nazione
Nella storia del concetto possono essere individuate due fasi. Dall’antichità sino alla tarda modernità il termine ha un significato incerto e mutevole, connesso per lo più alla sfera etnica, linguistica e/o geografica, privo di connotazioni politiche e dotato di un debole potere evocativo. A partire dalla seconda metà del 18° sec., invece, assume un significato di tipo politico e culturale, trasformandosi in un’idea consapevolmente elaborata e dotata di una forte carica suggestiva: ed è in questa nuova veste che giocherà, a partire dalla Rivoluzione francese, un ruolo di primo piano nella storia e nel pensiero contemporanei.
Nel mondo romano natio (da nascor) indica in genere un gruppo di persone legate dalla nascita o da una comune discendenza, con una sfumatura che si avvicina al significato del termine moderno nativi: in questa accezione Cicerone parla di «natio servituti nata», Sallustio di «nationes ferae» e Girolamo di «innumerabiles et ferocissimae nationes» (mentre in Varrone natio indicava addirittura una razza di bestiame). È in ogni caso assente ogni connotazione politica: per indicare una comunità civile paragonabile alla loro i Romani usano il termine populus. Tra il 13° e il 15° sec. nationes sono le corporazioni degli studenti universitari o i gruppi di vescovi che al Concilio di Costanza dispongono di un voto: esse sono identificate in base alla lingua o al territorio, ma non coincidono con le n. moderne, né implicano un principio di sudditanza politica. Dietro queste oscillazioni è possibile rintracciare, a partire dall’alto Medioevo, il formarsi di identità nazionali relativamente stabili, di solito fondate su una lingua comune, di cui erano tuttavia consapevoli soltanto alcune élites politiche e culturali. A partire dall’11° sec., poi, iniziò a delinearsi la distinzione individuata da Meinecke in Cosmopolitismo e Stato nazionale (1907) tra n. territoriali e n. culturali: nelle prime (Francia, Inghilterra e Spagna), sotto l’impulso di alcuni grandi dinastie e per effetto di alcuni conflitti ‘nazionali’ (la Reconquista per gli Spagnoli, la guerra dei Cent’anni per Inglesi e Francesi), si avvierà un processo di progressivo avvicinamento tra dimensione politica e dimensione linguistico-culturale; nelle seconde (Italia, Germania) il formarsi di una coscienza nazionale sarà invece il frutto di processi culturali e linguistici. In entrambi i casi i sentimenti di appartenenza alla n. rimarranno comunque confinati ai ceti privilegiati; e nel mondo tedesco, in partic., non mancheranno manifestazioni di indifferenza o avversione per la n. da parte di personalità eminenti. Se Leibniz dichiarava di essere interessato soltanto al bene del genere umano, Lessing considerava l’amor di patria «una debolezza eroica» dalla quale era «lieto di essere immune» e Schiller sosteneva che il solo oggetto degno del filosofo è l’umanità, di cui le n. non sono che frammenti.
La trasformazione del concetto di n. avviene nella seconda metà del 18° sec. e trova i suoi principali protagonisti in Rousseau e Herder. Nel pensiero del Ginevrino convivono due concezioni della n.: nel Contratto sociale (➔) (1762) essa rappresenta il corpo politico, inteso come insieme di cittadini perfettamente uguali nei diritti e nei doveri che esercita collettivamente e direttamente la sovranità. La n. ha quindi un significato eminentemente politico, di chiara ispirazione democratica, che troverà poi espressione nell’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino («il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella n.»). Ma nel Progetto di Costituzione per la Corsica (1765) e nelle Considerazioni sul governo di Polonia (1771) emerge invece una concezione identitaria della n., molto simile a quella elaborata dall’elvetismo settecentesco nella sua lotta contro l’egemonia francese: la n. vi appare infatti come un’individualità storica, che deve mantenere la sua identità originaria, promuovere il patriottismo e persino favorire il pregiudizio contro lo straniero. Rousseau è infatti critico verso la cancellazione dei caratteri nazionali dovuta al cosmopolitismo: «non esistono più Francesi, Tedeschi, Spagnoli e neppure Inglesi», lamenta il Ginevrino, «ma solo Europei», i quali si sentono a casa loro «dovunque c’è denaro da rubare e donne da sedurre». Tali motivi, che hanno spinto alcuni interpreti a vedere in Rousseau uno dei padri del moderno nazionalismo, rimarranno tuttavia subordinati, nel suo pensiero, all’idea della n. democratica, costituendo una sorta di premessa per quella libertà che può scaturire soltanto dalla volontà generale, cioè dalla dimensione politica. Dimensione che è invece assente nella riflessione di Herder: per il pensatore tedesco le n. sono soltanto individualità storico-culturali, di cui è necessario cogliere l’anima profonda. Ogni nazione ha infatti il suo spirito, le sue ricchezze, i suoi pregiudizi e deve rimanere fedele a essi: lo si chiami pure «limitato nazionalismo – afferma polemicamente Herder – ma il pregiudizio è utile, rende felici, spinge i popoli verso il loro centro, li fa più saldi, più fiorenti alla loro maniera e quindi più felici nelle loro inclinazioni e scopi». La cosa migliore, quindi, è che ogni ‘pianta nazionale’ cresca libera e solitaria: per es., se la cultura tedesca fosse rimasta immune da influenze esterne, sarebbe oggi più povera e angusta, ma avrebbe conservato la sua originalità e la sua forza creativa. A Herder risale quindi quella mitizzazione dei diversi caratteri nazionali come elementi originari e ‘naturali’ della storia umana che poi sarebbe stata ripresa e accentuata dal Romanticismo. Di qui deriverebbe, secondo F. Chabod (L’idea di nazione, 1961), la concezione naturalistica della n. (fondata sull’etnia, sulla lingua, sulla terra), che caratterizzerebbe la tradizione tedesca e che avrebbe inevitabilmente condotto – attraverso la linea che da Herder, passando per Fichte e H. Treitschke, arriva sino ad A. Hitler – a un nazionalismo aggressivo e razzista; a essa si contrapporrebbe la concezione volontaristica della n., tipica della tradizione francese e italiana, che avrebbe invece conservato – lungo la linea che da Rousseau, passando per G. Mazzini e Mancini, giunge sino a Renan – il nesso tra l’idea di n. e quelle di libertà, di Europa e di umanità. Tale distinzione è tuttavia soggetta a rilievi critici, poiché è stato osservato che qualsiasi idea di n. (anche quella volontaristica di Renan, secondo cui la n. «è il plebiscito di tutti i giorni») può condurre, in determinate condizioni storiche e geo-politiche, a esiti nazionalistici.
I pensatori che si sono fatti promotori dell’unità politica nelle ‘n. culturali’ hanno conferito una dimensione morale e religiosa all’idea di nazione. Per Fichte l’individuo acquista senso e significato soltanto immergendosi nella comunità nazionale; e la missione del popolo tedesco, che deve rinnovarsi radicalmente riscoprendo le virtù dei ceti popolari e dei giovani, è quella di rigenerare l’umanità. Anche per Mazzini è il dovere – e non i diritti individuali o la felicità collettiva – il fondamento della vita associata, la cui manifestazione più importante è la n.: quest’ultima non è la riunione di un certo numero di uomini indipendenti gli uni dagli altri e tenuti insieme soltanto da interessi materiali, ma «l’associazione di tutti gli uomini che per lingua, per condizioni geografiche o per la parte assegnata loro dalla storia, formano un solo gruppo, riconoscono uno stesso principio e si avviano sotto la scorta di un diritto comune al conseguimento di un medesimo fine». La nazionalità, scrive Mazzini, «è la parte che Dio ha prescritto a ogni genere nel lavoro umanitario: la missione, il compito che ogni popolo deve adempiere sulla Terra, perché l’idea divina possa attuarsi nel mondo; l’opera che gli dà il diritto di cittadinanza nell’umanità, il segno della sua personalità e del posto che occupa fra i popoli, suoi fratelli».