natura
Nel proemio ai Discorsi M. afferma che l’ostacolo principale nella ricerca di ordini nuovi è la «invida natura degli uomini», sempre «più pronti a biasimare che a laudare le azioni d’altri». E «nondimanco» egli aggiunge di essere motivato in questa impresa da quel suo proprio «naturale desiderio» che lo ha sempre spinto a operare per il bene di ciascuno (§ 1). Già da questo incipit appare evidente che per M. la n. umana è «varia», considerato che in essa convivono opposte tendenze. Ma come essa risulti radicalmente costituita – sia in quanto n. umana, sia e più estesamente e generalmente considerata, cioè in sé – è questione esaminata da M., che non procede in modo sistematico, solo attraverso vari riferimenti più o meno dettagliati nel corso dell’opera. Se si tiene presente che il suo intento è quello di ragionare sull’arte dello Stato, si comprende il diverso spazio che egli deve dedicare alle singole nozioni che entrano in gioco intorno alla concezione della n., e perché vengano privilegiate quelle di carattere più strettamente politico.
Un primo problema da porsi, con riferimento alla tradizione culturale dell’Occidente, è se la n. si possa identificare con Dio. In M., tuttavia, questa identificazione appare poco frequente e puramente formale. Ci si può allora chiedere se egli si richiami all’uso scolastico di natura naturans e natura naturata, dogmaticamente meno impegnativa, ma che ammette comunque una distinzione di piani. M. sostiene invece che è la «natura» in quanto tale, senza ulteriori specificazioni, ad aver «creati gli uomini» (Discorsi I xxxvii 4). E ancora: se la n., così intesa, non è Dio, non è però nemmeno l’intero, non è l’universo, il cosmo e neanche il mondo, usato in questa estesa accezione. L’attributo che definisce la n. è quello di generatrice, sicché essa si configura come l’insieme degli esseri viventi, e quindi come n. sensibile, corruttibile. Non dunque nel senso − è bene specificare − della physis dei presocratici, dai quali la n. è concepita come archè; forse come la n. di cui dice Aristotele nella Fisica, dove le cose naturali, distinte da quelle artificiali, hanno in sé il principio del proprio movimento e della quiete (Phys. II). La n. aristotelica − è ciò che più conta − fa parte di un ordine cosmico (Phys. VIII). Secondo una visione ricca di diverse assonanze vanno indagate allora dapprima, seppur per brevi linee, la struttura e il senso dell’ordine che anche M. chiama costantemente in causa.
E qui ci si imbatte nella nozione del divenire: M. la introduce nel già ricordato proemio ai Discorsi sostenendo, a favore della possibilità dell’imitazione come via privilegiata d’approccio alla politica, che la n. umana è immutabile in quanto parte di un universo che non varia di «moti, d’ordine e di potenza» (I proemio A 8). Sebbene non sia un ‘metafisico’, M. affronta dentro questa cornice la nozione del divenire, metafisica per eccellenza. Un rapido sguardo storico a tale aspetto può chiarire i termini della questione.
Nella filosofia antica si fronteggiano fondamentalmente due posizioni, ovviamente con diverse varianti. Una teleologica e teologica, vale a dire la posizione di Platone e di Aristotele, e l’altra che invece non scorge nessun finalismo nella struttura della n. e anche del suo formarsi: basti qui citare Democrito ed Epicuro, ma soprattutto Lucrezio, che M. ben conosceva. La distanza di M. da una posizione creazionistica è evidente se non altro nel passo (Discorsi II v 2), peraltro assai discusso, in cui si schiera a favore dell’eternità del mondo (→), sostenendo che nella ciclica vicenda cosmica da cui è investita anche la n., si perde la memoria delle civiltà del passato. Resta in ogni caso il problema di sapere quali siano i caratteri di tale eternità. Nel suo tempo, M. trovava motivi platonici e aristotelici in un sincretismo tendente a conciliarli nella prospettiva teleologica e teologica cristiana. Basti pensare all’Accademia platonica di Marsilio Ficino, a quella sua notevole opera che è la Theologia platonica; ma anche a Pico della Mirandola, di cui si possono ricordare se non altro le Conclusiones nongentae, proprio perché, a volte in modo un po’ confuso e magari di sapore eretico, esse danno la dimensione di tale sincretismo. Di questa cultura M. sembra assimilare la nozione del divenire, ma senza accentuazioni teleologiche o teologiche. Verrebbe da dire: un platonismo senza mondo delle idee e senza la distinzione delle due tradizionali partidel cosmo, la divina e la terrena. È lecito chiedersi, allora, se M. abbia subito l’influenza di Lucrezio anche in relazione alla visione del cosmo, oltre che per alcuni altri celebri riferimenti di ambito politico. La ciclicità di generazione e corruzione che egli fa valere non si estende tuttavia al cosmo (che per Lucrezio si dissolve per poi riformarsi), ma soltanto al mondo sublunare. E l’eterna regolarità del moto degli astri, a cui M. si riferisce, gli serve per rivendicare l’immutabilità della n. umana, pur nel contesto di una diversa ciclicità. Ne deriva che un eterno movimento garantisce la costanza di un medesimo ordine. E però, se la «natura» crea la n. umana sempre identica, questa, a sua volta, varia nelle sue molteplici espressioni.
C’è un altro aspetto da considerare. M. fa riferimento agli astri, al cielo, ai cieli: ci si chiede se per caso egli non fosse particolarmente influenzato da una certa cultura astrologica allora assai presente e comune, tanto più dopo la diffusione degli Astrologica di Manilio, scoperti da Poggio Bracciolini. In causa sono qui le congiunzioni astrali (Garin 1970), sia per quanto attiene ai cicli cosmici, ai quali anche le religioni andrebbero soggette, sia al destino individuale. In breve, è come se non solo le civiltà con le loro religioni, ma anche i singoli, avessero un destino segnato dalle stelle (Parel 1992). È comprensibile che M. tenesse presente e si confrontasse con queste tematiche. Lo mostra, se non altro, il cap. lvi del primo libro dei Discorsi, dove affronta il tema dei segni e dei prodigi che precedono importanti vicende politiche. M. nota come alcuni fatti siano attestati dall’esperienza, pur sottolineando che sfuggono alla nostra comprensione perché non abbiamo «notiziadelle cose naturali e soprannaturali» (§ 8). È comprensibile che M. sostenga che non abbiamo notizia delle cose «soprannaturali», ma il riferimento alle «naturali» mette in evidenza la difficoltà di avventurarsi in teorizzazioni che vanno oltre l’esperienza, alla quale egli costantemente si richiama. D’altra parte, circa gli eterni giri degli astri, potrebbe valere l’idea, mai smentita, del loro meccanicistico ripetersi; semplicemente di un errare, «sanza requie alcuna» (Asino iii, v. 90). Va detto, in proposito, che il linguaggio di M. è improntato sempre al dubbio, accompagnato sovente da un’ironia finissima e pungente. Può essere che gli astri esercitino una loro influenza: dal cielo qualcosa deve ‘piovere’, ma pur sempre all’interno di un rapporto di potenze in cui anche quella dell’uomo deve cercare di imporsi. Non può valere, pertanto, né la spiegazione di Aristotele, né quella di Lucrezio (che nel suo poema dice continuamente «ora ti spiego»), né quella di Manilio per il legame tra l’elemento astrologico con quello divino che ne caratterizza l’ordine, e nemmeno ovviamente il sincretismo di Ficino. Può forse valere una doppia verità? Difficile dire in che modo essa sia accolta nell’intimo. Mentre indubbiamente M. sa che questo ordine, da cui dipende la nostra n., la terra, è male.
La n. fa dunque parte di un ordine cosmico che non ha un fine in sé; non ci sono le aristoteliche ‘intelligenze motrici’, che poi diventeranno nel Medioevo le sostanze angeliche (si veda il Convivio di Dante), e nemmeno la cifra visibile di uno scopo per noi mortali. Eppure un ordine esiste, benché segnato dal divenire che, sulla terra, tutto dissolve. La posizione di M., in questo modo, sembra andare oltre il suo tempo. Al di là dell’alternativa ordine e caos, c’è un ordine di cui si ignora il senso, se non proprio senza senso alcuno. La n. corruttibile che sottostà al divenire lo mostra. Nelle Istorie fiorentine M. pare fissare questo punto con molta chiarezza contro possibili fraintendimenti, sostenendo che non «essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi», si determina «il più delle volte» un alterno passaggio delle province dall’ordine al disordine, dal bene al male (V i 1). Si può ritenere che tale ciclica (naturale) variazione, al cui interno confliggono diverse potenze (il cielo, la fortuna e altre) vada intesa in una dimensione ontologica. Che la n. non sia un Eden, poste tali premesse, s’intende. Ma perché tante devastazioni? M. introduce il tema laddove si chiede, nel libro II dei Discorsi, perché si perda la memoria delle civiltà: vi sono cause che dipendono da noi, dal fatto che una civiltà nuova spegne quella vecchia alla quale subentra; e vi sono cause che vengono dal cielo: «inondazioni, peste e fami» (II v 15). Ma la cosa più importante di tale analisi è che egli ritiene «ragionevole» che le cose stiano così perché la n. ha bisogno di rigenerarsi. Lo si spiega con l’analogia tra corpi semplici e corpi misti. Con l’ulteriore aggiunta che nel corpo misto della umana generazione, quando la malignità e l’astuzia hanno riempito ogni luogo, è bene che avvenga una «purgazione». Sul piano delle fonti non è difficile orientarsi: si tratta di un topos letterario e filosofico del mondo classico, variamente declinato; si pensi soltanto al mito platonico del Politico. Ma il riproporlo nella civiltà cristiana acquista tutto un altro spessore. Non ci sono le punizioni divine, di biblica memoria, ma unicamente quella n. che non offre terreni fertili ai mortali se non con molta, molta parsimonia, e rispetto alla quale la benignità del cielo appare assai tenue. Sicché gli uomini devono ricorrere agli ordini politici per salvarsi, fino a quando anche questi soccombono, essendo tutte le cose degli uomini in movimento. È così che si crea un inscindibile nesso tra la n. in sé e la n. umana.
Già si è detto che per M. è la n., senza ulteriori specificazioni, a creare gli uomini. Ma come li crea? Si possono prendere in esame due significativi passi dei Discorsi. M. osserva che quando non si combatte per necessità si combatte per ambizione: «La cagione è perché la natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa» (I xxxvii 4). Simile concetto viene ripreso laddove si afferma che gli appetiti umani sono insaziabili, «avendo dalla natura di potere e volere desiderare ogni cosa e dalla fortuna di potere conseguitarne poche» (II proemio 21). La n. umana è radicata nel desiderio, nello scarto tra il desiderio e la possibilità di realizzarlo. Ma in che senso M. usa, a questo proposito, il termine «natura»? Forse in un modo analogo al concetto aristotelico di usia? Va intanto precisato che Aristotele, per «natura» nel senso di «essenza», ricorre talora a usia e physis come sinonimi. L’espressione per natura ha però un significato più esteso, mentre è soltanto il nus, per Aristotele come già per Platone, che definisce l’essenza dell’uomo. Questa è propriamente la sua usia, che comporta poi la possibilità della beatitudine come finalità dell’uomo in virtù del divino che lo attrae. In M. invece questo aspetto si perde. Se proprio si vuol indicare un’essenza per l’uomo, essa va riposta nel desiderio, nell’appetito, che però non ha uno sbocco suo proprio, essendo per sua stessa n. incapace di placarsi. Si può dunque ritenere che la nozione di n. umana in M. risulti maggiormente assimilabile a quella di ‘condizione’, piuttosto che di usia, che comporta non solo l’individuazione di caratteri propri di ciascun ente, ma anche la possibilità di un suo compimento. Questo non toglie che anche per M. la n. umana sia immutabile, cioè dotatadi caratteri costanti. È l’immutabilità dell’ordine cosmico che la giustifica e garantisce. La n. umana è sempre identica, almeno in quanto specie. Non si può concepire che l’uomo non abbia gli appetiti e che non li abbia nella forma in cui glieli ha forniti la natura. Il che tuttavia non toglie che il variare delle mondane cose fa mutare nel tempo anche il modo di esprimersi degli affetti umani. Proprio per questo è complesso individuare le vie che i desideri perseguono e in quali modi, o come e quando essi sianoperniciosi. È questo un compito che spetta alla prudente politica assolvere e che, tuttavia, date le premesse, rende problematica l’imitazione. Si tenga comunque presente che M., nel descrivere l’umana inquietudine, fa riferimento all’inquietudine della mente, «insaziabile e altera»: una sorta di tragica apertura metafisica.
Ma che dire poi della n. degli uomini singolarmente considerati? Si tratta di un aspetto importante, perché chiama in causa la vexata quaestio del libero arbitrio, del fato, e ci rimanda ancora alla tematica rinascimentale dei condizionamenti astrali: si pensi solo, per fare un unico riferimento, al De vita di Ficino (in particolare al libro III). M. sostiene che gli uomini non possono opporsi a ciò cui la n. li inclina. Nascono forse, allora, segnati da un destino, magari appunto da un’influenza astrale, da cui poi dipende la loro fortuna? M. pone il problema del rapporto tra la n. individuale (l’indole, il carattere) e la qualità dei tempi, sostenendo che da questa convergenza dipende la buona o cattiva fortuna dei singoli. Diversamente da Pietro Pomponazzi, che nel De incantationibus (ma anche nel De fato, de libero arbitrio et de praedestinatione) si arrovella sulla sottile distinzione metafisica tra «inclinare» e «costringere», M. intende l’inclinazione in senso forte, come costrizione. Eppure, se ben si considera, pur restando fermo questo assunto, la sua posizione appare nell’insieme assai variegata. Intanto, si tenga presente che i suoi esempi nei Discorsi (III ix), nel Principe (xxv) e già nei Ghiribizzi al Soderino (→) si riferiscono a uomini forti, come sono quelli che hanno responsabilità di comando. Egli aggiunge inoltre che gli uomini, per n., ma anche per elezione, non si discostano mai dai loro modi consueti: da un’abitudine, quindi, contratta per vari motivi, che li predispone a un agire ostinato (ostinazione è termine ricorrente nelle pagine machiavelliane). Per quanto attiene più in generale al carattere del ‘volgo’, i toni sono molto più attenuati, se è vero che il volgo è instabile, si lascia facilmente corrompere, va dietro a ciò che appare. E senza contare che i giudizi degli uomini appaiono diversi nelle diverse fasi della loro vita. Né infine si può ignorare che c’è anche una n. dei popoli, tale da condizionare il modo di essere dei singoli (e qui entrano in gioco vari elementi, tra cui anche il clima) e che il costume, le leggi, la religione hanno un notevole ruolo nel formare il sentimento di un popolo, inevitabilmente assimilato dai singoli. Vi è dunque un’inclinazione naturale che tuttavia, nel momento del suo fissarsi in un carattere, risente di una molteplice complessità di fattori.
Il naturale desiderio degli uomini può essere rivolto al bene comune. Ma la conflittualità non nasce solo da bontà o malvagità, perché è determinata da contrasti nei modi di agire, da diversità di caratteri, che sovente hanno a che fare con aspetti vitali. Se non viene incanalato dalle leggi (e così reso elemento vivificante della società), questo intreccio, unito a una prevalente tendenza naturale a soddisfare comunque gli appetiti, determina quella «tristizia» chiamata costantemente in causa come nota dolente e prevalente dell’umana condizione. Gli appetiti, in ogni caso, non sono assimilabili ai peccati. Per il suo naturalismo, M. è distante dall’antropologia cristiana.
Si comprende allora perché la nozione di n. (sia in sé considerata sia come n. umana) risulti fondamentale nella comprensione della storia e della politica (Anselmi 1979, Inglese 2006). Le vicende della storia dipendono da molteplici fattori: il caso, la fortuna, la potenza del cielo, e poi gli immutabili appetiti umani. Per quanto attiene alla politica, oltre agli stessi appetiti umani e a una certa contingenza, va posta in primo piano la vista corta, un limite che impedisce il «veder discosto». Per M. i ‘savi’ che dovrebbero comandare alle stelle e al fato, non si trovano. È essenzialmente con questo insieme di limiti e condizionamenti naturali che deve fare i conti la prudenza, la rivisitata phrònesis. A essa − e quindi al libero arbitrio − appartiene un raggio d’azione ben più circoscritto rispetto a quello prospettato, per es., da Pico della Mirandola nella sua celebre Oratio de hominis dignitate, anche se a questo margine, pur così ridimensionato, M. non vorrà mai abdicare. Di conseguenza la n. può essere intesa come quel limite che riporta alla verità effettuale contro immagini di Stati che mai si sono visti o si vedranno (Sasso 1967); non come rinuncia ma, al contrario, come ricerca senza tregua della possibile e migliore via di salvezza nell’ordine politico.
In quest’ottica anche la teoria degli umori, tratta dalla medicina e dall’anatomia (Zanzi 1981), acquista la sua pregnanza. È vano sperare che venga meno il desiderio di dominare. Dire che questo è un umore, peraltro insieme ad altri umori simili, significa anche qui non sottrarre il desiderio di dominio alla sua radice naturale. Nelle Istorie fiorentine, nel mirabile discorso del Ciompo, si dice che «tutti gli uomini, avendo avuto uno medesimo principio, sono ugualmente antichi e da la natura sono stati fatti ad uno modo» (III xiii 9). Quindi sono tutti uguali, ma solo se rimangono «ignudi», perché poi a dividerli sono le passioni, anch’esse naturali, e i vari umori. E poiché «Idio e la natura ha posto tutte le fortune degli uomini loro in mezzo», accade – secondo la lezione dell’antica pleonexia – che «gli uomini mangiono l’uno l’altro» (§ 15). M., in definitiva, vede in campo diverse potenze contrapposte, che tuttavia, per semplificare, si possono ridurre a due ordini di fattori: da un lato, quello della potenza della n. segnata dal divenire che tutto scardina; dall’altro, quello degli uomini che con buone leggi e buoni costumi (ma senza escludere le buone armi) cercano di imprimere un ordine politico, avendo come fine il bene comune. Uno sforzo reso possibile dal fatto che l’educazione, sia pure tra mille ostacoli e difficoltà, può comunque supplire là «dove natura manca» (“Dell’Ambizione”, v. 114).
Bibliografia: W. Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura: dal Rinascimento al secolo XVIII, Venezia 1927; L. Mossini, Necessità e legge nell’opera del Machiavelli, Milano 1962; G. Sasso, In tema di naturalismo machiavelliano, in Id., Studi su Machiavelli, Napoli 1967, pp. 281-358; N. Badaloni, Natura e società in Machiavelli, «Studi storici», 1969, 4, pp. 675-708; E. Garin, Dal Rinascimento all’Illuminismo, Pisa 1970; P.O. Kristeller, Concetti rinascimentali dell’uomo e altri saggi, Firenze 1978; G.M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa 1979; L. Zanzi, I “segni” della natura e i “paradigmi della storia”. Il metodo del Machiavelli, Manduria 1981; G.M. Anselmi, P. Fazion, Machiavelli, l’Asino e le bestie, Bologna 1984; A.J. Parel, The Machiavellian cosmos, New Haven-London 1992; M. Sacco Messi-neo, Il fiume e gli argini. Natura ed esperienza nell’opera del Machiavelli, Palermo 1992; H.C. Mansfield, Machiavelli’s virtue, Chicago-London 1996; M. Arnaudo, Il bestiario di Machiavelli, tra emblematica e naturalismo, «Italica», 2003, 3, pp. 313-33; M. Gaille-Nikodimov, Conflit civil et liberté. La politique machiavélienne entre histoire et médicine, Paris 2004; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello Stato, la cognizione delle storie, Roma 2006; C. Vasoli, Ficino, Savonarola, Machiavelli. Studi di storia della cultura, Torino 2006; P. Vincieri, Machiavelli. Il divenire e la virtù, Genova 2011.