Abstract
La voce tratta del concetto e delle funzioni della nazionalità nell’ordinamento giuridico internazionale e nel diritto internazionale privato. Sul primo versante, si dà conto dell’influenza che il diritto internazionale esercita sulle regole statali relative all’acquisto e alla perdita della nazionalità. L’attenzione si sposta poi sugli effetti che il diritto internazionale ricollega alla nazionalità, segnatamente per quanto riguarda il diritto di incolato, i limiti all’esercizio della potestà di imperio dello Stato e la protezione diplomatica. Nella parte internazionalprivatistica sono analizzati gli usi della nazionalità nelle norme sulla giurisdizione e sui conflitti di leggi nel dritto comune italiano, in alcune convenzioni e negli atti adottati dall’Unione europea.
1. La rilevanza della nazionalità nel diritto internazionale pubblico e privato
Il termine nazionalità designa un particolare legame giuridico e politico che intercorre fra un soggetto e un determinato Stato. Riferita alle persone fisiche, ove è usata come sinonimo di cittadinanza, la nazionalità riflette l’appartenenza del singolo alla comunità politica costitutiva dello Stato. Essa riassume, così, le posizioni giuridiche soggettive, attive e passive, che rinvengono la loro ragion d’essere in quel vincolo di appartenenza e ne rappresentano il portato, come il diritto del singolo a partecipare alla vita politica del paese e il dovere di concorrere alla difesa della patria.
Il diritto internazionale conferisce rilievo alla nazionalità a vario titolo. Alcune norme internazionali, come quelle relative al trattamento degli stranieri e dei loro beni, fanno della nazionalità il presupposto della loro applicazione, di fatto consentendo il permanere in taluni settori di regimi differenziati per cittadini e non cittadini. Altre, come quelle concernenti la protezione diplomatica, fanno dipendere dalla nazionalità del soggetto l’individuazione dello Stato legittimato ad esercitare determinate prerogative.
La nazionalità assume rilievo anche nel diritto internazionale privato e processuale, dove funge, in alcuni sistemi nazionali e per alcune categorie di rapporti e situazioni giuridiche, da titolo attributivo della giurisdizione o da criterio di collegamento per la soluzione dei conflitti di leggi.
2. La nazionalità nell’ordinamento giuridico internazionale
2.1 Attribuzione e perdita della nazionalità
Il sorgere del legame di nazionalità dipende per l’essenziale da regole e provvedimenti statali, provenienti dallo Stato della cui nazionalità si tratta. Per il diritto internazionale, ogni Stato è libero, in linea di principio, di regolare come crede l’acquisto e la perdita della propria nazionalità. Stando ad un’affermazione tradizionale, l’attribuzione della nazionalità rientrerebbe anzi nel c.d. dominio riservato dello Stato (così il parere della Corte permanente di giustizia internazionale del 7.2.1923 sui Decreti di nazionalità promulgati in Tunisia e in Marocco), risultando immune, come tale, dalle valutazioni dell’ordinamento internazionale. In realtà, tale ordinamento fa prova di un interesse crescente per le dinamiche ora evocate. Tale interesse si esprime, per un verso, nella fissazione delle condizioni alle quali il legame in parola può ritenersi rilevante agli effetti di specifiche norme internazionali che a qualche fine lo valorizzano. Per altro verso, il diritto internazionale concorre in qualche caso a definire la fisionomia del legame in discorso, influenzando più o meno ampiamente le determinazioni degli Stati.
Con riguardo all’attribuzione e alla revoca della nazionalità, la discrezionalità statale può anzitutto risultare limitata dagli obblighi eventualmente assunti dallo Stato su base pattizia (come nel caso, ad es., della Convenzione sulla nazionalità della donna maritata del 1957), come pure, più in generale, da quelli derivanti dalla norma consuetudinaria che vieta agli Stati di attingere nell’esercizio dei propri poteri sovrani situazioni non apprezzabilmente collegate con la rispettiva comunità territoriale (violerebbe tale norma lo Stato che, per ipotesi, conferisse indiscriminatamente a chiunque la propria nazionalità). Ciò detto, la direttrice principale lungo cui va sviluppandosi l’interesse del diritto internazionale per l’istituto in esame è quella che conduce a collocare la nazionalità (quella delle persone fisiche) nell’orizzonte dei diritti umani. Il diritto a vedersi attribuita una nazionalità, già evocato nell’art. 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (e prima ancora, sia pure sotto una luce particolare, nel preambolo della Convenzione dell’Aia relativa a talune questioni concernenti i conflitti di leggi sulla cittadinanza del 1930), è garantito sul piano universale, sia pure con specifico riferimento ai soli minori, dal Patto sui diritti civili e politici del 1966 (art. 24, par. 3) e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1989 (art. 7, par. 1). In ambito regionale, la Convenzione europea sulla cittadinanza del 1997, attualmente in vigore per venti Stati, fra cui peraltro non rientra l’Italia, identifica alcuni principi a cui gli Stati contraenti devono conformarsi nel regolare la nazionalità. A questo titolo, essa ribadisce in particolare che ognuno ha diritto a una nazionalità, che l’apolidia deve per quanto possibile essere evitata e che nessuno può essere privato arbitrariamente dello status di nazionale.
Senonché, se è vero che attorno ai principi ora richiamati la prassi internazionale si va progressivamente facendo più densa ed univoca (complice, in qualche misura, l’accresciuto numero di adesioni a strumenti come la Convenzione delle Nazioni Unite sullo status degli apolidi del 1954 e la Convenzione delle Nazioni Unite sulla riduzione dell’apolidia del 1961), è vero altresì che al di fuori degli aspetti appena richiamati gli Stati godono tuttora di un ampio margine di libertà, per il diritto internazionale generale, nel delineare il percorso di accesso alla nazionalità (con inflessioni diverse, peraltro, a seconda che si tratti di acquisto a titolo originario o di naturalizzazione) e i casi in cui la nazionalità può essere persa. Per questa via, il diritto ad acquisire una nazionalità si rivela sovente incapace di sfociare per l’interessato nel diritto ad avere una nazionalità particolare, non rinvenendosi nel diritto internazionale consuetudinario delle norme che identifichino in modo sistematico lo Stato, o eventualmente gli Stati, cui spetti soddisfare nel caso di specie una simile aspettativa. Forti differenze, del resto, seguitano a caratterizzare su questo terreno le politiche dei singoli paesi. Alla tradizionale opposizione fra ordinamenti rispettivamente ispirati ai criteri del suolo e del sangue, si affiancano regole, non meno diversificate, relative all’acquisto della cittadinanza a titolo derivato. Vari, e variamente combinati fra loro, sono del resto anche gli schemi secondo cui nei diversi ordinamenti, in forza di quei titoli, la nazionalità può essere acquisita, dovendosi solitamente distinguere fra situazioni in cui l’acquisto opera di diritto da situazioni in cui la nazionalità viene concessa con un provvedimento discrezionale o sulla scorta di una manifestazione di volontà dell’interessato.
È un fatto, comunque, che anche là dove lo Stato rimane libero di valorizzare i fattori costitutivi ed estintivi del vincolo di cittadinanza che più gli paiono opportuni, il diritto internazionale non rinuncia del tutto a sindacare il modo in cui tali opzioni vengono esercitate, specie vietando in questo campo discriminazioni fondate sulla razza (art. 5, lett. d, della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965), sul sesso (art. 9 della Convenzione delle Nazioni Unite sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne del 1979) o sulla disabilità (art. 18 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006). Muovendo da premesse fondamentalmente non diverse, la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 11.10.2011, Genovese c. Malta (ric. n. 53124/09), ha ritenuto discriminatoria, e come tale incompatibile con gli obblighi posti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la differenza di trattamento riservata dalla legislazione maltese, agli effetti dell’acquisto della nazionalità, ai figli legittimi e a quelli nati fuori dal matrimonio.
Scendendo dal generale al particolare, va segnalato che, piuttosto, il diritto internazionale ha preso ad esercitare un’influenza di un certo rilievo su alcune dinamiche specifiche del diritto della nazionalità, in particolare quelle innescate dai fenomeni di successione fra Stati. La preoccupazione centrale è, qui, quella di prevenire l’insorgere di conflitti negativi di nazionalità, cioè di situazioni in cui, venuto meno uno Stato, le persone che ne possedevano la nazionalità si vedano preclusa, o ostacolata, la possibilità di acquisirne una nuova, entrando in una condizione di apolidia. In un progetto di articoli adottato nel 1999 dalla Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite, relativo appunto alla nazionalità delle persone fisiche in relazione alla successione degli Stati, si legge, fra l’altro che, quando si verifica un fenomeno di successione, i cittadini dello Stato predecessore, quale che sia il titolo in virtù del quale hanno acquisito tale status, hanno il diritto di avere la nazionalità di almeno uno degli Stati risultanti dalla successione (art. 1), da individuarsi in conformità con le norme racchiuse nel progetto. Sulla scia di tale documento, che nel preambolo riconosce il nesso che lega il possesso di una nazionalità alla sfera dei diritti fondamentali, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha asserito, in una sentenza resa il 13.7.2010 nel caso Kuriç c. Slovenia (ric. n. 26828/06), che l’inerzia delle autorità di uno Stato contraente nell’attribuzione della nazionalità può integrare, in particolari circostanze, una violazione dell’art. 8 CEDU, in tema di diritto alla vita personale e familiare. La realizzazione effettiva del diritto alla cittadinanza esige peraltro in simili frangenti un quadro di norme articolato, capace di identificare con precisione le responsabilità dello Stato predecessore e quello dello Stato successore. A tale esigenza mira a rispondere, in ambito regionale, la Convenzione europea sulla prevenzione dell’apolidia in caso di successione di Stati del 2006.
2.2 Gli effetti della nazionalità nell’ordinamento internazionale
Lo sviluppo del diritto internazionale dei diritti umani ha fortemente ridimensionato il peso rivestito nell’ordinamento internazionale dal legame di cittadinanza, cioè le conseguenze giuridiche suscettibili di derivare dal possesso di una data nazionalità, invece di un’altra. Quando si tratta di diritti fondamentali, in effetti, la distinzione fra nazionali e non nazionali perde quasi interamente ogni funzione, giacché gli obblighi gravanti sullo Stato con riferimento ai diritti in questione si rivolgono per principio, per usare le parole dell’art. 1 CEDU, a chiunque risulti soggetto alla giurisdizione di tale Stato.
Permangono nondimeno delle aree del diritto internazionale in cui il vincolo in discorso produce effetti giuridici di rilievo. Ne vengono di seguito esaminate tre.
2.3 (Segue) Nazionalità e diritto di incolato
Per il diritto internazionale generale, lo Stato non può impedire ai propri cittadini di fare ingresso nel suo territorio né può procedere alla loro espulsione. La regola, già delineata nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 13, par. 2), trova riscontro nel Patto sui diritti civili e politici, che peraltro si limita a vietare la privazione arbitraria del diritto dei cittadini di entrare nel paese (art. 12, par. 4), nonché, a livello regionale, fra gli altri strumenti, nel Protocollo n. 4 alla CEDU (art. 3).
La posizione di favore così configurata per i nazionali, denominata diritto di incolato, contrasta con la posizione dello straniero, la cui ammissione ed allontanamento, in virtù di una regola tradizionale (anche se oggi sottoposta a limitazioni significative, specie per effetto delle norme sui diritti umani), dipendono infatti dalle libere determinazioni dello Stato territoriale.
La norma sul diritto di incolato (che in Italia trova uno specifico riscontro nell’art. 16 Cost.), al di là delle deroghe specifiche e dei temperamenti individuali attestati dalla prassi (soprattutto in relazione a ex capi di Stato e a leader politici a seguito di capovolgimenti di regime), conosce talora un’applicazione problematica, e potenzialmente mitigata, quando, in situazioni di conflitto, uno Stato revochi la propria nazionalità a individui che possiedano anche un’altra nazionalità (quella dell’altro Stato parte del conflitto), per poi espellerli. Chiamata a pronunciarsi sulla condotta posta in essere secondo questo schema dall’Etiopia durante il conflitto con l’Eritrea, la Commissione dei reclami costituita per definire le controversie fra i due paesi ha evitato di qualificare l’iniziativa etiope come senz’altro contraria al diritto internazionale, asserendo piuttosto la necessità di accertare, alla luce delle circostanze, se i provvedimenti adottati avessero carattere arbitrario (sentenza parziale del 17.12.2004 sui Reclami civili dell’Eritrea n. 15, 16, 23 e 27-32).
2.4 (Segue) Nazionalità e limiti all’esercizio dei poteri statali di imperio
L’esercizio delle prerogative nelle quali si concreta la potestà di imperio dello Stato non può estendersi, per il diritto internazionale consuetudinario, a situazioni non sufficientemente collegate alla comunità territoriale di detto Stato. Vari, a seconda delle circostanze e della natura degli interessi in gioco, sono i criteri cui uno Stato può fare appello per definire, in conformità col diritto internazionale (che perlopiù non prefigura rigidamente a questo fine alcun criterio), le situazioni che devono reputarsi investite dall’esercizio di questa o quella prerogativa sovrana. La nazionalità del soggetto investito dall’azione statale rappresenta, in più di un caso, un discrimine pertinente. La leva e il reclutamento obbligatori, ad es., sono prestazioni che, per regola, lo Stato non può legittimamente esigere dai non cittadini: un diverso approccio, come ha chiarito C. cost., 15.5.2001, n. 31, contrasterebbe con una consuetudine cui l’ordinamento italiano deve ritenersi essersi conformato in virtù dell’art. 10, co. 1, Cost.
Una logica di prossimità, sia pure calata in tutt’altro contesto, può cogliersi anche dietro la norma che fa dipendere dalla nazionalità della nave l’individuazione dello Stato abilitato ad esercitare, per regola in via esclusiva, la giurisdizione civile e penale sui fatti che riguardano la vita che si svolge a bordo di essa. L’art. 91 della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982 riconosce che spetta ai singoli Stati stabilire le condizioni alle quali una nave può acquisire la loro nazionalità e battere la loro bandiera, salvo aggiungere che fra lo Stato della bandiera e la nave di cui trattasi deve esistere a tal fine un legame effettivo (genuine link).
2.5 (Segue) Nazionalità e protezione diplomatica
La protezione diplomatica, per usare le parole dell’art. 1 del progetto di articoli adottato su questo tema dalla Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite nel 2006, consiste nell’invocazione, ad opera di uno Stato, della responsabilità di un altro Stato per il danno provocato da un atto internazionalmente illecito di quest’ultimo ad una persona fisica o giuridica che possieda la nazionalità del primo.
Il legame di nazionalità, come emerge già da questa definizione, occupa una collocazione centrale nell’economia dell’istituto. Ciò riflette l’idea, tradizionale, che vede nell’illecito internazionale commesso in danno di un individuo un fatto idoneo ad interessare senz’altro lo Stato di cui questi ha la nazionalità, giustificandone la reazione anche alla luce dei compiti di cura e tutela che a tale Stato fanno capo per la protezione dei membri della rispettiva comunità.
Quanto alle persone fisiche, il possesso della nazionalità di un dato Stato si determina guardando alle norme e dello Stato di cui trattasi e alle misure ivi adottate, sempre che tali norme e tali concrete misure non siano – precisa l’art. 4 del progetto di articoli, richiamandosi ad un inciso già presente nella citata Convenzione dell’Aia del 1930 – incompatibili col diritto internazionale. Per i pluricittadini, la legittimazione spetta a ciascuno degli Stati di cui il soggetto abbia la cittadinanza, salvo non si faccia questione della responsabilità di un altro Stato di cui l’individuo sia un nazionale (e ferma la prova della “prevalenza” della nazionalità del primo Stato: art. 7).
Per le società commerciali (e, con gli adattamenti del caso, per le altre persone giuridiche), lo Stato di nazionalità, ai sensi dell’art. 9 del progetto, è quello in base alla cui legge si è perfezionato il processo di costituzione (incorporation). L’idea che tale legame debba normalmente essere corroborato da altri indizi – prospettata dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza del 5.2.1970 relativa al caso della Barcelona Traction, uno degli snodi cruciali della prassi internazionale in questo campo – è stata ridimensionata dal progetto. Questo si limita a stabilire che quando la società sia controllata da cittadini di uno Stato diverso dallo Stato di incorporazione e non intrattenga con quest’ultimo delle relazioni d’affari significative, situandosi tanto la sede d’affari quanto il controllo finanziario in uno Stato differente, la nazionalità dell’ente dovrà ascriversi, ai fini della protezione diplomatica, a tale altro Stato (soluzioni in parte diverse, in virtù di regole speciali, possono dover essere seguite in altri contesti, come, ad es., agli effetti dell’art. 25 della Convenzione per la composizione delle controversie relative agli investimenti fra Stati e nazionali di altri Stati del 1965). Ampia, in questo assetto, è di fatto la libertà di cui godono gli Stati, secondo il diritto internazionale generale, nel definire quali enti possano acquisire, e quali no, la loro nazionalità.
Prerogativa dello Stato, la protezione diplomatica è esercitata quando quest’ultimo, ricorrendone i presupposti, ritenga opportuno avvalersene. L’assunto riflette l’idea per cui lo Stato, agendo in protezione diplomatica, “fa suo” il caso del singolo, elevando la questione ad un piano – quello internazionale – dal quale l’individuo si vorrebbe normalmente escluso. L’evoluzione in senso individuale dell’ordinamento internazionale e lo sviluppo dei diritti umani suggeriscono da tempo una riconsiderazione critica di tale tradizionale impostazione. Lo stesso progetto di articoli si rende interprete di questa sensibilità là dove, con una norma intesa a realizzare uno sviluppo progressivo del diritto internazionale generale più che la sua codificazione in senso stretto, estende anche ad apolidi e rifugiati il beneficio alla protezione diplomatica, consentendone l’esercizio, rispettivamente, allo Stato di residenza e allo Stato che ha riconosciuto alla persona di cui trattasi lo status di rifugiato (art. 8). E, ancora, là dove, peraltro dettando una semplice “pratica raccomandata”, indica ciò che lo Stato dovrebbe fare nel valutare l’opportunità di esercitare la protezione e nell’amministrarne certi sviluppi: dovrebbe prendere in debita considerazione la possibilità di agire in protezione diplomatica quando il pregiudizio patito dal singolo sia significativo; dovrebbe tener conto della posizione espressa dall’interessato circa la protezione stessa e la riparazione eventualmente perseguita; dovrebbe, infine, rimettere all’interessato quanto eventualmente versato dallo Stato responsabile a titolo di riparazione (art. 19).
3. La nazionalità nel diritto internazionale privato e processuale
3.1 Il regime di diritto comune
Il sistema italiano di diritto internazionale privato, fedele sotto questo profilo all’impostazione impressagli da P.S. Mancini, attribuisce tuttora alla nazionalità un ruolo di primo piano nella disciplina della giurisdizione e dei conflitti di leggi nel diritto delle persone e della famiglia. La legge nazionale della persona di cui trattasi, ad es., viene richiamata dall’art. 24 l. 31.5.1995 n. 218, recante la riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, per la disciplina dei diritti della personalità, mentre alla nazionalità comune dei coniugi deve farsi riferimento, almeno in prima battuta, per determinare la legge applicabile ai loro rapporti personali (art. 29). Quanto alla giurisdizione, l’art. 37 della medesima legge stabilisce ad es. che il giudice italiano è abilitato a prendere cognizione di una domanda in materia di filiazione quando, fra le altre cose, «uno dei genitori o il figlio è cittadino italiano».
Varie sono le questioni che possono insorgere in relazione al concreto operare del criterio della nazionalità. Alcune formano l’oggetto di esplicite soluzioni normative, altre riflettono il tacito intendimento degli operatori.
Si colloca in questa seconda categoria la questione della legge sulla base della quale debba essere accertato il legame di cittadinanza. È pacifico che – in deroga alla soluzione prevalentemente seguita per la qualificazione dei criteri di collegamento (da compiersi, stando ai più, secondo la lex fori) – il possesso di una certa nazionalità non possa che essere apprezzato alla luce delle determinazioni, generali o specifiche, dello Stato della cui nazionalità si tratta.
Delle risposte espresse, ancorché frammentarie, vengono date viceversa alla questione del momento con riguardo al quale occorre individuare la nazionalità del soggetto di cui trattasi. Malgrado la tendenziale stabilità dello status in parola, è sempre possibile, in effetti, che nel corso del tempo la medesima persona venga successivamente a possedere due o più cittadinanze diverse. Non sorgono difficoltà, evidentemente, quando la regola che valorizza il vincolo di cittadinanza provvede ad stabilirne la proiezione temporale pertinente: così, ad es., ai sensi dell’art. 22, co. 2, l. n. 218/1995, la giurisdizione italiana sussiste in materia di scomparsa, assenza e morte presunta allorché risulti, fra l’altro, che «l’ultima legge nazionale della persona era quella italiana». In realtà, anche quando simili indicazioni facciano difetto, è spesso agevole accertare in via interpretativa quale debba essere l’istante decisivo ai fini sopra indicati, guardando alla natura della questione da decidere. Ad es., la regola dell’art. 23, co. 1, secondo cui «la capacità di agire delle persone fisiche è regolata dalla loro legge nazionale», va intesa nel senso che la capacità va apprezzata guardando alla nazionalità posseduta dall’autore all’epoca in cui ha agito.
Una risposta di carattere generale, infine, è fornita dalla l. n. 218/1995 circa il modo in cui dev’essere inteso il richiamo alla nazionalità quando l’interessato possegga più di una cittadinanza o non ne possegga alcuna, o sia un rifugiato. L’art. 19, co. 1, con una norma riferita ai soli conflitti di leggi ma perlopiù ritenuta applicabile anche in tema di giurisdizione, stabilisce che per gli apolidi e rifugiati il riferimento alla legge nazionale va inteso come un riferimento alla legge dello Stato del domicilio o, in mancanza, della residenza. Se invece la persona ha più cittadinanze, l’art. 19, co. 2, prescrive l’applicazione della legge «di quello tra gli Stati di appartenenza con il quale essa ha il collegamento più stretto», salvo aggiungere che se tra le cittadinanze vi è quella italiana, questa prevale.
Il primato della cittadinanza italiana, per la verità, può ritenersi operante solo in quanto non contrasti con le norme che, nel diritto dell’Unione europea, a partire dall’art. 18 TFUE, vietano nell’ambito di applicazione dei Trattati ogni discriminazione fondata sulla nazionalità. Di fatto, per chi possegga, assieme alla cittadinanza italiana, la cittadinanza di un altro Stato membro, la norma dell’art. 19, co. 2, è sostanzialmente inservibile.
3.2 Il diritto internazionale privato convenzionale e dell’Unione europea
La localizzazione delle persone nello spazio obbedisce, nel diritto internazionale privato comparato, a tre schemi principali: quello della nazionalità, diffusa in special modo nei sistemi dell’Europa continentale, quello del domicilio, usato sovente ad es. negli ordinamenti dell’America Latina, e quello della residenza abituale. Negli strumenti di diritto internazionale privato uniforme, in particolare elaborati in seno alla Conferenza dell’Aia di diritto internazionale privato e quelli adottati dalle istituzioni dell’Unione secondo le forme proprie del diritto derivato dai Trattati, lo schema favorito è oggi quello della residenza abituale. La formula «residenza abituale», perlopiù priva di esplicite definizioni, designa il permanere del soggetto in un dato ambiente, attestato da indizi esteriori (l’occupazione lavorativa, la frequenza scolastica ecc.) che segnalino con esso un legame effettivo e intenzionale. Così, ad es., il regolamento (UE) n. 650/2012 sul diritto internazionale privato delle successioni per causa di morte, eleva a principale criterio di collegamento per la determinazione della legge applicabile all’intera successione la residenza abituale del defunto al momento della morte (art. 21). Analogamente, il Protocollo dell’Aia del 2007 sulla legge applicabile alle obbligazioni alimentari dispone, come regola generale, il richiamo della legge del paese di residenza abituale del creditore (art. 3).
Le ragioni che depongono a favore dell’impiego del criterio della nazionalità in luogo del criterio della residenza abituale (ed eventualmente del domicilio) sono di ordine tecnico come politico. Sul piano della politica del diritto, il riferimento alla nazionalità, valorizzando le origini del soggetto, sottende il desiderio di salvaguardare i legami che uniscono l’individuo alla comunità cui fa capo la cultura di cui l’individuo stesso è in linea di principio portatore. La residenza abituale, tanto più in ragione della sua mutevolezza, premia invece il qui e l’ora del soggetto, e quindi i legami che questi ha annodato, o può annodare, con la comunità in cui è stabilito, poco importa se come membro della popolazione autoctona, o meno.
Negli strumenti convenzionali e dell’Unione, in realtà, il favore per la residenza abituale non è tale da togliere al legame di cittadinanza ogni rilievo. Diversi sono gli schemi tecnici secondo cui il criterio della nazionalità può raccordarsi, derogandolo o sommandovisi, al criterio della residenza abituale. L’art. 22 del citato regolamento n. 650/2012, ad es., prefigura la possibilità di una professio iuris consentendo all’interessato di designare come applicabile, per l’appunto, la legge dello Stato di nazionalità al momento della scelta o della morte.
Le questioni generali evocate in precedenza quanto al concreto operare del criterio della nazionalità sono suscettibili di presentarsi anche in rapporto alle regole pattizie e dell’Unione europea che fanno uso di quel criterio. Le risposte vanno cercate in prima battuta negli stessi strumenti normativi a cui appartengono le regole considerate, potendosi applicare la disciplina di diritto comune, e in particolare l’art. 19, solo quando manchino delle soluzioni autonome e, in ogni caso, a patto che una simile integrazione non pregiudichi l’effetto utile del regime uniforme o non contrasti con i valori (ancora una volta, ad es., il divieto di operare discriminazioni basate sulla nazionalità, nei testi dell’Unione) a cui tale regime si ispira.
Fonti normative
Convenzioni internazionali:
Convenzione relativa a talune questioni concernenti i conflitti di leggi sulla cittadinanza - L’Aia, 12.4.1930; Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali - Roma, 4.11.1950; Convenzione sullo status dei rifugiati - Ginevra, 28.7.1951; Convenzione delle Nazioni Unite sullo status degli apolidi - New York, 28.9.1954; Convenzione sulla nazionalità della donna maritata - New York, 20.2.1957; Convenzione delle Nazioni Unite sulla riduzione dell’apolidia - New York, 30.8.1961; Protocollo n. 4 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali - Strasburgo, 16.9.1963; Convenzione per la composizione delle controversie relative agli investimenti fra Stati e nazionali di altri Stati - Washington, 18.3.1965; Convenzione delle nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale - New York, 21.12.1965; Patto internazionale sui diritti civili e politici - New York, 16.12.1966; Convenzione delle Nazioni Unite sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne - New York, 18.12.1979; Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare - Montego Bay, 10.12.1982; Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo - New York, 20.11.1989; Convenzione europea sulla nazionalità - Strasburgo, 6.11.1997; Convenzione europea sulla prevenzione dell’apolidia in caso di successione di Stati - Strasburgo, 19.5.2006; Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità - New York, 13.12.2006.
Norme italiane:
l. 31.5.1995 n. 218, Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato.
Bibliografia essenziale
AA.VV., Droit international et nationalité - Société française pour le droit international - Colloque de Poitiers, Paris, 2012; AA.VV., The Changing Role of Nationality in International Law, a cura di A. Annoni e S. Forlati, Abingdon, 2013; Bariatti, S., Multiple Nationalities and EU Private International Law: Many Questions and Some Tentative Answers, in Yearbook of Private International Law, 2011, 1 ss.; Clerici, R., Freedom of States to Regulate Nationality: European Versus International Court of Justice?, in International Courts and the Development of International Law - Essays in Honour of Tullio Treves, a cura di N. Boschiero e altri, The Hague, 2013, 839 ss.; Cogliati-Bantz, V.P., Disentangling the “Genuine Link”: Enquiries in Sea, Air and Space Law, Air and Space Law, in Nordic Journal of International Law, 2010, 383 ss.; Fripp, E., Deprivation of Nationality and Public International Law - An Outline, in Journal of Immigration, Asylum and Nationality Law, 2014, 367 ss.; Kraus, M.S., Menschenrechtliche Aspekte der Staatenlosigkeit, Berlin, 2013; Marchadier, F., L’européanisation du droit à la nationalité, in La régionalisation du droit international, a cura di S. Doumbé-Billé, Bruxelles, 2012, 361 ss.; Rodríguez Benot, A., El criterio de conexión para determinar la ley personal: un renovado debate en derecho internacional privado, in Derecho, persona y ciudadanía: una experiencia jurídica comparada, a cura di B. Periñán Gómez, Madrid, 2010, 447 ss.; Simma, B.-Müller, A.T., Exercise and Limits of Jurisdiction, in The Cambridge Companion to International Law, Cambridge, 2012, 134 ss.; Spiro, P.J., A New International Law of Citizenship, in AJIL, 2011, 694 ss.; Verhellen, J., Lost in Nationality: Private International Law and Cultural Diversity, in Legal Approaches to Cultural Diversity, a cura di M.-C. Foblets e N. Yassari, Leiden, 2013, 521 ss.