anche in tale direzione, perveniva, pur entro un ambito di descrizioni d'anormalità e violenze nel costume, nella passione: a conservare, alla libertà completa dell'esperienza affettiva, delle passioni, alla confessione e all'umanità dello scrittore stesso, un indirizzo, e un interesse ancora obiettivo, di descrizione, di indagine romanzesca; un determinare i primi nuovi termini d'una tradizione. Che rimane il compito cui se pur difficoltosamente e parzialmente concorse l'esperienza degli Scapigliati: segnare i termini d'un rapporto con interessi generali, ridare prospettiva a una tradizione, fissarne il principio in un recupero del costume, dei luoghi stessi; sanare una cesura, sentire ancora un'esperienza, contrastata, in valori certi. Debbono pur essere questi i motivi per cui gli Scapigliati s'ostinarono a ricostituire proprio nel nome del Rovani una continuità con la tradizione, quasi assumendola a un mito appunto nei nomi del Manzoni, e del Rovani. Non basterebbe a spiegare la sproporzionata stima riservata a Rovani il magistero esercitato dalla cattedra - come la chiamava Dossi - in cui più risaltava il carattere di ribellione e novità degli interessi e delle esperienze comuni, dei caffè, delle trattorie, delle libere discussioni dei cenacoli artistici: i princìpi cercati, per quanto confusamente e indebitamente, nei rapporti tra le arti, e, più, la materia dei suoi romanzi, certa ricchezza di indagine nel costume locale, dovevano ben apparire come le tracce d'una tradizione, un principio d'interesse comune.
Tra il '60 e l'80, a Milano, a fianco dei lombardi, sono operanti meridionali, toscani e piemontesi. L'avventura aneddotica allarga i confini, tocca Torino col sodalizio della «Dante Alighieri», sul quale alcune tra le più curiose informazioni ci verranno da Capuana: ma si tratta d'un circolo di giovani, e di programmi confusi; non tanto, tuttavia, che il ricordo non ne sia durato significativo al pari e tra i componenti e tra gli amici esterni come, appunto, Capuana. Nel ricordo, i primi potevano legare l'inizio delle riunioni con l'arrivo a Torino, nel '63, di Emilio Praga e Arrigo Boito per la rappresentazione de Le madri galanti, scritto in comune, e caduto in teatro. Capuana segnava piuttosto tra il '65 e il '70 l'attività della torinese «Dante Alighieri», al cui centro erano Roberto Sacchetti, Faldella e Giacosa. Discussioni generiche, entusiasmi generici: ma Capuana intitolava il capitoletto dedicato a quel gruppo, in particolare a Faldella, Un ignoto: uno del gruppo, Giovanni Massa, del quale Capuana indica alcuni tratti in racconti, in particolare, del Faldella (in Figurine, il conte Oscar di Gentilina, il protagonista di Vita nell'aia, di Lord Spleen; e Gaudenzio, in Conquiste, e altri tratti nel giovane protagonista del Male nell'arte, soprattutto nel Pinotto di Rovine) e del Sacchetti (nel Riccardo il tiranno e nel Cesare Mariani). L'ironia e la pietà determinano il carattere provvisorio, generico, piuttosto che del personaggio, degli interessi che in quello vorrebbero trovar voce. Si tratta d'indirizzi, ancora, sperimentali, che s'appoggiano ad ideali - venati al più d'un controcanto ironico - risorgimentali. Era più facile reperire la distanza che li separasse da uno scrittore assunto ormai tra i classici, come Manzoni, che non quella di stabilire prima o poi con gli scrittori ufficiali del luogo: vale a dire, culturalmente si è in una situazione del tutto vaga.
Almeno, Emilio Praga trascrisse fedelmente i termini d'una formazione d'ambito sentimentale. Tra il '60 e l'80, si presentava come una situazione generale. E che non rispondeva, a Praga, nel verso quanto nel controllo più prossimo, più confidente, normale, della prosa: nella trascrizione del tutto sciolta, libera, d'una confessione affidata alla fantasia, all'invenzione, ma senz'ombra di forzature di lingua o di stile o di convenzioni retoriche. Quanto ha ottenuto nel suo romanzo Memorie del presbiterio. Le altre poche prose sue ci danno, per così dire, la mitologia spesso bizzarramente fantastica, romantica, di una disposizione sentimentale: e rispondeva a una situazione generale anche quel portare disagi e ansie interiori a specchiarsi in personaggi d'eccezione fino al fantastico e al grottesco. Si trattava, inoltre, di un'assimilazione culturale, per quanto del tutto ancora provvisoria: di portare a fondo curiosità e ambizioni sperimentali: prima sul piano spirituale che su quello delle soluzioni stilistiche, tipo Dossi o Faldella, e in cui pure sembran venir riassunti, di preferenza, significati e valori della Scapigliatura.
La violenza, la furia, posson esser ben altro dalla frettolosità e dalla provvisorietà, e anche mescolate con queste non vi si confondono al punto di perdervisi; è significativo che, nonostante intemperanze e contraddizioni, Tarchetti abbia tradotto più decisamente su un piano narrativo e dato una meno dispersa espressione a certi temi a cui tendenzialmente portavano le opere degli altri più o meno a lui vicini, lombardi o piemontesi. Anche nelle scelte culturali, non che avesse più pazienza; e tuttavia, ne assumeva i dati decisamente riducendoli ad una funzione tutta pratica e strumentale, sfruttandoli come miti, o, inversamente, come idoli polemici: già a cominciare dal «suo» Foscolo, o dalla recisa impazienza verso Manzoni. Assai più che in Faldella o in Praga, si sente in lui che Manzoni appartiene ormai del tutto a un mondo di valori scomparso. Lo stesso si dica per gli ideali del Risorgimento. Questo, quando in ogni altro l'attaccamento alla cronaca politica e ai miti risorgimentali ci si presenta solo in un limite di insinuante fatale retorica. Tarchetti s'era in pieno abbandonato alla polemica antimilitarista, che non lasciava posto che a sentimenti d'ambito universale: amore, natura, malinconia, gusto delle esperienze sentimentali. Fatti, bensì, riducibili tutti genericamente a precedenti letterari e culturali romantici, ma assunti in un loro astratto valore atemporale, liberati d'ogni riferimento prossimo: che, nel caso particolare, avrebbe riportato alla recente storia politica e letteraria della nazione. Contro questo recente passato il rifiuto si è addolcito solo d'una assunzione dei motivi polemici e temi mitici: la genericità cede così a una proiezione di un'ansia interiore in un campo, per lo meno, sgombro, o, sia pure, vuoto. E la dimensione, tra astratta e lirica, della sua narrativa: comunque, una dimensione, o una qualità d'invenzione, che spetta alla narrativa, più che alla confessione o agli esperimenti marginali, limitati, del bozzetto o delle trascrizioni di gusto saggistico.
Spesso i racconti di Tarchetti seguono una falsariga: soprattutto i primi; il protagonista gli si divide o sdoppia, quasi per l'impaccio di condurre i casi secondo un disegno definito: l'inclinazione al fantastico e al macabro ci porta ad avvertire quanto, anche negli altri narratori, un impulso astratto e lirico covasse sempre nel più intimo d'ogni invenzione. Solo che, in Tarchetti, il fantastico, o l'orrido, o l'anormale, insistono in ragione d'una diretta, violenta sofferenza. Da questa vien tutta la consistenza dei protagonisti, e dell'invenzione, nonostante le ripetizioni e una particolare monotonia che sembra identificarsi con la natura o l'indole d'ogni suo racconto. Il Tarchetti tratta sempre come unica essenziale verità, ed esperienza, quanto può in altri apparire come un esito più o meno fatale o implicito, mai però assunto a descrizione d'una angoscia tutta aperta e presente. Di qui una fissità, monotona, ma spiritualmente inquieta, in allarme.
Il Faldella, in A Vienna, la sua prima e una delle sue più felici relazioni di viaggi, alla vista d'alcuni soldati austriaci usciva nell'augurio: «Oh si avverasse la sublime malinconia di Iginio Ugo Tarchetti! Non ci fossero più guerre né soldati! Si alzasse la statura dell'umanità lasciando tutto alle spose il rigoglio ventenne della gioventù popolana che ora si decima nelle battaglie o si guasta nelle caserme! Gli unici soldati fossero i carabinieri e le guardie campestri, gli unici nemici i malfattori!». In questo augurio il ricorso al nome del Tarchetti si oblitera e corregge subito nella prevalenza del buon senso inteso a decifrare sul piano della realtà quella «sublime malinconia» (e nella definizione s'avverte un distinto preciso stacco tra sogni e avventure da una parte, e reale esperienza, sia pure destinata quest'ultima ad affondare progressivamente nella retorica d'un costume sociale e letterario: la preoccupazione di salvare «carabinieri» e «guardie campestri» non ha altra funzione qui). L'interesse dell'osservazione del Faldella è in questo, che comporta un riconoscimento, verso i tedeschi, culturale e letterario, il quale sembra implicitamente esigere il richiamo - e sia pur limitato e corretto, come s'è detto - al nome del Tarchetti: «Oramai le smanie di Berchet sono diventate per noi precetti di retorica. Voi vi ritraeste nei vostri bacini, sui vostri fiumi, sui vostri laghi, dopo aver lasciato all'idea secca ed ispida della nostra patria classica e collettiva la freschezza e la morbidezza dell'io, del sentimento personale e individuale». E, nel Male dell'arte, all'autore, il protagonista: «Questa vi parrà una fantasticheria fumata dal cervellone di uno scrittore tedesco saturo dei vapori di birra. No: è pura storia, poco esterna, ma molto interna, come deve essere la storia di un'anima». «L'io», la «storia di un'anima», o ancora, nel viaggio a Vienna, il senso dell'ideale nell'arte: «a me piace il bello, anche quando è più bello del bello terrestre e l'orrido idem». È una situazione che, se vale per romanzi e racconti del Faldella, ha però un riferimento diretto ed esclusivo alla narrativa del Tarchetti. Anche il sottotitolo del Male dell'arte di Faldella: Quasi dal tedesco, sembra sottolineare un genere, un gusto, un senso del fantastico, e magari un richiamo a scrittori stranieri, che son tutto un riferimento a un carattere e a un gusto assai più prossimi e familiari a noi per i racconti del Tarchetti.
Autore, intanto, Tarchetti, dei tre racconti del volume Amore nell'arte. Il Faldella, nella relazione dell'individualità con l'espressione artistica, nel Male dell'arte, sottolineava l'alterità dell'esperienza espressiva; nei suoi tre racconti, invece, Tarchetti portava all'estremo l'ingombro o il limite segnato alla fruizione, da parte dell'artista stesso, dell'esperienza artistica, nel suo impulso infinita. Questo ingombro apre più o meno confusamente un nuovo interesse, frainteso per lo più nei giudizi sull'opera del Tarchetti, e non meno degli altri inquieto e impreciso e segnato del trasporto violento con cui sapeva renderli vissuti, sofferti: la riduzione al dato fisico, di ogni impulso più spirituale e in apparenza sciolto dalla materia. Anche in questo caso, s'affaccerebbe una relazione tra Madonna di neve e madonna di fuoco del Faldella, e Fosca del Tarchetti. Ma relazioni di questo tipo orienterebbero tutta in generale la più significativa narrativa di quei vent'anni verso Tarchetti, verso la violenza a cui portava la trasposizione di un'intimità soggettiva in una tensione, d'eccezione sempre, fino al fantastico e all'orrido. Il suo linguaggio è provvisorio, ma è, piuttosto, sproporzionato alla violenza cui tende a portarsi lo scrittore nella rete di considerazioni di cui s'intesse ogni racconto. Il chiedere una responsabilità di linguaggio, e il lamentare le contraddizioni logiche, implicano un portarsi fuori dall'esperienza e dalla natura di una carriera artistica quale quella del Tarchetti, che dal limite d'una responsabilità concettuale, come da quello di un ordine espressivo, rifugge come da elementi contrastanti con ciò ch'egli in sé esperimenta come idea stessa del comporre e sentire letterario. Qualità, e difetti, connaturali, organici: la qualità di situazioni angosciosamente protratte in una irritazione spirituale, che rende vieppiù profonda quell'angoscia che egli chiama «malinconia» e identifica con l'attività stessa del pensiero («Il passato non ha d'ordinario che cause di memorie sì meste, e la vita per se stessa è così feconda di mestizie, che noi di solito chiamiamo malinconia il semplice atto di meditare»). O quella malinconia trasfigura in emblemi fragili, ma vivi, d'invenzioni fantastiche. Più spesso, la consuma in ripetizioni, cadute, conati, come al perdersi d'un discorso appassionato in un balbettio confuso e penoso. Convinto e insistente, tuttavia, il bisogno di richiamare alla materia anche quello che i sensi non arrivano ad abbracciare, e campo di ciò che spetta alle ambiguità dello spirito, e all'esperienza artistica.
Tutto è avventato, nel Tarchetti, senza complessità, senza responsabilità: un difetto anche d'altri, apparentemente meno disordinati, magari puntigliosi in sede d'una loro attività critica, come il vecchio Rovani, come Arrigo Boito, o, più candidamente, e senza più puntigliosità alcuna, Praga. In tale condizione si riflette un difetto di complessità e responsabilità della cultura che sottostà agli Scapigliati in particolare e in generale alle esperienze dei vent'anni tra il '60 e l'80, fino alle prime e decise opere, e relative limpide teorizzazioni, del Verga, e del Capuana. Né si può troppo addebitare, alla prematura scomparsa d'una parte di questi scrittori: Roberto Sacchetti, morto a trentaquattro anni nell'8i, Praga nel '75, a trentasei anni, Tarchetti nel '69, a ventotto anni appena: ma la brevità degli anni non impedì a quest'ultimo di lasciar traccia di sé in amici di piccola o lunga carriera: in Sacchetti come in Faldella. E soprattutto, quelli che, come il Faldella, hanno potuto disporre d'una sorte benigna, non hanno per questo condotto una carriera artisticamente più ricca per successivi sviluppi, ché anzi ad un impoverimento dell'applicazione artistica s'è accompagnato un accontentamento sempre più quieto nell'ordine degli interessi, delle ambizioni. Del tutto diverso, anche sotto tale riguardo, il caso d'un Verga, o d'un Capuana: diversa inquietudine, diversi interessi. Nemmeno è possibile sopravvalutare il disinteresse o l'imparzialità con cui è descritta la Milano risorgimentale nel romanzo Entusiasmi, del Sacchetti; non si va molto oltre la genericità passionale con cui gli amici del sodalizio milanese eran trasferiti romanzescamente nella Napoli dell'altro romanzo del Sacchetti, Cesare Mariani. Interessa di più ricordare come in questo romanzo fosse presente quel ricordo del velleitario ma, per gli amici, dotatissimo Giovanni Massa, in tante parti raffigurato dal Faldella, e che attirava la curiosità, come s'è ricordato, del Capuana. Lo ricordava, col Praga, col Rovani, col Tarchetti, il Faldella riferendo a Farina sulla morte del Tarchetti: «Giovanni Massa, l'amico di impressione incancellabile, che, senza aver scritto nulla, penetra tirannescamente nelle opere degli amici piemontesi a lui superstiti» (e prima «il nostro tremendo amico Giovanni Massa»), e toccando dei vari aspetti della carriera letteraria del Sacchetti. Al Massa è riferita certa scontentezza per il rapporto tra chi si dà alle lettere, e la società; veramente, la desolazione sembra sproporzionata ai motivi addotti, cioè, che l'attività di romanziere non basti da sola in Italia a garantire una dignitosa vita borghese. Nel Cesare Mariani è trasferito il racconto dell'insuccesso milanese della prima del Mefistofele di Arrigo Boito, alla Scala, nel '68: velleitaria descrizione, ispirata a un moto di rivolta per il mancato successo teatrale: o che spirito di innovatori, che coscienza di rivoluzionari è questa che confonde col successo mondano il fine sociale del teatro, la definizione di forme nuove dell'arte?
In effetti, la coscienza letteraria è estremamente generica in questi scrittori, appena si esca da un senso intimo d'affinità collettiva, e d'un'intesa comune, affidata a un dominio di suggestioni e confessioni, sulle quali è necessario ricondurre ogni eventuale realizzazione. Su queste ultime si riflette l'incertezza d'ogni interesse: e vale qualche esempio. Faldella scrivendo al Farina rievocava colloqui e confidenze col Sacchetti: a Sant'Onofrio, a Roma, invidiavano le pagine dello Zola su Parigi: « - Col vantaggio - soggiunse Sacchetti - che la cupola del Pantheon originale, il Campidoglio e San Giovanni Laterano hanno maggiore importanza del Pantheon riprodotto, del Duomo degli Invalidi, del Trocadero. . . - E si potrebbero fare zufolare più forte, più classicamente ... - conchiusi io . . . - Ma, per fare delle descrizioni sode, esatte, ben commesse, da mosaico, come quelle dello Zola, - ripresi io - bisognerebbe, come fa lui, scrivere soltanto cinque cartelle al giorno .. . Invece noi giornalisti ne scriviamo una trentina». La colpa non era del giornalismo, che può dare, e prendere, in un rapporto attivo e ricco con la letteratura: ne subivano, però, solo il tirannico aspetto pratico, la schiavitù e il disagio quotidiano. Torna a noi, da confessioni del genere, il senso di ideali ridotti e riposati. Ideali che richiamano, in questi ribelli, a un concetto della letteratura, della narrativa, come attività aristocraticamente staccata, secondo una tradizione che parla anche nel loro rispetto per lingua e stile dei nostri classici, per le forme degli autori del Tre e Cinquecento.
Come l'orgoglio nazionale, s'è detto, rende un senso incerto, d'ideali posticci, contraddetti dall'insofferenza verso la società reale del paese, così quest'insofferenza si consuma in sogni d'una piccola ordinaria economia pratica. Soprattutto, negli ideali artistici, e a dirne l'improprietà e povertà basterebbe ricordare come potessero esemplarsi nel caso ben poco interessante della caduta del Mefìstofele del Boito. È la contraddizione che governa anche il desiderio di cavare un senso dai conflitti risorgimentali, nel romanzo Entusiasmi del Sacchetti. Faldella, del resto, toccando più direttamente, senza travestimenti inadeguati, dell'arte di Sacchetti, tornava a notarvi un'accensione sentimentale, libera nelle sue variazioni: «vigoria vaporosa e slombatezza straziante», «egli studiava la realtà dentro la luce o l'allucinazione postuma di una contemplazione ideale ed orientale. Gli è perciò che i suoi scritti radunano due pregi opposti, quelli di essere aerei e stringati; il suo è uno stile lucente, risoluto, ad arcate salde, pieno di forza in certi abbandoni di parole».
Ci dà qui una lettura orientata liricamente, su proiezioni fantastiche di dati intimamente soggettivi: fino all'aneddoto, come per le Memorie del presbiterio del Praga, che per due terzi restituirebbe a Sacchetti, il quale invece riduceva, correttamente, e l'estensione e il significato dell'intervento suo e di quello dell'amico comune Antonio Galateo, nel condurre a termine il libro dopo la morte del Praga. Il Sacchetti avrebbe scritto «giovandosi di quegli stordimenti lirici di ispirazioni indovinate, che improvvisa parlando quel diavolo oratorio del Galateo». Galateo, Massa: è un riflettersi costante di intenzioni, come di luci, nel cui incanto si consuma la suggestione che lega gli scrittori del gruppo.
Il residuo più vistoso, più ambizioso, sarà rappresentato dalla produzione di Arrigo Boito, che però solo in minima parte rientra nel nostro discorso. Ben altro interesse offre l'opera del fratello architetto e narratore, Camillo Boito. Scarsa (due raccolte piuttosto snelle di novelle, e un altro racconto, dopo lungo, fruttuoso intervallo: Il maestro di setticlavio), ma governata da ben controllati interessi la sua produzione narrativa, che esteriormente apparisce marginale, a confronto della sua intensa attività di critico d'arte. Anche in questa, lo distingue una diversa consapevolezza delle difficoltà insite nei necessari rapporti tra le espressioni d'arte e il tempo, la società, e tra il gusto che regge l'uso dei mezzi propri ad ogni arte, e il modo di veder cose e passioni, la realtà. Osservava, nell'80, per una «Mostra nazionale», il disagio in cui la nuova narrativa poneva i lettori: «La parte del lettore s'è andata via via restringendo: è diventato compiutamente passivo. Il romanzo vi sminuzza, vi trita la verità, in modo che non rimane ormai nulla da aggiungervi di proprio . . . Vuole svelarvi l'animo di un personaggio? Ve lo piglia nel candore dell'innocenza e, seguendolo ad ogni ora, quasi ad ogni minuto, vi fa assistere alla sua corruzione, finché le piaghe, moltiplicandosi, allargandosi, accumulandosi, diventano cosa puzzolente e laida». Siamo già in un campo nuovo di riflessioni, di fronte a una maniera nuova d'intendere la realtà, e l'arte. Qui non si riferisce con precisione a una tendenza particolare, anche se ovviamente presenta una capacità di partecipazione aperta e apprensiva: «Insomma» prosegue «il romanzo nuovo . . . non vi lascia modo d'indovinare nulla, perché, con la parola più asciutta e propria, vi dice ogni cosa. E la mente del lettore, vedendo il dramma innanzi tutto intero, così ben definito in ogni parte, in ogni minuzia, si sente persuasa e convinta, ma affranta. Il non esserci più luogo a nessuna intromissione della propria fantasia è un motivo di gran fatica». Boito narratore: un'attenzione fissa e che non sopporta distrazioni, che si fa un pungolo di ricerca espressiva dell'irruenza del senso. La parte violenta e chiusa, della passione: lì sono il mondo, e il carattere, il tono, la maniera stessa del suo condurre il racconto.
Solo nel Boito si hanno dei racconti costruiti con una conquistata indipendenza da suggestioni o autobiografiche o di miti e princìpi che eran destinati in altri a restare appena trascrizione d'una sensibilità lirica. Parallelamente, ci interessa quanto osservava, per la pittura: «ora l'accordo sincero fra il pubblico e gli artefici è svanito»; e d'un quadro di Telemaco Signorini: «C'è insomma l'impronta della nobile fatica, la quale viene dal volersi troppo affannosamente cacciare nella sostanza del vero reale». Sono dichiarazioni che, come s'è detto, nulla hanno più della confessione, né del compiacimento che tanta parte prende nell'arte di Faldella, del Sacchetti, e degli altri. Boito Camillo sta a sé. Né si possono richiamare a Praga certe descrizioni d'impressioni marine, o altri schizzi, che trovano invece la loro sede in pensieri e ricerche destinati a svolgersi nelle rassegne d'arte, aggravandovisi della coscienza di quanto importi il penetrare e dar senso a quel che è più vivo e segreto nella propria concretezza, pur nella natura, nella realtà: e destinati, contemporaneamente, a incorporarsi in alcuni protagonisti dei suoi racconti. Per lo più un protagonista costante, la donna: o fanciulla, o già innanzi nella sua combattiva carriera amorosa, e, quanto più accordata con stati inquieti della natura sulla linea dei sensi, penetrata e resa viva mediante la progressiva rappresentazione della fatalità dell'attrazione fisica, del corpo, del senso, della cieca passione. Quante volte anche le sue cronache d'arte, le descrizioni dei quadri, mentre ripetono la soggezione pur di Boito ad esterne preoccupazioni di soggetto (mai però una soggezione pacifica, e che non ci apparisca corrosa da perenni rinvii ad una funzionalità anche di questa parte della pittura), gli consentono di chiarire la condizione che lega a certi luoghi, a una diversa natura, sia pur cittadina, di pietre, tradizioni, e costumi, l'artista, l'uomo: specie per Venezia e Milano: «a Venezia si ritrova nei giovani ciò che non esiste a Milano, ed esiste invece a Firenze, un certo metodo nella ricerca del vero. A Milano tutto è istinto o caso: il giovane si mette per una via senza sapere il perché, la muta subito, poi la ripiglia, poi la torna a mutare. Una volta imbrocca giusto, nove falla il segno; non sa mai se ha fatto bene e perché, e, se bada alle lodi o alle censure del pubblico ignorante, del pubblico colto, degli artisti sinceri, degli artisti ipocriti, dei critici pedanti e dei critici scapigliati poveretto lui, è uomo spacciato. Milano, salvo per gli animi di tempra fiera, e ce n'è, diventa città troppo impaziente e fastosa. È difficile nel via vai, nel chiasso delle sue contrade, dalle quali non si può uscire senza mettere il piede nel molle dei prati a marcita o negli stagni delle risaie, rientrare in se medesimi, astrarsi dalle false esigenze sociali, vincere le fatali influenze dello spirito di imitazione e quelle ancora più fatali dello spirito di contraddizione, come si può farlo in faccia ai colli di Fiesole e di Bellosguardo o nel silenzio del Canal Grande, in quella città, dove gli abitanti non sono punto necessari alla vera vita veneziana, che è la vita pittoresca e monumentale».
Lombardia e Venezia eran patria elettiva per Boito: nella pagina riportata suggerisce un rapporto di confidenza con l'ambiente, che gli permette di fermare con sicurezza la situazione degli artisti-non più solo i pittori, s'intende - in Milano: «istinto», «caso», «spirito di contraddizione». Ma, si direbbe, un rapporto già vissuto e già rappresentato e definito in quello della città con la natura che la penetra, come una realtà ambientale concreta, un fatto di costume, spirituale. Tanto ancora conserva d'esperimento in Boito tale coscienza, ch'egli ne limita l'esplorazione a poco più che un tema, quello dell'attrazione fisica (incanto, e angoscia del pari fatali), e in rarissime prove, e variando per così dire la tastiera del terreno ambientale, sulla fiducia istintiva e nella propria natura d'italiano piuttosto d'elezione che non per una precisa particolare radice regionale, e nella curiosità per colori e valori di paesi diversi, nutrita dall'esercizio dell'arte in lui, dal senso delle relazioni tra strutture e colori, tra reale, o vero, e loro rappresentabilità nel dominio dell'arte. Si può constatare, per quanto riguarda Milano, come, con Camillo Boito, gli elementi tipici della Scapigliatura siano esauriti: sebbene uomo legato ancora come gli altri a miti risorgimentali, ne è sgombro nel campo degli interessi effettivi; confessione, diario, gusto di estri espressivi han ceduto a un'esplorazione coerente, al senso del racconto come resa d'un significato della realtà; infine, del tutto attuale, autentico, il senso della società, dell'ambiente: la Milano di cui parla introduce alla narrativa di De Marchi.
L'attività di Camillo Boito, come narratore, sposta di circa un decennio quei vent'anni tra il '60 e l'80 che approssimativamente circoscrivono il momento più attivo della Scapigliatura: se le prime Storielle vane uscirono nel '76, e Senso - Nuove storielle vane, nell'83, il racconto che apre il primo volume, Un corpo, era comparso sulla «Nuova Antologia» nel giugno del '70, e, nel marzo dell'anno successivo, un altro racconto dello stesso volume, Un autunno, storiella vana; Il maestro di setticlavio uscì sempre sulla stessa rivista, nel dicembre del '91. Tra il '70 e il '90: si arriva agli anni dell'attività centrale del De Marchi, tra Demetrio Pianelli, del '90, e Arabella, del '92. Tra il '70 e il '90 Verga passa da Nedda, del '74, a Vita dei campi. dell'80; i Malavoglia, dell'81, Novelle rusticane, dell'83, Mastro don Gesualdo, dell'89. Come dire, che il quadro si è venuto decisamente spostando e arricchendo. Dossi, legatissimo alla tradizione, in quanto ha più di «locale», degli Scapigliati, protraeva una carriera non più in accordo con i tempi, né con le forme e i caratteri delle prime prove, di un'età giovanile, e vincolata a temi d'infanzia: L'altrieri, del '68 (aveva diciannove anni, ma il libro subì fitte correzioni passando alla terza edizione, dell'81), e Alberto Pisani, del '70. Aveva trentotto anni quando pose fine alla sua carriera di narratore, ma già da tanto si era rotto l'incanto delle suggestioni dei primi anni della vita, più docili a rispondere alla libertà delle invenzioni e degli estri affidati al filo dell'eccezionalità e dell'incanto delle combinazioni espressive. Capriccio, invenzione, erano guidati nel Dossi da una sensibilità singolarmente armata di istintiva eleganza e gusto culturale. Ma le sue doti sbiadivano quando tentasse di applicarle in sede più specificatamente narrativa. L'espressione più ricca, naturale, della sua scrittura ci è conservata nella forma del diario, in particolare nelle Note azzurre.
Ma si è avvertito che ci troviamo incamminati in tempi nuovi. Disincantato, per conto proprio, Dossi interessava come materiale d'esperienze nuove, quanto più si mostrasse restio, appartato, non seguito. «Un caso letterario equivale ad un bel caso patologico»: era una conseguenza scritta già nelle premesse della Scapigliatura, e lo abbiamo notato parlando del Rovani, caro agli Scapigliati: soprattutto, a Dossi. Ed ora, ecco l'omaggio del narratore che passava per teorico del verismo, Capuana: «Io chiamo» continuava «caso letterario un'opera d'arte dove si riveli un complesso di ottime qualità, di qualità di prim'ordine (forza di rappresentazione evidente, potenza di colorito, di movimento, di vita insomma) che, producendo sul lettore, coll'energico effetto della realtà, una sensazione acuta, un'eccitazione interiore, gli svegli nell'immaginazione e nel cuore facoltà addormentate per mezzo delle quali egli rifà con identico processo, sebbene in modo effimero, la stessa creazione dell'autore; e dove, insieme alle ottime qualità, alle qualità di primo ordine, si trovino quasi colle stesse proporzioni qualità inferiori, difetti ed eccessi sia nel disegno generale, sia nei particolari dello stile e della lingua; stonature e stridori di colorito, contorsioni di linee, esagerazioni di maniera, caricature di forme, qualcosa di mescolato, d'affastellato, d'arruffato che intanto (si scorge bene) è un vero organismo, non un'accidentalità o un capriccio». Capuana è preciso, e sottintende, evidentemente (quanto lo distingue dall'amico Verga, che in ogni caso chiede l'«impersonalità» nell'opera d'arte) che: «La prima curiosità di chi vuol spiegarsi tal fenomeno si rivolge naturalmente sulla vita intima dell'autore. Dicono: la vita intima è sacra: la persona dello scrittore è inviolabile. L'opera d'arte dà abbastanza da poter essere giudicata da se stessa. - Sì; parecchie volte, fino a un certo punto, essa può essere impersonale; ma delle altre non la è: mostra troppo la foga del sangue, l'eccitazione dei nervi dell'autore. Allora la curiosità non solamente diventa legittima, ma diventa anzi un dovere. Infine l'opera d'arte è un fatto: e un fatto non s'intende, non si spiega se non se n'hanno sotto gli occhi tutti gli elementi». Il «processo», la «fattura», lo portano a sentire vitali gli esperimenti operati da Dossi nello «strumento» della lingua: «Perché sdegnerò di dar corso forzoso a vocaboli di lingue affini? Perché d'un concetto astratto, d'un nome astratto non potrò farne un che di vivo e di moventesi? Forse perché molt'altri, perché tutti non ne sentono il bisogno? Lo sento io, e lo soddisfo». Il gusto sperimentale, in queste affermazioni di Capuana, è dominante: ma si sente anche che ha un oggetto, di fronte, ben definito e concreto; che si muove in una direzione reale: è l'anno del suo entusiasmo, e della sua rigorosa difesa delle novelle verghiane di Vita dei campi.
Nel nuovo ambiente, si svolge appartata aristocraticamente la carriera di Edoardo Calandra, pittore e narratore, conteso ancora tra nostalgie del passato e l'interesse per i fatti letterari nuovi, tra esperimenti distanti e spesso contradditori, in cui l'ambiente, il clima, la suggestione, dominano sul resto, e consentono il protrarsi piuttosto che il definirsi dei diversi temi, da La bell'Alda, dell'84, a I Lancia di Faliceto, dell'86, dai due volumi del Vecchio Piemonte, dell'89, e '95, La bufera, del '98, ad A guerra aperta, del 1906, a Juliette, del 1909. V'è una estenuazione di dati sentimentali, ai quali può prestar suggestione l'ambientare in tempi lontani i casi narrati: e vi si insinua qualche presentimento di languori che, con facile presa sui lettori volgari, domineranno tra poco. Piemontese come Calandra, il Cagna, la cui carriera si accosta per temperamento e per il gusto degli esperimenti espressivi agli inizi migliori del Faldella. Ma anche per Cagna si tratta ormai d'una letteratura appartata, vivace per chi segua il rigore delle soluzioni accentrate ed esaurite nel piacere delle invenzioni stilistiche, come dire, d'una letteratura in violento anticipo sui tempi, in quanto deriva il suo effettivo interesse dalle esperienze d'alcuni settori, autorevolissimi, della narrativa del nostro secolo, e relativi esegeti.
Ma, ad intendere De Marchi, la sua arte, i suoi problemi, e difficoltà, sue, e più generali, occorre ricordare anche altre esperienze, che si venivan svolgendo negli ultimi venti anni del secolo: occorre riprender la traccia d'altri contributi, d'altri orientamenti precedenti, degli anni stessi, approssimativamente, tra il '60 e l'80, nei quali si svolse l'apporto più caratteristico della Scapigliatura.
L'elemento popolare, lo studio delle minute inclinazioni dei popolani come più tipicamente ricche d'elementi tradizionali, definibili innanzi tutto in un rilievo particolare del linguaggio, si mostrava resistente anche se un po' ottuso, nella Toscana: riceveva però e assorbiva i contributi delle nuove tendenze, soprattutto del verismo. Col quale, risalta con vigore come ci si trovi dinanzi ad una ben diversamente matura coscienza dell'estensione, e della responsabilità, della stessa attività letteraria. Agli astratti e compiaciuti ideali romantici dell'Italia risorgimentale il De Sanctis aveva già dal '60 volto le spalle. Tra il '76 e il '79 verranno le sue precise discussioni sui princìpi del realismo, e sullo Zola. Sembra necessario aver presente il rigore culturale con cui De Sanctis guardava all'affermarsi d'un mondo moderno, vivo, attraverso le nuove tendenze, a intendere la penetrazione e la concretezza delle discussioni del Capuana, tutte rette al dominante interesse dell'attività artistica giornaliera, e operanti dunque nel vivo d'una situazione reale.
Capuana, a Firenze dal '64 al '66, aveva collaborato come critico teatrale alla «Nazione»: tornato nel '71 in Sicilia, vi pubblicava nel '72 la raccolta delle cronache teatrali, con una prefazione che ci rende già completo il quadro dei suoi interessi. Il problema del quale si occupa è il teatro in Italia, ma questa è soltanto l'occasione per precisare l'idea sua dell'arte come un bisogno «vivo e reale», obiettivo: «Quando si vede una nazione invasata a cotesto modo da un'idea, par ragionevole il supporre che tale idea rappresenti un bisogno vivo e reale dello spirito di essa, un'attività intima, funzionale che, presto o tardi, deve attuarsi e ne cerca intanto la via. Quando si vede a tale attività intima corrispondere un lavoro materiale sempre crescente, e colla quantità aumentarsene fino a un certo grado anche la qualità, par non meno ragionevole il conchiudere che quell'idea può dirsi oramai un fatto bello e compiuto . . . Tutto sta nel vedere se cotesta idea che riscalda la testa di una nazione è proprio un'attività intima, organica del suo spirito, o un'eccitazione esteriore, accidentale, fittizia, che si esercita a caso nello astratto. Tutto sta nel vedere se il prodotto materiale di cotesta idea ha il carattere della vera vitalità perché ciò che lo investe è preciso, come dicono i fisiologi, una funzione, o rappresenta soltanto un'attività sviata, invertita, sia, quello che altrimenti va chiamato una malattia». È quanto si deve tener presente ad intendere il principio, che resterà dominante sempre in lui, e che in forma precisa è enunciato già in questo saggio: «Quando l'artista riesce a darmi il personaggio vivente ... mi pare ch'egli m'abbia dato tutto quello che dovea. Pel solo fatto di esser vivente, quel personaggio è bello, è morale . . . L'azione allo stesso modo, pel solo fatto di esser vivente è bella, è morale; non bisogna pretendere l'assurdo. Sotto la veste dell'artista, convien rammentarselo, c'è sempre più o meno un pensatore. Se questi fa capolino un po' più dell'altro, tanto meglio; è quel che ci vuole a questi benedetti lumi di luna. Ma se si dovesse scegliere ad ogni patto, o l'uno o l'altro, io non esiterei, trattandosi di teatro, a sceglier l'artista».
Sull'autorità un po' tirannica di un giudizio del Croce gli interessi critici del Capuana sono stati ridotti a un miscuglio occasionale di giudizi confusi. Non tenne conto il Croce dell'ufficio cui servivano i richiami teorici negli scritti del Capuana: scritti diretti sempre a chiarire il problema delle esperienze che incidono come realmente moderne nella vita e che di conseguenza, necessariamente, lo sono nell'arte. Dato un così particolare interesse, parlar di «forme» e «forma» non porta le differenze contraddittorie notate dal Croce tra la «forma» desanctisiana e quell'esaurimento successivo di forme diverse, di cui parlava De Meis, uniti piuttosto provvisoriamente e generosamente che contraddittoriamente da Capuana in capo alla sua raccolta degli Studi di letteratura contemporanea. I serie. Ventidue anni passavano tra De Sanctis e Capuana: questi onorò sempre come proprio maestro solo De Sanctis, nel quale infatti trovava rigorosamente espresso il principio, che a lui unicamente premeva, dell'opera d'arte considerata come organismo o fatto vivente, e necessariamente connessa con forme del pensiero, e del costume, attuali e viventi bensì ma viventi, poi, nell'opera d'arte, di quella particolare vita che è dell'espressione. Il pensiero era una condizione sempre più intima all'arte perché, si constatava in quegli anni, lo era nella vita. Era una constatazione generica. Capuana portava la ricerca del rigore analitico, logico, nell'intimo dell'autore, a intenderne interessi, e metodo di lavoro; non si fermava ad un assoluto principio d'impersonalità e obiettività del prodotto, come insisteva Verga. Dal saggio La scienza e la vita, il discorso inaugurale dell'anno accademico 1872-1873 che De Sanctis aveva tenuto alla Università di Napoli il 16 novembre del '72, al Principio del realismo, che uscì nel '76, agli articoli su Zola, del '78, alla conferenza del 15 giugno '79, sempre su Zola (Zola e l’Assommoir) il De Sanctis aveva insistito proprio sul rapporto dell'arte moderna col pensiero, e sul principio della vita intima all'opera d'arte, e che è esclusiva condizione d'essa: Capuana però, per quanto avesse fatto in tempo a partecipare agli avvenimenti del '59-'60, era uomo già fuori degli ideali risorgimentali, nei quali rientra in pieno la formazione del De Sanctis. E diverso altresì, in lui, il modo d'intendere princìpi particolari al pensiero romantico. In realtà, l'unico interesse suo è intendere le direzioni del costume, della vita, delle correnti del pensiero in Europa e, quindi, in Italia: unico strumento ch'egli intende quello delle espressioni o delle forme che più riusciranno corrispondenti alla realtà della vita: cioè il romanzo.
Dunque l'unico interesse era, anche in lui come in Verga, il romanzo. Solo che Capuana, a differenza in questo dal Verga, non s'acquietava in un problema o in una ricerca d'ambito solo personale, non si trasferiva completamente in una propria storia interiore, d'ideali, credenze, sofferenze distintivamente sue, e nelle quali inaugurare un processo di scavo, e approfondimento, ma si muoveva dietro l'attrazione costante esercitata dal senso della molteplicità delle vie che s'aprivano al pensiero e al costume, e inclinava ora verso l'esplorazione intellettuale, ora verso l'esperimento espressivo, artistico. Di qui non tanto l'accompagnare al romanzo altre forme d'espressione letteraria, che è fatto comune, normale, ma il passare da una a diverse forme d'esplorazione: dal verismo a vaghe attrazioni di simbolismo e occultismo, dal romanzo al folclore; da cui l'abbandono veramente acritico o stanco ad una letteratura per l'infanzia, che pure era nata in lui da un'esigenza effettiva, e non solo, negli esempi migliori, giovò a chiarire certe difficoltà della sua maggiore produzione romanzesca, ma presenta alcune tra le prove sue più artisticamente felici.
Negli anni della sua collaborazione alla «Nazione», Capuana aveva stretto amicizia col Verga, in Firenze, dove questi era seguito soprattutto da scrittori e studiosi di letteratura popolare e di questioni sociali, da Francesco Dall'Ongaro a Caterina Percoto. Già anni prima avevan destato interesse i romanzi del suo noviziato: I carbonari della montagna e Sulle lagune. Si trattava di scrittori e studiosi di varie regioni d'Italia, e stranieri, operanti con una alacrità particolare negli anni in cui la città era capitale, ma che su questa occasione esperimentavano il vantaggio della cultura in Firenze organizzata su un piano d'interessi per lunga tradizione europei, e centro attivissimo di correnti e innovazioni spirituali e letterarie, per tutto il primo Ottocento. Il Carducci aveva sommosso, nel giovanile soggiorno in Firenze e in altre città della Toscana, uno sfondo culturale implicito in temi locali, come il folclore popolare, e, connesso con questo, la polemica per una lingua propria e viva ma rigorosamente pura, difesa sui due fronti dell'invasione straniera e della pedanteria municipale. Eran temi datati: vi si trasferivano, dopo le ideali costruzioni romantiche tommaseiane delle raccolte dei Canti popolari, i cauti esperimenti delle narrazioni a macchia: limitate nel termine del «bozzetto», o liberamente inventive nella fiducia della schietta cronaca, tra il serio e la fantasia, come nel Collodi. Di qui verrà la narrativa dei toscani, degli anni, di cui ci stiamo occupando, della maturità del Verga e del Capuana.
A Firenze il Verga era apparso, un po' ancora romanticamente, come scrittore sociale: «Studio fisiologico e patologico di un cuore che si spezza», definiva il Dall'Ongaro, in una lettera del '69 al Treves, la Storia di una capinera. Non era una impostazione che potesse soddisfare l'autore, il quale mirava non a farsi romanticamente paladino d'uno od altro punto di rivendicazioni sociali (gli scriveva, della Storia d'una capinera, la Percoto: «Qui, nel Veneto, grazie al Codice Napoleonico, è sparita da un pezzo la triste consuetudine di sacrificare alla vita monastica le nostre povere giovinette; ma dura tuttavia il barbaro costume di educare le donne alla clausura. Ella che è giovane e che ebbe in dono dal cielo una parola così simpatica, così vera e così efficace, si faccia il nostro campione»), ma a stabilire i punti di crisi della società, e la funzione, nei confronti di questa, della denuncia e della verità proprie alla rappresentazione artistica.
Era forte in lui l'attrazione alla vita, quale egli viveva e privatamente e nell'esperienza romanzesca cioè nella cultura contemporanea. Più che attrazione, l'aculeo a trasferirvisi con lo strumento dell'osservazione artistica era aculeo morale: di quello strumento sentiva la forza polemica e la responsabilità. Il romanzo è una forma di partecipazione, se non lo è più di confessione, di diario: confessione e diario possono costituirne ancora la materia, che si ripete con variazioni appena esteriori nei volumi scritti tra il '70 e l'80. L'inquietudine polemica troverà a un tempo stesso organicità costruttiva, rappresentativa, e significato d'interpretazione, nell'esercizio d'una scrittura impersonale: cioè in una rappresentazione obiettiva, reale, in cui i «vinti» umili offrono un punto d'interpretazione generale della vita, e rendono l'arte in armonia con i princìpi governanti pensiero e società moderni. Vi era arrivato attraverso la frequentazione degli ambienti della Scapigliatura, a Milano, ma, al solito, in una indipendenza altrettanto assoluta che quella in cui era vissuto a Firenze. Le sue esperienze egli sfruttava a fondo, cioè nell'intimo della propria coscienza, in un gusto mordente e sottile delle relazioni, degli incontri, ma praticati con quello stacco di cui han lasciato notizia i testimoni.
Molto impropriamente la prefazione ad Eva, del '73, può renderci la interna, combattuta critica, ma lontana ancora da ogni reale soluzione, che si ripete nei romanzi scritti tra il '66 (l'anno di Una peccatrice) e il '75; vi risuonano già tuttavia le ragioni della lettera al Farina, dell'80, che sarà prefazione a L'amante di Raja (poi L'amante di Gramigna). Scriveva nella prefazione ad Eva: «La civiltà è il benessere, e in fondo ad esso, quand'è esclusivo come oggi, non ci troverete altro, se avete il coraggio e la buona fede di seguire la logica, che il godimento materiale. In tutta la serietà di cui siamo invasi, e nell'antipatia per tutto ciò che non è positivo - mettiamo pure l'arte scioperata - non c'è infine che la tavola e la donna. Viviamo in un'atmosfera di Banche e di Imprese Industriali, e la febbre dei piaceri è la esuberanza di tal vita. Non accusate l'arte, che ha il solo torto di aver più cuore di voi, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create - voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore e l'onore là dove voi non lasciate che la borsa - voi che fate scricchiolare allegramente i vostri stivali inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, e gemono dolori sconosciuti, che l'arte raccoglie e che vi getta in faccia». Roberto Sacchetti aveva scritto una rassegna, un ritratto della Vita letteraria a Milano, nel gennaio dell'81, due mesi prima della morte; sottolineava il valore di Milano come tribuna per i nuovi scrittori: una delle infinite forme in cui negli Scapigliati l'arte si consumava nell'aneddoto. Faceva i nomi del Verga e del Capuana, naturalmente; e del Sacchetti, Verga, ringraziando Capuana della recensione ai Malavoglia: «ciò che mi fa maggior piacere è il vederti approvare il tentativo di rendere il colore locale anche nella forma letterale. Ti rammenti le lunghe discussioni che se ne facevano al Biffi con altri e col povero Sacchetti, timidi dinanzi all'ardimento, incerti nell'esito? Ora, nel ripensarci mi par di sentire un'aria pura di giovinezza, di lieti ricordi, quando noi tutti ansiosi si guardava al domani, felici di fabbricarci su dei castelli in aria artistici». Si avverte netto lo stacco di diverse generazioni, o piuttosto di esperienze d'arte d'età diverse.
L'arte nuova stacca sullo sfondo di miti risorgimentali, pronti a riaffacciarsi dietro il generico moto d'insoddisfazione per gli aspetti più compiaciuti o volgari del costume giornaliero, o, si dica, della nuova nazione: sono diverse forme di protesta, da quella del Carducci contro i poeti e i narratori della Scapigliatura a quelle del Settembrini a Napoli in questioni concernenti la nuova scuola e in genere la conciliazione delle tradizioni con gli indirizzi nuovi. A quelle, infine, contro la società, dei romanzi del Verga tra il '66 e il '75. E giovava, in una situazione del genere, l'afflusso costante delle novità letterarie, francesi e in genere straniere, ad appoggio delle questioni che v'eran dibattute, perché servivan a mantener il senso dei limiti delle questioni connesse con la recente storia locale, d'Italia. Dove più le tradizioni locali non s'eran consumate e spese nelle passioni risorgimentali, lì più libero riusciva il sentire in armonia con la vita moderna, e con le novità letterarie, quindi, d'Europa, tradizioni e documenti locali: in particolare in Toscana e nel Meridione, a Napoli e in Sicilia. Questo non segna solo o non segna tanto una disparità di valori tra gli scrittori delle diverse regioni, ma spiega come più lungo e difficoltoso durasse l'impaccio negli scrittori lombardi e piemontesi, e come abbia servito la presenza e l'esempio dei meridionali, Verga e Capuana soprattutto, ad arricchire gli interessi troppo ancora ristretti ed incerti nei primi e più caratteristici scrittori della Scapigliatura. E s'intende che dovesse servire reciprocamente lo scambio continuo di idee e d'esperienze tra gli uni e gli altri, e Milano divenire, per così dire, l'ideale campo, per Verga, a intendere e riscoprire la nativa Sicilia.
Tra l'80 e il '90 prendeva campo a Napoli una nuova fioritura artistica, particolarmente nella narrativa. Era stata preparata per lungo corso d'anni non solo dal vivace interesse pel romanzo e le correnti letterarie francesi, e che arrivavano direttamente e, magari, soprattutto tramite Milano, così come la nuova poesia, ritraente schiette impressioni bozzettistiche, era una ripresa dei celebri sonetti pisani del Fucini; ma quella nuova fioritura si riconnetteva soprattutto con elementi locali tradizionali, con l'arditezza e la delicatezza di sfumature nel ritratto immediato d'un senso passionale della vita, delle cose: e che era da tanto notato come elemento caratteristico, in particolare, della pittura napoletana. Lo aveva avvertito Camillo Boito, nella rassegna della pittura napoletana, per la Mostra nazionale di belle arti in Napoli del '77: l'arte è «fatica», scriveva, non però a Napoli: «il Napoletano ha l'indole dell'artista. Pronto a cogliere il bello o il ridicolo delle cose; perspicace e mobile; impetuoso nell'espressione dei propri sentimenti, ma capace di dominarli repentinamente o di dissimularli lungamente; sottilissimo nel filare ragioni per gli altri e per se medesimo. Un misto di filosofia fredda e di sensualismo ardente. Tutte le qualità, insomma, dell'artista, buone e cattive, anzi tutte buone, perché servono tutte all'arte».
Napoli aveva avuto un romanziere d'appendice largamente popolare e che in forma ingenua aveva offerto già l'esempio delle situazioni e degli ambienti cari al romanzo francese più effusamente sociale, Francesco Mastriani; ed era in lui lo stesso acceso realismo che era riconosciuto come caratteristica della pittura napoletana da tanti anni. «Piccola verità», chiamava Matilde Serao quella del Mastriani «piccola verità popolare, invero, e che consisteva soltanto nel chiamare coi loro veri nomi i tetri frequentatori delle bettole, col loro nome esatto e colla loro topografia i vicoli sordidi e lugubri, dove si annida in Napoli l'onta, la corruzione, la morte: piccola verità affogata nella frondosità fastidiosa del romanziere, che ha cominciato a vedere, ma che non ha forza, coraggio, tempo di veder molto, di veder tutto». Il Mastriani morì nel '91, l'anno in cui usciva, della Serao, Il paese di Cuccagna. A Napoli erano operanti già dagli anni intorno al '70 Vittorio Imbriani e Federico Verdinois; dopo l'80, la Serao e lo Scarfoglio, con Salvatore di Giacomo; tra il '91 e il '93 a Napoli Gabriele D'Annunzio pubblicò sul «Corriere di Napoli» L'innocente, e sullo stesso e su altri giornali locali le Elegie romane e il Poema paradisiaco, e, per attenerci al romanziere, episodi del Trionfo della morte. Napoletani i primi editori dell' Innocente, e del Giovanni Episcopo. Ma se l'impressione era d'una tarda fioritura, questa era stata preceduta dalla passione per forme d'arte più sociali o di gusto collettivo, anche dove limitate alle prove dilettantistiche: il teatro; e la narrativa d'appendice, e la pittura. Forme d'arte sostenute, nell'ambiente in cui s'esprimevano, da un acuto interesse per le questioni teoriche: questo ci riporta alla curiosità, alle relazioni, col Settentrione, in particolare con Milano, e gli scambi reciproci di curiosità per le diverse norme e tradizioni popolari e sociali. Da tale ambiente, che non è da limitar alla sola Napoli, ma, con diverse condizioni particolari, abbraccia tendenze e interessi più generali, s'era venuto svolgendo il verismo, ad opera dei due siciliani Verga e Capuana ma seguiti, con le circospezioni già ricordate, dagli amici dei colloqui nel Biffi di Milano.
Un forte limite dunque ci sembra nascesse nei settentrionali dall'assenza d'un gusto per la diretta libera discussione dei materiali sfruttati, messi in opera, nei romanzi: quel gusto così forte nel Verga, e nel Capuana; e dall'assenza d'un riferimento a tradizioni non troppo esaurite. Milano s'identificava col Risorgimento, e con un romanticismo ormai non più esperienza reale, ma idolo retorico. La vita moderna non aveva sfondo effettivo, non tradizioni vive in quanto capaci di superare l'età risorgimentale, senza sparirvi od esaurirvisi: come reagire a ciò ch'era un idolo: risorgimento, romanticismo, unità nazionale? Quali tradizioni, che appartenessero effettivamente a un costume senza rigide limitazioni, piuttosto che a un moto di idee astratte, e ad ambienti solo rigorosamente culturali, e d'elezione, tra illuminismo e prime polemiche romantiche, tra Parini e Manzoni? Da questa difficoltà viene anche il prevalere del diario, della confessione, sulla articolata polemica, sul gusto per le idee nuove, per forme nuove nel campo stesso, più intimo, dell'espressione, della struttura artistica. Anche in Toscana non mancavano impedimenti, nella stessa spontanea ma troppo spesso soddisfatta consapevolezza d'una presenza vivace, risentita, di costumi locali. Anzi, il carattere umano fa spicco, macchia: s'impone più delle avventure alla curiosità dello scrittore. E in questo v'è qualcosa di letterario, e adatto forse più alla forma poetica, del verso, del sonetto magari, che al racconto. D'altra parte, se comporta qualcosa di retorico, d'astratto, pretensioso, come l'esercizio di una antica consuetudine ad espressioni fortemente sintetiche, però concede e anzi richiede un'organicità di relazioni, un'acuta presenza di significati: è, insomma, forma sostenuta da un energico senso intellettivo, ragionata, e amante delle ragioni, del pensiero. Anche in Toscana il gusto per i princìpi, per le questioni concernenti l'arte, ci è accaduto già di osservarlo, è pronto, spontaneo, acuto. Si riassume con nettezza nei due motivi in cui può ancora apparir meno pesante la tradizione d'una letteratura, e in versi e in prosa, troppo rigida nei suoi antichi esemplari: la nativa familiarità con la campagna e col mondo del contado, la fiducia di poter con gli strumenti e i materiali a disposizione - appunto, questo mondo così circoscritto - conservarsi sul piano delle questioni più nuove e d'ambito generale in fatto d'arte.
Da consuetudini, e da un carattere quali li abbiamo indicati fin qua viene il gusto, nei toscani, del bozzetto: brutta parola, soprattutto perché si prestava a venir intesa nel suo senso più ovvio, e sugli esempi più pigri. Ma era una delle forme e dei termini in cui s'esprimeva l'interesse per il documento sociale, per la rappresentazione scarna, documentaria essa stessa. L'epigramma in brevi componimenti poetici offriva l'esempio dell'icasticità d'una osservazione precisa, che coglie, sotto il particolare, e nel dar rilievo a questo, un ritratto umano, un carattere, portato così in primo piano in una sua singolarità e, in certo modo, fatto eccezionale, anche di quella eccezionalità che è natura propria della poesia e distingue questa, come Carducci obiettava contro i poeti più prossimi alla cronaca, dalla prosa. Ma dal Carducci, intanto, il parlato, e l'osservazione, fino al rilievo polemico, dei fatti sociali, e la cronaca stessa, anche se nobilitata dal campo in cui spazia, politico o ideologico, erano stati introdotti nella poesia con grande franchezza: ed erano tradizione, e tradizione poetica, cui cioè era familiare il verso, da tanto in Toscana. L'epigramma dà già, nel cerchio magari della breve poesia, un profilo di ritratto, d'ambiente, all'occasione da cui muove la composizione: fa sentire l'aneddoto, la scena: è il bozzetto, o la narrazione per tratti e macchie di forte e staccato rilievo. Intorno al '70 il Fucini aveva cominciato a ottener largo favore con i sonetti in vernacolo pisano. Come avesse cominciato, da quale occasione scherzosa ma che situa bene l'ambiente e il favore generale in cui cadevano composizioni del genere, il Fucini ha narrato rispondendo con altri scrittori sul «primo passo» suo nelle lettere; e ha raccontato come: «Dalla facilità con la quale scrivevo sonetti che parevano piccole commedie e buttavo giù, in versi e in rime, dialoghi che parevano stenografati dalla viva voce del popolo, qualche longobardo credette d'avere scoperto abbondante nelle mie vene il sangue del commediografo, e mi stimolò a tentare la commedia familiare o civile e magari il dramma e la tragedia»; come passasse poi a tentare di spiegare l'arte propria: altro fallimento; come infine passasse al racconto, e pubblicasse dapprima II matto delle giuncaie, richiestogli da Augusto Franchetti per la «Nuova Antologia»: «L'avevo scritto una sera d'agosto per dare sfogo alle forti impressioni ricevute nel padule di Fucecchio dove ero capitato ad aprire la caccia, e dove guardie e cacciatori di professione, fra i quali ero stato a vita comune per due giorni, me ne avevano dato l'ispirazione».
Una sottolineatura nel segno, un'armonia nel taglio delle situazioni, che prestano complessivamente un rilievo singolare e un ritmo ispirato, o intimo, un po' più che non sia almeno, in genere, nella prosa, sono all'origine della narrativa del Fucini, il più educato e dosato negli effetti tra gli scrittori toscani degli ultimi trent'anni dell'Ottocento. Questo lo rende, a confronto d'altri, un po' chiuso nella sua così limpida riuscita. Ma lo stacco del segno particolare, l'onda lirica che - mai però nei toscani - si fa capace di scavare a fondo nel documento, e lo trasforma in testimonianza umana, in commozione poetica, era pur tra i caratteri della narrazione dei veristi. Non di tutti, certamente, bensì del maggiore, il Verga. E lo doveva avere inteso Michele Barbi quando nel commemorare il Procacci, nel 1888, distingueva la sua scrittura da quella del Fucini: «Le persone che egli introduce ne' suoi racconti par che abbia conosciute tutte e tutte abbia studiate a lungo con profonda analisi psicologica, tanto efficacemente è riuscito a ritrarle nella loro vita più intima. Non che per questo tralasci di ritrarre le impressioni della realtà esteriore; ma ciò che è più intimamente umano ha, nelle sue Novelle, una parte più considerevole; pregio questo che parmi lo distingua dal Fucini e dal Verga e lo avvicini alquanto al Capuana». Indicava cioè nel Procacci, e gli richiamava l'arte del Capuana, un interesse più generalmente sperimentale, disponibile, mirante più all'esperienza che a una rappresentazione espressiva conclusa, rigorosa. Ecco ripetersi, anche nel breve cerchio del bozzetto, dei racconti dei toscani, quella diversità d'interessi che abbiamo indicato, all'origine del verismo in Italia, nell'attività pur tanto concorde del Verga e del Capuana: quello teso all'impersonalità rigorosa del risultato, del prodotto, il Capuana aperto o curioso sempre d'esplorare la capacità - di quello strumento impersonale, dell'analisi - di penetrar in ciò che è, e fortemente sentiva, come soggettivo, come spirito, fino a cercar di renderne i lati più incogniti, l'inconscio, il soprannaturale.
Col Fucini, in effetti, ci troviamo ancora tra gli scrittori operanti tra l'80 e il '90: dell'82 le Veglie di Neri, che, s'è detto, furono presentate dal Procacci, le cui Novelle toscane uscivano l'86; dell'80 Macchiette del Collodi, dell'anno successivo Occhi e nasi, dell'83 Pinocchio. Procacci moriva nell'87, Collodi nel '90, mentre l'attività del Fucini, e del Pratesi continuava ancora al principio del Novecento. Ma sono autori decisamente dell'Ottocento. Uno dei libri più significativi del Fucini, Napoli a occhio nudo, è del '78: il Villari aveva consigliato a Fucini quell'inchiesta, nella quale ebbe a guida Giustino Fortunato: le «lettere» cioè i capitoli di cui si compone son ricchi anche d'aneddoti, spesso gustosi, com'era nell'indole dell'uomo, e della sua scrittura; questo però quasi mai a detrimento dell'interesse effettivo che lo guidava. L'indole sua si manifesta anche dove dominano sdegno e pietà, ed è un'indole attratta dal particolare netto e che spiccando all'occhio rende però una situazione: come nell'attacco della visita ai quartieri poveri: «Quando, per la prima volta, mi dettero nell'occhio quelle numerose turbe di cenciosi vestiti del colore della lodola, che si confonde con quello del terreno dentro al quale si svoltolano, e che a migliaia sbucano la sera dai loro tenebrosi vicoli, aggruppandosi agli sbocchi di quelli come mosche su gli usci di una fabbrica di colla, grattandosi, spulciandosi e spidocchiandosi voluttuosamente, mi tornò alla memoria il verso del Belli «E come fa a magnà tutta 'sta ggente?"». L'aneddoto, bensì, insiste anche in Napoli a occhio nudo, né si può dire che disturbi più, o meno, che nelle novelle: si direbbe che nonostante sincerità e scrupolo d'annotazioni non gli riesca d'addentellarsi ad altro che alla corona d'aneddoti o d'esempi: «Ho visitato anche la famosa grotta alle rampe di Brancaccio. E una caverna divisa in quattro o cinque ambienti, tutti in comunicazione fra loro, scavata nel tufo della collina. È una specie di caverna ossifera, una tana da coccodrilli, dove una iena morirebbe di puzzo e di paura. Eppure anche là dentro, accatastate alla rinfusa, fra le tenebre rotte soltanto qua e là da due o tre aperture, e non più, tra 'l puzzo de' cessi aperti a capo dei letti, e l'umidità che cola dalle pareti, languono quaranta famiglie composte di circa dugento individui, che hanno il coraggio di sorridere e di scherzare. Vi fu un giovinotto il quale, conducendomi attraverso ad una quarantina di letti divisi fra loro da cenci d'ogni colore distesi su corde, volle menarmi in ogni modo a vedere quella ch'ei chiamava la sua galleria, cioè il ramo di caverna, dove aveva il suo letto, e seguitò a scherzare chiedendomi scusa se non apriva «le finestre che non v'erano». Una cosa sola mi fece maraviglia là dentro, e fu di non trovare che un solo malato, un povero operaio d'un grado un po' superiore ai suoi rumorosi coinquilini, il quale vergognandosi di me, stette sempre rannicchiato nel suo canile, nascondendosi la faccia tra le mani».
Per richiamarci ai rapporti reperibili tra il gusto del racconto di questi toscani e i veristi, non sottostà al «documento», in uno scrittore come Fucini, la coscienza di scartare un materiale tradizionale, e una tradizionale maniera di rappresentazione, e di condurre, quindi, sul materiale scelto una particolare operazione che poggia innanzi tutto sulla convinzione d'essere in armonia non solo con quanto produce di più nuovo il romanzo in Europa, ma con le forme del pensiero e della scienza. Una particolare coscienza letteraria, di cui s'è detto già, si complica nei toscani, ma soprattutto nel Fucini, del gusto poetico per un taglio delle situazioni che comunichi un senso sintetico, com'è delle immagini della poesia, e magari umanisticamente allusivo a nobili se pur indiretti echi poetici; come esempio d'una maniera generale, si può ricordare, in All'aria aperta, la chiusa di Non mai, non mai: un ritratto d'un fanciullo di nove anni che perse l'uso delle gambe a causa d'una caduta dalle braccia della balia: «La madre del pallido giovinetto, seduta lì presso, tenendo gli occhi fissi nel cielo, pareva guardasse quella voce [d'una stornellatrice] che passava sconsolata per l'aria». Venata d'ironia, o solo malinconia, o diversamente accordata, v'è una traccia sempre d'origine culturale, che è la maniera, altresì, del Fucini. Il vernacolo quindi, in lui, con la particolare sostenutezza d'una stratificazione culturale. Ma il parlato, quale Capuana lo difendeva in Verga contro lo Scarfoglio, nel saggio Per l'arte, dell'85, rappresentava il segno primo d'una conquista ottenuta nell'aspro campo della scoperta, entro la vita, nella realtà d'oggi - e fuori dalle tradizioni culturali, letterarie, retoriche, in forza d'un pensiero in armonia col gusto scientifico del mondo vivo, attuale - d'un dato nuovo dell'esperienza artistica, del «documento». È il «fatto diverso», nell'atto in cui già si stacca dal gusto dell'indagine, dell'analisi, per tradursi in fantasia e immaginazione, o, come gli piaceva esprimersi desanctisianamente, in «forma».
Scriveva il Capuana in questo saggio: «Questa benedetta o maledetta riflessione moderna, questa smania di positivismo di studi, di osservazioni, di collezione di fatti, noi non possiamo cavarcela di dosso. È il nostro sangue, è il nostro spirito; chi non la prova può dirsi un uomo di parecchi secoli addietro smarritosi per caso in mezzo a noi. Ed è naturale quindi che dal nostro sangue e dal nostro spirito la riflessione positiva passi a rivelarsi anche nell'opera d'arte, nel modo, s'intende, e colla misura compatibile con un'opera d'arte. Questa trasformazione non è un bizzarro capriccio degli scrittori; è l'effetto d'una evoluzione che nessuno al mondo è nel caso di arrestare o d'impedire»; e replicando, per Verga, a Scarfoglio: «Se quella semplicità di mezzi ottiene un effetto di colorito, di rilievo, di movimento, di vita vera, come nessun romanziere di trent'anni fa se l'è mai sognato, da che diavolo dunque provien questo? Dalla fantasia, dall'immaginazione!» È rotta una regola che durava inalterata così da confondersi ormai con la morale comune oltre che coll'idea stessa della rappresentazione artistica: non si cerca l'eccezione, quanto più, cioè, commuova e conquisti la partecipazione dell'animo del lettore: si pensi alla scena di Cecilia o all'addio di Lucia ai monti natii, nei Promessi sposi. dove (e vi rientra il «bozzetto» come è condotto dal Fucini) la pietà s'accresce per contrasti e conflitti eccezionali, e tali quanto più operano direttamente, sulla linea cioè del senso comune, degli affetti più generali. Si resta così nel generico, non si trova e non si coglie il segno individuale, caratteristico, distintivo, di quanto hanno di proprio, nuovo, diverso, il costume, la vita d'oggi (e di nuovo, e diverso, l'istintivo gusto di rappresentazione, e percezione): in Napoli a occhio nudo, per questa difficoltà il Fucini pur con una materia sinceramente esplorata non trovava altro terreno né legame che quello esteriore del rilievo aneddotico. Manzoni, Zola, o Verga, valgono bensì come esempi tutti ugualmente positivi per la esatta rispondenza del metodo di rappresentazione alla loro comprensione della realtà, della vita: ma è proprio questa che costituisce oggi un mondo affatto diverso di valori, di pensiero. Però, necessaria conseguenza del puntare sulla rispondenza rigorosa dell'espressione ai fatti, è che, pur in tutt'altri rapporti con la realtà, il problema, come già si verificava in quei classici, sia, essenzialmente, di rappresentazione, di metodo d'espressione artistica, un problema d'arte.
Anzi, di linguaggio, e di una concezione nuova delle proprietà e dei procedimenti di ciò che è più intimo al fare artistico, la creazione della fantasia. Non più l'eccezione che esalti il senso comune, e nemmeno quanto colpisca per il suo contrasto con la normalità: il «caso patologico», che Rovani credeva aprisse domini nuovi allo studio delle passioni. Occorre restare nel campo dell'arte, della rappresentazione, del linguaggio più particolare e necessario in quanto deve risultare col carattere di necessità e verità che è degli organismi vivi, e consentire di non consumar l'indagine nell'indistinto: cioè, il «fatto diverso», il «documento» dove più spicchi nella sua individualità perché questa dovrà prender la concretezza della vita artistica. Nello sviluppo del moto normale della società, negli indirizzi generali, ciò che, ributtato al margine - i «vinti» di Verga - consente di cogliere con forza drammatica, nella caduta, quel che in origine era una spinta indistinta: quindi la scelta d'una gente che meglio presenti tratti individuali concreti, e relativo linguaggio. Ma la scelta dei contadini d'un particolare caratterizzatissimo angolo della Sicilia, o d'altri ambienti, son forme espressive in cui si personalizza e caratterizza il dramma d'una società generale, la vita moderna: e quella rappresentazione risponde alla forma d'analisi, di sensibilità e d'intelligenza del mondo moderno. E la coscienza, che l'arte esprime, del proprio tempo. Questa forza interiore, spirituale, questa intima originalità spiega non solo la grandezza d'un artista come Verga, ma le ragioni del ripresentarsi, pur in forme diverse, di quell'esperienza ancora nel nostro secolo.
A quali lontane origini risale un romanzo come II marchese di Roccaverdina del Capuana? Ne parlava nella corrispondenza col Verga negli anni delle novelle di Vita dei campi. e dei Malavoglia, e un caso analogo dominava nella sua mente quando precisava i propri ideali d'arte in quel saggio, già ricordato, Per l'arte, dell'85: nel '72 era avvenuto un delitto: una sessantaduenne, Giuseppa Puglisi, era l'amante di un uomo più giovane di lei di vent'anni, Carmelo Maugeri: gli aveva fatto sposare, dapprima, la propria sorella maggiore; dopo la morte di questa, una giovane, Maria Greco. La Puglisi era divenuta gelosa sempre più della Greco, e, dopo alcuni tentativi falliti, l'aveva fatta uccidere dal Maugeri stesso, succubo della donna. La tresca aveva cominciato presto a slittare verso la mania nella Puglisi che, al tempo del processo, aveva sessantadue anni: «I romanzi più impossibili sono quelli che accadono ogni giorno sotto i nostri occhi, attorno a noi, in alto e in basso. Non ci sarà mai né un romanziere naturalista, né un novelliere verista il quale abbia tanto coraggio da inventar nulla che rassomigli, da lontano, alle continue e terribili assurdità della vita reale. E se il romanziere e il novellista rispondono alla vostra esclamazione col mettervi dinanzi i documenti, per provarvi così che essi han narrato un fatto vero, replicate che la difesa diventa peggior dell'accusa. Vorrà dire che essi non hanno saputo indovinare il segreto processo di quel fatto vero, che nella loro narrazione s'incontrano delle discontinuità, e quindi l'azione, i personaggi non sian riusciti organici, viventi! Vorrà anche dire: è solamente artista colui che ripete, nella forma letteraria, il segreto processo della natura». E infatti la curiosità s'era acuita e decantata per quasi trent'anni, per potersi trasformare nell'idea del suo romanzo. Preoccupato di sottolineare la natura artistica dell'esperienza ch'egli difendeva: il romanzo moderno, arrivava a confonderla con particolari processi strumentali, presunte invenzioni materiali addirittura, come quella di quel «fotofono con cui [un medico inventore] seguiva a notare i movimenti e le impressioni di quella vita cerebrale già in via di spegnersi».
Spiritismo e altri inganni analoghi d'un culto dell'analisi stretta ai dati positivi, naturali, esercitavano la loro suggestione sugli scrittori negli ultimi vent'anni del secolo. Questa curiosità consentiva, innanzi tutto, di rompere l'illusione che servissero meglio allo studio psicologico del romanziere personaggi e ambienti umili. Senza uscire dall'interesse pel mondo moderno, e da procedimenti in armonia col pensiero scientifico, in realtà veniva fatto di concedere e slittare su notazioni astratte e sentimenti raffinati o confusi. Il romanzo d'anno in anno diventava moda, e così veniva facendosi cronaca minuta, ritratto di lati superficiali o marginali del costume, e d'ambizioni più o meno fondate, documento di itinerari interiori, falsi naturalmente, per lo più, come accade. L'età, potremmo dire, di Fogazzaro, di D'Annunzio; ma dei tratti indicati risentirono anche artisti minori ma seri come De Marchi e Pratesi.
Mario Pratesi aveva indole piuttosto difficoltosa, né l'elaborazione d'un racconto si risolveva in lui come nel Fucini nell'arte di rendere con felicità, col dare una certa luce giusta, e rilievo, una situazione. Ma è un po' ingenuo caricare il suo lavoro di richiami a Verga. Ne è lontanissima anche L'eredità: innanzi tutto, per la visione del mondo, e per la forma del racconto. L'aneddoto e l'inclinazione ad una scrittura di formazione umanistica, lo scoprono della famiglia degli altri scrittori toscani. Romanzi, e racconti, inoltre, non variano dalle situazioni comuni: ancora il Risorgimento, e Venezia all'arrivo dei francesi e del giovane Bonaparte; o il contado senese, e così via. Profondamente diverse la violenza drammatica, una dolorosa inchiesta morale, che lo separano da tutti gli altri toscani del secondo Ottocento, sebbene anche in Pratesi il primo moto al racconto, e il tono della pagina, sembrino nascere da una disposizione lirica. II linguaggio ricorre spontaneamente a termini e immagini più propri alla poesia: così familiare gli è il richiamo a questo o quel poeta (Leopardi, naturalmente), o a pittori, soprattutto toscani, e antichi. Purtroppo, l'enfasi è sempre in agguato in inclinazioni del genere: un cedere all'onda della commozione, o di un vago assenso interno a un ordine di pensieri che, così, resta inespresso: «Di lì a qualche giorno era la sera di Berlingaggio: era una di quelle sere dei primi di marzo, stellate, ventose, quando ti sembra d'udir turbinare nell'aria ancor rigida la primavera che s'avvicina coi fiori in grembo; e fiori luminosi sembran le stelle: fiori che piovano di sfera in isfera sotto i passi di Dio vagante per il mistero infinito». In simili forme è, pure, un avventare in vista di risultati che dovranno ricevere più spiccato rilievo: più suggellati d'un contrasto a quell'armonia; senza che sia trovata in realtà l'espressione propria, coerente. Così, nei racconti del Pratesi domina un senso d'angoscia, espresso con penetrante partecipazione umana; e tuttavia la penosa condizione, quale egli la soffre e rappresenta, della vita umana, resta generica. È questo il senso lineare, poco complesso ma non perciò meno denso e a volte profondo, della sua narrazione.
Un impulso a penetrar certe costanti del costume, della vita, sebbene si accentri in singole scene, di forti scorci, di straordinaria forza di movimento, pone il suo lavoro sul piano del romanzo, del vero e proprio racconto, com'era nei migliori narratori veristi: anche se frequentemente in lui quell'impulso scada nel gusto per una sottolineatura o per un'adesione di natura lirica al particolare: il canto del chiù nelle prime pagine del Mondo di Dolcetta, scene di caccia, di vita campagnola varia, o le crete di Siena, o la cantina o il negozio d'un vinaio. Tutto questo, poiché è continuo, è la maniera che ha Pratesi di vedere e di descrivere, non solo, ma di riflettere, e carica d'una certa forzatura gli aspetti che dovrebbero far da sfondo al male e agli affanni presenti: la forzatura, quasi un istinto a un'esplosione drammatica, è come comunicata a tutti gli aspetti della vita, i dolci o perenni non meno che i torbidi delle passioni umane del giorno. L'esperienza è intensamente vissuta, col rigore che si direbbe proprio a una formazione di lirico; ma è descritta, raccontata, espressa, in contrasti semplici bensì come cerchia di sentimenti, ma contrasti che esigono il racconto, una struttura narrativa: vale a dire, che la forzatura, o la violenza, sebbene slittanti, come s'è detto, verso il lirismo, rendono pienamente una umana partecipazione, a suo modo esclusiva e diretta, che non si definisce in giuoco o vezzo o orgoglio di soluzioni stilistiche, come in alcuni settentrionali, quali Faldella o Cagna o Dossi. Qui, come prima s'è ricordato Verga, può esser giusto indicar in Pratesi l'esempio, se pur un po' appartato, di un linguaggio romanzesco prossimo ancora alla denuncia individuale, e che da lui erediteranno, nel nostro secolo, altri toscani, e più chi vicino a Pratesi per origine, come Tozzi.
Non sono molte le figure che animino il quadro della Toscana del secondo Ottocento: e si tratta di scrittori che solo in parte, una parte spesso marginale, rientrano nel nostro quadro: così Pietro Coccoluto Ferrigni, il già famoso Yorick, scrittore vivace ma occasionale; ed Eugenio Checchi, livornese come Yorick, ma più giovane di due anni, essendo nato nel '38, e al pari di lui giornalista, ma che spetta piuttosto alla sezione dei memorialisti per le sue Memorie di un garibaldino, e autore altresì di vari racconti. Fiorentino Enrico Castelnuovo, piuttosto che romanziere, come sembrò, sociale, in quanto sincero e affettuoso osservatore, scrittore onesto e simpatico. Di lui si posson ricordare i romanzi L'onorevole Paolo Leonforte, e II fallo di una donna onesta, più che il noto I Moncalvo. Solo memorialista, anche se scrittore piacevolissimo, vivace e arguto, capace d'animare stupendamente il racconto delle proprie memorie fu Leopoldo Barboni, del quale son da ricordare almeno Col Carducci in Maremma e, soprattutto, Geni e capi ameni dell'Ottocento. Posizione, indubbiamente, di singolare rilievo ha Ferdinando Martini; più avanti si dirà della parte da lui avuta nella formazione culturale dell'Italia letteraria degli ultimi venti anni del secolo passato. Scrittore di pochi libri il fiorentino Guido Nobili. Ma col Nobili si tocca già di opere appartenenti al nostro secolo. D'educazione toscana anche alcuni scrittori d'altre regioni, come il bolognese Panzacchi, poeta, critico, e autore d'alcuni racconti sottilmente filtrati anche se la scrittura fin troppo misurata si faccia sentire spesso come un impaccio.
Le esperienze descritte, e che nei maggiori veristi s'esprimevano con particolare risolutezza, contarono nella formazione di Emilio De Marchi: un narratore modesto, appartato, non soltanto per un destino doloroso, di familiari sventure, e per un mesto sentimento della vita, ma anche per l'impegno risoluto a trasferire i dati penosi e pesanti e, in buona parte, contrastanti, della propria esperienza privata nell'altra sua di romanziere. Nato nel '51, a nove anni perse il padre. Ventenne, esperimentò la ferita d'un amore tragicamente troncato. La sua vita si svolse nell'ambito appartato della scuola. Dopo il matrimonio, lo afflissero incidenti vari: più grave, nel '97, la morte, per malattia, della figlia. La sua carriera di narratore è interrotta da lunghi silenzi: da esitazioni, impacci, incertezze. Dopo varie prove giovanili, nell'88 pubblicava un romanzo d'appendice, Il cappello del prete, uscito a puntate dapprima nell'«Italia» di Milano e nel «Corriere di Napoli». Nella avvertenza al Cappello del prete dichiarava: «l'autore, entrato in comunicazione di spirito col gran pubblico, si è sentito più di una volta attratto dalla forza potente che emana dalla moltitudine; e più d'una volta si è chiesto in cuor suo se non hanno torto gli scrittori italiani di non servirsi più che non facciano di questa forza naturale per rinvigorire la tisica costituzione dell'arte nostra. Si è chiesto ancora se non sia cosa utile e patriottica giovarsi di questa forza che trascina i centomila a leggere, per suscitare in mezzo ai palpiti della curiosità qualche vivace idea di bellezza che aiuti a sollevare gli animi». Il correttivo degli amici veristi, come Verga, s'avverte in queste parole che proclamano un esperimento di interesse innanzi tutto sociale, anche se tradotto nella formula del momento, nell'attrattiva del «romanzo d'appendice». Tale direzione lo portava fuori dai precedenti più diretti, gli scrittori della Scapigliatura, Praga e Tarchetti, a cui rischiava di tenerlo predisposto l'inizio elegiaco della vita, e delle prime esperienze d'arte. E Manzoni: quel sorriso con cui l'autore dei Promessi sposi prende parte alle avventure dei suoi, per lo più umili, eroi, ormai, dopo che tanti nuovi esempi, stranieri e italiani, avevano nel corso del secolo arricchito il romanzo, poteva esser accolto come un semplice opporre, a sventure e mali, una moderazione istintiva: in quanto un semplice moto di fiducia può esser pur, nella vita, una forma reale e concreta di partecipazione. A una spontanea correzione di tal genere De Marchi era portato innanzi tutto dalla propria natura, dal proprio carattere. Ed era, si noti, un inizio di costruzione dei fatti: un portare questi ad una presa diversa, pur nel campo delle passioni. Anche in tale tendenza poteva farsi sentire il gusto della confessione, degli Scapigliati, e poteva inserirsi la suggestione di certo romanzo francese. Quel sorriso che, come strumento narrativo, De Marchi esperimentava in una parte dei suoi racconti, piuttosto che risolversi in soluzioni umoristiche dava consistenza e ragion d'essere, fuori dallo sfogo elegiaco, al costante convincimento del dolore che regge la vita, l'esistenza umana: radicato in lui, ed espresso, innanzi tutto, nella ricognizione puntuale, e intimamente significante, dell'ambiente: Milano. E, ancora una volta: la Milano degli Scapigliati; ma che ci vien resa ora in un ben più complesso orizzonte spirituale. La sofferenza umana caratterizza ora in un preciso ambiente i personaggi, mentre al precipizio di certi destini accompagna un desiderio, non meno forte, di partecipazione, fiducia, quasi intelligenza confidenziale verso la vita. Non si tratta di una conquista spirituale, quanto invece d'un equilibrio che è concesso all'artista, al romanziere, e la cui incertezza faticosa è deducibile anche dagli impacci interni ad ogni romanzo quasi, e dall'incertezza che sembra governare la stessa sua carriera di scrittore.
Il proposito di definire meglio il proprio mondo portava De Marchi, anche sulla suggestione di nuove tendenze nel romanzo (con l'affermarsi, in particolare, del Fogazzaro), ad accentuare in un senso vagamente religioso un'ansia spirituale che, nell'educazione al minuto studio della realtà, non trovava sfoghi se non d'un misticismo generico. Era lo spiritualismo che, attraverso Fogazzaro, s'impaludava in estenuazioni d'un basso livello estetico, per sofferti che potessero esserne i moventi morali. De Marchi inclinò più decisamente verso le suggestioni fogazzariane, ma sempre con stretto controllo, in Giacomo l'idealista, del '97. Piccolo mondo antico era uscito due anni prima, e Fogazzaro era già celebre per numerosi romanzi, da Malombra, al Daniele Cortis, al Mistero del poeta. Poteva forse, su De Marchi, anche la comprensione dimostratagli sempre da Fogazzaro verso il suo lavoro. Comunque, Demetrio Pianelli e Arabella sono esempio di quell'equilibrio artistico solo suo, per quanto difficoltoso sempre. Col titolo Bella Pigotta una prima redazione del Demetrio Pianelli era uscita a puntate nell'88-'89, ma non era, neanche quella redazione, la prima prova; il romanzo comparve col titolo definitivo nel '90, pochi mesi dopo l'uscita del Mastro don Gesualdo del Verga; Arabella usci nel '92, prima sul «Corriere della sera», poi in volume. Del 1901 Col fuoco non si scherza, contrastato dalla malattia che lo condusse alla morte nell'inverno del 1901.
Sempre più si diffondeva in Italia, con effetti anche negli orientamenti sociali, e politici, la narrativa russa, destinata però sul primo momento a sfruttamenti d'occasione nell'ambito letterario, o ad arricchire vaghe tendenze spirituali, come nel De Marchi, pensoso delle difficoltà della vita politica e sociale della nazione. Ormai in disparte il De Amicis, legato, dagli ideali e più, forse, da una certa occasionalità d'ogni suo intervento letterario, al passato, cioè a una figura convenzionale del recente passato risorgimentale, a cui idealmente sollevava sentimenti e espressioni attuali. Dell'86 Cuore, il libro suo più celebre. Eppure era immune da superstizioni e da gusti retrivi; era osservatore schietto; ma, in ogni sua applicazione, occasionale, provvisorio. Scrisse racconti e romanzi, e, in questa parte, più interessante riesce l'analizzatore di turbamenti giovanili; in genere la sua produzione resta affidata ai libri d'intento educativo e alle raccolte di prose di viaggio. Fortunatissimo autore teatrale fu Giuseppe Giacosa, del quale offrono interesse ancora le Novelle e paesi valdostani, dell'86: un esempio singolare dei vantaggi portati dal naturalismo e dal verismo, e su cui fermò l'attenzione Pietro Pancrazi: il Giacosa è uno scrupoloso descrittore d'una «sua» regione, la Val d'Aosta. Non manca anche qui di farsi sentire la sua inclinazione per le facili rievocazioni storiche, per un travestimento sentimentale di luoghi, e di aspetti della natura. È dato avvertire un certo culto d'una rappresentazione dello scrittore stesso in veste di un personaggio un po' d'eccezione: è lo sfondo corto, il respiro limitato di quel suo interesse per costumi e fatti paesani, regionali, che non si smarrisce quasi mai però nel compiacimento bozzettistico.
Troppo facile veramente sottolineare le contraddizioni in cui cadeva Antonio Fogazzaro quale pensatore. Ma la domanda che ci interessa è un'altra, cioè quale rapporto corra tra il pensatore e il narratore. Poiché, come s'è veduto, in Verga e Capuana, pur guidati da idee e da un concetto dell'arte non più che affini soltanto, sostanzialmente indipendenti, ogni teoria mirava sempre a portar chiarimento e ad aiutare il loro lavoro di romanzieri. Errate che potessero o possano apparire le loro teorie, o aspetti di queste, resta intatta la concreta rispondenza, di pensieri e princìpi, agli svolgimenti dell'arte loro. Non è neppure in menoma parte il caso del Fogazzaro, del quale i concetti sull'arte non rispondono necessariamente agli orientamenti del suo pensiero in altri domini, non sono espressione di un interesse definito, di un'esperienza concreta. Certo, egli accoglieva energicamente le forme più inquiete e suggestive dei vari contributi e delle innovazioni culturali, così ricche negli ultimi vent'anni del secolo; le accoglieva per un fascino che l'inquieto, l'occulto, il simbolico, esercitavano su lui; e ne ingigantiva la suggestione, l'incanto, se pur superficiali, e, si può dire, con successo più fascinoso quanto egli più si guardasse dall'andare oltre la superficie. Non si detrae al dolore che un'indole del genere può comportare; né alle battaglie affliggenti e alle accuse cui poteva offrirsi, e a certa austerità e nobiltà d'intelletto: tutti elementi che tornano a favore del Fogazzaro. Egli fu romanziere, e fortunatissimo romanziere; ma nel successo contò in maniera decisiva l'attrazione d'un certo modo guasto di sentire, e superficiale di pensare, che si denunciano nella miseria del linguaggio dei suoi libri, soprattutto dove più mancanze del genere si riflettono, nei dialoghi. Gli interessi suoi non chiarivano una loro interiore storia attraverso i romanzi dello scrittore: come, in ambito pur modesto, s'è potuto indicare in De Marchi; venivano esemplati e rappresentati in protagonisti che eran portatori soltanto delle sue teorie: e, come queste vivevano innanzi tutto su una intensa suggestione sensuale imbevuta d'ansie spirituali, questa suggestione si allargava e proliferava come selva nella esplorazione della natura, e delle passioni umane, sensualmente sempre.
S'è indicato come, pur nei veristi, fosse presente la possibilità di soluzioni non molto lontane da questa, anche in forza d'un eventuale tentativo, ch'era una scadenza implicita per così dire nella situazione stessa dei loro programmi, di passare a rappresentare strati sociali dei quali l'educazione spirituale, e pur nei dati più raffinati, fosse una componente reale, un fatto; una disponibilità del genere aveva offerto l'occasione, sulla traccia della fortuna delle formule veriste piuttosto su piano europeo che nazionale, agli scrittori di livello e gusto borghese, per ritrarre strati superficiali e mondani della società, e fatti artificialmente soffusi d'ansie spirituali. Non rappresentavano, in se stessi, niente; erano un residuo appena della pur contrastata fortuna dell'esperienza verista. Sotto le raffinatezze si cela la genericità della rappresentazione dei costumi e dei sentimenti borghesi che si protraggono nei mediocri romanzi d'un Rovetta, documento soltanto della miseria d'un gusto letterario corrente. Ed era un mondo di convenzioni e sentimenti oltre i quali non vanno né le ansie né le raffinatezze spirituali, pur dove sincere, d'un romanziere come Fogazzaro. Né dimentichiamo che su tali basi si veniva affermando in quegli anni la fortuna del D'Annunzio. Era l'Italia ufficiale che trovava espressione, e, naturalmente, consenso, al di fuori delle esperienze veramente rinnovatoci e responsabili anche sul piano della realtà sociale, in «cavalieri dello spirito» del tipo di Fogazzaro o D'Annunzio.
Di fronte a certe situazioni che governano i romanzi di Fogazzaro, verrebbe fatto di pensare alle romanze musicate da un autore fortunatissimo in quegli anni, il Tosti, finte battaglie tra impeto dei sensi e dovere, protratte per acuire il piacere. Così il conflitto che attrae Daniele ed Elena, nel Daniele Cortis, è un processo d'irritazione, che si ripete in ogni suo romanzo, poiché gli interessi dell'autore hanno sempre una sostanza espressiva fisica, sensuale, pur nelle enunciazioni più sofisticamente ideali. Ama non il capire, l'analizzare un'indole umana, ma lasciarsi andare sullo stimolo di sensazioni cieche. Può essere delicato nella rappresentazione d'alcuni sentimenti, e lo si concederà purché non ci si aspetti ch'egli da questo riesca a passare alla rappresentazione d'un senso della vita, o della società, o d'un personaggio, o a rappresentarci alcunché del genere, almeno come efficace poeta di un ambiente. È celebre descrittore della sua Valsolda: ma anche in questo caso non si va oltre un atteggiamento lirico, alla cui fortuna soccorre l'incontro di quei temi evocati, lirici, con figure ed episodi aneddotici. Di qui l'assenso che riscuote come descrittore di macchiette, di tipi, e per la vena umoristica con cui varia i propri temi, ma che a questi non è intimamente connaturale. Sono gli elementi che in gran parte han fatto la fortuna larghissima del suo più riuscito romanzo, Piccolo mondo antico. E giustamente fu osservato che a questa migliore riuscita contribuì forse l'età risorgimentale in cui è situata l'azione, che doveva sollecitare più liberamente e spontaneamente ricordi d'infanzia, nello scrittore. A veder bene, v'è poi un di più di tenerezza e languore, che riporta a quanto s'è detto, della grande rispondenza del Fogazzaro a un gusto medio, a un pubblico che si sente rappresentato nei suoi sentimenti comuni. Più volte sono state notate le affinità, le rispondenze di Piccolo mondo antico.con I promessi sposi. Ma anche in queste affinità, ad esempio nel conflitto tra spirito d'oppressione e vocazione al perdono, governa il romanzo del Fogazzaro un languore compiaciuto che non permette di portar oltre somiglianze appena occasionali ogni riferimento. Una precisione nel racconto, nell'osservazione, son doti che richiamano indubbiamente a Manzoni, ma su un piano solo letterario e culturale. E un fatto che indica, cioè, come I promessi sposi fossero ormai passati a costituire, nel romanzo italiano, un dato storico soltanto.
Alcuni narratori rientrano nel quadro degli anni che precedono gli inizi del nuovo secolo: del 1892 Decadenza, di Luigi Gualdo, uno scrittore bilingue, perché notevole parte della sua narrativa è in francese. In Francia fu portato quand'era fanciullo, e là formò la sua educazione. Milanese, conservò le amicizie col gruppo della città natale, del quale ci siamo occupati già. Alcuni temi particolari agli scrittori della Scapigliatura è dato riconoscere nelle sue prime opere, La gran rivale, La scommessa e in altre novelle, e in Une ressemblance, in cui palese risulta l'affinità con esperienze di Faldella, di Camillo Boito, d'altri. L'ineluttabilità di certe forme della passione amorosa s'accorda con l'esperienza spirituale che più è particolare all'artista, con l'interesse per le sottili analisi psicologiche, come nei due romanzi più noti, il ricordato Decadenza, e Le mariage excentrique. Un internazionale, per educazione, e formazione; un appartato, uno scrittore per lettori d'eccezione più ancora che per compagni di professione, fu il mantovano Alberto Cantoni, scrittore d'origini un po' umbratili, e sentimentale, che, in un umorismo stilisticamente sorvegliato, corregge e a volte sacrifica un'inclinazione elegiaca alla confessione, all'autobiografia. Le sue invenzioni oggettive, i suoi racconti lo sviano dall'attrazione e dalla sensibilità per una materia sua d'elezione: un mondo, più che campagnolo, familiare agli affetti d'un uomo che divide la vita tra viaggi in terre lontane e lunghi soggiorni nella villa di famiglia, in campagna. Una trama sottile sorregge, nei suoi romanzi, strutture fortemente intellettuali, e nelle quali ha spesso rilievo il problema dell'espressione artistica. Con il Cantoni, come con il Gualdo, entrano nella narrativa italiana dei contributi culturali che ne allargano oltre il mediocre gusto del tempo esperienze e interessi. E veramente in questo senso il Cantoni doveva piacere ai compagni di mestiere, ma avvertire per parte propria certo fastidio per scritture, come le sue, nelle quali un occhio esperto, professionale, potesse seguire, controllare, quel punto più intimo del lavoro letterario in cui spetta allo stile, all'espressione, far lievitare ogni esperienza in un campo di valori originali. Anche da questo si difendeva con l'ironia. Di qui una complessità, una consapevolezza intellettuale, che gli prestano un sapore di modernità che spesso resiste ancora. Né questo si dice perché piaceva ad uno scrittore il quale più rappresentò l'inquietudine intellettuale in rivolta contro la sommissione di sentimenti e princìpi a tradizioni che erano, da noi, sostanzialmente retoriche: il Pirandello, che, nel 1905, pubblicò un saggio sul Cantoni, come prefazione all’'Illustrissimo, del Cantoni stesso. «Vi sono scrittori» concludeva Pirandello «che pur vivendo oscuri, solitari e sdegnosi, lavorando nell'ombra con la tenace e vigile pazienza dei forti, ribelli segretamente a tutte le tirannie del tempo, alle idee comuni, che formano quasi l'atmosfera morale e intellettuale di esso, lo vincono con l'opera loro, anche quando sembra che ne rimangano schiacciati».
Si proietta ancora sugli ultimi venti anni del secolo un riflesso delle forme ch'eran state caratteristiche della Scapigliatura, soprattutto una ambiguità d'atteggiamenti ribelli, polemici, che trovava voce piuttosto nel verso che nella narrativa, ma, anche in questa, rendeva possibile il perdurare di motivi romantici e di ideali o vieti o retorici. In una condizione del genere si veniva faticosamente determinando una scelta tra elementi di diverso valore, tra vecchio e nuovo, della cultura del giorno. Irruenza passionale, estetismo, sperimentalismo, un complesso avventare piuttosto che la coerenza e la costanza di risolutive esperienze, son tra i caratteri distintivi dell'età, in maggiori e minori, o piuttosto in scrittori di minore o di più larga fama. E spesso più indicativi i primi, a misurare i risultati dell'ora sugli sviluppi che in successo di tempo avrebbe seguito da noi la narrativa.
Incerto il gusto, e nei versi e nei romanzi, del genovese Remigio Zena, cioè del marchese Gaspare Invrea, d'ambiente piemontese e lombardo nella sua prima formazione, legata alle prove più polemiche e bizzarramente svolte sul gusto del ritmo inusitato, e del fantastico, ch'eran tra le scorie degli Scapigliati (e si può fare il nome, per precisione, di Arrigo Boito). Anche questa parte, scadente già per destino verso una cronaca minuta e aneddotica, in cui si raccolgono rivi diversi: dalla moda stecchettiana al sentimentalismo e al gusto provinciale d'uno spiritualismo aristocratico, fino al commento comico della cronaca letteraria del giorno, appuntata soprattutto contro il «maestro» dell'ora, il D'Annunzio, mai però, né da Zena né da altri di quelle generazioni, avversato con sincerità e con successo. Da questo ingombro culturale Zena però è quasi del tutto libero nei romanzi, La bocca del lupo, del 1892, e L'apostolo, del 1901. Nel 1880, e nel 1894 uscivano le due prime raccolte di versi, Poesie grigie, e Le pellegrine: nel 1905 l'altra raccolta poetica, Olympia. Tra i due romanzi v'è una forte disparità d'arte e di magistero costruttivo, a vantaggio dell'Apostolo. Ma più vivo e autentico, incomparabilmente, è l'altro romanzo, anche se più umilmente legato alla narrativa del giorno, alla descrizione degli umili, impostasi ormai col verismo; mentre L'apostolo risente del filtro d'una elaborazione culturale connessa, tra l'altro, con l'esempio del Fogazzaro romanziere, sebbene di cinque anni il romanzo d'ambiente religioso dello Zena preceda l'opera più caratteristica del Fogazzaro su questo piano, Il santo. Il protagonista dell'Apostolo.è un personaggio astratto, che serve polemicamente alla rappresentazione, spesso vivace, dell'ambiente cattolico, da cui è soffocato moralmente: l'interesse concreto non esorbita da una acutezza d'osservazione che ha la propria sorgente nella disposizione autobiografica. Lo Zena segna con chiarezza, in queste parole d'uno dei personaggi del romanzo, la superficialità dei problemi trattati: «più o meno in questo tempo attraversiamo tutti una fase di misticismo nevrastenico; è un carattere del secolo agonizzante»: parole che riassumono il clima del libro meglio delle particolari discussioni e trattazioni di questioni culturali, per quanto condotte con misura nell'Apostolo. Il gusto autobiografico si esprimeva assai più spontaneamente nella partecipazione corale all'ambiente umile, al paesaggio, della Genova dei quartieri popolari, ne La bocca del lupo, dove la storia stessa, quanto mai semplice, si riposa senza sforzo in alcuni episodi più ariosi, di felicità quasi, si direbbe, diaristica, come nella rappresentazione del varo della nave Emilia, che costituisce altresì l'episodio da cui s'avvia al suo esito l'intreccio del libro.
La disposizione all'autobiografa è tutt'altro dalla confessione degli Scapigliati; è un gusto della vita, della realtà: implica un'apertura spirituale che è cosa affatto diversa dal disordine interiore, dal drammatico senso di un'urgenza confusa dell'elemento passionale, da cui la spinta alla confessione in quegli scrittori. Eppure gli Scapigliati sono ancora vicini alle origini di romanzieri come Zena, e come la Serao, e Neera: la quale ci ha lasciato la storia dei suoi debiti verso di loro. Scrittrice prodiga, e anche per questo quasi dimenticata, nonostante i generosi interventi del Croce, Neera aveva ben compreso i termini della propria natura: un romanticismo sentimentale, legato all'ambiente provinciale della sua gioventù: letterariamente, da Byron a Tarchetti, al Verga della Storia di una capinera. al Fogazzaro di Miranda. È una traccia abbastanza precisa. L'interesse suo è stretto alla condizione, anzi al mondo della donna. Ma con questo, si resterebbe nell'astratto. Neera intende fare una dichiarazione il più possibile precisa: che, cioè, la donna è una materia particolarmente adatta alla forma espressiva del romanzo, per chi intenda il romanzo come studio analitico e psicologico della realtà: e qui cita Madame Bovary e, col Flaubert, vari romanzi dei Goncourt, né dimentica gli italiani, soprattutto non dimentica che essa sta rivolgendo le proprie parole a Capuana. Nota, inoltre, come la descrizione, lo studio psicologico della donna apparisca connesso col particolare ambiente della provincia: «di quell'ambiente noto e pur sempre singolare, dove i personaggi hanno lo stesso rilievo che dà ad un quadro lo sfondo del cielo. Artisticamente io adoro la provincia; essa mi ispira e mi riposa insieme; la trovo più elevata, più intima, più personale della grande città, dove a furia di urtarsi e di rotolare si riesce tutti eguali, dove gli angoli si smussano, i profili si affinano, i colori si smorzano; dove si piglia tutti supergiù l'aspetto dell'ultimo figurino .. . Se descrissi qualche ambiente elegante, non lo feci per amore, ma per contrasto». Ecco, la naturale tendenza dei veristi all'ambiente regionale, ricondotta, qui, ad un motivo schiettamente «artistico»: e nella direzione dell'interesse autobiografico, della variazione o rappresentazione diaristica o saggistica (anche se espressa ingenuamente: «dove i personaggi hanno lo stesso rilievo che dà ad un quadro lo sfondo del cielo»). Restava insoluta l'insufficienza, la disparità, rispetto a quelle intelligenti letture, e a così limpide dichiarazioni, dell'opera effettiva: insufficienza che si riassumeva, nell'ambito delle questioni del giorno, nel difetto di stile. Un difetto della stessa concezione dei romanzi, nei quali l'analisi, lo studio, non si sostanziano come interesse centrale, valido di per sé, non si identificano (a non varcare qui convenzioni e linguaggio del tempo) con un «documento» umano, psicologico, ma si sperdono nel generico di motivi ideali e passionali, cioè artisticamente nell'astratto. Ma era un esito cui soccombevano scrittori ben diversamente dotati ; e più anzi risalta la chiarezza che Neera sapeva portare nel giudizio sulla propria opera e sulla propria persona.
L'autobiografia mette in nuova evidenza la povertà degli scrittori della fine del secolo. È, sì, una conquista: nella sincerità, nella autenticità. E una disposizione a sentire anzi a portare spontaneamente la propria natura, l'indole propria più intima, nelle cose, fuori di sé, nella realtà. Ma questo implica un'istituzione di fatti nuovi, di rapporti spirituali, che non possono esser sostituiti con la presenza di esempi letterari per quanto alti (Flaubert) e di precedenti, piuttosto che isolati, costretti dalla situazione sociale e culturale del paese ad apparire come fatti d'eccezione, per quanto in una posizione eminente per valore d'arte: Verga più d'ogni altro. «Mi accusano di realismo, mi accusano di sentimentalismo», confessava Neera; ma la vera incertezza era in lei che scriveva: «Dice Flaubert nella sua corrispondenza colla Sand, che egli cercava di pensar bene al solo scopo di scrivere bene. Ecco uno scopo che mi lascia piuttosto fredda. Se tento di scrivere bene è per esprimere bene il mio pensiero. Effettivamente, la mia passione, il mio diletto, la mia idealità è lo spirito, non la lettera. Il momento bello per me non è quando scrivo, ma quando penso». Non s'accorgeva che lettera vana era appunto un pensiero non condotto con rigore a farsi realtà: come le accadeva nei suoi romanzi. Ma il principio, sebbene si tratti di principio appena, è in una disposizione sincera, autentica, a suo modo reale quanto più circoscritta: l'autobiografia. «Studio autobiografico» essa qui vedeva bene «è verità». E la Serao diceva della propria arte: «Io non ho mai voluto e saputo esser altro che una fedele e umile cronista della mia memoria. Mi sono affidata all'istinto e non credo che mi abbia ingannato»: memoria, come siamo venuti spiegando, tutta rappresentata e vissuta nel contatto con la realtà e nella curiosità per le cose: tutta esperienza diretta e immediata, o oggettiva. Ma incapace d'inaugurare sia pur un principio d'effettiva elaborazione intellettuale, di uscire da una disposizione autobiografica, nell'adesione compatta e ingenua alla realtà. Per questa natura sua è stato notato da Pancrazi come la Serao, al pari del Di Giacomo, sia adatta piuttosto al racconto che al romanzo. E di qui dovevano venire le facili sproporzionate illusioni, i romanzi fondati su presunzioni spirituali, mistiche, e su altre contraffazioni allora di moda.
Il ventennio d'esperienza artistica concreta, per la Serao, è quello che chiude il secolo, da Fantasia dell'83, a Storia di due anime, del 1904, e vi son compresi La ballerina, del '99, e II paese di Cuccagna, del '91, con la maggior parte della sua produzione novellistica. Produzione completamente oggettiva: dichiarava - è vero - di non aver mai trovato soggetto meno interessante della propria persona; ma noi sentiamo un consentire corale in quella sua predilezione per protagonisti e casi malinconici, come è del popolo napoletano, che scopre la disposizione della scrittrice alla rappresentazione diretta, a una partecipazione curiosa e acuta. Tutt'altro da quanto Verga e Capuana venivano bensì conquistando, nel campo dell'arte e della chiarezza dei princìpi, ma in anticipo sui tempi. Gli scrittori della famiglia cui appartiene la Serao iniziavano una ricognizione, lunga, combattuta, difficoltosa. Questa era pur una necessaria risposta alle soluzioni superbamente fermate da Verga, ma che dovevano ottenere anche di rappresentare un senso nella storia dei problemi del paese, e, quindi, di conoscere nuovi sviluppi anche nel rapporto - con la società del paese - degli scrittori: ma questo, a grande distanza di tempo, solo avanti nel nostro secolo. I primi passi, in questa direzione, venivan mossi sacrificando i falsi gravami culturali ad una autenticità nativa, ad una rappresentazione - quasi ancora fisica, e istintivamente ricca, felice, varia, articolatissima - di una realtà quanto dimessa e in ombra, anzi nascosta, però tutta del giorno: viva della realtà del momento, della particolare malinconia o vita del giorno. Qui è l'elemento spirituale, l'organicità e concretezza, se pur priva di complessità culturale, della disposizione intimamente autobiografica di questi narratori: pur tutti, e quanto più, anzi, oggettivi.
Già la Serao, nell'ultimo decennio del secolo, aveva mostrato quanta incertezza governasse la sua arte, quanto istintive fossero le sue doti e quanto fosse portata a mostrarsene insoddisfatta, di fronte alla suggestione di problemi e tendenze pur contrastanti con la sua indole intima, e ai quali, e alle quali, credeva di non poter aderir se non con un salto fuori da una od altra teoria, cui mai effettivamente s'era legata. Fuori quindi, invece, di se stessa: non fuori dal naturalismo, ch'era tutt'altra cosa dal mondo suo. E non per aderire a compiti più alti e nobili: ch'erano in lei attrazione solo d'un mondo culturale posticcio. Piuttosto, rientrava, e con altri, in quel merito che già al verismo aveva riconosciuto il Torraca parlando dei Malavoglia: «Io mi rallegro di vedere il Verga, primo forse fra gli scrittori italiani di novelle e di romanzi, cercare la sua ispirazione al di fuori d'una aristocrazia e d'una borghesia di convenzione, pallidi riflessi subbiettivi dell'arte straniera, società e personaggi foggiati faticosamente a priori, piuttosto cosmopoliti che italiani, assai più artificiali che reali. Mi rallegro di vedere alla fine ritratto qual è la bassa borghesia e la plebe delle nostre provincie. So che il Verga non ha scoperto l'America; so che in Francia, in Inghilterra, in Germania e fino in Russia egli ha gloriosi precursori e maestri. Ma in Italia, dove le marionette del Carcano e compagnia han tanto contribuito a impedire la cognizione precisa delle classi povere, dov'è ancora frequente la meraviglia di non trovare, usciti dalle città, un Renzo Tramaglino in ogni montanaro e una Lucia in ogni villana; dove i lazzaroni e i camorristi del Mastriani somigliano così poco ai lazzaroni e camorristi veri del Basso Porto e tanto agli eroi dei Mystères de Paris; io saluto come prova di vigore intellettuale e di ardimento non comune i Malavoglia, che aiuteranno, al pari degli scritti dei Franchetti e dei Sonnino, a far conoscere le condizioni reali della Sicilia. Però il Verga non ci ha dato né considerazioni, né statistiche; non ha dimostrato nessuna tesi: esse sono il presupposto, non certo il romanzo».
Poiché si trattava di questioni attuali a livello nazionale, il Torraca indicava un effettivo incidere dell'arte del Verga, e della tendenza veristica in generale, in una reale condizione del costume e della cultura in Italia. E notava in quegli anni stessi, a proposito dei primi due romanzi della Serao, Cuore infermo, del 1881, e Fantasia, dell'83, come il modo largo di rappresentare e la fedeltà e la forza delle impressioni si legassero in un interesse che portava ormai fuori dai termini ristretti del tradizionale «bozzetto», verso una forma nuova di rapporto con la realtà, verso il romanzo: «Ella riceve dalla realtà che studia e dal soggetto che sceglie impressioni ancora troppo forti e rapide perché possa cernere, ordinare, mantenere le proporzioni, comporre un'opera d'arte organica. Ma la grande naturalezza del dialogo, la straordinaria forza di colore nelle descrizioni (però talvolta sono troppe minuziose e riboccano d'immagini arrischiate) e molto più il merito indiscutibile di dar vita ai fantasmi, di svelare i meandri per cui una passione si avvolge, annunziano - userò anche io una frase colorita - che dalla crisalide del bozzetto è più che mezzo uscita la farfalla del romanzo»; di Fantasia notava innanzi tutto «la dipintura esatta insieme e larga della realtà»: «l'azione principale si svolge in mezzo a episodi, a incidenti riprodotti con rara felicità dalla vita quotidiana, i quali giovano moltissimo a dare ai personaggi l'impronta di esseri reali; ben diversi da tante altre creature della immaginazione che rimangono un po' astratte quando son costrette a non dire una parola, non fare un gesto, che non tragga la sua ragione, i suoi motivi dal disegno predisposto nella mente dello scrittore: là tutto si riduce quasi a una partita a scacchi. Deve in parte ritenersi effetto della reazione contro questo concetto troppo meccanico e arbitrario della natura e della vita, l'importanza che ha acquistato l'ambiente ne' romanzi naturalisti)).
Quell'ambiente s'accampava con forza, spesso anche con forza d'ispirazione d'arte, nei racconti di Salvatore di Giacomo, sollecitato magari dalle occasioni della sua professione di giornalista, ma occasioni fatte subito dominio d'una partecipazione spirituale, e sollevate all'arte. Anche il Di Giacomo portava nei suoi interessi di novelliere elementi e tratti di un'esperienza più propriamente lirica: infatti, oggi ancora è considerato soprattutto per la sua produzione poetica; ma quegli elementi sono, e nei racconti c nei versi, il modo suo di partecipare alla vita - piuttosto che elementare, chiusa e ricca d'improvvise luci di passione, di rivelazione spirituali - del popolino napoletano. Rientra nei caratteri su cui ci siamo fermati fin qua: ed era pure uomo d'interessi culturali precisi, come dimostrano le sue ricerche storiche, anche se condotte col gusto e con gl'interessi suoi d'artista. Solo in parte, vi rientra anche Edoardo Scarfoglio, per la limitatissima parte che sopravvive, della sua produzione di poligrafo politico e letterario. Giovanissimo pubblicò la raccolta delle novelle II processo di Frine nel 1884, e nel 1885 II libro di don Chisciotte, che contiene già la sua professione di fede letteraria: un misto di dannunzianesimo e di carduccianesimo provvisoriamente accordati in un senso d'insoddisfazione fisica della realtà presente. Scrittore accorto, e quanto a gusto letterario rivolto ai modelli di una scrittura ufficiale, carducciano in certo senso, Scarfoglio coglie appena delle prove veriste il colore e un vago gusto di novità; ma dopo la giovanile parentesi della raccolta sommarughiana del Processo di Frine passò a farsi portavoce e banditore delle varie insofferenze e degli idealismi astratti che caratterizzeranno il primo ventennio del secolo ma già negli ultimi anni dell'Ottocento avevano trovato nel giovane D'Annunzio una voce a suo modo affascinante.
Restano scrittori marginali l'abruzzese Giuseppe Mezzanotte, che delle condizioni del meridione trattò ne La tragedia di Senarica, del 1887, e il napoletano Amilcare Lauria, scrittore fecondo, che piaceva a Capuana: in romanzieri come il Lauria e il Mezzanotte, e Nicola Misasi, verismo e gusto del mondo popolare, ancora di derivazione romantica, proseguono senza effettiva originalità. Né originalità era in scrittori diversi, apparentemente del verismo e del positivismo avversari, come Enrico Annibale Butti, il cui nome appartiene soprattutto alla storia del teatro in Italia nell'ultimo Ottocento. Nel teatro del Butti più che nei suoi romanzi s'avverte la suggestione dei drammi dello Ibsen. Egli vorrebbe affermare l'insufficienza della scienza a rispondere ai fatti dello spirito: nei romanzi tratta questo tema polemicamente e con soggezione a un astratto interesse per le tesi che mira a dimostrare, senza sensibilità né stilistica né di schietta libera rappresentazione. I suoi quattro romanzi occupano appena uno scarso decennio: del 1894 L'immorale, del '97 L'incantesimo (gli altri due romanzi sono L'automa, del '92 e L'anima, del '93).
Una mente pur limpida, Ferdinando Martini ci consente di avvertire come, al fondo delle insoddisfazioni, degli esperimenti, dei tentativi dell'ultimo ventennio del secolo, agisce una effettiva difficoltà d'adesione a problemi reali: buon senso e buon gusto, di cui il Martini era singolarmente dotato, son costretti a fare in situazioni del genere una prova del tutto vana; ammonizioni e correzioni, mentre sembrano inappuntabili, si sente però che non scendono al fondo dei motivi che vengon determinando e reggendo, e magari con le consuete esagerazioni, uno od altro degli orientamenti culturali del tempo. Troppo diverse la mobilità e la persuasione che guidavano, anche in questo caso, gli interventi del Capuana. S'è avuta occasione più volte di notare come i veristi avvertissero la diversa incidenza delle loro ricerche in un mondo e in un linguaggio regionale e, altresì, la incompiutezza di tale scelta, la necessità d'estenderla ad altri domini sociali e spirituali; problema che il Martini sembra non aver sospettato nemmeno, quando, a proposito de La Faustin di Edmond de Goncourt, osserva: «perché (ripeto una cosa detta le mille volte, la quale certi traviamenti fanno sempre utile a dirsi) e perché condurci sempre tra gli sciocchi o i marioli, tra i mezzani e le cortigiane, senza che ci sia caso di imbattersi in una persona di garbo? Sta bene il vero, ma il vero tutto quanto: non soltanto la realtà più disgustosa e più scempia. Perché non guardare che uno dei tanti aspetti della natura, perché frugare soltanto e sempre in un cantuccio del mondo? Che differenza, se no, tra gli Arcadi, e voi ?». «Scuola», «moda», egli insiste: ma non vedeva quali ragioni l'avessero determinata, ristretto com'era ad un cerchio d'interessi solo letterari, che lo portava a non aver altra misura nel giudicar d'una scuola che quella di un'astratta scolastica definizione d'«arcadia».
Restava alla superficie, anche in tutta la lunga sua battaglia per la semplicità e la spontaneità nello scrivere. Il suo interesse è stretto all'espressione: per un'insofferenza verso il gravame sintattico e lessicale dei classici del Tre e Cinquecento combatte a favore d'una prosa che ritragga il pensiero modernamente e semplicemente: a questo scopo furon dirette le sue antologie scolastiche; a questo scopo servirono, soprattutto, la sua opera e il suo esempio come direttore di giornali letterari, tra i quali celebre «Il Fanfulla della Domenica», nato a Roma nel 1879, del quale il Martini abbandonò la direzione sul principio del 1882. Del resto, un riguardo sempre un po' esteriore è in ogni notazione sua, anche a proposito dei racconti propri, che restarono una attività prevalentemente giovanile. Il 25 agosto del 1887 scriveva a Matilde Gioli Bartolommei: «Ora finisco di lavare il viso a' miei racconti che il Treves vuol mandare alla metà di settembre a passeggiar per l'Italia: e siccome questi disgraziati figlioli sono nati a molta distanza l'uno dall'altro, e furono vestiti ciascuno con la moda del tempo suo (la moda cioè che pareva più bella al signor padre), così ora mi tocca rifar loro abiti, quant'è possibile, meno dissimiglianti». E alla stessa, il 30 marzo del '99: «dica: dica con la stessa franchezza di cui le ho dato l'esempio. Badi: i racconti son roba di trent'anni fa, quand'ero addirittura una mosca senza capo. È un pezzo che non li ho riletti: ma ho questo sospetto: che tranne poche pagine di Peccato e penitenza e delle Gite autunnali, lascino troppo a desiderare anche nella forma». E avrebbe potuto dir che i dialoghi vi son superficialmente teatrali, e che minori modelli francesi sono imminenti, in quei racconti: ma anche per i dialoghi, soprattutto con riguardo al teatro, dove più larga rinomanza egli ottenne, insisteva, polemizzando col Giacosa, sulla necessità di un linguaggio comune, generale, e semplice. È il limite di asserzioni sue come questa: «Che parlata e che scritta! Ci son dei dialetti e dei vernacoli in Italia, ma la lingua italiana è una sola, e tanto peggio per chi non lo sa!». Il Martini aveva una posizione ufficiale, che gli consentiva bensì di esercitare una particolare efficacia, ma solo entro il cerchio ristretto d'un pubblico colto, al margine dei problemi effettivi di un'età di scompensi, incertezze, eccessi, confusioni, e innovazioni.
Verismo e idealismo s'accompagnano senza contrasto, poiché erano aspetti dell'età, nei più diversi scrittori: in nessuno forse con la violenza, e l'accentuazione retorica, inseparabili elementi d'ogni scritto di Alfredo Oriani. Tra i caratteri degli ultimi due o dell'ultimo decennio del secolo era anche un'acuta disposizione al dibattito di problemi e di idee: occasione alla violenza espressiva, alla sottolineatura retorica. Valgono ancora le parole di Renato Serra: «Il pensiero è scoperta: Alfredo Oriani non scopre nulla. Dà valore alle cose che dice colla forza stessa del temperamento, ma cose nuove non tratta, non conosce, non sente». E, Serra, in una lettera a Luigi Ambrosini (del 15 novembre 1909): «Sta' attento all'uomo: che altro non resta: l'orgoglio e lo sprezzo gli prestano talora perfìn dell'ingegno». E pochi giorni dopo: «Il Vortice è qualche cosa di raro. Bisogna proprio rialzare la parte dell'artista»: l'uomo, dunque, e l'artista: ripudiati i sistemi e le battaglie ideologiche; una indiretta autobiografia, letta nel temperamento umano, nella parte più gelosa di questo (l'artista): letta, e ricostruita, dal critico. Siamo nel Novecento, col Serra, alle prime tracce d'un ritorno a una lettura «diversa» degli scrittori del recente passato: contro la facciata dei falsi problemi, dall'interno del loro effettivo temperamento. Saranno questi i precedenti d'una ripresa anche di esperienze di valore più generale. La prima reazione contro Oriani era avvenuta in nome della autenticità spirituale, del buon gusto: la rispecchiano particolarmente le parole con cui il Croce ricordava la parte da lui svolta verso Serra e altri amici, di difensore dell'Oriani: «Ricordo le mie conversazioni di or sono venticinque e più anni a Cesena, col Serra e i suoi amici romagnoli ; e ricordo che allora io tenevo le parti dell'avvocato difensore, perché l'Oriani piaceva pochissimo a quei fini letterati, che scorgevano tutto quanto in lui era falso, e, come dicevano, «insopportabile», e per tale insofferenza mal si piegavano a considerare le altre parti del suo ingegno e dell'opera sua». Il Serra scriveva nel dicembre del 1909 a Croce: «Io volevo definire, intorno a Oriani, certi miei gusti e dispetti, che vanno al di là dell'individuo; volevo dire di quel tale spiritualismo e idealismo che è grido e vanto di certi giovani, ed era di Oriani, e a me pare tutto falso e specioso».
E il mondo anche dei romanzi di Oriani, il quale, sebbene appartato, solitario, avvertì, con l'esuberanza e l'eccesso propri degli echi provinciali dei movimenti letterari e di pensiero, tanto il gusto retorico, quanto il senso d'insofferenza verso la realtà, che si venivano affermando e già corrompendo verso il finire del secolo. Oltre a varie raccolte di racconti, i suoi romanzi, Gelosia, del '94; La disfatta, del '96, Vortice, del '99, e Olocausto, del 1902, danno innanzi tutto un ritratto dell'autore, portano in primo piano velleitarismi e programmi e confessioni. Era già una conquista che la persona, il ritratto dell'autore si portasse fatalmente in primo piano, lasciando sentire la provvisorietà di tante soprastrutture ideali: una conquista, rispetto alla dedizione totale (si pensi a Fogazzaro) ad uno o ad altro ideale. Una conquista non tanto rispetto alle particolari realizzazioni, nel romanzo dell'uno piuttosto che dell'altro scrittore, ma nella intima liquidazione inaugurata nell'assunzione della persona dell'autore a centro esclusivo d'ogni interesse.
Su tale piano nessuno paragonabile a D'Annunzio.
Non ancora ventenne D'Annunzio aveva pubblicato il Canto novo e le novelle di Terra vergine, nel 1882: la prima raccolta di prose, e il primo successo suo come poeta. Del 1889 il primo romanzo, Il piacere, preceduto da un noviziato particolarmente significativo per incessanti scambi tra prosa e versi. I versi rendono più netta la traccia autobiografica degli entusiasmi culturali e mondani che presiedono anche alla composizione delle trasparenti avventure degli eroi dei romanzi suoi, a cominciare appunto dal Piacere. È stato osservato come le mode letterarie dettassero costantemente i programmi esaltati nei successivi romanzi: un vago estetismo tra francese e indigeno nel Piacere. un oscillare tra il verismo delle prime raccolte novellistiche e la voga del romanzo russo nel Giovanni Episcopo, del 1892, e il prevalere del secondo modello nell'Innocente, dello stesso anno; nel Trionfo della morte. del '94, ma iniziato cinque anni prima, si affaccia l'influsso del Nietzsche, del quale s'era fatto banditore nel '92 e la cui influenza s'aduggia, con quella d'altri modelli, nelle Vergini delle rocce, del '96, nel Fuoco, del 1900; infine, nel Forse che sì forse che no, del 1910. E si terrà conto che in tale periodo s'era definito il suo mondo anche nel campo teatrale ; e aveva dato ormai il meglio di sé come poeta. Tutta una età della carriera del D'Annunzio si conchiude prima dell'inizio della guerra 1914-1918. Questa età portò a completa liquidazione la lunga serie di travestimenti ideali ed eroici descritta attraverso le varie sue opere, narrative, di teatro, poetiche. Dopo, rimane una abbastanza asciutta figura d'uomo che parla solo di sé, e per confessioni suggerite da trasalimenti e suggerimenti di minime sensazioni esterne, accettate come un ritratto, il più naturalmente intimo, della persona dello scrittore. Era la traccia trasparente con chiarezza nell'adesione alle successive mode e idealità dei romanzi suoi, dal Piacere al Forse che sì forse che no, e dei protagonisti e delle eroine di questi.
Aveva dedicato alla Serao il Giovanni Episcopo, e in quella prosa del '92 era già manifesto l'uso cui gli servivano termini e princìpi d'una qualunque corrente letteraria: documenti, fatti diversi, diventano «circostanze bizzarre» e «raro materiale»: e lo studio di questi s'assomma nell'idoleggiamento della persona propria: «in noi esseri d'intelletto un lavorio occulto si compie, le cui fasi lente non sono percettibili talvolta neppure in parte dai più vigili e dai più perspicaci. Se sul nostro intelletto pende di continuo la minaccia spaventevole o d'una improvvisa lesione o d'una progressiva degenerazione degli organi, in compenso questi medesimi fragili mutevoli organi sono mossi al servizio dell'Arte da attività misteriose e prodigiose che a poco a poco elaborano la materia quasi amorfa ricevuta dall'esterno e la riducono a una forma e a una vita superiori. E l'una e l'altra possibilità, la tragica e la felice, hanno comune il campo oscuro ed immensurabile della nostra incoscienza bruta». Cosa resta, della massima con cui conclude il lungo ritratto di sé, del suo servizio militare come cavalleggere ? Dice: «Bisogna studiare gli uomini e le cose direttamente, senza transposizione alcuna»: tutt'altro che l'obiettività dei veristi: senza, cioè, che lo scrittore esca mai - dice, in realtà - dal più capzioso auscultare gli eletti suggerimenti della propria sensibilità capillare.
Ad asserzioni programmatiche di tale specie corrispondeva uno stile non tanto artificioso quanto barocca cristallizzazione degli esiti - di atteggiamenti missionari o eroici - sempre autobiografici, e variati sul piano della sensibilità, e dell'ozio contemplativo, in cui s'esalta l'io dello scrittore. La retorica povera e inadeguata di tanti altri scrittori: la superfluità del linguaggio d'un Fogazzaro, la tensione e l'incoerenza di quello dell'Oriani; o la sprovvedutezza di tanti altri, nel cui comune difetto veniva a denunciarsi la genericità d'ogni esperienza, e del pensiero, trovava concreta soluzione nel farsi splendida e sola cristallizzazione verbale nei romanzi del D'Annunzio. E cristallizzazione certamente più omogenea nella prova narrativa e nei versi che nel teatro, la parte dove più D'Annunzio era portato o a prospettare drammaticamente, e nei dati più esterni, volontaristici, la propria esperienza, o a prefigurarne una soddisfazione nell'attività pratica, nel diretto intervento nella vita pubblica.
Ancora una volta, se legittimo il contrastare d'un Capuana, fuori dal senso delle condizioni reali restava invece il lamento di Ferdinando Martini per La città morta, di cui riferiva nel '98 alla Gioli Bartolommei: «Ha letto la Città morta? Pensare che s'è lavorato tanto per la verità e ritrovarsi a sentir la gente parlare a quel modo! Se quello è un dramma, io son Papa». Proprio nei limpidi dialoghi del Martini era una delle spie della superficialità dei suoi programmi: ora, D'Annunzio poneva termine a quanto di immediato, provvisorio, era nei vari orientamenti, e nel gusto letterario, compresi anche scrittori veristi pur sinceri e dotati. Trasportava i problemi aduggiantisi da tanto nella vita letteraria d'Italia su un piano risolutivo nell'ordine della espressione, della rappresentazione: come aveva sempre ammonito Capuana; e non era, ben s'intende, e non poteva essere la soluzione da questi auspicata: era quella consentita anzi imposta dalle condizioni del paese. Perché un'esperienza come quella del Verga potesse venir assimilata e passasse a patrimonio culturale generale, era necessario che esperienze limitate, parziali, quali anche quelle dei veristi minori, e specie nell'essenziale campo dell'espressione, della rappresentazione - della forma, diceva desanctisianamente Capuana - si facessero capaci di un ulteriore più complesso valore d'esperienza risolvendosi nella direzione d'una vera e propria elaborazione artistica. Questo diveniva improrogabile, dopo l'esempio della facilità con cui D'Annunzio eseguiva partiture veristiche e, indifferentemente, di contrari indirizzi. Era la crisi dei principi, la crisi della letteratura di tendenza, la crisi generale di un'età, sotto le cui macerie restava soltanto la persona dello scrittore, la sua umana esperienza, l'impegno della realtà autobiografica come controllo e fondamento d'ogni ulteriore esperienza.
S'avverta che a critici anche tutt'altro che ben disposti verso D'Annunzio romanziere spesso l'analisi psicologica dei protagonisti dei suoi romanzi è sembrata precisa e vera: si trattava infatti di una appena trasposta autobiografia; ma, soprattutto, di una disponibilità illimitata di riduzione a minuti dati, concreti nella pur approssimativa congerie d'imitazioni dalle più diverse fonti di teorie e programmi: anzi, illimitata quanto più, quella sua disponibilità, era applicata a costruzioni verbali e d'immagini, e la personalità propria interpretata su una, sebbene ristretta, proiezione in una esperienza reale: quella artistica, di cui sono fragile maschera i nomi degli eroi dei romanzi. Le notazioni psicologiche sono spesso sottili, quanto limitate e monotone. E, anche questo, un fatto che va oltre il caso, pur esemplare, del D'Annunzio: altri narratori o, in genere, scrittori, formatisi a cavallo tra i due secoli, ci presenteranno un'acutezza intellettuale, un rigore logico nuovo (quanto sarà, invece, negato a D'Annunzio) ma straordinariamente ridotto ad una monotonia essenziale e scolorita di temi, come in Pirandello. In questi scrittori si veniva costituendo una base diversa d'esperienza umana, e intellettuale: era, volta a volta, l'impaccio d'uno Svevo, l'intensità sensuale dei dati d'una esperienza pur intellettualmente controllata, il prevalere dell'interesse critico nel romanziere, nell'artista: magari come in De Roberto. Ma son caratteri che si legano l'uno all'altro, a documentare il determinarsi d'un clima nuovo. E intanto, si liquidava nelle fragili maschere degli eroi dannunziani certo provinciale rispetto verso le novità letterarie straniere: come Emilio Cecchi scriveva nella «Critica» del 20 novembre 1909: «commerciò in belle parole tutta la lordura, che traboccava dalle vene torbide della stanchezza europea»: il rilievo del Cecchi colpiva atteggiamenti che avevano in testi letterari le loro sonore tribune.
Questo carattere era sottolineato dal Croce in un saggio del 1907: Di un carattere della più recente letteratura italiana: egli indicava il sopravvento, dopo il '90, di un vuoto e un'insincerità, generali, e le cause: «Se dovessi mettermi qui a ricercarle, comincerei col notare l'internazionalità di questa condizione di spirito, che deve far volgere la ricerca alle condizioni generali d'Europa nel secolo decimonono»; la prima colpa, contro il pensiero: «Dapprima non si sconobbe propriamente e apertamente la potenza del pensiero, e solamente la si cangiò con quella dell'osservazione e dell'esperimento; ma, poiché codesti procedimenti empirici dovevano necessariamente provarsi insufficienti, la realtà reale apparve come un di là inafferrabile, un inconoscibile, un mistero, e il positivismo generò dal suo seno il misticismo e le rinnovate forme religiose»: e quindi «quella Egoarchia, quell'Egocentricità, quella Megalomania, che è tanta parte della vita contemporanea». È vero: ma D'Annunzio ne consumava rapidamente ogni altare, costruiva la reale figura della propria arte su una generale bancarotta delle eredità dell'età sua. Tanto è vero che in molti avversari o correttori il dannunzianesimo poteva mostrarsi più resistente che in lui, come generico atteggiamento psicologico.
Se D'Annunzio non mutò nella carriera privata, nella quale la sua persona si venne irrigidendo sempre più in una sorta di idolo anacronistico, e in mezzo a un'apatia sempre più staccata, seppe invece, soprattutto dopo la guerra, far sentire come, nelle sue opere, l'accento battesse sulla parte in ombra, o, si dica pure, per concedere alle forme della sua fantasia, «segreta», contro l'altra, ancora prodotta in esecuzioni sempre più chiaramente tuttavia ristrette a funzione d'occasioni colte dallo scrittore per parlare di sé. Di sé soltanto: ma cercando sempre di rappresentarsi in proiezioni oggettive d'un proprio impulso a comunicare con le cose, con la realtà. Una realtà limitatissima, ma non in contrasto col limite fatale della sua stessa persona, della sua natura. È la parte che potè servire agli scrittori nati nel nuovo secolo, o formatisi in questo, per esasperare i termini originari d'una educazione interiore e portarla a valere come esperienza consumata nel corso delle vicende esterne, come un destino umano, come intelligenza, partecipazione, regolata al filo sottile d'un costante controllo interno. Si resta, invece, in un clima più appartato e modesto con l'attività di scrittori legati al passato, anche se operanti soprattutto nel nostro secolo. È il caso d'una scrittrice mediocre, e d'ambito regionale, come la Deledda. E lo stesso si può ripetere, in diverse condizioni, per il fiorentino Giulio Bechi, al quale si deve anche un singolare volume sulla Sardegna, Caccia grossa, scene e figure del banditismo sardo, che procurò noie di vario genere all'autore, ufficiale di carriera. Vari i suoi romanzi, che trattano di problemi della vita militare, e politici.
Il Novecento inaugurava una stagione di noviziati difficili. Anche per la narrativa: basta ricordare Pirandello, Svevo, Panzini. Sulla scena erano dominanti l'attivissima polemica letteraria del Capuana, comprensiva di un'attenzione per il romanzo europeo, e, parallelamente, per il verismo di casa nostra, per l'arte del Verga: e, soprattutto, dominante il magistero culturale del Croce: con questi nomi si entra però nel vivo di questioni e d'indirizzi programmatici. Una difficoltà, o un impaccio più immediato, era nella pratica suggestione d'un gusto letterario, freddamente umanistico, intimamente avvertito come insincero. Carducci veniva riproposto per una possibile lettura diversa dall'usuale, o ufficiale, del poeta: come esempio d'una intenzionale poesia autobiografica: De Sanctis, come un ritorno all'interesse per le idee, per i valori spirituali. Il fastidio della disciplina letteraria, della perfetta adeguazione a moduli umanistici d'espressione, di stile, fa sentir lontani e diversi D'Annunzio, Pascoli: la tirannia umanistica s'esercita più chiaramente nel linguaggio della poesia; ma è un fatto, un ostacolo, della cultura in generale. Così incombente, che il tentativo di portarsi fuori dalla tradizione letteraria è sproporzionatamente sentito come una indebita dislocazione del pensiero stesso, degli interessi: a tal punto dunque la curiosità del pensiero e dei prodotti letterari di fuori portava a un punto di crisi l'inadeguatezza della cultura di casa. L'impaccio, la difficoltà stessa, esaltavano l'apparente autorità, nella poesia e nella prosa, di quegli scrittori in cui la fedeltà a schemi umanistici appariva assoluta. Dietro questi, un lungo corso d'ideali romantici, contro i quali solo Verga aveva effettivamente costruito, con una libertà assoluta da ogni rispetto per le tradizioni letterarie del proprio paese.
Ma quegli ideali romantici, che s'eran venuti impoverendo nel corso del secolo, esercitavano una loro autorità anche su chi in un proprio campo con maggior rigore venisse conquistando nuovi orientamenti al pensiero, alla cultura: ad esempio, su Croce; al quale resterà negato di intendere quanto di nuovo nel campo dell'arte si fosse venuto nell'Ottocento e si venisse nel nuovo secolo determinando, quasi per una innata tendenza a dar ordine e misura alle eredità del romanticismo ottocentesco, a governarle col controllo d'una limpidezza umanistica del gusto prima ancora che del pensiero. Notava con acutezza orientamenti originali del pensiero filosofico e politico tra fine Ottocento e primo Novecento, e apparve maestro e fu caro per questo anche agli scrittori destinati a rappresentare di lì a poco il gusto contro il quale si verrà sempre più irrigidendo. Ancora infatti nei primi anni del Novecento poteva sembrare che proprio per opera sua il nuovo gusto si venisse chiarendo nelle forme sistematiche d'un pensiero estetico.
L'insofferenza per la tradizione umanistica, la sete di contatti con la cultura e il mondo letterario europeo trovarono voce, in una forma particolarmente vivace, nelle riviste del primo quindicennio del secolo, e tra queste soprattutto nella «Voce» (interessante anche perché richiamò a Firenze, e dette avvio al contributo particolarmente ricco d'una colonia di scrittori triestini, portatori in una forma più diretta d'esperienze spirituali e d'una sensibilità diversamente aperte e nuove). Nella «Voce» l'insofferenza per la tradizione umanistica portava, attraverso un moralismo un po' chiuso (e, a fianco, un'irruenza becera e superficiale d'alcuni degli uomini di punta: e i nomi più vistosi, non i più rappresentativi) a una lirica, e a una narrativa, decisamente autobiografiche. Era il limitatissimo terreno sul quale ridursi, dagli organismi logici e stilistici sofferti come un mare di retorica, come un soffocante mantello di scrittura astratta, non reale. Di qui, o la scoperta di una scrittura tutta e francamente frammentaria, artistica, scoperta felice d'una forma d'umanità compatta e concreta nella pratica di un'arte: scrittura o pittura, o musica. O lo smantellamento lento e progressivo delle esperienze o dei lasciti d'una cultura, in tanta parte ereditata, ma identificantesi quasi con la forma stessa del pensiero, del sentire. Cioè, lunghi noviziati, nei quali s'accompagnano all'impaccio il soccorso dell'ironia, e della elaborazione in termini di cultura, di un'esperienza ancora tenuta entro i caratteri dell'autobiografia. È il cammino, in particolare, della narrativa nuova. E che si presenta in forme volta a volta diverse e, soprattutto negli scrittori formatisi nei primi vent'anni del Novecento, disparate o, a seconda dei casi, d'eccezione. Cade d'osservarlo qui, poiché rientra nel nostro discorso non la descrizione della narrativa contemporanea nel suo quadro complesso, nei suoi articolati sviluppi, nel suo corso, ma il rilevare il contributo di quei narratori che, più legati ancora nella loro formazione all'Ottocento, pure dettero in gran parte i fondamenti e i princìpi da cui muove l'arte della nostra età.
Pirandello era di appena quattro anni più giovane del D'Annunzio: coetaneo a questo il Panzini, nato nel '63, e di due anni più vecchio Italo Svevo. Pure, la loro carriera appartiene, per caratteri e tendenze, al nostro secolo. Erano già nel pieno della maturità negli anni della «Voce», che fu movimento di scrittori giovani, la cui formazione effettiva coincise con gli anni del primo conflitto mondiale: Palazzeschi, Cecchi, Bacchelli, Ungaretti, si sciolsero appunto in quegli anni dal bagaglio di una contrastata eredità culturale: e, s'intende, in forme diverse e diversamente originali. Pirandello aveva già concluso la sua esperienza di narratore, e scopriva allora la formula del proprio teatro, al quale doveva restar legato per circa vent'anni, dal 1916 al 1936. Il primo romanzo suo, L'esclusa, è del 1901, ma era stato scritto circa dieci anni prima. Il suo noviziato letterario, di carattere e toni approssimativi, era stato poetico. I suoi interessi, prevalentemente culturali, critici. Anche in questi interessi parlava un disagio, un'insoddisfazione: magari contro Croce, che pretendeva di togliere dalla intuizione ogni riferimento intellettuale («l'ispirazione, che è il movente iniziale della fantasia, è istintivamente e essenzialmente logica così nell'arte come nella scienza»), o altri: come quando, contro Capuana, richiamava al necessario carattere soggettivo dell'espressione artistica, al «valore intenzionale che attribuiamo all'atto della rappresentazione, con tutte quelle circospezioni e inibizioni che ne risultano per un verso, e tutta quella attività cosciente che ne risulta per l'altro».
Non occorre richiamar l'esistenza mesta, e colpita da familiari dolori, del Pirandello: certa mancanza d'aria, d'ambiente, dei suoi primi racconti, il ridurre al segno più distintivo del soggettivismo estremo ogni esperienza, che porta al rilievo comico o eccezionale, del tipo, della stranezza, son forme nelle quali s'esprime lo stimolo d'una conoscenza ridotta compiutamente nel mondo solo del pensiero, della coscienza, nel terreno vulcanico, o terremotato, rischioso, dell'esperienza nuda volontariamente d'ogni soccorso d'elaborazione culturale e intellettuale. Pirandello fisserà in alcuni princìpi, in alcuni termini la condizione, quale a lui apparisce, della vita umana. Era la necessaria sostanza e la stessa ragion d'essere di quell'estremo acuire l'elemento autobiografico e portarlo a realtà d'esperienza non privata più, ma valida in se stessa: di qui la fortuna che principi e termini in cui Pirandello venne fissando la sua interpretazione della condizione umana, e lo stesso carattere precipualmente logico, razionale, di quella interpretazione, guadagnarono sul piano internazionale; specie quando lo scrittore si restrinse all'espressione più adatta al carattere della sua arte, polemico e, per così dire, di manifesto programmatico e ideologico: il teatro. La fortuna su scala mondiale del Pirandello spetta soprattutto al suo teatro. Ma questa fortuna ha la sua motivazione in quell'ansia di uscire ad un senso reale della vita, dalla riduzione d'ogni interesse autobiografico ad una maniera nuova d'apprensione d'ogni dato intimo dell'esperienza. E vi pervenne attraverso la carriera di narratore: di romanziere e, soprattutto, di novelliere.
La sostanza dei romanzi suoi non è effettivamente diversa da quella delle novelle: nei primi prevale l'insistenza nel caratterizzare di significati buffi, eccezionali, i protagonisti, e quindi nel sottolineare quasi in una necessità automatica l'esito dei fatti presi a rappresentare. Nelle novelle l'eccezionalità insita nei fatti, per chi sappia tenervi l'attenzione fissa senza seguir gli abbagli delle apparenze, s'esprime in qualcosa che più spetta all'intimo sentire dello scrittore, alla sua facoltà di rendere nel suo contraddittorio carattere il corso delle vicende: s'esprime nel taglio del racconto. Questo in genere apparisce costruito, nel Pirandello, sull'esaltazione di alcune situazioni; è come un rapporto di strutture, che ha valore nello statico corrispondersi di queste, nel ribaltare solo di reciproche proiezioni: non tanto ne derivano eccezionalità e stranezze, quanto un rilievo, un'intensità di significati, che sfugge alla forma psicologica e letteraria del normale svolgimento dei fatti, per esprimersi nella fissità d'un giuoco d'astratti elementi strutturali. Di qui il lirismo e l'intellettualismo, o l'ironia, in cui si denunciano l'ansia morale e una malinconica partecipazione, un intimo gusto d'adesione alla realtà (sfuggente, contraddittoria, dolorosa), che sono al fondo della sua arte. Nei romanzi si venne allontanando dagli esempi del verismo italiano progressivamente, dall'Esclusa, e dal Turno, del 1902, al Fu Mattia Pascal, del 1904, fino all'ultimo romanzo, del '27, Uno nessuno e centomila; ma s'è detto come più propria espressione egli abbia raggiunto nelle novelle, a non uscire dalla sua narrativa.
Scrittore appartato, e pur non meno del Pirandello di formazione libera dalla tradizione letteraria nostra, rivolto a interessi direttamente derivati dalla cultura europea del secondo Ottocento, Italo Svevo. L'Italia, nello Svevo, un amore contrastato dall'indifferenza della cultura italiana alla sua opera, e dalla difficoltà della lingua: quanto basta a far di quell'amore un motivo tutto spirituale, di sentimento e di fantasia; che rappresenti il ritornante impulso a far arte, a dir di sé nelle forme del romanzo, contro le diverse spinte della vita pratica che parevano dirette a convincerlo che la letteratura egli dovesse lasciare ai margini della propria vita. Dei naturalisti aveva una conoscenza libera dagli impacci delle lunghe questioni combattute sotto la bandiera del verismo in Italia: d'altra parte, avvertiva di trovarsi in una situazione appartata, o esorbitante, verso i precisi termini della cultura, e, in particolare, della narrativa d'Italia. Aveva, s'intende, compiuto il suo noviziato culturale, e vi si comprenda la conoscenza dei nostri classici, e la scelta del De Sanctis come guida; ma si trattava d'esperienze negative, destinate a convincerlo dei limiti stretti in cui si sarebbe eventualmente svolta un'esperienza propria. La carriera sua è costituita in gran parte di tentativi, che sottolineano l'incertezza e lo sforzo dell'esperienza per la quale s'era incamminato: i tentativi segnano le tappe per cui via via rinunciava a elementi e precedenti tradizionali, per restringersi ad esprimere l'intimo della propria persona in rare opere: tre romanzi, e alcuni racconti. Lunghi intervalli corrono tra Una vita, del 1892, Senilità, del '98, e La coscienza di Zeno, del 1923.
Dubbi e incertezze vertevano non sul metodo e il carattere del proprio lavoro, ma sulla sostanza della propria conoscenza della vita, d'un proprio dono d'uomo e d'artista: come dire, ch'egli soffriva lo scotto dell'assolutezza a cui si sollevava nel pungolo di rendere la testimonianza più rigorosa della propria autobiografia. Scriveva in un appunto del 1899: «Io credo, sinceramente credo, che non c'è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che quella di scribacchiare giornalmente. Si deve tentare di portare a galla dall'imo del proprio essere, ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale di qualche cosa che sia o non sia il puro pensiero, che sia o non sia sentimento, ma bizzaria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero anatomizzato e tutto e non di più. Altrimenti si cade, il giorno in cui si crede d'essere autorizzati a prendere la penna, in luoghi comuni e si travia quel luogo proprio che non fu a sufficienza disaminato. Insomma fuori della penna non c'è salvezza. Chi crede di poter fare il romanzo facendone la mezza pagina al giorno e null'altro s'inganna a partito. Ma d'altronde questa paginetta scritta sotto l'impressione di un dato momento, del colore del cielo, del suono della voce d'un proprio simile, non diverrà mai altro di quello che è; la pagina più sincera di un'impressione troppo immediata e violenta. Non bisogna pensare di rappezzare con tali pagine qualche cosa di maggiore». L'osservazione mira a stabilire il principio del «necessario svolgimento»; da inaugurare dall'osservazione, incessante e già, in questo, rigorosa. E l'autobiografia che dà la misura al lento agire dei protagonisti dei romanzi, quali egli magari li aveva fissati nella sua città; finché potrà ridursi a leggere o a riassumere nella coscienza propria il valore generale della vita, con La coscienza di Zeno. E sarà una questione anche di stile, di linguaggio: l'uso del procedimento, oggi ancora in vigore sebbene con riguardo ad altri modelli, e stranieri, del monologo interiore, a cui possono servire anche le distrazioni dall'esterno, come un acuirsi implicito in ogni menoma situazione.
È stato detto che Svevo tornò più volte a dubitare di sé come artista, come romanziere. Con quanto di romantico portano sempre dichiarazioni del genere, e di sfogo sentimentale, nel caso dello Svevo non si trattava di un'incertezza verso l'artista, cioè verso i modi dell'espressione, ma del dubbio di fondo se sussistesse un'esperienza rappresentabile, se avesse capito, se avesse rotto la grettezza superficiale delle impressioni. Miticamente aspirava a una comprensione che avesse la vivezza e compiutezza delle reazioni fisiche, che adeguasse la mobilità della vita: «voglio soltanto attraverso queste pagine arrivare a capirmi meglio. L'abitudine mia e di tutti gli impotenti di non saper pensare che con la penna in mano (come se il pensiero non fosse più utile e necessario al momento dell'azione) mi obbliga a questo sacrificio. Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna m'aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere. Poi la getterò per sempre e voglio saper abituarmi a pensare nell'attitudine stessa dell'azione: in corsa, fuggendo da un nemico o perseguitandolo, il pugno alzato per colpire o per parare». Il senso dell'esperienza autobiografica conserva a Svevo, e soprattutto ci si riferisce all'opera sua di romanziere, l'impulso a fissarsi sul dato presente: da qui l'istinto nello scrittore a creare una prospettiva ferma, magari quella della vecchiaia, in cui fermare l'inganno della fuga delle esperienze, o del tempo. È una traccia ancora di confessione privata, e concorre a spiegare, nella chiarezza sul proprio lavoro, il dubbio insistente sull'esperienza che sottostà alle sue creazioni di romanziere. Così l'opportunità della psicanalisi s'accompagnò in lui ad un atteggiamento ironico. Romanziere di straordinaria originalità e profondità, tuttavia qualche traccia della persona stessa dello scrittore sussiste nei protagonisti dei suoi romanzi: a volte un'accesa passione della curiosità verso le cose aggiunge una commozione poetica a simili ambiguità, altre volte se ne avverte il limite diaristico o autobiografico. Svevo fu scoperto dopo il '25, contemporaneamente da fini artisti stranieri e italiani; la conquista del suo lavoro alla narrativa novecentesca non si è venuta componendo senza contrasti, da noi, soprattutto per la consuetudine a giudicar dei fatti di stile e linguaggio secondo schemi umanistici tradizionali. Consuetudine riscattata però dalla inquietudine e dal lungo noviziato degli scrittori nuovi, con i quali s'accorda intimamente il significato dell'opera di Svevo.
Adolfo Albertazzi appartiene alla generazione degli scrittori dei quali s'è detto fin qua: nato a Bologna nel '65, fu scolaro del Carducci, e portò nell'attività sua di romanziere una preparazione culturale che tentò di far fruttare per una comprensione della vita moderna. Era partito da scrupoli culturali rispetto la tradizione, che avevan provocato l'intervento polemico di Pirandello; trattò del romanzo con interessi di storico, e gli scrupoli di attualità culturale e d'intelligenza critica han pesato sulla sua stessa formazione artistica. Scrittore limpido e accurato, non arriva mai ad una decisa impronta originale: forse l'ironia e un pacato equilibrio e una viva semplicità gli riesce di raggiungere meglio nelle novelle che nei tre romanzi: L'Ave, del 1896, Ora e sempre, del '99, e In faccia al destino, del 1906. Dopo di allora seguì solo la novella, con miglior fortuna.
Anche Alfredo Panzini esordì come scrittore piuttosto tardi, ma nulla ha in comune con gli altri di cui s'è detto in questa parte. Fu scolaro del Carducci, e seppe portar l'educazione letteraria, poetica, cui s'era formato in quella scuola, a risultati validi per se stessi. Era una delle difficili vie che gli scrittori affacciantisi al Novecento potevan tentare: risolvere il pesante mantello umanistico della recente tradizione in un illimpidimento, in un alleggerimento, in una restituzione a condizioni vere e normali, infine in un travestimento, fatto quasi natura, o indiretta confessione, attraverso un raro sottilissimo giuoco tutto dell'espressione, dello stile. Vi si provò per parte propria il Panzini, conducendo le parole ad assumer la mobilità e trasparenza e quasi la magia delle cose fisiche, e la polivalenza e mobilità della fantasia. Poteva essere un commiato nostalgico d'una tradizione amata: e restituita, quanto fosse possibile ancora, nel giuoco delle variazioni intorno ad alcune figure d'essa; un giuoco di sottintesi stilistici in cui si viene intanto confessando, e parlando indirettamente e direttamente di sé, lo scrittore. Da questo atteggiamento nascono le sue raccolte di novelle e i romanzi, del tutto autobiografici e, più che frammentari, divagazioni libere e solo rette a un sottilissimo intreccio di sottintesi e richiami che hanno intero il loro campo nella finezza espressiva. Un'espressione così consumata non può non denunciare quanto conserva d'un atteggiamento dilettantistico, contrastante col carattere e le tendenze della letteratura contemporanea. Di qua che fastidio e indifferenza accompagnassero l'opera dello scrittore. Poi, col prevalere di un richiamo alla complessità culturale delle nuove esperienze, dopo il primo conflitto mondiale, la lezione umanistica del Panzini gli conquistò una rinomanza che non ha, tuttavia, sgombrato le ragioni delle iniziali diffidenze.
Del tutto diverso il destino di Federico Tozzi, morto giovane e involto in una difficoltosa esperienza artistica, della quale gli impacci e le resistenze è naturale che sussistano in quanto ci ha lasciato. Senese, conobbe gli antichi della sua città; sentì il significato dei tentativi condotti nel campo della narrativa dall'Italia moderna; si affacciò secondo il gusto dell'età sua all'arte, al romanzo soprattutto, moderno. Tutto questo con difficoltà private, d'autodidatta: che però non vuol dire orecchiante. Tutto questo, lo portava ad esasperare ogni esperienza sul dato della confessione, del controllo autobiografico vissuto sull'istinto di una partecipazione diretta ed immediata, magari violenta, ai dati esterni della cronaca, in un'ansia confusa di rappresentazione delle cose, della natura, della città, e insieme dei propri sogni sensuali, passionali. Nella sua opera il lirismo è acceso e immediato: s'è detto già che è inutile insistere sulla parte che spetta ai limiti della sua formazione, della sua cultura. E già, i primi lettori si sentiron portati a fermar tutta l'attenzione sul prepotere violento della persona dello scrittore («lo scrivere assume nel Tozzi il carattere di un fatto personalissimo . . . quasi vendicativo»): era un'impressione generale, che disturbava perché pareva portasse verso una soluzione facile, e inadeguata: l'attivismo violento, e al di fuori della letteratura, magari. Non mancava, in quell'impressione, il riconoscimento di una autenticità: la presenza di un nodo chiuso nel subconscio, quindi, di una necessità di scavo, ma deviata in sfoghi violentemente personali. Tozzi sfogava la violenza sensuale della sua natura invocando un diretto ritorno ad una condizione trattata dagli scrittori del Trecento: e senesi in particolare; era una deviazione, pratica in parte, in parte fantastica, entro uno scavo in difficoltà tutte dell'oggi e tuttavia già decifrato, nei suoi strumenti d'inchiesta, in fatti letterari. Di qui certe sue tendenziose interpretazioni del Pirandello, o il richiamo al romanzo straniero. Atteggiamenti, nei quali il fatto letterario doveva in ultima analisi rivelarsi insussistente: e ne risultava più drammaticamente l'isolamento dello scrittore, chiuso in se stesso. Era espressione di una difficoltà sofferta da tutti. Ma la violenza dell'enunciazione, in Tozzi, confuse il giudizio, portò in primo piano il tono personale, eccessivo, della denuncia. Tozzi morì nel 1920, e era in anticipo sui tempi in questo, che la mancanza di terreno, d'ambiente, egli avvertiva nel senso della sua spinta verso il racconto, il romanzo: e nei romanzi invece veniva seguita solo la parte polemica di quella sua denuncia d'una condizione di fatto.
Quando poi la cultura ebbe conquistato un senso nuovo del lavoro letterario, quando il romanzo fu sentito come un particolare contributo a un generale campo di civiltà letteraria: sull'esempio, anche, della normalizzazione dei rapporti verso le tradizioni del romanzo d'altri paesi, fuori delle isolate letture, Tozzi venne riproposto, e valutato nella sua qualità di romanziere. Ma già erano venute a maturità esperienze profondamente rinnovatrici nel campo del romanzo, da Palazzeschi a Bacchelli, e la narrativa s'avviava ad una nuova fortuna da noi con nuove generazioni di scrittori, e nuovi orientamenti della critica. Su un tale avvio, è dato constatare come avessero avuto naturale svolgimento in Tozzi tendenze presenti in scrittori dell'Ottocento a lui vicini per affinità generale (il senese Pratesi), al di fuori però d'ogni intenzionale accostamento programmatico, d'ogni richiamo a una tendenza letteraria: al di fuori, ad esempio, del limite ormai datato e provinciale d'un verismo di casa nostra, mentre anche questo troviamo riassunto nel naturale accordo e svolgimento con quanto della tradizione romantica, dell'Ottocento, apparisse più risolto in una aspirazione necessaria all'espressione romanzesca. Con quanto tutto ciò comporta di rilievo del documento umano, e di sperimentale tendenza all'esasperazione espressiva, per cui gli stessi elementi irrisolti della narrativa di Tozzi tornano a dimostrarsi come un segno di autenticità. Si riconoscerà il merito a Giuseppe Antonio Borgese di aver scoperto Tozzi in un'età in cui riusciva più naturale avvertire limiti e insufficienze della sua esperienza: come è merito del Borgese l'aver anche indicato gli sviluppi nuovi della narrativa, a un decennio dalla morte di Tozzi, presentando uno dei narratori più validi e rappresentativi del nostro tempo, Moravia: mentre sempre più il tempo impoverisce la parte che spetta al Borgese come narratore. Influenza indiretta, ma reale sulla narrativa del secolo ha esercitato invece Pirandello, nella direzione della letteratura, dell'arte, cioè nella direzione essenziale dell'esasperazione consentita agli elementi espressivi per scavare a fondo nel costume, a servizio della verità.
La nostra silloge si distribuisce in cinque sezioni, ad ognuna delle quali è dedicato un tomo della collana. La prima sezione comprende l'età del passaggio dal romanticismo alle esperienze della Scapigliatura; e, in Toscana, dall'età leopoldina a quella dell'Unità: sono i fondamenti della narrativa moderna, dopo Manzoni, e dopo la voga del romanzo storico. Gli scrittori formatisi in questo clima, e che costituiscono il grosso della narrativa dell'Ottocento, si distribuiscono nelle successive due sezioni; le quali, soprattutto, si vengono arricchendo delle prime voci del verismo. I veristi e gli scrittori delle tendenze dominanti nell'ultimo Ottocento trovan luogo nella quarta sezione, che prosegue, e s'arricchisce nella quinta degli apporti più significativi degli scrittori a cavallo tra i due secoli, e del primo Novecento, da De Roberto a Tozzi. Come, di caso in caso, s'è avvertito nell'Introduzione, mancano gli scrittori ai quali son dedicati, nella collana, particolari volumi (Manzoni e Verga, Tommaseo, Nievo, D'Annunzio). Si è inteso, nella scelta, seguire il criterio non dell'indistinta raccolta di tutte le voci per qualche lato piacevoli o interessanti, ma di riconoscere le carriere che hanno, ciascuna per parte propria, contribuito ad arricchire le linee effettive di una moderna tradizione narrativa. E s'è cercato, nei limiti del possibile, e con le necessarie differenze, di esser ricchi piuttosto nella presentazione delle particolari carriere, dell'opera d'ogni scrittore, che generosi nella raccolta dei nomi.