Il complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla sua realizzazione in unità politica.
Il termine n. ricorre fin dall’antichità con molteplici significati. Nell’antica Roma, natio indicò, in generale, un gruppo di persone legate da nascita o discendenza comune; designava popolazioni, tribù o stirpi legate da vincoli di origine, di sangue o di lingua, senza che ciò implicasse un significato di appartenenza a comunità in senso politico. Anzi, in molti casi, il termine ricorreva in opposizione a populus e civitas, proprio per indicare gruppi di individui privi di istituzioni comuni e collocati a un livello di civiltà inferiore a quello del populus romano. In epoca medievale e rinascimentale-umanistica il termine fece riferimento, di preferenza e salvo eccezioni, a una dimensione regionale o cittadina, di corporazione, di ceto sociale.
La n. in senso moderno assume una specifica e necessaria accezione politica, entrando direttamente in relazione, sebbene in maniera non univoca, con l’idea di Stato. Sull’iniziale determinazione semantica operata dalla cultura settecentesca (G.B. Vico, Voltaire, J.G. Herder) si innestò la concezione, divenuta operativa nella Rivoluzione francese, che identificava la n. con un’entità collettiva, il popolo, dotata di autocoscienza politica e contrapposta al monarca o ai ceti privilegiati in quanto titolare della sovranità e unica fonte di legittimazione dello Stato. Il giacobinismo, in particolare, pose un nesso inscindibile tra popolo e n., eliminando ogni realtà intermedia. Queste idee furono esportate con le guerre della Francia rivoluzionaria e napoleonica.
Il travaglio intellettuale dell’età romantica (G.J. Fichte, M.me de Staël, A. Manzoni, G. Mazzini) – contrassegnato da una ridefinizione dei caratteri costitutivi della n., tra i quali venne attribuito un ruolo preminente al fattore linguistico – si collegò in modo più organico con la coeva cultura politica, d’impronta liberale, democratica e anche conservatrice, e alimentò ideologicamente i cosiddetti movimenti nazionali. Si profilò allora, specie in area germanica, la distinzione tra un’accezione di n. prevalentemente culturale (Kulturnation) e un’accezione prevalentemente politico-statale (Staatsnation).
Il principio di nazionalità, per il quale ogni n. dovrebbe essere organizzata in uno Stato politico indipendente, costituì l’idea centrale del 19° sec., trovando in Italia in G. Mazzini il suo apostolo. La proliferazione, tra il 19° sec. e la fine della Prima guerra mondiale, di nuovi Stati su base nazionale (e la consacrazione della nazionalità come principio costitutivo degli Stati, riflessa anche nella denominazione di Società delle Nazioni attribuita all’organizzazione internazionale creata nel 1919) fu accompagnata da ulteriori e contrastanti sviluppi dell’idea di n.; l’avvenuta saldatura ideale e pratica tra n. e Stato fu peraltro ragione primaria dell’emergere e della diffusione dei nazionalismi.
Il nazionalismo, inteso come tendenza politico-culturale o movimento politico mirante ad affermare il prestigio e la superiorità della propria n. sul piano internazionale, iniziò a configurarsi come ideologia della politica di potenza da parte di uno Stato dagli anni 1870; con la seconda rivoluzione industriale, l’ingresso delle masse nella vita economica implicò la ricerca di una strategia di integrazione politica che condusse alla piena identificazione tra n. e Stato, con il fine di realizzare una solidarietà nazionale che superasse le divisioni di classe. Sul piano internazionale il nazionalismo fu alla radice (tra 19° e 20° sec.) della competizione tra le n. europee e dello scontro imperialistico tra le grandi potenze. All’inizio del 20° sec. sorsero movimenti nazionalisti (per es. l’Action française, la Lega pangermanica, l’Associazione nazionalista italiana) volti a contrastare i regimi democratici e a disinnescare i conflitti sociali (e la minaccia socialista). Teso a esaltare l’identità nazionale e la politica di potenza, contribuì in modo decisivo allo scoppio della Prima guerra mondiale. In Italia il nazionalismo fu una delle componenti essenziali del fascismo e diede luogo all’esaltazione dello Stato; in Germania, invece, si legò al concetto di razza e alimentò, in questa veste, l’ideologia nazista. Con la Seconda guerra mondiale questi tipi di nazionalismi caddero in discredito. La versione del nazionalismo fondata sull’autodeterminazione dei popoli continuò invece ad avere un ruolo storico, alimentando i movimenti di liberazione dal colonialismo nei paesi del Terzo Mondo; forme di nazionalismo fortemente identitario si sono sviluppate nei paesi ex comunisti dopo la caduta dei regimi totalitari.
Uno dei punti più critici e controversi del dibattito sulla n. concerne il processo di costruzione e i successivi sviluppi dello Stato nazionale, o Stato-N., come modello ideal-tipico, o dei singoli Stati nazionali considerati nella specificità della loro storia particolare. Gli approcci storicistici all’argomento (L. von Ranke, F. Meinecke, B. Croce) si erano attestati su un’interpretazione finalistica di tale processo come era stata enucleata dai movimenti nazionali ottocenteschi: nel senso di considerare la n. come una costante storica permanente e preesistente allo Stato nazionale. In seguito ci si è interrogati con maggiore insistenza sul ruolo esercitato dallo Stato, e in genere dalle istituzioni pubbliche, nel ‘produrre’ la n., sino a invertire, per certi aspetti, l’ordine logico e storico dello stesso processo.
In primo luogo, si è posto in maggior rilievo come le cosiddette monarchie nazionali, cioè i grandi Stati territoriali d’ancien régime, abbiano creato nell’Occidente europeo (Francia, Spagna, Inghilterra) le condizioni preliminari di unificazione – giuridica, militare, linguistica, economica, amministrativa – da cui è derivato il senso dell’identità nazionale dei loro sudditi.
In secondo luogo, si è osservato come la costruzione delle rispettive n. si sia posta più come un obiettivo che come un dato acquisito per gli Stati nazionali, specie se di recente formazione, in rapporto alla relativa esiguità dei gruppi sociali effettivamente partecipi di un sentire e di una cultura nazionali. In questo senso è entrata nel lessico storiografico l’espressione nazionalizzazione delle masse (G.L. Mosse; ma è già in A. Gramsci), con la quale si è inteso definire il processo di integrazione nazionale, operata mediante un largo ricorso a elementi simbolici, da parte delle élite politiche nei riguardi dei ceti popolari. Si è così attribuita la genesi della n. moderna all’esigenza, propria dei sistemi economici industriali, di agire in spazi geografici e umani più ampi e omogenei (i cosiddetti mercati nazionali), scorgendo nella n. il prodotto assai recente dell’incontro fra un messaggio ideologico e gli interessi di élite economico-sociali che in condizioni non nazionali avrebbero stentato a emergere. Viceversa, hanno trovato spazio le analisi che potremmo definire neoetniche, individuanti comunque all’origine della n. il prevalere di un nucleo etnico, via via ridisegnato, manipolato e reso più complesso da successivi e variabili apporti.
Altri studi sulla n. si sono focalizzati sulle due questioni – peraltro già ampiamente dibattute nel passato – del rapporto tra élite nazionali e masse popolari e del nesso d’integrazione tra n. e democrazia. È stato osservato come il risveglio delle n. dell’Europa dell’Est – e la conseguente spinta alla creazione di Stati nazionali – abbia seguito delle fasi relativamente costanti in un’area caratterizzata da una forte mescolanza etnica, e dalla presenza di élite intellettuali e sociali allogene, insediate nei centri urbani in posizione preminente. La scoperta e la rivalutazione di un patrimonio etnico conservato e tramandato dal mondo contadino, la formazione sul finire dell’Ottocento di un’élite nazionale abbastanza consistente in seguito all’avvio dello sviluppo economico, nonché la progressiva conquista delle città da parte di gruppi sociali provenienti dal retroterra agricolo, sono state individuate come le precondizioni del revival delle n. dell’Europa dell’Est, sempre accompagnato da conflitti di notevole intensità tra diverse entità etniche.
La questione è tornata d’attualità in relazione alla ripresa di spinte e fermenti nazionali su base etnica dopo una fase storica seguita alla Seconda guerra mondiale in cui la n. sembrò aver perso o ridotto, in Europa, il suo ruolo di generatrice di identità politica, a vantaggio di sistemi ideologici e istituzionali tendenzialmente universalistici (democrazia liberale, comunismo) o comunque sovranazionali (europeismo). Nella congiuntura determinata dal dissolvimento dell’amalgama ideologico e dei sistemi di potere costituiti dal comunismo, dal ripresentarsi di spinte etno-nazionaliste e di conflitti interetnici, dall’afflusso di immigrati extraeuropei, ci si interroga sulla possibilità, o addirittura sulla necessità, di recupero di un concetto di n., eventualmente ridefinito, che, facendo salvo il bisogno di identità e di lealtà collettive, non si traduca in particolarismi esclusivi in perenne competizione tra loro. Un passo in tale direzione può essere compiuto, sul piano teorico, facendo perno sulla distinzione tra n. intesa come èthnos, definita cioè dall’appartenenza culturale, linguistica ecc., e n. intesa come dèmos, vale a dire identificata dalla sfera della cittadinanza e dei conseguenti diritti-doveri, e fondata sul principio di lealismo alla Costituzione democratica. È facile però notare come i modi di mettere in rapporto le due accezioni risultino altamente controversi. Da un lato si colloca chi concepisce come sostanzialmente estranei, se non incompatibili, i sistemi di valore sottesi all’èthnos e quelli sottesi al dèmos, attribuendo al dèmos il compito di consentire l’abbandono di ogni riferimento politico ai contenuti etnici radicati nell’idea di Stato nazionale. Di altra opinione è chi ritiene che non possa considerarsi esaurita la funzione integratrice e produttrice di lealtà collettiva della n. etnica. Tale dibattito coinvolge in maniera evidente le ipotesi di integrazione politica europea e il ruolo delle n. – per quanto ridefinite dal punto di vista concettuale – nella costruzione di un’entità federale di dimensioni continentali.
Dal punto di vista giuridico-costituzionale, invece, la n. è la grande «invenzione» della Rivoluzione francese: essa, infatti, è il soggetto che consente di superare definitivamente, da un lato, la distinzione in ordini propria dell’antico regime, fondando un nuovo assetto politico, e, dall’altro, il dualismo tra sovranità del Monarca e sovranità popolare. L’idea di n. della Rivoluzione francese si lega strettamente alle teorie politico-costituzionali di J-E. Sieyès: è, infatti, quest’ultimo a identificare nazione e Terzo Stato, edificando così una nuova nozione di cittadinanza. Del pari, è sempre lo stesso Sieyès, in virtù dell’affermazione che la n. è l’unico soggetto sovrano, in quanto titolare del potere costituente, a promuovere la trasformazione degli Stati Generali in Assemblea nazionale costituente (Assemblea costituente), con il conseguente annullamento dei mandati imperativi conferiti ai delegati. È, infine, sempre Sieyès a teorizzare il legame tra la rappresentanza politica e la n.: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese del 1789 e la successiva Costituzione del 1791 sono l’attuazione di questa grande costruzione teorica, in cui la nazione, unico soggetto titolare della sovranità, delega l’esercizio del potere legislativo a un’assemblea monocamerale (Parlamento), il potere esecutivo al Re (Capo dello Stato) e ai suoi Ministri e il potere giudiziario a giudici elettivi (art. 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese del 1789; tit. III, artt. 1 ss., Cost. Francia 1791). In questo assetto, va detto che i deputati non rappresentano il loro collegio elettorale, ma la n. intera (tit. III, cap. I, sez. III, art. 7, Cost. Francia 1791), con espressione che si ritrova oggi all’art. 67 Cost.
La pluralità di significati del termine nazione emerge altresì nel testo della Costituzione italiana vigente. Secondo V. Crisafulli, ad esempio, n. è utilizzata per lo più come sinonimo di Stato e, più precisamente, di Stato-comunità o Stato-ordinamento (artt. 9, 16, 49, 87, 98, 120 Cost.) e in un solo caso come sinonimo di popolo (art. 67 Cost.). Al di fuori da questa summa divisio si colloca infine l’art. 51, co. 2, Cost., che, nel postulare l’esistenza di «italiani non appartenenti alla Repubblica» pare distinguere tra n. e Stato.