Raggruppamento di individui che presentano un insieme di caratteri fisici ereditari comuni. Nel caso dell’uomo, tali caratteri si riferiscono a caratteristiche somatiche (colore della pelle, tipo di capelli, forma del viso, del naso, degli occhi ecc.), indipendentemente da nazionalità, lingua, costumi, ma il concetto di r. umana è considerato destituito di validità scientifica, dacché l’antropologia fisica e l’evoluzionismo hanno dimostrato che non esistono gruppi razziali fissi o discontinui. Al contrario, i gruppi umani mutano e interagiscono continuamente, tanto che la moderna genetica di popolazioni (➔ popolazione) si focalizza su modelli di distribuzione di geni specifici anziché su categorie razziali create artificialmente.
In ambito zoologico si parla di r. nel caso di popolazioni di animali addomesticati sui quali l’uomo ha operato la selezione di caratteristiche genetiche peculiari. Negli animali non addomesticati, le popolazioni regionali differenti tra loro per alcune caratteristiche, dovute alla concentrazione di particolari geni come risultato di adattamenti alle condizioni ambientali, sono invece chiamate sottospecie.
Il concetto chiave di r. in senso moderno per indicare le divisioni tra gruppi umani fu usato per la prima volta nel 1684 dal medico e viaggiatore francese F. Bernier. La categoria fu usata prevalentemente ai fini di una classificazione scientifica dell’umanità. Nel 1735 C. Linneo utilizzò per la prima volta come criterio distintivo delle r. il colore della pelle, dividendo i gruppi umani in bianchi, rossi, gialli e neri. Il termine r. umana fu adottato dal naturalista G.-L. Buffon (Histoire naturelle de l’homme, 1749) per designare i gruppi «naturali» di individui, riconoscibili all’interno della specie umana, tra loro differenziabili sulla base di determinati caratteri morfologici. Se quella di classificazione dello spazio antropologico esterno e ‘diverso’ è stata un’esigenza costante delle culture umane e se l’adozione di criteri fisico-morfologici come base di tali classificazioni è stato un carattere altrettanto diffuso, è però solo in Occidente, e a partire dalla seconda metà del 18° sec., che con Buffon, appunto, e poi con J.F. Blumenbach e, soprattutto, con Linneo (1758) si impone l’esigenza di una classificazione sistematica, e su scala mondiale, delle r. che compongono la specie umana.
Nell’antropologia fisica classica del 19° sec. e dei primi decenni del 20°, si definiva infatti come r. umana un raggruppamento di individui che, in un dato momento della loro storia evolutiva, occupavano un dato territorio geografico, distinguendosi da altri gruppi per caratteristici valori medi e di frequenza di un insieme di caratteri antropologici (esterni, morfologici). Una r. veniva quindi identificata a partire dalla sovrapposizione di criteri diversi: sistematico-morfologici (il colore della pelle; la quantità di pigmento negli strati profondi dell’epidermide; il tipo dei capelli: lisci, più o meno ondulati, lanosi o crespi; la statura; la forma del cranio) e geografico-funzionali (la capacità dell’adattamento all’ambiente). A partire da tali definizioni di r. sono state elaborate diverse classificazioni di tipo razziale, che hanno costituito la base per gran parte delle analisi comparative in antropologia fisica e in etnologia. Tra gli studiosi che maggiormente contribuirono allo sviluppo dell’antropologia fisica ottocentesca, si ricordano L.A. Desmoulin, J. Deniker e G. Sergi. Nel 20° sec., invece, figure centrali sono state E. von Eickstedt, W.C. Boyd, C. Coon, S.M. Garn e J.B. Birdsell.
In Italia, nel 20° sec., la figura di maggiore rilievo è stata quella di R. Biasutti, al quale si deve l’elaborazione di uno dei più articolati tentativi di tipologia razziale sistematica. Tenendo conto della distribuzione geografica, delle affinità morfologiche tra le varie r., della loro arcaicità o del loro essere reputate recenti, e del metamorfismo culturale (cioè delle r. intermedie prodotte dall’incontro continuo di r. diverse), Biasutti riconosceva l’esistenza di cicli di forme razziali, a loro volta divisi in rami, e quindi in ceppi, r. e sottorazze. Per quanto elastica e articolata, la classificazione razziale proposta da Biasutti, come tutti gli altri tentativi di questo tipo appare, dal punto di vista dell’antropologia sociale e culturale contemporanea, priva di un reale valore conoscitivo.
La perdita di valore delle teorie basate sulle distinzioni razziali è da attribuirsi a svariati fenomeni. Molto importante è il radicale rinnovamento dei paradigmi conoscitivi della scienza antropologica, la cui origine va forse ricercata proprio nella critica del primo Novecento dei concetti di r. ed evoluzione operata negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia, i cui esiti portano a privilegiare la fluidità e il carattere interattivo di tutti i livelli di identità peculiari dei gruppi umani (➔ etnia). La sempre maggiore attenzione con la quale gli antropologi guardano alla storia e ai processi adattativi dei gruppi umani mostra in concreto come, sulla base della semplice conoscenza di poche centinaia di anni di storia di tutte le popolazioni, sia impossibile immaginare una processualità nella quale operino entità chiuse e discrete.
A partire da una tale diversa sensibilità, oltre al concetto ottocentesco di r., è quindi l’idea stessa di una classificazione razziale sistematica a rivelarsi insostenibile. Se, come tutte le tipologie, anche quelle razziali consentono indubbiamente una schematizzazione ordinata e, almeno in apparenza, arbitraria di un continuum (nel nostro caso quello umano), l’antropologia si interroga sulle logiche simboliche che soggiacciono alla scelta di determinati criteri razziali come criteri definenti una determinata classe; indaga le motivazioni ideologiche che hanno guidato la nascita e l’imporsi di un’esigenza di classificazione schematica e ordinata della diversità umana e l’ascrizione di un simile ordine al piano naturale. Riflette, da un punto di vista sociale e culturale, sulle implicazioni politiche, economiche ed esistenziali dei discorsi razziali e razzisti comuni nel mondo contemporaneo, e sull’uso (spesso inconsapevole) che di tali discorsi viene fatto nel senso comune e nelle pratiche quotidiane.
Soprattutto, però, su un piano più specifico, il concetto di r. ha subito una radicale riformulazione proprio da parte della moderna scienza biologica. Lo sviluppo di un’antropologia genetica che considera pertinenti, ai fini dell’analisi e della definizione delle r. umane, caratteri genetici, svincolati da un immediato rapporto con l’ambiente e legati ai complessi meccanismi della selezione sessuale, ha avuto come primo e immediato effetto quello di mostrare l’arbitrarietà di ogni principio generale di classificazione: le vicinanze razziali stabilite su base genetica differiscono, spesso in maniera radicale, da quelle elaborate a partire da criteri morfologici. Il concetto di r. così come viene riformulato su basi genetiche sembra corrispondere alle esigenze, proprie dell’antropologia culturale contemporanea, di ridefinire su basi storiche dinamiche, interattive e contestuali i piani di riferimento intorno ai quali si aggregano le identità dei gruppi umani.
Concezione fondata sul presupposto che esistano r. umane biologicamente e storicamente superiori ad altre r., il razzismo è anche alla base di una prassi politica volta, con discriminazioni e persecuzioni, a garantire la «purezza» e il predominio della «r. superiore».
Fin dall’Antichità molti popoli o gruppi sociali tesero a chiudersi agli altri, escludendo o discriminando i diversi, con un atteggiamento che si può definire xenofobo o etnocentrico più che razzista in senso proprio, essendo i fondamenti della presunta superiorità linguistici, culturali, religiosi più che esplicitamente biologici. Greci e Romani definivano barbari i popoli che non parlavano la loro lingua; l’Europa cristiana perseguitò e ghettizzò per secoli gli Ebrei, accusati dell’uccisione di Cristo. Una prima forma di razzismo biologico si presentò dopo la scoperta dell’America, per giustificare lo sfruttamento schiavistico di Indios e Africani deportati (➔ Afroamericani).
Il testo che diede un impulso decisivo alla diffusione delle idee razziste fu l’Essai sur l’inégalité des races humaines (1853-55) di J.-A. de Gobineau, che sostenne la superiorità biologica e spirituale della r. ariana germanica. Per H.S. Chamberlain (Die Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts, 1899) la storia era un’eterna lotta tra ariani, r. spiritualmente nobile, ed Ebrei, ignobili e meschini. L’antiebraismo religioso si era trasformato in antisemitismo (➔) razzista, diffuso in gran parte d’Europa. Anche l’evoluzionismo di C. Darwin fu strumentalizzato per cercare di avvalorare le tesi razziste, sostenendo che il dominio imperialistico sul mondo dimostrerebbe la superiorità biologica della r. bianca. Misurazioni antropometriche avrebbero dovuto rivelare la maggior intelligenza, vitalità e moralità della r. bianca e furono avanzate teorie eugenetiche che invitavano a preservare i caratteri migliori della razza. Negli USA, nonostante l’abolizione della schiavitù (1865), solo nel 1964 fu vietata ogni legge discriminatoria.
L’espressione più tragica del razzismo si ebbe nella Germania nazista, che cercò di realizzare la supremazia della r. ariana riducendo in schiavitù gli Slavi ed eliminando gli Ebrei (➔ shoah). Anche l’Italia fascista adottò leggi razziali (1938) e contribuì alla deportazione nei Lager degli Ebrei italiani. Nel dopoguerra, la decolonizzazione non impedì l’affermazione di regimi segregazionisti, come l’apartheid (➔) in Sudafrica, abolito solo nel 1990. In Europa e in Italia rigurgiti di razzismo si sono ripresentati con le massicce immigrazioni dai paesi più poveri e con la ripresa, negli anni 1990, di pratiche di pulizia etnica, che ha coinvolto Serbi, Croati e Albanesi del Kosovo.
L’ONU condannò il razzismo con la Dichiarazione sulla razza dell’UNESCO (1950) e con una Convenzione del 1965 che definì discriminazione razziale ogni differenza, esclusione e restrizione dalla parità dei diritti in base a r., colore della pelle e origini nazionali ed etniche. Nel 2000, il 21 marzo è stato proclamato giornata mondiale contro il razzismo.