Nazione
sommario: 1. Stato e nazione. 2. Le realtà nazionali nel mondo extraeuropeo: a) le Americhe e gli ex dominions britannici; b) l'area asiatica; c) l'Africa subsahariana; d) il mondo islamico. 3. Genesi ed evoluzione dell'idea nazionale. 4. I principali sviluppi contemporanei del modulo nazionale in Europa: a) Germania, ex Unione Sovietica e paesi dell'Est; b) il problema dell'unità nazionale nell'Europa occidentale; c) il caso italiano. 5. Prospettive. □ Bibliografia.
1. Stato e nazione
L'ultimo quarto del XX secolo ha confermato un dato, che, tra gli altri, era già emerso nella vicenda della nazione - sia come problema storiografico e teorico, sia come realtà ed esperienza della vita politica e civile - all'indomani della seconda guerra mondiale. Anche, se pur non esclusivamente, a causa dell'esito della guerra, lo Stato nazionale e il concetto stesso di nazione apparivano messi in questione proprio nella metà occidentale dell'Europa, ossia nella parte del mondo in cui erano nati e avevano conosciuto le prime e maggiori affermazioni. Qui essi erano stati consacrati a lungo - in pratica, in tutto il secolo e mezzo precedente - quale forma eminente e culminante nello sviluppo dei grandi paesi moderni, dei cui popoli apparivano segnare la maturità etico-politica e, in generale, civile. Nel dopoguerra, la nuova situazione e i nuovi equilibri geopolitici a livello planetario mostrarono subito che il primato mondiale dei paesi europei, avviatosi nel XVI secolo e giunto al suo apogeo agli inizi del XX secolo, era cessato sia dal punto di vista dell'economia, sia (anzi, ancor più) nella scala della potenza politica e militare. Quel che ancora ne sussisteva andò rapidamente sfaldandosi nel ventennio postbellico, con la dissoluzione - in parte pacifica, più spesso violenta - dei grandi imperi coloniali d'Inghilterra, Francia, Olanda, Belgio, Italia (più tardi anche Portogallo), con il primato economico e politico-militare sempre più evidente degli Stati Uniti d'America, con l'egemonia acquisita in tutta l'Europa orientale dall'Unione Sovietica, con l'assurgere di quest'ultima a unico paese europeo in grado di porsi in antagonismo con gli Stati Uniti e in alternativa e in competizione con essi nel nuovo equilibrio bipolare da cui era caratterizzato il mondo postbellico, ma sulla base di principî e interessi del tutto divergenti, se non opposti, rispetto alle dottrine e alle tradizioni dello Stato nazionale europeo.
L'eclisse del primato mondiale, facendo seguito ai problemi connessi alla genesi della guerra e ai suoi esiti, rafforzò una serie di opinioni negative sul fondamento nazionale della vita morale e civile dei paesi europei. Un'alternativa venne cercata, nella maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale, con l'avvio di un processo, via via più consistente e più deciso, di integrazione economica, e poi anche politica, in vista di un'unione europea variamente atteggiata nelle sue prospettive. E, tuttavia, da un lato, la struttura nazionale dello Stato e il connesso pensiero politico apparivano sempre meno in grado di riprendere vigore e aprirsi a nuovi orizzonti e davano, anzi, luogo a fenomeni di indebolimento sempre più vistosi; dall'altro lato, rivelavano una grande forza di inerzia e di più o meno passiva resistenza nel loro perdurare quale forma insurrogabile della geografia e della coscienza politica europea. Nello stesso tempo, inoltre, fuori dell'Europa sia i popoli e i paesi sottrattisi in tempi e in modi diversi al dominio coloniale europeo, sia quelli che a tale dominio non erano soggiaciuti si venivano, a loro volta, via via definendo come altre e nuove nazioni, rivendicando un'identità che nella massima parte dei casi poteva essere saldamente ancorata solo a idee e atteggiamenti propri dell'esperienza della nazione in Europa. Le eccezioni che si potevano notare (come qualche paese islamico, ma soprattutto la Cina comunista) non erano tali in tutto e per tutto. Donde il paradosso di un valore - la nazione - che appariva in crisi là dove era nato e si manteneva più consolidato e vigoreggiava, invece, altrove come grande o, comunque, pressoché inevitabile prospettiva e dimensione politico-civile di vecchi e nuovi paesi, di Stati di recente o meno recente indipendenza.
Nella varietà delle sue indicazioni questa vicenda incrociata di crisi, persistenza e fortuna del modulo nazionale sembra fornire un elemento orientativo di non piccolo significato, che potrebbe essere, sia pure un po' semplicisticamente, così riassunto: non sono (o non sarebbero) tanto le nazioni a dar luogo allo Stato nazionale quanto gli Stati a forgiare, se non a inventare, le nazioni.
Così, nella metà occidentale del continente europeo, la crisi dello Stato nazionale sembra provocare o consentire o irrobustire volontà o velleità secessionistiche o di profonda trasformazione della struttura statale in senso federale o confederale o, per lo meno, accentuatamente autonomistico (in Italia per la cosiddetta ‛Padania', in Inghilterra per Scozia e Galles, in Francia - se non altro - per la Corsica, in Spagna per la Catalogna e i Paesi Baschi, in Belgio per valloni e fiamminghi, in Iugoslavia per la scomposizione drammatica in serbi-croati-sloveni-bosniaci-macedoni, in Cecoslovacchia per la separazione della Slovacchia). Nell'insieme, in questa parte d'Europa il perdurare di fatto del quadro nazionale nella fisionomia assunta in ultimo tra XIX e XX secolo sembra, perciò, costituire la più forte ragione di persistenza di unità nazionali entro cornici statali non più sentite nella loro precedente, se non originaria, pregnanza (in Italia, ad esempio).
Fuori d'Europa gli Stati nuovi sorti nelle ex colonie europee si trovano per lo più a coprire, a loro volta, spazi geopolitici, il cui unico fondamento storico è costituito dai confini assunti da questi spazi quando furono ridotti alla condizione coloniale. A suo tempo ciò aveva prodotto i fenomeni più vari di aggregazione giurisdizionale e amministrativa, unendo o dividendo territori ed etnie (tribali e non tribali) secondo linee di confine tracciate unicamente dalle diplomazie, dalla forza militare e dalle convenienze dei paesi conquistatori. In linea generale i confini coloniali non hanno subito alterazioni col passaggio o il ritorno all'indipendenza delle popolazioni interessate. Si è visto allora che gli Stati nati dalla colonizzazione e dalla successiva decolonizzazione tendevano immediatamente a porsi non già come la risultante di fatto del processo testé accennato, bensì come l'espressione di corrispondenti e specifiche realtà etico-politiche e culturali, ossia come altrettanti Stati nazionali di ‛nazioni' prive di qualsiasi consistente base storica che non fosse quella della loro aggregazione nell'ambito di una colonia europea e per il periodo di durata della dominazione europea: ‛nazioni immaginarie', come qualcuno le ha definite. In questi casi, numerosi e spesso rilevanti, la paternità della pretesa o asserita o anche, magari, in qualche modo effettiva realtà nazionale nata dal passato coloniale e dalla decolonizzazione è comprensibilmente apparsa evidente, indisconoscibile.
Davvero, dunque, la filiazione Stato-nazione può essere considerata un elemento comprovato, in Europa e fuori d'Europa, dalle vicende del XX secolo al suo termine?
Il dubbio è più che lecito. E, innanzitutto, in Europa, fucina originaria - come si è detto - della nazione quale valore e quale realtà storica, tanto che la teoria della Staat-Nation, che a suo tempo vi fu affacciata, dovette contestualmente ricevere il complemento, sentito indispensabile, della teorizzazione parallela circa la Kultur-Nation. L'esperienza europea era, infatti, che la nazione aveva ovunque rappresentato la fase terminale di processi storici di lunga, addirittura millenaria durata. In qualche modo le grandi nazioni dell'Europa moderna potevano leggere i loro incunaboli già nella carta d'Europa intorno al Mille, se non addirittura in quella dei regni romano-germanici del VI e VII secolo. In alcuni casi (Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo, Olanda) la formazione dello Stato o di un embrione di Stato nazionale era stata sinergica e parallela rispetto al processo di formazione dell'identità genetica e strutturale dalla quale era definita la personalità (morale, culturale) della nazione. In altri casi (Italia, Germania) la formazione di uno Stato nazionale unitario era sopravvenuta molti secoli dopo lo sbocciare e il fiorire della personalità nazionale dal punto di vista morale e/o culturale. Anche, dunque, in questi casi in nessun modo si poteva dire che la nazione fosse una ‛invenzione politica', un caso fortuito, una costruzione puramente artificiosa e imposta, un prodotto dello Stato, una struttura soltanto e soprattutto politico-istituzionale nata dall'azione statale e, quindi, dei gruppi sociali e di potere che avevano realizzato, governato e dominato lo Stato artefice della nazione.
Per questa ragione alcuni sono ricorsi alla distinzione fra ‛nazionalità' e ‛nazione', indicando, col primo termine, gli elementi della personalità nazionale preesistenti e, col secondo, la realtà che la nazione viene a costituire allorché diventa protagonista consapevole e soggetto dello Stato nazionale. La stessa distinzione altri hanno più o meno fatto valere con l'uso di una terminologia diversa, ma equivalente. Il vantaggio che essa presenta è evidente. Di italiani e spagnoli, inglesi e francesi, tedeschi e portoghesi si parlava da secoli in Europa, e con dovizia crescente di determinazioni dai secoli XIV-XV in poi, ben prima, cioè, che i rispettivi Stati nazionali assumessero la fisionomia a suo tempo consolidatasi; e se ne parlava sapendo bene di che cosa si volesse parlare e di quali distinzioni si trattasse nella varietà di quei termini, prima che la ‛nazione sentita' si convertisse nella ‛nazione voluta', come è stato detto ancora con altre espressioni.
Il momento del passaggio dal ‛sentire' al ‛volere' è stato abbastanza concordemente indicato dalla storiografia europea nella congiuntura rivoluzionaria alla fine del XVIII secolo, quando il ‛popolo sovrano' si contrappose, come ‛nazione' appunto, alle monarchie e agli Stati in cui fino ad allora si era sentito più o meno convenientemente inquadrato. Di qui - si è fatto osservare - un legame intimo tra l'idea di nazione e quelle di libertà e di democrazia, oltre che una precocità e un primato della Francia in continuazione della sua precocità e del suo primato per il rapporto da essa realizzato tra nazionalità e Stato moderno.
L'esperienza successiva, tuttavia, avrebbe dimostrato che il nesso nazione-libertà-democrazia non era l'unico e non era definitivo. I movimenti nazionali si svilupparono nell'Europa della prima metà del XIX secolo sia per la sollecitazione rivoluzionaria francese, sia in opposizione ad essa. All'idea di nazione, in particolare, fu data in epoca romantica, insieme con la più completa definizione, una fisionomia che la poneva al di fuori e al di sopra del contesto illuministico e rivoluzionario del secolo precedente. L'eguaglianza fondamentale della natura umana fu negata a favore della specificità non solo storica, ma essenziale, costitutiva, inconfondibile di ciascuna nazione rispetto a tutte le altre. All'idea della nazione in quanto popolo sovrano subentrò quella della nazione in quanto entità di stirpe e di valori, che poteva riconoscere la legittimità e l'identità di qualsiasi altra nazione, ma non poteva dissolversi con esse nella generalità dei tratti propri e comuni a tutta l'umanità. Di qui anche il passaggio per cui si faceva precedere e prevalere la dimensione della nazione come stirpe rispetto a quella della nazione come insieme di valori, connettendo i valori e la stirpe in un rapporto, il cui ultimo sviluppo risolveva gli uni e l'altra nella petizione della razza intesa come organismo schiettamente e prioritariamente biologico. Di qui, inoltre, la rivendicazione di primati e missioni nazionali, la trasformazione dell'idea nazionale (secondo la terminologia italiana) in nazionalismo e l'approdo a un'aperta professione di imperialismo. Lo Stato rappresentava, in questa cangiante prospettiva, uno strumento dell'affermazione nazionale, che, tuttavia, poteva assumere, e assunse nel fatto e nell'idea fin troppo spesso, il carattere di un fine tanto autoreferenziato e autogiustificato da costituire esso, in effetti, il soggetto e il sovrano della realtà nazionale.
2. Le realtà nazionali nel mondo extraeuropeo
Quando si parla della filiazione Stato-nazione bisogna, quindi, aver chiari i complessi sviluppi attraverso i quali ciascuno degli Stati nazionali si è via via presentato alla ribalta della storia europea. E già, ad esempio, quanto si è detto mal si attaglierebbe all'esperienza dello Stato inglese, nel quale il nesso tra nazione e libertà si è determinato in tempi e in forme diverse da quelli delle esperienze continentali. A sua volta, quella specie di costola separatasi dalla nazione inglese che in origine furono gli Stati Uniti si organizzò su basi che in parte sommavano e in parte mediavano l'esperienza britannica e quella continentale. Vario, insomma, per il suo atteggiarsi già nell'area nucleare originaria dell'Europa occidentale e per il suo riflettersi e propagarsi nella restante Europa, il rapporto fra Stato e nazione è stato ancor più vario nella sua ulteriore proiezione a livello planetario. La forte sperequazione tra storia dell'Europa e storia del mondo extraeuropeo si esprime, per questa via, non meno - se non più - che per tante altre, così come la diversità tra la storia dell'Europa occidentale e quella dell'Europa orientale o tra storia inglese e storia continentale. Ma la priorità non solo ideale della nazione rispetto allo Stato sembra uscirne confermata appieno, nel caso europeo, senza disdire in nulla l'opposta esperienza del ruolo dello Stato nel mondo già coloniale dell'ultima parte del XX secolo.
a) Le Americhe e gli ex dominions britannici
Nell'America latina la ripartizione nazionale ebbe luogo in Brasile sulla doppia base di fatto del dominio portoghese e della conforme tradizione linguistico-culturale. Per l'amplissimo spazio ispano-americano tale doppia base non valse a evitare una frantumazione, che tuttavia appare fortemente stabile nella fisionomia assunta al più tardi agli inizi del XX secolo. Il principium individuationis delle nazioni ispano-americane risale anch'esso alla formazione di saldi poteri statali in ambiti delineatisi più nell'esperienza delle comuni vicende e del reciproco confronto che in base a elementi di più antica sedimentazione o a specificità del tutto particolari. Le nazioni vi appaiono figlie, in qualche modo, dell'indipendenza conquistata rispetto alla Spagna o rispetto all'una o all'altra di esse nel corso del XIX secolo, e legate al modello insurrezionale nordamericano nei confronti dell'Inghilterra, soprattutto per l'idea dell'indipendenza da rivendicare, e al modello nazionale europeo rivoluzionario e romantico dello stesso XIX secolo, per la loro ispirazione e organizzazione quali Stati indipendenti. I nessi tra la nuova personalità nazionale così acquisita e la storia precolombiana degli stessi paesi appaiono più che discutibili, e se ne pone, comunque, il problema solo nel caso del Messico e di alcuni paesi andini e centro-americani, poiché in tutto il resto dello spazio latino-americano quel che fino a Colombo si profila è una realtà di assai minore tradizione. Problematici sono anche i nessi tra la ripartizione nazionale attuale e le delimitazioni istituzionali e amministrative introdotte dalla conquista e dal lungo dominio spagnolo. La vitalità delle fisionomie nazionali che alla fine vi si sono affermate sembra, comunque, fuori discussione e un diverso assetto della carta dell'America Latina appare al chiudersi del XX secolo più che mai improbabile. Si tratta di una vitalità consolidata, inoltre, non solo da una durata ormai rispettabile, bensì anche, fra le esperienze a cui essa ha dato luogo, da quella particolare della grande immigrazione affluitavi fin oltre la metà del XX secolo. Né la rilevanza dei problemi costituiti da percentuali spesso altissime di popolazione di origine africana, né il ritorno alle ‛radici' caratteristico della terza o quarta generazione della più recente immigrazione europea, né i problemi posti a suo tempo dai rapporti fra creoli e altri gruppi bianchi, né i vari e disparati richiami al più o meno rilevante passato indio dei paesi che potevano vantarlo hanno impedito il formarsi di un forte calco nazionale, in cui i popoli latino-americani si riconoscono e che esibiscono come loro identità e come motivo di loro indiscutibile parità, su questo piano, con le più illustri nazioni d'Europa, sempre tenute a modello.
L'esperienza di una immigrazione torrenziale è stata fatta a lungo anche dagli Stati Uniti con caratteristiche, in generale, non dissimili da quelle dei paesi latino-americani, ma con intensità che appare, nel complesso, maggiore, facendo del melting-pot etnico un principio dichiarato della vita del paese nordamericano anche dopo che all'indiscriminato afflusso immigratorio si cercò, dall'indomani della prima guerra mondiale, di porre un argine ben definito. Nel caso degli Stati Uniti i problemi dell'immigrazione e, più in generale, i problemi etnici si inscrivevano in un contesto caratterizzato, con tratti molto più rilevati e determinanti, sia dalla già accennata fisionomia tanto inglese quanto europeo-continentale del processo e delle idee rivoluzionarie su cui il paese si è fondato, sia dalla presenza e dalla lunga persistenza dell'egemonia di un nucleo dirigente anglosassone e protestante solo parzialmente scalfita ancora nella seconda metà del XX secolo. Da questi tratti è derivata agli Stati Uniti la possibilità di esercitare, a loro volta, una suggestione di modello sia, come si è accennato, sulle nazioni latino-americane, sia, per la vitalità del loro ordinamento liberal-democratico (con una costituzione scritta ormai più che bicentenaria, la più antica e stabile del mondo), sui paesi dell'Occidente europeo e di altre parti del mondo.
Poco fondate si sono rivelate le previsioni ripetutamente affacciate di scarsa coesione intima di un tale conglomerato etnico-politico e di suoi rischi crescenti di tensioni dissolutrici o, comunque, disgreganti o destinate a sfociare in particolarismi paralizzanti e permanentemente conflittuali, per non parlare di veri e propri razzismi e connesse violenze. Maggiore importanza, comunque, sembra aver acquistato nella seconda metà del XX secolo l'immigrazione ispano-americana, fino al punto da far prevedere che lo spagnolo possa diventare, a più o meno lunga scadenza, la seconda lingua del paese, e non solo di fatto, né senza conseguenze ben al di là del piano linguistico. In realtà, però, un problema in parte nuovo e imprevisto anche per le dimensioni assunte sembra piuttosto l'immigrazione dai paesi asiatici, con la costituzione di minoranze di più difficile assimilazione. Ma, soprattutto, non pare che siano tanto i problemi etnici a profilarsi sull'orizzonte degli Stati Uniti, da questo punto di vista, quale fonte di una serie di interrogativi di non piccolo rilievo, quanto i problemi di ogni ordine connessi alla loro ascesa quale nazione imperiale che ha conseguito una primazia mondiale e quale nazione che prima e più di altre è andata e va sperimentando i problemi della società postindustriale. E dallo stesso punto di vista non sembra possibile dubitare che alla fine del XX secolo proprio gli Stati Uniti rappresentino il maggiore laboratorio, la più importante sperimentazione circa il presente e le prospettive della realtà e dell'idea nazionale. Ma su questo punto avremo modo di tornare più avanti.
Dallo stesso ambito coloniale inglese, ma in tempi e in modi del tutto diversi, uscì pure il vicino Canada, così come uscirono gli altri ex dominions d'Australia e di Nuova Zelanda, che hanno costituito, nel corso del XX secolo, Stati indipendenti, per quanto pur sempre vincolati all'Inghilterra dalla persona del sovrano e dalla perdurante appartenenza al Commonwealth britannico. A parte tutte le altre - molte e importanti - differenze rispetto agli Stati Uniti, si tratta in questi casi di realtà etico-politiche per le quali la definizione di britanniche rimane del tutto pertinente. In nessun modo sembra, però, possibile ritenerla esauriente. Una specificità nazionale canadese, australiana, neozelandese sembra, infatti, essersi affermata, nell'ambito britannico, non solo al di là di ogni possibile dubbio, ma anche in misura tale da autorizzare a parlare di una dimensione e di una fisionomia nazionale senz'altro cospicua e significativamente diversa dall'uno all'altro dei tre paesi. Considereremo più avanti il problema del Québec, che costituisce una questione di significato e di interesse non solo canadese. Per il resto la personalità nazionale sicuramente maturata in questi paesi appare confermata, fra l'altro, dalla difficoltà di parlarne nei puri e semplici termini di altrettante Nuove Inghilterre. Il confronto con la ben più robusta, originale e netta personalità nazionale assunta dagli Stati Uniti, nel corso, peraltro, di una storia del tutto diversa, non sarebbe pertinente, ma non riduce per nulla la portata della constatazione di cui si è detto. Sarebbe, semmai, da discutere se e quanto si sia delineata o vada delineandosi una gravitazione degli stessi paesi precisamente verso gli Stati Uniti, e se e quanto questa nuova gravitazione si affianchi o si sostituisca all'originaria e tradizionale gravitazione britannica o si fonda con essa: questione che, sia detto per inciso, interferisce con quella, non meno importante, relativa alla possibilità di parlare di un ambito e di una dimensione anglosassoni (un caso analogo si pone solo in misura molto minore, e solo per alcuni aspetti, nel mondo francofono già coloniale) come ambito e dimensione da considerare a sé fra gli altri (quello nazionale in primo luogo) della realtà etico-politica, oltre che culturale, del mondo contemporaneo.
Ancora nello spazio americano occorre rilevare il caso, sempre più frequente, di piccole entità, spesso insulari, che non possono vantare la consistenza degli antichi paesi coloniali di cui si è finora parlato e che hanno conseguito l'indipendenza e, quindi, la figura di Stati sovrani. Si tratta di un caso per il quale è ancora più difficile, di solito, ritrovare precedenti precoloniali giustificativi della loro figura statale postcoloniale, poiché prevale di gran lunga il dato di fatto per cui è stato appunto il dominio coloniale stesso (come si è già avuto l'occasione di notare) a costituirli come entità così determinate. Si pensi, per le Americhe, all'ex Guyana olandese, all'ex Guyana Britannica, ad Antigua e Barbuda, alle Bahamas, a Barbados, alla Giamaica, a Grenada, a Saint Kitts e Nevis, a Santa Lucia, a Trinidad: tutti diventati Stati indipendenti nella seconda metà del XX secolo e, a tale titolo, rappresentati (salvo qualche sporadica eccezione) alle Nazioni Unite. Il caso non è, peraltro, soltanto americano. Si pensi, nell'ambito dell'Oceania, a Kiribati (ex Isole Gilbert e altre), alle Figi, alle Marshall, alla Federazione della Micronesia, a Nauru, a Papua (Nuova Guinea), alle Salomone, a Samoa, a Tonga, a Tuvalu, a Vanuatu (Nuove Ebridi); nell'ambito dell'Africa alle Isole del Capo Verde, alle Comore, alla Guinea-Bissau, alla Guinea Equatoriale, a Mauritius, a San Tommaso e Principe, alle Seychelles; nell'ambito asiatico alle Maldive o a Singapore. L'elencazione è pressoché completa. Può essere discutibile se alcuni di questi nuovi Stati indipendenti vi debbano essere compresi, così come vi dovrebbero, invece, probabilmente rientrare alcuni paesi non menzionati. Il problema è, comunque, quello al quale si è accennato: basta l'indipendenza, basta una configurazione geografica spesso nettamente definita, basta una qualche particolarità etnica, bastano altri elementi a cui ci si potrebbe riferire perché si possa parlare di nuove nazioni? E, a voler considerare l'esigua dimensione geografica e demografica di tanti territori, è possibile parlare di essi come di ‛micro-nazioni' nello stesso senso in cui, in qualche modo, è possibile farlo per piccolissimi paesi europei come Andorra e il Liechtenstein, Monaco e San Marino?
Si ripropone qui il problema più generale, pregiudiziale, a cui si è accennato: se cioè il modulo nazionale sia applicabile, riscontrabile, evidente o tendenziale anche nell'ambito extraeuropeo. La cosa appare, come si è detto, fuori di ogni ragionevole dubbio per la massima parte dell'ambito americano di cui si è finora parlato, sia pure con le caratteristiche specifiche e problematiche a suo luogo notate. Per i piccoli e nuovi Stati ai quali testé ci si riferiva la cosa è, invece, largamente incerta. Si tratta, naturalmente, di situazioni molto diverse fra loro, qui accomunate solo in ragione del problema di cui si discute. Appare perciò ragionevole rinviare a un esame specifico caso per caso, che riscontri in quale misura si tratti di realtà di fatto la cui consistenza civile sia da riportare al dato puro e semplice della loro indipendenza e sovranità, oppure si tratti di realtà etico-politiche effettive dal profilo particolare e, eventualmente, nazionale.
b) L'area asiatica
Nel caso di paesi di grande rilievo come la Cina e il Giappone, la loro realtà moderna è proceduta da storie antichissime, dense di valori etnici e civili, fra i più notevoli dell'esperienza storica in materia. Nel caso del Giappone ciò è avvenuto senza passare per periodi di dominazione straniera. Nel caso della Cina si è avuto l'insediamento di dinastie straniere sul trono imperiale, come in seguito si è avuta la riduzione a paese di limitata sovranità rispetto alle grandi potenze occidentali e si è subito il tentativo giapponese di conquista, largamente riuscito, fra il 1937 e il 1945. Né queste traversie della Cina, né la rapida occidentalizzazione degli ordinamenti e dell'economia giapponese dal 1868 in poi hanno, comunque, turbato la personalità propria dei due paesi, espressa nell'orgogliosa coscienza cinese di costituire l' ‛impero di mezzo', ossia il centro del mondo, e nel non meno orgoglioso senso giapponese della propria individualità etnica e civile di paese del Sol Levante.
La vastissima letteratura sull'argomento è tutt'altro che concorde nella valutazione. Sembra, tuttavia, potersene dedurre che né in un caso, né nell'altro si possa parlare di un ethos nazionale come per i paesi europei nei tratti sopra illustrati. La coscienza imperiale cinese sembra proporre un pendant orientale di alcuni modelli imperiali antichi, un quid medium, fatte tutte le debite e profonde differenze, fra quello degli imperi mesopotamici e partici e quello della romanitas nel suo momento culminante, oppure qualcosa di vagamente analogo, fatte sempre le differenze dovute, alla proiezione imperiale russa fino ai tempi più maturi dello zarismo. Per il Giappone si può pensare, in termini altrettanto elastici e assai generali, a certi tipi di monarchie assolutistico-feudali dell'Europa medievale e moderna. È probabile che si debba pure ravvisare in queste dimensioni etico-politiche una delle ragioni principali della scarsa resistenza che alla penetrazione della civiltà occidentale poterono opporre, sia pure nelle forme così diverse a cui si è accennato, tanto la Cina quanto il Giappone. Indubbia è, comunque, la persistenza in entrambi i paesi di mentalità e atteggiamenti connessi a tali dimensioni etico-politiche tradizionali nonostante il processo di occidentalizzazione molto avanzato. Solo nel corso del XX secolo, e in particolare nella seconda metà, l'occidentalizzazione sembra aver fatto effettivamente breccia nell'organismo etico-politico dei due grandi paesi. Particolarmente precoce, nonostante le apparenze, sembra essere stata la Cina, con la formazione di movimenti politici e sociali come il Kuo-Min-Tang e il Partito Comunista Cinese, mentre in Giappone la maturazione, che pure vi fu, di forze politiche liberal-democratiche e socialiste risultò assai lenta e non impedì che una versione nazionalistica e militaristica delle antiche e assai vive tradizioni etico-politiche del paese ne sorreggesse l'imperialismo e le fortune fino alla seconda guerra mondiale.
Questo raccordo tra modernità occidentale e tradizionalismo nipponico sarebbe, secondo molti, anche alla base dell'ascesa del Giappone a seconda o terza potenza economica mondiale. Uno stacco nettissimo rispetto alla tradizione intese, invece, segnare in Cina l'avvento del regime comunista nel 1949; e lo stacco divenne poi radicale quando, una ventina di anni dopo, si ebbe la ‛rivoluzione culturale'. Comunque sia, l'ideologia comunista mantenne l'asse del paese molto legato, da questo punto di vista, alla professione di fede internazionalistica e classistica del marxismo, considerato, pur nel sensibile mutamento della politica economica e sociale nell'ultimo ventennio del XX secolo, come una sorta di religione politica ufficiale. Per questa ragione sembrerebbe, quindi, in ultima analisi, che sia il Giappone a far registrare una assimilazione maggiore al modello occidentale dal punto di vista che qui ci interessa. Ma è preferibile pensare che entrambi i paesi continuino ancora quell'ardua simbiosi di tradizione autoctona e di innovazione moderna in cui pare racchiudersi il senso della loro vicenda nel XIX e nel XX secolo. Elementi cospicui del modulo nazionale europeo, più forti in Giappone, possono essere facilmente riconosciuti nella loro fisionomia contemporanea. Nello stesso tempo appare altrettanto riconoscibile che anche una più piena o la più piena realizzazione possibile di quel modulo porterà sempre il segno di una sua versione particolare, ben diverso da quella sostanziale omologazione alla sua versione europea nei casi delle Americhe e dell'Oceania esaminati in precedenza.
Ancor più complesso appare il caso dell'altro grande paese di questa parte del mondo, cioè dell'India. Per esso forse ancor più che per altri paesi si può dire che la sua delineazione come Stato indipendente (dal 1947) sia derivata dalla conquista europea. Nessuna delle molte realtà imperiali che vi erano fiorite in precedenza ebbe la sua stessa configurazione odierna, che a nessuna di esse può essere in qualsiasi modo riportata. La singolarità indiana deriva inoltre dal fatto che i confini attuali del paese furono a suo tempo fissati sulla base di un criterio religioso, ossia sulla bipartizione del grande Impero indiano costruito dagli inglesi nel XVIII e nel XIX secolo in un'area indù e in un'area musulmana. Anche così, il nuovo Stato indiano appare lontano dal presentare un alto grado di coesione. La divisione federale in 25 Stati e 7 territori è, da questo punto di vista, molto più di una struttura eminentemente istituzionale, come, ad esempio, nel caso degli Stati Uniti d'America. Per di più, mentre nell'India musulmana le minoranze indù rimastevi sono di scarsa consistenza, nell'India indù è rimasta una minoranza musulmana cospicua: oltre il 10% della popolazione, per un ammontare, a cinquant'anni dall'indipendenza, prossimo ai 100 milioni di persone. Il che induce, fra l'altro, a sottolineare per l'India indipendente l'ampiezza gigantesca della dimensione demografica, ossia un tratto che nel mondo contemporaneo è offerto, in misura invero ancora superiore, soltanto dalla Cina. In Cina, però, tra la dimensione demografica e la complessiva fisionomia politica del paese non si può dire che vi sia una divaricazione apprezzabile. A parte le sue distinzioni interne, l'etnia cinese vi ha realizzato nel corso del tempo una sinizzazione talmente ampia e profonda delle popolazioni comprese nell'area della sua espansione da ridurre l'insieme delle molte minoranze etniche rimaste a uno scarso 7% della popolazione alla fine del XX secolo, con effetti corrispondenti sulle lingue che vi sono parlate. Altrettanto non può assolutamente dirsi dell'India, dove la lingua ufficiale del paese (hindi) è parlata da meno del 25% della popolazione e la stessa prevalenza religiosa indù - sulla cui base si è fondata, come si è detto, la configurazione del paese nel momento del passaggio all'indipendenza - non eccede l'80% della sua popolazione.
Queste ragioni potevano già valere a rendere assai problematica la prospettiva del nuovo Stato quando si costituì. I problemi erano resi, però, assai più complessi da vari altri elementi. Alcuni di essi (una soglia di povertà e di sottosviluppo tra le più basse del mondo, un tasso di crescita demografico tra i più alti del mondo e tale da vanificare largamente i criteri e gli effetti di qualsiasi politica di sviluppo) erano comuni a molti paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Altri, non meno gravi, erano specifici dell'India: l'esiguità della classe dirigente dello Stato indipendente e la disparità delle sue idee di modernizzazione rispetto alla base socio-culturale nel paese; il perdurante regime di una stratificazione sociale in caste dagli effetti assai negativi pressoché da ogni punto di vista; le complicazioni provocate da particolari pregiudizi religiosi (quale quello relativo alla sacralità degli animali, ivi compresi i più necessari allo sviluppo agrario); la sistemazione da dare ai molti sovrani locali che la politica inglese aveva lasciato sussistere quali vassalli e clienti; la difficoltà di conservare e tradurre nei fatti la scelta originaria del regime liberal-democratico in un paese dominato da un pauroso analfabetismo, oltre che da tanti pregiudizi; la parallela difficoltà di armonizzare questa scelta con le forti tendenze socialisteggianti della classe di governo insediatasi al potere al momento dell'indipendenza in un paese tanto arretrato.
In cinquant'anni di indipendenza l'India comunque ha mantenuto, sia pure non senza momenti di crisi e di tensione anche gravi, il suo regime liberal-democratico, con una dimostrazione di coerenza etico-politica della classe dirigente che ha ben pochi riscontri in tutti gli altri paesi del Terzo Mondo e che ha imposto un confronto assai favorevole con l'altro e vicino paese di eguali dimensioni, nel quale la scelta di regime è stata precisamente opposta. Alla stabilità e all'apertura del regime liberal-democratico appare, inoltre, connesso il sempre più chiaro delinearsi di ‛una certa idea dell'India', che allo Stato nato nel 1947 ha dato una consistenza di struttura anche morale in tempi, tutto sommato, più rapidi di quelli allora prevedibili. Il contenzioso col Pakistan per i territori di confine del Kashmir e poi per la separazione del Bengala dallo Stato musulmano pakistano in cui dapprima era stato compreso, un confronto costante (militare in qualche momento) con la Cina, la parte giocata nella politica di non allineamento dei paesi del Terzo Mondo, la liquidazione di qualche residuo coloniale e altri elementi hanno consolidato l'autocoscienza politica del paese, il suo senso di sé e dei suoi possibili maggiori destini di ‛grande' del mondo contemporaneo. È, tuttavia, particolarmente arduo giudicare se questa realtà della politica mondiale così cospicua e nuova - rispetto al Giappone e alla Cina - sia connotabile in termini propriamente nazionali. Alcune delle considerazioni che abbiamo fatto per gli altri due maggiori paesi asiatici valgono, evidentemente, anche per essa. Per altri aspetti, invece, l'India manifesta particolarità e originalità inconfondibili. Il paese può essere, in effetti, ritenuto più di altri protagonista di un'evoluzione, il cui senso anche dal punto di vista della nazionalità attende di essere chiarito dal tempo. Ma già è del tutto evidente che una nazione indiana in qualche modo è ormai nata e con un suo tratto caratterizzante non inferiore a quelli rilevabili, nei rispettivi modi, per la Cina e per il Giappone.
Non sembra costituire un problema apprezzabile, in questo quadro, la questione di Taiwan, frammento della Cina che si considera, per una petizione ideologica ben comprensibile, se non la sola Cina, certo la Cina più autentica. Dopo mezzo secolo di esistenza autonoma non si può dire che vi si sia configurata un'altra e diversa nazione cinese. Pur essendo imprevedibile un suo assorbimento da parte della Cina comunista, e data la sua condizione, appunto, di frammento non riconosciuto come vera Cina nelle relazioni internazionali (Hong Kong è stata, ad esempio, restituita dagli inglesi e Macao lo sarà dai portoghesi a Pechino e non a essa), Taiwan appare, in effetti, come un caso isolato. Anche, probabilmente, per una incidenza diversa, se non maggiore, che, per tali condizioni, vi ha assunto il processo di occidentalizzazione comune a tanta parte dell'Asia, lo sviluppo dell'isola dal punto di vista che qui interessa non sembra, quindi, suscettibile di grandi risonanze. Nel caso, invece, degli altri paesi dell'area - dalla Mongolia alle due Coree, ai tre paesi (Vietnam, Laos e Cambogia) in cui si è divisa l'Indocina francese, alle Filippine, alla Thailandia e fino allo spazio, più o meno indiano, della Birmania, dello Sri Lanka, del Bhutan, del Nepal - i processi in corso appaiono molto complessi, molto diversificati e di grande interesse.
Le due Coree rappresentano peraltro, a loro volta, un'area in cui la contrapposizione di regime, oltre che politica, fra le due parti di uno stesso paese dà luogo a una situazione da riportare, per analogia, piuttosto a quella europea delle due Germanie fino al 1990 che a quella asiatica delle due Cine. Più difficile è dire se, in tale contesto, la Corea del Sud rappresenti o possa rappresentare nei confronti di quella del Nord la parte della Germania Occidentale in Europa. La Corea, nel suo complesso, al pari degli altri paesi sopra menzionati, corrisponde a un'area di antica personalità storica e culturale, non annullata dalla lunga dominazione, anche culturale, giapponese (lo stesso è accaduto per il dominio inglese o francese altrove). In forme diverse vi si può ravvisare, perciò, una linea evolutiva generalmente analoga a quella della Cina e del Giappone. Per le Filippine una corrispondente personalità appare determinata dalla molto più lunga dominazione coloniale spagnola, dal mezzo secolo e più di dominio americano, dalla grandissima prevalenza della professione religiosa cattolica e da qualche altro importante elemento. Il caso del Vietnam appare legato alla sua lunga lotta per l'indipendenza e per l'unità, che negli anni cinquanta aveva portato a una situazione analoga a quella delle due Coree e proseguì poi fino agli anni settanta. La parte giocata in essa dal Nord del paese ha dato luogo a una certa prevaricazione sul Sud. Non meno che in Cina appare, inoltre, in evoluzione la fisionomia comunista del regime, ma neppure sembra che ciò abbia rilanciato le antiche tradizioni del paese, che appare quindi, sul piano politico, come una realtà piuttosto nuova. Il che si può ripetere, con le variazioni del caso, anche per gli altri paesi del gruppo al quale qui ci riferiamo, tranne qualche caso di antiche monarchie come la Thailandia e il Nepal. Nel complesso, perciò, sembra possibile affermare che, nella ripetutamente sottolineata varietà delle forme assunte dai singoli processi evolutivi propri di ciascun paese, anche in questi casi non si possa parlare di un vero e proprio modulo nazionale nel senso sopra indicato se non in relazione mediata e simbiotica con le forti tradizioni e la più o meno pronunciata, ma sempre evidente individualità storica e culturale di paesi di antica civiltà; e che, tuttavia, una linea evolutiva in tal senso è altrettanto evidente a livello non solo immediato e spontaneo, bensì anche, in qualche modo, riflesso e voluto.
c) L'Africa subsahariana
Quanto all'area africana subsahariana, ridurla a una qualche unità di considerazione è davvero più difficile che altrove. Si dirà a parte, come per l'Asia, dei paesi islamici almeno in maggioranza. In ogni caso, è soprattutto per quest'area che vale la considerazione fatta a suo luogo, per cui l'assetto geopolitico ha finito col corrispondere all'assetto coloniale anteriore alla seconda guerra mondiale ben più che a sedimentate tradizioni e individualità etnico-culturali. La vita interna agitatissima dei paesi dell'area è in gran parte condizionata da tale circostanza, che spiega l'irriducibile conflittualità alimentata da convivenze ed equilibri o squilibri tribali ed etnici coattivamente compressi in confini statali il più delle volte del tutto artificiosi. In alcuni casi (Ruanda, Nigeria, Zanzibar ecc.) si sono avuti, perciò, guerre, massacri, genocidi di una violenza molto superiore agli orrori, a suo tempo giustamente denunciati, dell'epoca coloniale. Pochi sono stati, tuttavia, i casi di rottura delle unità statali formate al momento della decolonizzazione. Di buon grado o no, fra le più gravi violenze e traversie, il quadro geopolitico coloniale del 1939 ha sostanzialmente resistito. Anzi, in rapporto con la notata tenuità delle tradizioni precoloniali le ex colonie hanno trovato fin troppo spesso nell'inglese e nel francese, ben più di quanto è accaduto in altre parti del mondo, la loro lingua d'uso non solo nelle relazioni con l'esterno. Il passaggio spesso effettuato dalle denominazioni coloniali a denominazioni antiche di territori, di genti, di ‛imperi' o di altre realtà politiche quasi mai ha potuto coincidere con connotazioni vive e attuali delle popolazioni interessate. Più spesso questo pur significativo rinnegamento dell'identità assunta con la riduzione a colonia europea è apparso riferibile solo a qualcuna o ad alcune delle genti oppure dei territori costituenti i singoli domini coloniali oppure, all'inverso, ad ambiti territoriali ed etnici più ampi: il Mali, il Ghana, lo Zimbawe, il Benin, il Burkina Faso, il Malawi ne forniscono vari esempi. In qualche caso ciò ha comportato l'abbandono di un nome coloniale anch'esso antico, come quello di Dahomey per il Benin. Altrettanto era accaduto per il Congo, già belga, nel 1972, con l'adozione del nome Zaire, dal quale, però, nel 1997 si è tornati a quello coloniale, a conferma della estrema problematicità di connessioni organiche tra la realtà dei nuovi Stati indipendenti postcoloniali e quella del loro passato (e a conferma, si potrebbe aggiungere, che, in assenza di altri elementi dirimenti, l'assetto coloniale del territorio aveva comunque determinato, malgrado il suo carattere di imposizione dei conquistatori e di organizzazione quasi solo puramente di fatto di cui si è detto, una realtà di aggregazioni non più arbitrarie di altre possibili).
Varie situazioni appaiono, comunque, meglio definite. Così la Liberia, dove la nota genesi dello Stato dall'iniziativa umanitaria americana antischiavistica nella prima metà del XIX secolo ha dato luogo alla lunga accumulazione di una propria tradizione di indipendenza, anche se alla fine del XX secolo il paese è apparso egualmente agitato da una sanguinosa e caotica guerra civile. Così, ben di più, l'Abissinia o Etiopia, paese di antica tradizione cristiana e, già prima, di sicuri rapporti col mondo mediterraneo orientale, e in particolare con quello ebraico; e paese, inoltre, di costante indipendenza intorno al nucleo formato in epoca precristiana molto remota dal regno che aveva il suo centro ad Aksum, e tenace nel mantenere la propria indipendenza, malgrado i brevi periodi di dominazione arabo-musulmana nel XVI secolo e italiana nel XX secolo. Il titolo di ‛re dei re' (negus neghesti) portato dal sovrano non solo sembra richiamare analoghe denominazioni sovrane del Vicino Oriente arabo-mesopotamico del quale risulta l'apporto (anche demografico e linguistico) alla formazione dello Stato e della tradizione etiopica, ma indica, peraltro, che la stessa Etiopia si è riconosciuta come aggregazione di varie genti intorno al nucleo amarico e scioano che vi ha costantemente prevalso. A ogni modo, l'autonomia ecclesiastica e dottrinaria del cristianesimo abissino e il lungo ordinamento imperiale del paese hanno fatto dell'Etiopia quanto di più simile si può ritrovare in Africa - se non a una nazione - almeno, nel senso sopra chiarito, a una nazionalità europea. La diversità rimane, come è appena necessario notare. Ma già sembra avere una sua importanza il fatto che il passaggio dall'impero alla repubblica non abbia segnato alcuna attenuazione o radicale modificazione della personalità storica del paese. Lo sforzo di annettere l'Eritrea è fallito, ma i territori somali e musulmani dell'Ogaden, rivendicati da Mogadiscio con una guerra sanguinosa alla quale sembrò da principio che Addis Abeba non potesse resistere, sono stati mantenuti. L'Etiopia rimane perciò, alla fine del XX secolo, nella sua storica fisionomia di spazio tradizionale e autonomo, caratterizzato dal predominio amarico e dalla forte dialettica che ne scaturisce rispetto alla molteplicità delle genti e delle culture raccolte nel suo ambito.
Negli altri grandi paesi africani - Nigeria, Kenya, Congo, Tanzania (unione di Tanganica e di Zanzibar), Angola, Mozambico, Zambia, Zimbawe, Madagascar ecc. - e in quelli meno estesi e/o meno popolati dell'area subsahariana i problemi di omologazione culturale e di effettiva aggregazione politica, ai quali ci si è più volte richiamati, restano tutti aperti e appaiono a uno stadio evolutivo alquanto vario, ma ovunque ancora troppo fluido per tentare osservazioni e definizioni più stringenti delle considerazioni che abbiamo finora avanzato. Indubbia è però, ovunque, la tendenza all'assunzione di una fisionomia propria, specifica, di ordine non soltanto etnico o etno-culturale, ma anche concretamente e robustamente etico-politico, superando stratificazioni e condizionamenti del passato precoloniale e coloniale che appaiono a volte paralizzanti (e complicati, fra l'altro, da equilibri molto incerti anche sul piano religioso per il ricorrente incrociarsi di Islam, cristianesimo e animismo in proporzioni rispettivamente molto consistenti). Di nuove ‛nazioni' africane per lo più non sembra possibile parlare, o almeno non ancora. Appare, tuttavia, contemporaneamente difficile, per non dire improbabile, che lo sviluppo etico-politico, per quanto travagliatissimo, dei paesi in questione non porti in una direzione più o meno nazionale secondo il modello europeo o di equivalente, benché diversa, natura e consistenza.
Un posto del tutto a sé occupa, nel quadro non soltanto del Continente Nero, l'Unione Sudafricana. In Algeria e nella Rhodesia del Sud (poi Zimbawe), dove il problema più si poneva, una comunità di bianchi e di indigeni si è rivelata subito di impossibile realizzazione già dal momento dell'indipendenza. Nel Sudafrica, invece, dopo il lungo periodo dell'apartheid razziale e del monopolio del potere da parte dei bianchi è appunto alla convivenza istituzionale fra bianchi e neri che si è finito col giungere. Sono stati esclusi dall'Unione i territori che vi rappresentavano zone distinte di autonomia e che hanno costituito Stati indipendenti (Namibia, Botswana, Lesotho e Swaziland), con caratteri variamente analoghi a quelli degli altri Stati africani di cui si è parlato. L'Unione Sudafricana, perciò, si è trovata ad avere, intorno al 1990, una popolazione negra per il 75%, bianca per il 13%, mista per il 9%, asiatica per il 3%. Il problema di fondo rimane sempre quello della posizione dei bianchi e della loro possibilità di convivere durevolmente secondo le loro esigenze e le loro tradizioni, ma anche secondo esigenze e dimensioni altrui in un sinecismo multirazziale, che li vede in netta minoranza numerica e, insieme, in posizione economica, culturale e sociale eminente. Il problema è, inoltre, complicato dal fatto che la minoranza bianca comprende due componenti, quella di origine olandese (afrikaans) e quella di origine inglese, la prima delle quali si è, per di più, insediata nel paese molto prima di quasi tutte le altre componenti etniche che vi sono oggi presenti (gli Afrikaners, o boeri, vi arrivarono, infatti, fin dalla metà del XVII secolo). Infine, il tasso di accrescimento demografico delle varie componenti differisce non poco ed è fortemente favorevole alla popolazione di colore.
In conseguenza di questa serie di elementi, anche a prescindere da altri di non trascurabile importanza, l'Unione si presenta come un laboratorio storico di straordinario interesse dal punto di vista qui trattato. Neppure ai tempi della sua appartenenza alla Corona britannica (in qualità, peraltro, di paese indipendente fin dal 1910) essa presentava una struttura davvero unitaria, poiché tra la componente inglese e quella afrikaans della popolazione bianca (il solo soggetto politico, allora, del paese) permanevano tensioni e risentimenti irrisolti. Successivamente una divisione altrettanto importante si è avuta tra avversari (per lo più oriundi britannici) e fautori dell'apartheid, che vide prevalere questi ultimi e portò già nel 1961 alla secessione dal Commonwealth britannico e alla proclamazione della repubblica. Superato alla fine del 1993 il regime dell'apartheid ed entrata in vigore nell'aprile 1994 una costituzione fondata sulla completa parità dei diritti politici dell'intera popolazione senza discriminazioni etniche, si è avviata così la fase di sperimentazione di quel sinecismo arduo e senza veri e propri equivalenti nel mondo contemporaneo di cui si è detto. Va aggiunto, inoltre, che alle divisioni e tensioni politiche e culturali (nonché religiose, per la diversità, e in parte la competizione, tra protestanti, largamente prevalenti, e cattolici, con forti ripercussioni anche sul piano politico) si accompagnano divisioni e tensioni per nulla minori tra la popolazione negra, sfociate già prima della fine dell'apartheid in gravi e sanguinosi conflitti sia di ordine tribale ed etnico che di altra natura.
Si riflette in ciò la storia del paese, singolare per la popolazione di colore forse ancor più che per quella bianca. Il gruppo degli Zulu, che ha finito col prevalere, rappresenta, infatti, un elemento conquistatore e dominatore penetrato nel paese nel corso del XIX secolo e impostosi ai locali Boscimani e Ottentotti, etnie indigene originarie, oggi praticamente scomparse. Gli Zulu sono, peraltro, l'etnia dominante anche fra le altre del loro stesso gruppo linguistico bantu, con le quali tensioni e contrasti non sono minori. La violenza manifestata in questi conflitti (e tra gli Zulu non meno che tra essi e le altre genti negre) assimila i problemi di queste genti a quelli degli altri paesi africani, della cui spesso lacerante conflittualità etnica si è detto. Conflittualità etnica qui accresciuta dal fatto che per nulla trascurabili sono pure le altre componenti della popolazione sud-africana, quella mista e, ancor più, quella asiatica (indiani e cinesi, numerosi specialmente i primi, molto attivi in alcuni settori, come ad esempio il commercio, e molto consapevoli: fra gli indiani sudafricani, richiamati colà dalla forte valorizzazione economica del paese dopo la conquista britannica ai primi del secolo XX, iniziò la sua carriera politica - e il ricordo ha perciò un suo valore simbolico - il futuro mahātmā Gandhi).
Il Sudafrica ha però tesoreggiato certamente anche l'esperienza di oltre mezzo secolo di intensi rapporti con Londra, che sembrano avervi lasciato l'eredità di una educazione politica i cui frutti, come nel caso dell'India, non dovrebbero andare del tutto dispersi ai fini di un disciplinamento istituzionale delle tensioni politiche e sociali. Si avrà modo, comunque, di vederlo meglio da quando nel 1999 cesserà di valere la Costituzione in vigore dal 1994. Potrà nascere una effettiva comunità etico-politica multietnica, e in particolare di bianchi e di neri? Potrà questa comunità assumere tratti ‛nazionali', sia pure con tutte le peculiarità e differenziazioni proprie del modulo nazionale fuori dell'Occidente europeo e americano? Potrà l'arduo sinecismo in corso di sperimentazione superare non solo i contrasti e la conflittualità all'interno di ciascuna delle sue componenti, e in particolare di quella negra, ma anche eventuali tentazioni reazionarie o, almeno, particolaristiche fra i bianchi ed eventuali radicalizzazioni in vista di comprensibili aspirazioni alla promozione e al progresso economico e sociale fra i neri, che rappresentano la parte più povera da ogni punto di vista e, come si è detto, demograficamente più dinamica? Potrà riprendere attualità il disegno, brevemente affacciato per un certo tempo, e di discutibile fondamento, di una separazione territoriale fra bianchi e neri, se non di una separazione statale piena fra le due componenti? Sono appunto questi gli interrogativi di una storia dalle prospettive inedite e problematiche, che danno al caso del Sudafrica il sopra accennato e straordinario interesse di grande laboratorio del mondo contemporaneo.
d) Il mondo islamico
Una individualità assai netta presenta, e non solo al confronto con la realtà africana, il mondo islamico. La sua individualità deriva, infatti, dalla interferenza profonda che, diversamente da ogni ambito del mondo contemporaneo, vi permane, con tendenza anzi a crescere, fra identità etno-politica e identità religiosa. Per questa interferenza l'Islam si è posto nella seconda metà del XX secolo come il problema di maggiore spessore, specialmente dopo la grande eclisse del marxismo e dei tanti regimi che a esso si riferivano nell'Europa orientale e altrove, dal punto di vista degli equilibri e della loro garanzia in gran parte del mondo e, per certi aspetti, addirittura a livello planetario. La questione israelo-palestinese e la decolonizzazione, accompagnate dalla contemporanea radicalizzazione della lotta politica e sociale nei paesi islamici, avevano già fatto emergere ciò in notevole misura, al più tardi negli anni sessanta. In seguito il diffondersi di un fondamentalismo di imprevista virulenza lo ha fortemente accentuato e ha dato luogo a momenti ed episodi tra i più laceranti e crudi dell'ultimo quarto del XX secolo. Anche per l'Islam, tuttavia, converrà tener conto della grande diversità dei modi della sua vicenda nel mondo contemporaneo. Se infatti è impossibile ignorare la sua dimensione unitaria, ancora più impossibile è ridurre a essa la sua storica, antica, radicatissima articolazione in una estrema, differenziata e assai spesso contrapposta varietà di paesi e di genti, di tradizioni e di culture, di risorse e di interessi profondamente diversi tra loro.
Nell'Asia meridionale, dall'Afghanistan alla Malaysia e all'Indonesia, l'Islam ha operato vistosamente. Prima la divisione tra India e Pakistan e poi quella tra Pakistan e Bangla Desh, l'eliminazione del movimeno comunista dall'Indonesia, la fiera resistenza dell'Afghanistan all'invasione sovietica hanno rappresentato fatti tra i più importanti della storia contemporanea. Il fattore religioso rappresentato dall'identità islamica di questi paesi ha manifestato in essi una forza di ispirazione e un riferimento tale da agire per alcuni aspetti o in alcuni momenti come elemento determinante. La prevalenza delle ragioni politiche legate alla più generale identità storica, etnica, culturale su quelle religiose non può, tuttavia, non essere riconosciuta come norma tendenziale. La rivolta afghana si produsse in un paese in cui l'islamismo non aveva impedito una larga penetrazione comunista e di idee rivoluzionarie per nulla o ben poco legate alla religione. Lo stesso si dica per l'Indonesia, dove l'eliminazione di uno dei maggiori partiti comunisti d'Asia ebbe ragioni (anche internazionali) sicuramente più complesse dell'ispirazione e del riferimento islamici che pur vi furono sicuramente presenti. La divisione fra Pakistan e Bangla Desh si produsse addirittura a prescindere dall'Islam, fra due paesi egualmente islamici che, come tali, erano stati insieme distinti e separati dall'India e costituiti in un unico Stato a base musulmana.
Sulla pratica inevitabilità della rottura dell'unità indiana nel 1947 si era infranto il sogno di Gandhi di un'India indipendente, esempio di armoniosa convivenza tra fedi diverse in nome di alti ideali umani, in nome di una storia comune malgrado le antiche radicate divisioni che (come si è detto) non avevano mai dato all'India la fisionomia unitaria assunta col dominio britannico, in nome della comune esperienza di questo dominio e della lotta contro di esso, e anche (in Gandhi la nota pratica non mancava mai) in nome del comune interesse a costituire un più grande spazio politico ed economico che sarebbe stato ragione di forza e di prosperità maggiori nel quadro dell'economia e delle potenze mondiali. L'Islam operò allora come un'idea-forza nella quale era difficile stabilire quanto agisse da fattore scatenante della divisione e quanto da ideologia di gruppi dirigenti che già nel movimento indipendentista intorno a Gandhi avevano fatto valere la loro volontà di non soggiacere alla fatale e larga maggioranza indù e ai suoi esponenti in un'India che fosse rimasta unita. La rottura dell'unità pakistana e l'indipendenza del Bengala nacquero, a loro volta, sicuramente sulla base di un'analoga volontà di gruppi di potere e di interesse di quella che era considerata la regione orientale del Pakistan sorto nel 1947. La situazione geopolitica e altri elementi lo consentivano. Le due parti del paese si trovavano a una distanza di quasi 2.000 km l'una dall'altra. I loro interessi, specialmente commerciali, non erano facilmente armonizzabili. Benché più popolato, il Bengala era e si sentiva meno rappresentato nella direzione del nuovo Stato, che aveva la capitale e gli interessi economici più forti nella parte occidentale. Né la storia passata aveva unito in misura rilevante le due sezioni dell'Islam indiano. All'India, poi, non poteva che sorridere la prospettiva di una bipartizione dello Stato pakistano, fra le cui due parti essa si trovava e con cui era dall'inizio in conflitto per la regione del Kashmir (e l'appoggio indiano all'indipendenza bengalese fu, infatti, forte).
L'unità pakistana del 1947 dimostrò così di non potere resistere, in quanto unità musulmana, alla forza di spinte politiche e di interessi che sul piano religioso non avevano potuto trovare mediazioni e confluenze sufficienti. E una conferma della forza di tali spinte e interessi può essere pure vista nei motivi che portarono Singapore a staccarsi precocemente nel 1966 dalla Malaysia, con la quale si era federata nel 1961. Non fu, infatti, la diversità di religione (Malesi musulmani per il 53%, Singapore taoista e buddista per il 56%) a spingere Singapore alla secessione, bensì la incomparabile convenienza economica della propria autonomia, che si era creduto di rafforzare o, almeno, di garantire politicamente con l'ingresso nella federazione malese, ma che l'esperienza dimostrò rapidamente autosufficiente e non conciliabile con altri interessi. Singapore assumeva così una fisionomia in qualche modo analoga a quella delle ‛città carovaniere' dell'antico mondo mediterraneo ellenistico e non ignota alla storia di altri contesti, e a quello islamico fra gli altri (e sarebbe stata questa - sia detto per inciso - la vocazione anche di Hong Kong se non avesse avuto alle spalle la pressione irresistibile del gigante cinese): fisionomia e vocazione che forniscono pur esse uno dei moduli di identità politica, per quanto sporadico, nel mondo contemporaneo.
L'Islam del subcontinente indiano e dei paesi vicini si presenta, quindi, come un elemento indubbio, benché non esauriente, di identificazione etico-politica. In qualche caso (Afghanistan, ad esempio) questo elemento è rafforzato da una specifica tradizione statale precoloniale; in altri casi (lo stesso Afghanistan e il Pakistan) è messo in evidenza dalla denominazione ufficiale dello Stato come Jumhuriya, comunità politica fondata sulla professione religiosa (esplicitamente enunciata come islamica nel caso del Pakistan): espressioni dell'uso arabo-musulmano. Più difficile - come in tante occasioni abbiamo avuto e avremo modo di dire - giudicare se questa identità politico-religiosa si possa configurare in termini in qualche modo ‛nazionali'. Il problema non riguarda qui solo i singoli paesi nella loro individualità, per cui si può dire che, sempre a titolo di esempio, gli afghani si presentano come una realtà etno-culturale dai tratti più definiti e consapevoli, pur nell'indomabile permanenza di spinte tribali e regionali e nella molteplicità etnica, linguistica e confessionale del loro paese. Il problema riguarda, evidentemente, il ruolo generale dell'Islam sul piano dei problemi di nazionalità, e si avrà quindi modo di tornarvi su. Qui basti dire che alla fine del XX secolo i paesi islamici dei quali abbiamo parlato appaiono sufficientemente consolidati nella loro fisionomia da autorizzare a ritenere che il loro quadro statale sia una incubatrice efficace di più mature e determinate realtà etico-politiche, la cui definibiltà in termini nazionali si presta alle stesse considerazioni, grosso modo, che abbiamo fatto presenti per altri paesi asiatici.
Un rilievo inedito sul piano geopolitico ha assunto l'Islam dei paesi indipendenti dell'area già sovietica. Turkmenistan, Usbechistan, Chirghisistan, Tagichistan, Azerbaigian formano un'area ormai compatta di professione islamica in quadri statali che, anche se conservano forti rapporti con la nuova Russia postcomunista, specialmente in ragione di una dipendenza economica solo in parte attenuata, appaiono, tuttavia, destinati a una collocazione tendenzialmente crescente nell'area musulmana. Paradossalmente, la politica sovietica delle nazionalità incoraggiò la cultura e l'uso delle lingue locali e diede luogo a una formale autonomia federale di questi paesi nel quadro dell'URSS, al fine di esorcizzare eventuali loro movimenti di emancipazione dal regime di dipendenza imposto dalla conquista e dal colonialismo zarista, una volta dissoltosi l'antico impero russo. Nello stesso tempo, però, la politica sovietica aveva pure alimentato grandi campagne antireligiose di secolarizzazione, che nel caso dell'Islam - a giudicare dagli effetti a più lungo termine - non scossero nel profondo l'accumulazione fideistica ultramillenaria con la quale ci si scontrava (lo stesso si può dire, peraltro, del cristianesimo ortodosso). Anche per questa via si poté quindi determinare, al momento del crollo comunista, per reazione, un imprevisto richiamo allo stesso Islam. Se ne ebbero, del resto, i segni al momento dell'azione sovietica contro l'Afghanistan. Si consideri, inoltre, che a questo Islam già sovietico e ora indipendente (con una sessantina di milioni di fedeli) fa corona una serie di altre regioni della stessa fede che continuano a far parte della Russia quale è uscita dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica. Delle 21 repubbliche a base etnica comprese nell'odierno territorio russo, almeno due (Daghestan e Cecenia, con oltre tre milioni di abitanti) sono in grandissima parte musulmane, mentre in altre sette (Adighezia, Baschiri, Ciuvasci, Cabardini, Karacajevi, Tatari e Inguscezia) i musulmani o sono in più lieve maggioranza o costituiscono minoranze assai consistenti. Che anche questo estremo alone musulmano nello spazio già sovietico possa subire una pari attrazione nell'orbita geopolitica dell'Islam contemporaneo appare, per forza di cose, meno prevedibile che per i paesi già sovietici e ora indipendenti di cui si è parlato. La loro inclusione nello spazio russo li fa apparire, infatti, come coinvolti in un'area di modernizzazione a ritmi crescenti, a cui è prevedibile che si accompagni un processo di secolarizzazione ben più spontaneo di quello voluto dal regime sovietico e, quindi, presumibilmente più efficace. E ciò anche senza tener conto del fatto che la nuova Russia ruota di per sé intorno a centri politici di forza molto superiore che non quella degli altri nuovi Stati indipendenti già sovietici e, quindi, in grado di opporre all'attrazione islamica tutt'altra capacità di resistenza. Non è, anzi, neppure da escludere che questa tanto maggiore forza possa farsi sentire su tutti i territori della ex Unione Sovietica, e quindi anche su quelli degli Stati di cui abbiamo parlato e limitare o, almeno, bilanciare se non addirittura annullare l'attrazione islamica. Il che si dice qui non per invertire l'osservazione precedente circa questa attrazione, bensì per sottolineare lo stato di grande fluidità che appare ancora caratteristico dell'Islam nell'area già sovietica. Tanto più, poi, in quanto pressoché nessuno dei sei nuovi Stati indipendenti e delle repubbliche autonome facenti parte della Federazione Russa presenta una connotazione etnica unitaria o quasi unitaria, con intuibili implicazioni e ripercussioni per quanto riguarda i possibili processi di definizione etico-politica in senso ‛nazionale'.
Un luogo del tutto a sé, proseguendo verso occidente, nel quadro dell'Islam contemporaneo è quello da riconoscere all'Iran. Paese di antichissime e ricorrenti tradizioni imperiali e di potenza politica, caratterizzato dal nucleo etnico persiano e da una lingua indoeuropea che ne rappresentano un elemento specifico, esso racchiude anche la maggioranza della confessione islamica sciita e trova in ciò un'ulteriore ragione di forte specificità. Caduto tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XX secolo in una condizione di minorità tra le spinte imperiali russa e inglese, l'Iran aveva già conosciuto sotto la dinastia Pahlavī, giunta al potere nel 1921 e al trono nel 1925, un periodo di progressivo rilancio politico e, con l'indirizzo nazionalistico di Muḥammad Muṣaddiq tra il 1949 e il 1953, una fase di grande rilievo internazionale. La ‛rivoluzione dello scià e del popolo' promossa poi dal sovrano Riẓa Pahlavī negli anni sessanta, dopo alcuni iniziali e vistosi successi, portò infine al crollo della dinastia e all'instaurazione nel 1979 di una repubblica di rigida osservanza musulmano-sciita, sotto la guida di una personalità singolare, quale si rivelò l'ayatollah Khumainī. Da allora il fondamentalismo religioso è apparso fare tutt'uno con l'identità iraniana, sorreggendo un'azione politica interna e internazionale di un rilievo nettamente superiore a quella che il paese era stato in grado di alimentare dalla metà, se non dagli inizi, del XVIII secolo. A prescindere, però, dalle vicende e dai risultati di tale azione, che già dopo circa un ventennio sembrano porre molti più problemi di quanto fosse stato previsto, resta comunque il fatto che l'identità nazionale iraniana - sia grazie a quella stessa azione, sia grazie alle opposizioni da essa sollevate e a una diaspora di esuli di altri orientamenti - appare sullo scorcio del XX secolo in una nuova fase di grandissimo rilancio. Il fondamentalismo sembra segnarne solo un'accentuazione. Il clero sciita, fortemente organizzato in solide strutture gerarchiche, ha sempre costituito un elemento portante di tale identità, e anche dopo la rivoluzione del 1979 non è stato inficiato in questa sua storica funzione dalla politica confessionale della repubblica islamica, alla quale ha, peraltro, largamente contribuito. L'Iran continua, cioè, a formare una realtà etico-politica particolare dal punto di vista che qui interessa, per quanto di difficile definizione e per quanto la componente religiosa sia giunta a costituirne una parte inattesamente protagonistica dopo gli sviluppi della sua storia nei decenni centrali del XX secolo. Né la presenza di cospicue minoranze etniche e la permanente incidenza di antiche tradizioni tribali e gentilizie ne hanno leso la particolarità.
L'Islam arabo, egiziano, maghrebino, come quello orientale, è quasi per intero di confessione sunnita, ma non è, solo per questo, più compatto. Da area ad area e da paese a paese le differenze e i problemi sono numerosi, determinando una sperimentata irriducibilità, superiore a ogni attesa, della divisione geopolitica di questo mondo quale si era delineata già alla vigilia della seconda guerra mondiale e - ancora una volta - in corrispondenza con i confini delle colonie europee o, comunque, imposti dalle potenze europee. La più volte proclamata o rivendicata sussistenza di una ‛nazione araba' comprendente più o meno tutta questa parte dell'Islam si è rivelata del tutto infondata e, comunque, assolutamente inefficace. Né sono più riusciti i tentativi di federare o fondere anche solo due o tre dei paesi della stessa area, come, ad esempio, Egitto e Siria, o Transgiordania e Cisgiordania. Perfino dove uno stesso partito si è affermato e ha preso il potere, come il Baath in Iraq e in Siria, una spinta unitaria non si poté determinare. Né valse in questo senso la grande diffusione delle idee comuniste o socialiste, che tra gli anni sessanta e gli anni settanta coniugarono strettamente i motivi della rivoluzione interna con quelli della lotta all'Occidente, pur formando, questa doppia serie di motivi, un robusto intreccio a base del ‛risorgimento arabo' annunciatosi già alla fine del XIX secolo e manifestatosi dopo la seconda guerra mondiale con un'accentuazione più forte del previsto. Il ‛socialismo arabo' non valse, insomma, a unire le spinte ‛risorgimentali' del grande arco musulmano dallo Stretto di Gibilterra allo Shaṭṭ al-‛Arab più di quanto fossero valsi altri motivi. Semmai, esso retrospettivamente mette in maggiore evidenza come e quanto queste referenze terminologiche (nazione, risorgimento, socialismo) vadano prese con la massima discrezione allorché si tratta di inserirle nel contesto storico dell'Islam in generale e del mondo arabo in particolare. E in ogni caso, quando non si usasse al riguardo tutta la dovuta discrezione, occorrerebbe pur sempre ricordare che la divisione, spesso estremamente conflittuale, dello spazio islamico di cui parliamo è antica e risale addirittura ai primi secoli dell'Islam. Il che dovrebbe servire a sottolineare una diversità di fondamenti, di tradizioni, di interessi di talmente lunga sedimentazione da dover essere considerata prioritariamente tra gli elementi caratteristici fondamentali di quest'area culturale e geopolitica. E ciò tanto più in quanto essa quasi per intero, sia pure in forme e con cronologie in parte differenti, soggiacque a lungo al dominio turco, ossia al dominio di un'altra entità islamica, e nella sua fisionomia attuale si è definita in rivolta contro questo dominio non meno che in opposizione al colonialismo delle potenze europee, dalle quali fu, anzi, sollecitata e aiutata, benché ai loro fini, nel suo sforzo antiturco.
Si tratta, invero, di paesi che in alcuni casi (Marocco, Tunisia, Egitto) presentano una particolare pregnanza della loro personalità storica pressoché da ogni punto di vista. In altri casi (Algeria, Libia, Siria, Iraq, Giordania e, soprattutto, Palestina) la sono venuti acquistando (la vanno tuttora acquistando) nel corso del XIX e del XX secolo. In altri casi ancora (Stati della penisola arabica) conservano nella loro struttura istituzionale e politico-sociale tratti tradizionali di grande rilievo e tali da configurare la loro zona (con l'eccezione parziale dello Yemen) come un ambito quasi a sé nel contesto arabo-islamico. Si tratta spesso di paesi che anche nel loro interno presentano questioni di minoranze o contrapposizioni etniche e culturali o, addirittura, confessionali assai forti: come la questione curda, ad esempio, e quella della minoranza sciita in Iraq o quella delle antiche popolazioni berbere della Cabilia e dell'Aurès in Algeria. Ovunque, tuttavia, arabismo e arabizzazione si sono fatti più forti nella seconda metà del XX secolo. L'affermazione progressiva del fondamentalismo ha incrementato questa spinta e ha posto, anche per questo verso, un problema assai serio in rapporto al tema di cui trattiamo. Senz'altro da escludere appare la possibilità che dal fondamentalismo possa trarre origine una unificazione, sia pure tendenziale, che riesca più e meglio dei tentativi e degli episodi del passato. È, anzi, opportuno aggiungere a quanto già si è osservato al riguardo che una unificazione effettiva non vi fu neppure quando ancora nel XVIII secolo gli ottomani riuscivano a tenere nelle loro mani quasi tutti i territori in questione. Il fatto, poi, che il fondamentalismo abbia trovato con Khumainī la sua roccaforte nell'Iran sciita sminuisce ancor più la prospettiva unitaria, già di per sé così improbabile. La previsione più ragionevole appare quindi che i paesi di questo Islam continuino a maturare, nella diversità dei loro tratti specifici, la propria personalità etico-politica, culturale, socio-istituzionale, ecc. È dubbio che, anche così, non potendosi in alcun modo parlare di ‛nazione araba', si possa parlare almeno di ‛nazioni arabe', e se ne sono accennati o se ne accenneranno i motivi. Sarebbe, però, altrettanto impossibile non scorgere che - malgrado le più violente contrapposizioni a tutti i livelli del confronto politico, fino a quello armato e del terrorismo, e malgrado l'ancor più netta contrapposizione ideologica e confessionale - il mondo islamico non è affatto del tutto chiuso ai processi di globalizzazione/occidentalizzazione propri del tempo; e che in più casi (come in Egitto o in Algeria) non manca una controspinta ‛laica' all'estremismo religioso. E gli effetti di tutto ciò, a loro volta, non dovrebbero mancare sul piano della realtà e della configurazione etico-politica dei paesi interessati.
L'Islam africano che contorna quello nordafricano è presente nei vari paesi di questa fascia del continente (Burkina, Camerun, Ciad, Comore, Costa d'Avorio, Eritrea, Etiopia, Gambia, Guinea, Mali, Mauritana, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Tanganica, Zanzibar, Togo, più minoranze altrove) in varia misura: dal 15 o 20% alla quasi totalità della popolazione. Esso ripete, per lo più, atteggiamenti (nazionalismo, socialismo, ecc.) dell'Islam soprattutto nordafricano. Quando Nasser, nel momento culminante delle sue fortune, postulava, dal grande centro islamico egiziano, una sfera africana della sua politica, aveva, per qualche verso, più ragione di quanto in generale potrebbe apparire non tanto in relazione all'Africa in generale nella sua lotta con l'Occidente, come egli intendeva, quanto in relazione a quest'ampia presenza dell'Islam in tutta la sfera centrale del continente. L'esperienza di Nasser concorre, peraltro, a comprovare quanto esigue si siano dimostrate le possibilità di dare un'espressione, o anche solo una convergenza, unitaria all'Islam subsahariano. I problemi africani relativi alla difficoltà di costruire forti aggregazioni politiche o robuste realtà statali si manifestano, infatti, nella sfera di questo Islam non meno che in tutta la restante Africa equatoriale e australe, e da questo punto di vista il carattere africano dei paesi interessati prevale sul loro carattere islamico e vi fa emergere le stesse gravissime difficoltà etniche e culturali degli altri paesi dell'Africa Nera nella costituzione di realtà etico-politiche chiaramente individuate e vitali, nonché di vere e proprie ‛nazioni'.
Ben più complessi sono i problemi dell'area islamica siro-palestinese, che in parte è una sub-area del corpo centrale dell'Islam del quale già si è parlato, in parte è un'area fortemente caratterizzata dalla questione israeliana e dalla questione libanese. Qui basterà ricordare, per il momento, la già accennata formazione di una ‛nazione' palestinese che, come tale, ha acquisito piena definizione solo dopo la seconda guerra mondiale e proprio in relazione alle vicende che hanno portato al sorgere di uno Stato di Israele e agli eventi successivi. Si tratta di fatti nuovi, il cui rilievo storico è fin troppo evidente. Si può, peraltro, dire che la Palestina e il suo popolo offrano in pratica il solo caso in cui il conflitto arabo-israeliano abbia dato luogo a un effetto caratterizzante in senso ‛nazionale' per una popolazione musulmana. Altrettanto, certamente, non si può dire per la Siria, già caratterizzata in tal senso, se non altro, per i suoi già richiamati precedenti storico-coloniali, e meno ancora per l'Egitto, uno dei paesi islamici di più riconoscibile e consolidata individualità. Non lo si può dire neppure per la Giordania, dove lo stesso effetto sarebbe, semmai, da riconoscere al contrasto tra monarchia giordana e palestinesi, che ebbe nel ‛settembre nero' del 1970 una molto drammatica manifestazione, che dissolse ogni prospettiva di unità giordano-palestinese sotto la monarchia hascemita e che è, peraltro, continuato anche per effetto di eventi posteriori, dato il permanere di una minoranza palestinese in Giordania, nell'ordine di oltre il 20% della popolazione. Si può affermare, perciò, che il conflitto arabo-israeliano in corso dal 1948 non solo non è un conflitto tra due nazioni (se non per il caso specifico israeliano-palestinese), ma anche distorce, in qualche modo, le prospettive ‛nazionali' proprie dei singoli paesi musulmani interessati e, in varia misura, la stessa dialettica della vita politico-sociale al loro interno, oltre che le loro relazioni, proponendo un obiettivo alla loro azione interna ed esterna non solo discutibile, ma anch'esso senza sostanziale ed effettiva forza unificante. Quanto al Libano, la realizzazione di una grande esperienza di convivenza e di unità politica fra cristiani e musulmani a cui esso avrebbe potuto dar luogo è stata radicalmente messa in causa dalle ripetute e insanabili guerre civili (fra cristiani e musulmani e al loro interno) che vi si sono accese dal 1958 in poi, portando in ultimo, di fatto, a un protettorato siriano sul paese, a un'ingombrante presenza militare israeliana ai suoi margini meridionali e a un'ancor più ingombrante presenza e attività della minoranza musulmana sciita e di forti gruppi estremisti, palestinesi in massima parte, soprattutto nelle stesse zone meridionali. Per questi motivi l'identità libanese risulta, a cinquant'anni dall'indipendenza conseguita nel 1946, ancor più problematica di quanto non apparisse allora.
La Turchia, infine, è, dall'epilogo della prima guerra mondiale, appena una parte del grande impero islamico che gli ottomani conservarono per quasi cinque secoli, costituendo a più riprese una formidabile minaccia per l'Occidente cristiano nel Mediterraneo e nel cuore stesso dell'Europa. Per essa, tuttavia, l'opera modernizzatrice di grande profilo politico e storico svoltavi da Mustafa Kemal negli anni venti e trenta ha avuto effetti di straordinaria e, a quanto appare, durevole efficacia. È nata, infatti, così un'identità etico-politica che non è rimessa alla dominante confessione religiosa musulmana, bensì alla specificità etnica, linguistica, culturale, politica del popolo turco. Un popolo, si aggiunga, esso stesso frutto della ‛turchizzazione' promossa dallo stesso Kemal con l'espulsione dei greci nel 1920-1922, con la rigorosa compressione della folta componente curda nell'Anatolia orientale e con l'accoglimento dei turchi delle perdute province balcaniche dell'impero crollato nel 1918, mentre già nel 1915-1917 erano stati massacrati e totalmente eliminati dal territorio anatolico gli armeni che vi erano insediati fin da prima della conquista turca fra il XII e il XV secolo. Una ‛turchizzazione' recente, dunque, ma, come si è detto, profonda e tale da meritare sicuramente a Kemal l'appellativo di Atatürk, ‛padre dei Turchi', che egli assunse nel 1944, quattro anni prima della morte. Grazie a essa la Turchia ha finito col costituire più di ogni altro popolo islamico - anche più dell'Egitto, del Marocco e dello stesso Iran - quel che, nel senso europeo, si può definire una nazione; e questa sua qualità non appare inficiabile neppure dalla diffusione, nello scorcio del XX secolo, di forti fermenti fondamentalisti. La laicizzazione della vita civile, l'imposizione di un ordinamento statale di tipo occidentale, una conforme politica culturale hanno dato luogo, in effetti, a una vera e propria rivoluzione nella individuazione e nella prospettazione della nuova e moderna identità turca. Il trasferimento della capitale da Costantinopoli ad Ankara l'ha efficacemente simboleggiata, mentre la politica filo-occidentale, assai poco sensibile ai richiami islamici, e in ultimo la richiesta di associazione alla Comunità Europea l'hanno progressivamente rafforzata. Il costituirsi in Stati indipendenti dei popoli islamici dello spazio già sovietico ha dato poi anch'esso (specie in qualche caso, come quello del Turkmenistan) un senso più vivo a tutto questo processo. Assai scarso è stato, invece, il richiamo alla Turchia dei paesi islamici d'Europa (Albania per oltre il 70%, Bosnia-Erzegovina per oltre il 40%, Macedonia per il 30%, minoranze importanti in Serbia, Kosovo e Montenegro), dove la forza delle motivazioni politiche è nettamente prevalsa su quella delle motivazioni confessionali e ha reso marginali le tendenze fondamentalistiche.
In Turchia più che altrove, ma non solo in Turchia, lo spazio islamico è caratterizzato, peraltro, da uno dei maggiori problemi di identità e autonomia etno-culturale profilatisi nello scorcio del XX secolo. Si tratta del problema dei curdi, che fra Turchia (dove si trovano per circa il 50%), Siria, Iraq, Iran e Armenia superano i 20 milioni e che si vedono concordemente negare ogni diritto all'autodeterminazione e all'indipendenza e, per lo più, all'autonomia da Stati tanto diversi e per più aspetti ostili fra loro come quelli fra i quali sono ripartiti. I curdi sono andati rispondendo a una tale compressione con pari violenza e con un terrorismo attivo anche in Europa. La loro identità non solo etnica, ma anche culturale e, in particolare, linguistica (parlano una lingua indoeuropea) è fuori discussione, pur nella loro quasi completa confessione religiosa islamica, ma gli equilibri politici complessivi dell'area in cui sono insediati non lasciano prevedere né prossimo, né facile il costituirsi di uno Stato ‛nazionale' curdo quale è nelle loro aspirazioni.
3. Genesi ed evoluzione dell'idea nazionale
L'esame delle molteplici realtà extraeuropee così diversificate, sia quando sono più robuste, sia quando lo sono assai di meno nella loro personalità storica e politica, conferma, dunque, le considerazioni che abbiamo fatto all'inizio, e che qui riprendiamo e sviluppiamo, circa la vitalità del principio nazionale. Per quanto, infatti, l'applicabilità di tale principio appaia sottoposta, fuori dell'Europa, ai più vari condizionamenti storici; per quanto sia, anzi, da vedere essenzialmente nell'Europa occidentale la prima fucina dell'idea e dei valori nazionali (come appare pure dalla difficoltà di ritrovare in tedesco e nelle lingue slave un termine indigeno perfettamente equivalente a ‛nazione', quali non sono né il tedesco Volk, né lo slavo narod, per cui il termine ‛nazione' vi rappresenta un prestito linguistico-semantico); per quanto tradizioni etniche e culturali di ogni tipo e di ogni spessore sembrino fare del modulo nazionale solo una fra le molte possibilità di configurazione della personalità etico-politica di popoli e di paesi di cui si è fatto e si fa esperienza; per quanto equilibri e stratificazioni sociali di non minore varietà concorrano in misura decisiva, anche quando la loro incidenza appare più dissimulata o meno esplicita, a determinare tale personalità; per quanto, soprattutto, l'Europa in particolare e l'Occidente in generale possano costituire l'oggetto delle ripulse più decise e delle avversioni più vistose negli atteggiamenti e nei comportamenti politici e culturali dei popoli e dei paesi di altre parti del mondo, indubbio resta, tuttavia, il dato già da noi più volte posto in evidenza: una complessiva affermazione, cioè, del modello etico-politico europeo costituito dal modulo nazionale, quale dimensione e contesto fondante della vita civile. Abbiamo pure notato che è qui da ravvisare un aspetto di quella egualmente generale e complessiva omologazione all'Europa e all'Occidente che costituisce, per ammissione universale, un aspetto eminente della storia dell'umanità nel XX secolo e che si prospetta ancor più larga sull'orizzonte del seguente XXI secolo. È opportuno aggiungere che l'aspetto etico-politico di tale omologazione, cui si riporta la fortuna del modulo nazionale, è, del resto, un aspetto complementare della egualmente generale adozione dei regimi liberal-democratici a base rappresentativa quale struttura istituzionale anche in paesi e presso popoli che, talora fino a pochissimo tempo prima o al momento stesso dell'adozione, non ne avevano alcuna pratica e/o non mostravano alcuna propensione verso di essi e che, anche dopo l'adozione di tali regimi, continuano di fatto in una prassi politica dominata dagli elementi più consueti alle loro tradizioni di vita civile.
Con ciò entriamo, peraltro, in una problematica di grande momento proprio per quanto riguarda la gestazione e la vicenda del modulo nazionale e delle connesse ideologie nell'Europa stessa. Si è già accennato alla relazione intrinseca che al riguardo si determinò tra l'idea nazionale e le idee di libertà e di democrazia nella grande congiuntura europea della fine del XVIII secolo, quando l'idea di Stato fu fatta pienamente coincidere con quella di nazione, e di nazione innanzitutto come popolo sovrano. Perciò il ‛buon patriota' era allora il rivoluzionario che rappresentava il popolo-nazione nei suoi diritti sovrani e nelle sue istanze di libertà e di democrazia, e la patria non era tanto la ‛terra dei padri' quanto il paese in cui ciascuno si riconosceva e sentiva la paternità universale dei diritti imprescrittibili dell'uomo come individuo e come corpo sociale. La Francia fu, in particolare, la ‛grande nazione' da cui gli altri popoli europei potevano derivare, e di fatto largamente derivarono, il modello e lo stimolo per affiancarsi a essa e ripeterne la gloriosa vicenda di emancipazione e di promozione umana e civile. Con questo fin troppo evidente ed esibito schema ideologico contrastò largamente, nei fatti, la politica espansionistica e, a suo modo, imperialistica della ‛grande nazione', alla quale altri popoli, o quegli stessi popoli che in un primo momento ne avevano subito il fascino e seguito le orme, reagirono con una contrapposizione e affermazione puntigliosa e orgogliosa della propria identità rispetto a quella francese-rivoluzionaria: dialettica che si intensificò e raggiunse il culmine quando, con Napoleone, il volto imperialistico e la sollecitazione liberatrice della rivoluzione apparvero da un lato potenziati e dall'altro meno facilmente accettabili nella loro congiunzione.
La successiva fase romantica di elaborazione e di formulazione dell'idea nazionale diede a quest'ultima - come pure si è accennato - la sua massima e più alta consistenza. Fu allora che la nazione divenne il principio generalmente convenuto della filosofia politica europea non solo in materia di fondamenti e strutture della vita civile, di identità storica e culturale dei popoli e dei paesi, di diritti e vocazioni etico-politiche, bensì anche in materia di diritto pubblico internazionale, di criterio dell'assetto geopolitico del continente, di giustificazione delle iniziative (di pace o di guerra) da assumere al riguardo, di garanzia di stabilità e di legittimità dell'ordine internazionale e delle relazioni in cui esso si esplicava. La lotta fra i vecchi principî dell'equilibrio di potenza e dei diritti tradizionali (quelli dinastici in primo luogo) dell'Europa moderna e i nuovi principî dei diritti dei popoli all'autodeterminazione e all'autogoverno nazionale dominò, così, il panorama del dibattito politico-ideologico nell'Europa del XIX secolo e vide la progressiva affermazione dei principî nuovi, sanciti alla fine come criterio ispiratore nei trattati di pace che chiusero la prima guerra mondiale, anche se di fatto le offese al principio nazionale risultarono in quei trattati ben più numerose e più gravi di quanto il principio avrebbe comportato.
Nell'idea romantica la nazione assunse tutta la sua potenziale densità e profondità di significati etici e politici, culturali e civili, etnici e storici. A ben vedere, era poi soprattutto l'identità linguistica a fornire la base dell'identità nazionale, e l'identità linguistica in quanto ravvisata e costituita nella tradizione letteraria e nella lingua ufficiale del paese: donde una serie di implicazioni relative alle realtà regionali e dialettali (la distinzione tra ‛lingua' e ‛dialetto' si fece allora rigida) che si sarebbero poi rivelate gravide di conseguenze. Su questa base, comunque, la nazione si prospettava come un'entità primigenia abbracciante l'intero orizzonte della vita dei popoli nei loro paesi. ‟Una d'arme, di lingua, di altari, - di memorie, di sangue, di cor" (secondo la definizione del Manzoni, una delle più efficaci e complete espressioni del punto di vista romantico), la nazione era tutto: un destino e una vocazione, un diritto e un dovere, una missione e una scelta, un'idea e una realtà, un dato di natura e un frutto della storia. Bastava, quindi, a determinare tutta una religione civile ed esigeva una vera e propria professione di fede e un impegno tanto incondizionabile quanto irrinunciabile (right or wrong, my country). Se, e nella misura in cui, questa religione civile coincideva con la confessione religiosa praticata o dominante nella sua area (gli ‟altari", cioè, paralleli agli altri elementi della definizione manzoniana), il nesso nazionale diventava ancora più forte, e per alcuni popoli europei (i polacchi cattolici rispetto ai russi ortodossi o gli irlandesi cattolici rispetto all'Inghilterra protestante o i popoli cristiani dei Balcani rispetto ai turchi musulmani, ad esempio) ciò determinava una carica emotiva e ideale della rivendicazione nazionale di ancora maggiore potenza.
Proprio su questo punto, tuttavia, l'idea nazionale trovava uno dei suoi caratteri distintivi più forti rispetto agli altri grandi modelli etico-politici della tradizione europea e non europea: dalle monarchie orientali antiche alla polis ellenica, dalla sovranità imperiale di tradizione romano-bizantina alla monarchia assoluta moderna di diritto divino, dalla indistinta comunità confessionale-civile di stampo islamico alla struttura magico-sacrale delle monarchie estremo-orientali. Nella nazione, infatti, gli elementi sacrali, magici, rituali, teocratici o cesaro-papistici o di altro ed equivalente ordine non figuravano affatto; erano, anzi, respinti non solo nella originaria configurazione illuministico-rivoluzionaria della fine del XVIII secolo (come per gli Stati Uniti e per la Francia del 1789), bensì anche nella formulazione romantica, nella quale la componente religiosa entrava, quando e in quanto entrava, come dato storico, come segno di riconoscimento costituito da un dato di fatto. La religione in senso confessionale era, in altri termini, una componente che, per quanto importante e distintiva potesse essere ritenuta, veniva completamente sussunta e risolta nel profilo di religione civile proprio della professione di fede nazionale: era sussunta e risolta nel suo profilo di tradizione storico-culturale e di specifico destino e vocazione, scelta e missione. Perciò l'Italia poteva, ad esempio, prospettarsi - nella visione di Mazzini - successivamente come prima Roma imperiale e pagana, come seconda Roma papale e cattolica e come terza Roma della sua nuova storia e missione nazionale.
La nazione coincideva ora davvero con la patria, poiché la patria era ora intesa in senso assai più specifico, era cioè intesa davvero come ‛terra dei padri', come distinta determinazione geopolitica. Coerentemente, il nuovo diritto pubblico ravvisava il fondamento dello Stato nel triplice nesso del territorio, del popolo e della sovranità. Donde anche il diritto di ogni nazione a un suo Stato, l'inevitabilità dello Stato nazionale in quanto unico modello legittimo di Stato, la piena coincidenza di fede nazionale e patriottismo. E donde anche l'insuperabile difficoltà di ritenere l'idea nazionale come un'idea assolutamente laica e frutto della secolarizzazione connessa all'avvento e allo sviluppo della civiltà industriale. La laicizzazione entra indubbiamente nel processo genetico dell'idea di nazione, come si può dedurre anche solo dai pochi o indiretti accenni fatti fin qui alla storia di tale idea. E, tuttavia, l'idea laica o laicizzata di nazione non cessa per questo di configurarsi con tratti etico-politici ricorrentemente e strutturalmente così forti da obbligare a parlare, come abbiamo fatto, di ‛religione civile': una religione certamente non sacrale e non confessionale, certamente distinta da ogni precedente di tale ordine, certamente razionale e insieme storica (ossia densa di emotività, passioni, condizionamenti, ecc.), ma altrettanto certamente obbligante come una fede religiosa, intimamente e inseparabilmente legata alla eticità determinata e assolutamente singolare del principio ideale e della inconfondibile individualità di ciascuna nazione.
Quanto, poi, alla civiltà industriale o ad altri aspetti di ordine socio-economico, la loro incidenza sulla genesi e sugli sviluppi dell'idea nazionale è sicura, ma non sembra né originaria, né determinante fra le sollecitazioni che al riguardo possono essere contemplate. Né l'economia, né la lotta di classe risultano mai davvero tra i centri dinamici o i poli di gravitazione dei movimenti nazionali, se non per alcuni aspetti o in alcuni momenti. Il terreno di coltura della nazione e il campo di esplicazione dei valori e dei processi storici che vi si connettono appaiono chiaramente altrove. Parole d'ordine nazionale hanno servito fin troppo spesso, e non di rado rumorosamente, da motivo strumentale e pretestuoso di interessi economici e di classe. Ma non è un caso che già dalla metà del XIX secolo le ideologie classiste andassero opponendo sempre più drasticamente alle spinte nazionali un internazionalismo estremamente polemico. ‛Internazionale' si sarebbe, appunto, definito l'inno del movimento socialista europeo e ‛Internazionale', fin dal 1864, l'associazione più ampia degli aderenti a quel movimento. Più ambiguo l'atteggiamento dei ceti economici borghesi e capitalistici, in linea con gli indirizzi nazionali per tutto quanto servisse ai loro interessi di mercato e di espansione, ma attenti a non lasciarsene mai coinvolgere al di là di quanto consentissero questi stessi interessi e le loro necessità di operare sulla scala delle imprese: scala e interessi che gli sviluppi della tecnica e del capitalismo richiamavano, ab origine, e poi sempre più, ad amplissime dimensioni sovranazionali, come infatti, al chiudersi del XX secolo, si sarebbe visto con la massima chiarezza nella problematica e nell'esperienza della globalizzazione. Atteggiamento che, in qualche modo, e fatte tutte le dovute e, del resto, fin troppo visibili differenze, è stato pure di molte sfere religiose, e in particolare della Chiesa cattolica, alternamente vicina o ostile ai movimenti nazionali sulla base di considerazioni che li trascendevano e, in generale, attestata, nel corso del XIX secolo, su posizioni di rigida difesa dell'ordine internazionale sortito dal Congresso viennese del 1815 e solo nel XX secolo passata a un diverso orientamento di massima, sempre, peraltro, nei limiti sopra indicati.
In realtà, il terreno originario della nazione e il campo di esplicazione di quanto vi si connette furono quelli della cultura, delle passioni, dei sentimenti, delle tradizioni e, insomma, di tutta la vita etico-politica e, in particolare, e in senso più stretto, di tutta la vita politica. È, dunque, la politica in tutto lo spessore delle sue componenti morali e materiali, individuali e di classe, private e pubbliche, di mediazione e di conflitto, tradizionali e innovative, con le logiche rispettive di tali componenti, ma anche con la logica del contesto in cui le varie componenti, i loro incontri e i loro scontri sono compresi, e, quindi, con la logica dell'identità e della dialettica che la formazione della realtà e dei valori nazionali ha proposto e imposto nella sezione più avanzata del mondo e dell'umanità e ha poi diffuso, come si è visto, in altre parti del mondo. E diciamo formazione intendendo che si tratta, più precisamente, di una innovazione, non arbitraria e non casuale, in cui si è espressa, nella vita civile, la creatività dei popoli europei nel momento più alto della loro storia e delle loro fortune nel mondo. Chi perde di vista questa realtà si lascia, in effetti, sfuggire sia quanto vi è di più proprio nell'idea nazionale, sia la logica di fondo che ha presieduto costantemente alla sua dinamica, al di là (benché senza esclusione) di ogni sollecitazione di ordine materiale o di altro ordine. È questo primato sostanziale del motivo politico ed etico-politico a spiegare, del resto, la profonda connessione e le non meno profonde ripercussioni del fenomeno nazionale nella realtà socio-culturale e nella stessa vita quotidiana di tutti i popoli e i paesi interessati e a ogni livello della scala sociale. E, soprattutto, è esso a rendere davvero comprensibili, come si è accennato, gli sviluppi che in progresso di tempo se ne colgono.
Tra l'epoca rivoluzionaria e napoleonica e quella romantica si delinea infatti, nella serie delle già accennate molteplici e differenziate formulazioni che l'idea di nazione riceve nei vari spazi nazionali in cui si manifesta, una bipartizione fondamentale.
Da un lato, viene consolidato e sviluppato il nesso originario con i principî liberali e democratici. Pur nel persistere o nel profilarsi di idee di primato, iniziativa o missione di questa o quella nazione, la visione dominante è quella di un ordine internazionale fondato sulla libera esplicazione di tutte le nazioni presenti e attive sulla scena storica: un ordine - come si amò dire - di nazioni sorelle, affratellate da una comunanza di valori che determina il loro reciproco rispetto e una solidarietà di fondo e porta le une a battersi per l'indipendenza delle altre. Unità della patria e libertà dei cittadini sono strettamente legate - come si legge sul monumento a Vittorio Emanuele II in Roma, a epigrafe del Risorgimento italiano - nella professione di fede nazionale. Per questa via si giungerà alla più alta e più aperta definizione data della nazione nell'ambito liberale e democratico: quella, cioè, di Renan, che definisce la nazione come ‟il plebiscito di ogni giorno", ossia come l'indispensabile e continuo rinnovo di una scelta e come una costante riaffermazione e riappropriazione volontaria e soggettiva dei fondamenti storici e strutturali sui quali si regge la nazionalità.
Da un altro lato, invece, si percorre la via di una fondazione più definitamente etnica e materiale, la via del Blut und Boden, del sangue e del suolo come elementi costitutivi originari della nazione. Per questa via non è difficile, e in pratica si dimostra quasi inevitabile, il pervenire a una concezione razziale e geopolitica delle nazioni. Queste appaiono, perciò, invece che sorelle, piuttosto concorrenti e rivali in una gara intesa più alla loro potenza che a una loro, per quanto possibile, armoniosa convivenza. Nostalgie di antichi passati dissolti dallo sviluppo del mondo moderno, lo ‛Stato etico' hegeliano, la filosofia darwiniana della strugglefor life, le ideologie dell'imperialismo e dell'autoritarismo, l'idea della potenza come potenza innanzitutto e soprattutto materiale (armi, economia, posizioni strategiche, consistenza demografica e territoriale, ecc.), concezioni sociali gerarchiche parallele alla concezione di una gerarchia delle nazioni, e vari altri elementi più o meno affini entrano per questa via nella definizione e nella valutazione della realtà nazionale. E questa realtà non è solo, e non è neppure necessario che sia, l'esito di specifici processi di scelta della vita culturale e morale di un popolo o di un paese, come si è visto accadere per l'altra via; è anche l'esito di processi obbligati, da sostenere ‟col ferro e col fuoco" e da imporre a chi è e a chi non è partecipe dei relativi valori con politiche decise e interagenti di nazionalizzazione e di snazionalizzazione.
Le due vie non costituiscono percorsi assolutamente distinti e separati fra loro. Le reciproche contaminazioni sono frequenti e spesso cospicue. La distinzione non viene, tuttavia, mai superata. È, in particolare, il secondo percorso a incidere di più sul primo anziché il contrario. Nel corso del XIX secolo lo si vide sempre meglio, finchè agli inizi del XX secolo diventò anche troppo evidente. La guerra mondiale del 1914-1918 e i trattati di pace che la chiusero resero, infatti, manifesta una forza del secondo percorso superiore a qualsiasi previsione. L'internazionalismo socialista e il pacifismo cattolico furono battuti in breccia da questo imprevisto dilagare del nazionalismo. Le riaffermazioni ufficiali e ripetute delle altre concezioni nazionali valsero a dare la dimostrazione impressionante di un principio pur sempre largamente professato e diffuso, ma praticamente, e in ben più larga misura, disatteso.
Il totalitarismo fascista e, ancor più, quello nazista, portarono poi, come è noto, al suo massimo la prevalenza del secondo percorso. La risposta sul versante del primo percorso fu, tutto sommato, debole. L'altro, per nulla minore, totalitarismo dell'Europa della prima metà del XX secolo, ossia quello comunista, si muoveva sulla falsariga della già accennata ideologia internazionalista socialista, e più precisamente marxista, anche se gruppi e correnti socialisti e marxisti erano stati tutt'altro che assenti nello sviluppo dei movimenti nazionali. Nella instaurazione del comunismo in un paese quale la Russia zarista, ossia in un grande impero che aveva imposto il dominio russo su più di un terzo dell'Asia e su molti popoli e paesi dell'Europa orientale, il problema nazionale non poteva non porsi con grande evidenza a un regime che si professava di liberazione e che aveva adottato aspre posizioni anticapitalistiche, antimperialistiche e anticoloniali. Della politica svolta al riguardo dal regime si è già accennato a proposito di popoli e paesi islamici, e le stesse cose possono essere, più o meno, ripetute per le altre zone di un impero la cui dimensione coloniale era stata attutita in larga parte dalla contiguità territoriale fra il paese conquistatore e i paesi conquistati. Le formulazioni date al problema (se ne occupò personalmente anche Stalin) apparvero già allora piuttosto inani. In ogni caso, esse furono ulteriormente disdette dalla spregiudicata e dura politica staliniana che annesse all'Unione Sovietica fra il 1939 e il 1945 i paesi baltici, una fetta di Finlandia, la metà orientale della Polonia di allora, la Rutenia subcarpatica, la Bucovina e la Bessarabia.
Non sorprende, perciò, che le paci del 1945 fossero dominate dallo spettro dei problemi posti dai totalitarismi europei fioriti tra le due guerre mondiali e dalla prospettiva di una fatale e prossima contrapposizione tra le potenze occidentali coi loro principî liberal-democratici e il superstite e più potente totalitarismo sovietico; e che, quindi, il principio nazionale, pur sempre professato, non fosse la maggiore ispirazione di quei trattati di pace. Né può sorprendere che, una volta entrati in crisi e crollati questo e gli altri totalitarismi, siano state le idee liberal-democratiche, ormai trionfanti, a connotare di nuovo l'idea nazionale, e anche in misura maggiore di quanto fosse accaduto nello stesso XIX secolo. La già accennata versione liberal-democratica dell'idea nazionale via via affermatasi presso popoli e paesi extraeuropei in una significativa connessione etico-politica e politico-istituzionale - per quanto parziale e diversificata o solo potenziale possa apparire ed essere questa versione, e per quanto non si possano davvero ritenere del tutto superate e dissolte le spinte nazional-autoritarie, socialiste, confessionali, ecc. che hanno animato il Terzo Mondo dalla fine della guerra nel 1945 - trova, dunque, una sua spiegazione, oltre che nei motivi a suo luogo segnalati, anche nel decorso delle idee e delle vicende europee nello stesso periodo dal punto di vista degli equilibri complessivi della società e del confronto politico e ideologico.
Un decorso che - come si è avuto modo di osservare all'inizio di queste pagine - è sembrato mettere in forte discussione lo Stato nazionale pressoché su ogni piano, da quello della potenza a quello dei valori. In realtà, in poco meno di mezzo secolo la storia europea ha poi fatto segnare proprio dal punto di vista della sua articolazione nazionale eventi della massima importanza, benché in gran parte imprevisti ancora ad assai breve distanza dal loro verificarsi.
Conviene notare, per rendersene conto, che le paci del 1945 avevano avuto effetti sensibili sulla geografia nazionale solo nell'Europa orientale e centrale. A parte l'espansione sovietica di cui si è vista l'ampiezza e che aveva posto fine, fra l'altro, all'indipendenza dei tre Stati baltici costituiti nel 1919, e a parte il drastico slittamento verso ovest delle frontiere polacche con la Germania e con l'Unione Sovietica, nonché qualche altro importante mutamento, come l'ampliamento della Iugoslavia in Istria ai danni dell'Italia, quelle paci avevano sostanzialmente confermato la carta europea quale era emersa dalla prima guerra.
Insieme con l'ampia espansione sovietica, che raggiungeva e superava i confini più occidentali attinti a suo tempo dalla vecchia Russia zarista (ne rimaneva fuori solo la Finlandia), e con lo spostamento territoriale della Polonia, il dato che da ogni punto di vista risaltava era quello della divisione della Germania, presto consolidatasi con la formazione di due Stati a opposto regime e tendenze politiche e ideologiche, schierati negli opposti campi della ‛guerra fredda', in sostanziale e poco dissimulata gara fra loro e ritenuti già negli anni sessanta espressione, ormai, di due distinte ‛nazioni' tedesche.
Questa vera e propria parvenza di dissoluzione nazionale germanica si affiancava, per la sua rilevanza, alla precedente eclisse della nazione russa nell'ordinamento sovietico a seguito della rivoluzione del 1917. Si è già detto che nell'ambito sovietico le nazionalità avevano ricevuto, quale che fosse, una esplicita considerazione formale e istituzionale. Per le altre ciò aveva potuto costituire una qualche forma di discutibile, ma non trascurabile promozione; per quella russa, invece, si era trattato, almeno all'apparenza, di una vera e propria retrocessione. Una ‛nazione sovietica' in senso proprio non nacque né prima né dopo la seconda guerra mondiale. Non se lo proponeva, in principio e nei fatti, il regime al potere, fondato sull'ideologia internazionalista e classista di cui si è detto, che poteva postulare un popolo o un proletariato, ma non sempre in senso proprio, una nazione. Né lo consentivano la larghissima prevalenza economica, culturale e politica che i russi conservavano nell'Unione Sovietica; la linea di russificazione che il regime, anche in relazione a questo dato di fatto, seguì in molte delle più delicate questioni di politica delle nazionalità che dovette affrontare (così, ad esempio, nei paesi baltici); la grande diversità delle condizioni di sviluppo e del retroterra storico di ciascuna delle nazionalità presenti nel paese; la stessa natura totalitaria del regime, per la coazione alla quale sottoponeva tutti gli elementi della vita sociale, che perciò scarsamente potevano riconoscere in esso una propria espressione autentica, anche se l'appoggio e il consenso a quel regime per varie ragioni non mancarono. È un fatto che, allo scoppio della guerra con la Germania, nel 1941, ci si premurò subito di qualificarla come una grande ‛guerra patriottica', con un significativo spostamento di accento dai valori internazionalisti e classisti a quelli tradizionali della patria. Non era, invero, del tutto chiaro se si trattasse della patria sovietica o non, piuttosto, della patria russa, ma sembrò implicito - anche per la serie di motivi sopra accennata - che fosse soprattutto la tradizione russa a essere richiamata, in forza, tra l'altro, dei suggestivi precedenti storici per cui la vecchia Russia aveva reagito, debellandoli, ai grandi invasori che erano penetrati profondamente nel suo corpo, come Carlo XII di Svezia e, in particolare, Napoleone. Dopo la guerra, inoltre, si ebbe l'impressione che la presenza russa nell'oligarchia di partito che dominava il paese si fosse rafforzata rispetto alla sua precedente, più aperta composizione per nazionalità determinata dalla rivoluzione del 1917 (Stalin stesso era georgiano) e che altrettanto accadesse nella politica sovietica delle nazionalità.
La riunificazione germanica e il riaffiorare della nazione russa come corpo politico a sé e come Stato indipendente sono, appunto, i due fenomeni che, nello scorcio finale del XX secolo, si sono imposti tra i massimi eventi della storia europea e mondiale contemporanea. Figlie entrambe del crollo comunista verificatosi alla fine degli anni ottanta, non sembra però che si possa in alcun modo pensare al fattore nazionale come a un fattore determinante di quel crollo, le cui cause appaiono ben più generali e strettamente connesse, innanzitutto e soprattutto, alla vicenda del comunismo - idea e fatto - nel mondo contemporaneo. A questa vicenda appaiono, inoltre, da riportare - più che a una specifica lotta nazionale, per quanto una tale lotta non sia mancata - così la piena riaffermazione dell'autonomia e della specificità nazionale dei paesi già ‛satelliti' dell'Unione Sovietica, come la secessione nazionale di popoli e paesi già facenti parte dell'Unione Sovietica (oltre quelli asiatici e islamici già menzionati, l'Ucraina, la Russia Bianca, i paesi baltici, la Moldavia, la Georgia, l'Azerbaigian, l'Armenia). Ma è evidente come e perché il fatto che il crollo del comunismo abbia avuto tanti e tali effetti proprio e specificamente dal punto di vista della realtà nazionale europea costituisca già di per sé un dato storico estremamente significativo e importante.
4. I principali sviluppi contemporanei del modulo nazionale in Europa
a) Germania, ex Unione Sovietica e paesi dell'Est
L'insperata e repentina riunificazione germanica non è sembrata porre problemi particolari dal punto di vista della storia nazionale del paese. Il diverso regime e il diverso livello di sviluppo delle due Germanie sussistite dal 1949 al 1990 hanno posto e pongono problemi non indifferenti sul piano della loro integrazione economica e sociale, benché la Germania Orientale figurasse come il paese economicamente più sviluppato del campo comunista dopo l'Unione Sovietica. Si tratta, però, di problemi che appaiono già avviati a soluzione negli anni novanta e, comunque, non tali da avere una qualsiasi apprezzabile ripercussione sul realizzato processo di riunificazione. Dal punto di vista culturale ed etico-politico le difficoltà, che pure non sono mancate, appaiono, invece, nettamente meno consistenti. Nel corso di un decennio se ne sono avvertiti echi via via minori. L'idea, molto esaltata negli anni sessanta e settanta, dell'avvenuta formazione di due nazioni tedesche su quello che restava del territorio del Secondo e Terzo Reich - bipartizione analoga a quella a suo tempo prodottasi e dimostratasi duratura fra Germania e Austria e da ritenere, su questa base, verosimile - si è rivelata del tutto infondata. La facile riarticolazione della struttura politico-territoriale della Germania Orientale e il suo riassorbimento in quella della Germania Occidentale, con la formazione di cinque Länder a est affiancati agli undici già sussistenti a ovest, hanno omogeneizzato l'ordinamento del paese secondo i moduli più consoni alla tradizione germanica. Ma un ampliamento così importante e rilevante ha determinato pure una modificazione della coscienza nazionale germanica quale si manifestava nella Germania Occidentale prima della riunificazione?
La risposta negativa sembra essere la più fondata, oltre che la più prudente. Con la riunificazione la Germania ha assunto una dimensione materiale (a cominciare dalla demografia, dall'economia e dall'estensione) molto maggiore della precedente, dovuta alla bipartizione seguita alla sconfitta del 1945; e se si considera che già la Germania Occidentale da sola figurava prima del 1990 quale maggiore potenza economica europea e seconda o terza a livello mondiale, la cosa assume un'importanza rilevante. Ma si tratta pur sempre di un paese che non è solo molto minore di quello del 1914 e del 1945, ma che soprattutto non sfugge alle misure della potenza mondiale invalse dopo il 1945 e così crudeli, come si è detto, per l'Europa. Il suo profilo più generale non richiama affatto la Germania frustrata e revanchiste uscita dalla sconfitta del 1918 e facile incubatrice del processo che la portò a scatenare, con il nazismo, la seconda guerra mondiale. Se un paragone storico dovesse assolutamente essere fatto, il richiamo sarebbe piuttosto alla Cartagine così ridotta di potenza e così rifiorita economicamente dopo la seconda guerra punica, senza peraltro che vi sia all'orizzonte una Roma tanto preoccupata e gelosa del suo rifiorire da proporsene la distruzione. Né la Ostpolitik, né il pensiero sempre vivo della riunificazione si ispirarono a propositi o a tendenze implicanti un ritorno alla tradizione nazionale in quanto tradizione di potenza. Le considerazioni circa l'animus tedesco dal punto di vista dell'idea e del sentimento nazionale intorno al 1970 - avanzate da Rosario Romeo nel volume IV di questa stessa opera alla voce nazione, alla quale la presente si connette - appaiono, perciò, sempre valide. Si deve, semmai, osservare che, se il distacco dal precedente spirito nazionalistico germanico era già evidente a quella data, nei decenni successivi quella che si potrebbe definire l'occidentalizzazione dello spirito etico-politico del paese appare ancora più accentuata. I problemi della nuova Germania unita sono, in sostanza, ancora quelli della Germania Occidentale degli anni settanta e ottanta, evoluti nel senso di una maggiore complessità per il ritmo preso dall'integrazione nella Comunità Europea, dalle grandi ondate immigratorie extracomunitarie, dai rapporti coi paesi extraeuropei, dalla globalizzazione, ecc.: i problemi, cioè, che riguardano più o meno tutti i paesi della stessa area europea.
Per la Russia il discorso è più complesso. Il periodo sovietico aveva segnato, come si è detto, una certa eclisse della estrinsecazione - se non altro - della sua personalità nazionale. Ma già sotto l'antico impero zarista questa personalità, così vistosa e corposa, non aveva trovato modo di esprimersi nelle forme e nei modi della grande stagione nazionale europea, costretta, come fu, fino al 1917 nei quadri dell'autocrazia imperiale e nel suo contesto ideologico politico-religioso e cesaro-papistico, intimamente diverso da quello liberal-democratico, come si è già avuto modo di accennare, del modulo nazionale nell'Europa occidentale. Il passaggio, cioè - per usare la terminologia che abbiamo sopra proposto - dalla nazionalità alla nazione e allo Stato nazionale la Russia non lo aveva ancora realizzato. Ed è proprio per questo che si può parlare di un configurarsi della Russia come vero e proprio Stato nazionale in seguito al crollo del regime sovietico e si può vedere in ciò un grande fatto nuovo, oltre che un grande fatto in sé e per sé, della storia europea e mondiale.
La Federazione Russa così nata ha un territorio inferiore di un buon quarto a quello dell'Unione Sovietica e dell'impero zarista nella loro massima espansione. La sua popolazione (meno di 150 milioni nel 1995) è poco più della metà di quella sovietica del 1987 (281 milioni). Con tutto ciò essa riproduce largamente al suo interno, su questa scala ridotta, i problemi etnici e culturali di ordine sostanzialmente nazionale già propri del regime sovietico e del regime zarista, anche se i russi sono più dell'80% della popolazione. Nel caso della Cecenia se ne è avuta una dimostrazione drammatica. Nello stesso tempo la nuova fioritura nazionale russa è fortemente caratterizzata da elementi tradizionalistici, a cominciare da quelli legati all'antica confessione religiosa cristiano-ortodossa del paese, che si giudicavano poco meno che irriducibili fino al 1917, ma che nel corso del lungo periodo sovietico erano apparsi sostanzialmente divelti dallo spirito del paese. Tradizionalismo (a forte base religiosa) e nazionalismo (nel senso di accentuata esaltazione dell'idea nazionale) appaiono, perciò, tratti eminenti della Russia postcomunista. Piuttosto in ombra appaiono, invece, gli stimoli imperialistici e in direzione di una politica di potenza, così forti sotto i Soviet e sotto gli zar. Dal grande fenomeno del dissenso antisovietico, in cui la nuova Russia ha molte delle sue radici, non è uscita fuori una fortuna particolare di forze liberali e democratiche, ‛laiche' nel senso italiano di questo termine, anche se il modello liberal-democratico è stato assunto come professione politica ufficiale del paese. Per questo verso lo storico problema dell'‛occidentalizzazione', perseguita, in termini vari secondo le varie epoche fin dai tempi di Pietro I, appare ancora sul tappeto della storia russa. Ma il forte respiro che si avverte nella nuova fase, nazionale, di questa storia, nonché il ben diverso contesto della storia mondiale, fanno pensare che mai come alla fine del XX secolo la prospettiva occidentale sia stata in Russia concreta, aperta, dinamica e destinata al successo. Il tradizionalismo, il nazionalismo, i molti problemi posti dai popoli eterogenei compresi nei confini del nuovo Stato e gli stessi fenomeni di reviviscenza di uomini e gruppi del vecchio regime sovietico non sembrano in grado di appannare quella prospettiva al di là di determinati limiti.
Degli altri Stati europei usciti dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica solo qualcuno - come la Bielorussia - mostra una più debole consistenza, tanto da non lasciar escludere l'eventualità di un suo riassorbimento nella Federazione Russa. Qualche altro, come la Moldavia, appariva all'inizio votato a ricongiungersi alla Romania, della cui area culturale fa parte e a cui appartenne dal 1918 al 1940, ma in seguito è sembrato incline a mantenere la sua qualifica di Stato indipendente. Tutti gli altri appaiono già dai loro primi passi come entità molto ben definite sia dalla loro storia passata, compressa e oppressa dai russi e ora liberata dalle relative ipoteche, sia dalla struttura post-comunista da essi assunta. Nel caso dell'Ucraina si tratta pure di uno Stato di ragguardevoli dimensioni e consistenza (superficie doppia e popolazione di poco inferiore a quelle italiane), suscettibile di assumere un suo ruolo non secondario tra le potenze europee. I tre Stati baltici (Lituania, Estonia e Lettonia) e i tre Stati caucasici (Georgia, Armenia e Azerbaigian) hanno dimensioni più modeste, ma un fondamento e ragioni di identità non minori. Ovunque la definizione dello Stato in senso nazionale si è affermata, per quanto particolare possa esserne, come ci si può e ci si deve aspettare, la versione di fatto realizzatane. Ovunque, inoltre, la composizione etnica è stata, è o può essere fonte di gravi complicazioni e agitazioni. Ovunque risalta, in particolare, la presenza di una forte minoranza russa, dovuta generalmente alle vicende storiche del passato lontano e recente e alla politica di russificazione svolta più o meno a lungo dagli zar e dall'URSS. In Estonia si trattava, nel 1989, del 30% della popolazione. In vari casi (e in particolare nel Caucaso) le questioni delle minoranze hanno portato a conflitti sanguinosi. Ma, così come per la Russia, è da ripetere che questi e altri elementi non appaiono tali da fermare il processo di strutturazione nazionale in corso in quei paesi.
La grandiosità dei processi che così si sono avuti per la Germania e nell'ambito già sovietico non toglie che di primaria importanza appaiano anche gli sviluppi del modulo nazionale che contemporaneamente si sono avuti o sono in corso nella restante Europa.
Spicca, innanzitutto, il caso della Iugoslavia, che anche per ciò si è dimostrata, alla lunga, una delle meno felici novità emerse dall'esito della prima guerra mondiale. Regno serbo-croato-sloveno dapprima, di Iugoslavia poi (ossia degli slavi del sud), lo Stato formato dalla Serbia e dal Montenegro con l'aggiunta di estesi territori già austro-ungarici e turchi non ebbe mai, neppure prima della seconda guerra mondiale, un'esistenza tranquilla dal punto di vista delle molte componenti etniche (sloveni, croati, bosniaci, serbi, macedoni, montenegrini, albanesi e altri), separate, per giunta, da diversità religiose molto sentite (cattolici gli sloveni e i croati, musulmani i bosniaci e gli albanesi, ortodossi gli altri: tutti con minoranze più o meno cospicue di diversa confessione al loro interno). Né valsero a delineare un più solido organismo nazionale iugoslavo le vicende della seconda guerra mondiale e la resistenza sia monarchica che comunista contro l'occupazione italo-tedesca. Parve, tuttavia, che dopo il 1945, stabilitosi con Tito un forte regime comunista, il problema nazionale potesse ricevere una più promettente soluzione. Non si tardò, però, a capire che ciò non avveniva per la struttura federale (in sei repubbliche: Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Montenegro) data da Tito al paese, bensì, piuttosto, per la indiscussa autorevolezza e per la forza della leadership dello stesso Tito, ulteriormente rinvigorita dalla sua politica di autonomia dal centro comunista moscovita e dal ruolo che a lungo egli seppe giocare nella scena internazionale del suo tempo.
Dopo la scomparsa di Tito, nel 1980, alla progressiva crisi del regime sul piano della politica economica e sociale cominciò, infatti, ad accompagnarsi una sempre più forte irrequietezza nei rapporti fra le varie etnie, come, per esempio, tra i serbi e gli albanesi che nel Kosovo costituivano la grande maggioranza della popolazione e non si sentivano appagati dall'autonomia regionale di cui godevano. La difficoltà maggiore era costituita dal fatto che nell'equilibrio titino e costituzionale i serbi si sentivano oggettivamente sacrificati, malgrado costituissero il ceppo più numeroso e si ritenessero l'elemento politico più robusto della Federazione. Né si può dire che questi motivi fossero del tutto infondati. Tito, bosniaco, aveva avuto la preoccupazione contraria, e cioè di fare in modo che soprattutto i croati non dovessero più guardare con insofferenza e avversione alla prevalenza e al centralismo serbo, di cui avevano fatto esperienza prima della guerra e di cui rimanevano sempre in sospetto. La reazione serba post-titina fu, comunque, tanto forte da far ben presto pensare a un nazionalismo che avrebbe visto volentieri trasformarsi la Federazione iugoslava in una ‛Grande Serbia', fosse pure con la perdita di una parte dei territori federati. Slovenia e Croazia si misero, così, altrettanto presto sul terreno della secessione, che rispondeva non solo alle loro consolidate opinioni antiserbe, bensì anche a un loro gioco di interessi che, comunque, male avrebbe potuto conciliarsi con il perdurare di un unico Stato iugoslavo, in cui rischiavano, per di più, di perdere i vantaggi relativamente assicurati a esse dalla linea di Tito. La secessione ebbe luogo e fu sancita fra il 1991 e il 1992 prima da parte slovena, poi - in maniera drammatica e sanguinosa - da parte croata.
Fu, quindi, la volta della Bosnia nel 1992 e della Macedonia nel 1993. Come gli sloveni, anche i macedoni non si scontrarono con una troppo dura reazione serba. Per la Bosnia le cose andarono, invece, ben diversamente. Si trattava della zona in cui i vari popoli iugoslavi erano più frammisti. Con la componente bosniaca musulmana maggioritaria convivevano forti minoranze serbe (31%) e croate (17%). In un gioco molto complesso, dalla prospettiva di un'annessione dei territori a maggioranza serba e croata ai due Stati ora divisi di Serbia e di Croazia si passò, attraverso orrori fra i più sanguinosi di una vicenda tutta sanguinosa e crudele, alla prospettiva di una Bosnia dal singolare profilo costituzionale. La Bosnia ha finito, infatti, con l'essere composta di una federazione croato-musulmana e di una repubblica serba (la prima col 49 e la seconda col 51% del territorio bosniaco), unite fra loro in un piuttosto limitato vincolo confederale, senza che la scia dei cruenti conflitti degli anni precedenti sia svanita o che si sia attutita la presa dei gruppi dirigenti oltranzisti sulle rispettive popolazioni.
La Bosnia si rivelò così un tragico microcosmo dell'intricata trama etnica a cui la costituzione di uno spazio iugoslavo nel 1919 avrebbe dovuto offrire la possibilità di essere sistemata nel contesto di una inedita, ma vitale nazionalità degli slavi meridionali. Vitali si dimostrarono, invece, le minori e storicamente ben più sedimentate nazionalità che la nuova nazione iugoslava avrebbe dovuto riunire e risolvere in sé. La terribilità dei conflitti che da ciò hanno tratto origine e che hanno toccato l'acme già negli anni della seconda guerra mondiale e poi negli anni novanta hanno, peraltro, manifestato un carattere più di lotta etnica che di guerra nazionale. E questo sfondo etnico sembra restare sull'orizzonte non solo della neonata Bosnia, bensì anche della Iugoslavia ora superstite. Quest'ultima è, infatti, ora formata da una federazione delle repubbliche di Serbia (coi suoi territori autonomi della Voivodina e del Kosovo) e del Montenegro, in cui i serbi superano di poco il 60% della popolazione, gli albanesi sono stimati al 16%, i montenegrini al 5%, gli ungheresi al 3% e i musulmani pure al 3% ; il resto è suddiviso in numerose altre nazionalità ed etnie e molti si dichiarano iugoslavi senza altra specificazione etnica o nazionale.
Indubbiamente, però, la nuova articolazione geopolitica della scomparsa Iugoslavia di Versailles appare più vitale della ‛grande nazione' slava del sud in cui si era pensato di ritrovarne un solido fondamento. A meno di novità che a ottant'anni da Versailles sembrano imprevedibili, la prospettiva di un progressivo e duraturo consolidamento in senso nazionale dei cinque nuovi Stati nati dalle secessioni del 1991-1994 appare realistica, oltre che probabile. Le incognite maggiori restano quelle della Bosnia e del Kosovo. Peraltro, i rapporti che ciascuno dei cinque cerca di stringere con la Comunità Europea dovrebbero contribuire a rasserenare in qualche modo, e sempre di più, le loro relazioni. Dovrebbero, inoltre, dimostrare che la dissoluzione della grande Iugoslavia, superati i drammatici frangenti del conflitto armato, non è stata un episodio di balcanizzazione accentuata o ritornante, bensì - e sarebbe l'aspetto positivo non trascurabile di una vicenda terribile - il tormentato avvio a un valido assetto nazionale dell'area di un mosaico etnico dei più complessi fra quelli costruiti dalla storia europea. E dovrebbero, infine, dimostrare che le interferenze esterne nel processo finale della dissoluzione iugoslava (soprattutto Germania e Vaticano furono sospettati di aver fortemente promosso e gradito le secessioni slovena e croata), se vi sono state, hanno rappresentato un momento contingente di complicazione politico-diplomatica, legato, più che altro, alle circostanze, e non il sintomo di un ritorno a tentazioni e politiche di potenza, evocate da un'area che ne è stata a lungo suscettibile, come nel XIX e nel XX secolo si è più volte constatato. Altra e diversa questione, che tuttavia incide direttamente e fortemente non solo nel problema iugoslavo, bensì anche in quelli di altre zone dei Balcani, è se l'Islam ivi presente possa essere sensibile ai richiami fondamentalistici così forti nel mondo musulmano. Imprevedibile sarebbe l'impatto di una tale eventualità nel contesto balcanico e al di fuori di esso. Si può, tuttavia, affermare che ancora a più di un anno dalla conclusione della pace in Bosnia non se ne vedevano segni apprezzabili.
Un decorso incomparabilmente più semplice e del tutto inconsueto ha avuto la divisione, dal 1° gennaio 1993, della Cecoslovacchia in due Stati, quello ceco e quello slovacco. Come la dissoluzione della Iugoslavia era stata anticipata dalla politica italo-tedesca nella seconda guerra mondiale, così la costituzione della Slovacchia in Stato indipendente fu già anticipata della politica di Hitler nel 1939. Anche in questo caso la divisione sembra aver dato luogo a una condizione nazionale meglio fondata e più garantita. L'espulsione, dopo il 1945, dei circa 3 milioni di tedeschi del Sudetenland ha dato, inoltre, alla Repubblica Ceca una quasi totale omogeneità etnica. Che la separazione del 1993 abbia avuto un carattere tanto pacifico non appare, peraltro, solo un effetto del differente passato storico-politico dei due popoli (i cechi parte dell'Austria e gli slovacchi parte dell'Ungheria asburgica) e della loro diversa fisonomia economica e sociale (più robusta e moderna nei cechi). È probabilmente da considerare pure una prova di maturità della classe dirigente ceca, ben più accorta di quelle iugoslave e da più tempo inserita nella circolazione culturale europea e - anche in rapporto al maggiore grado di sviluppo del paese - più provata dalla doppia esperienza del totalitarismo nazista prima e comunista poi, per cui il suo atteggiamento rispetto alle rivendicazioni secessionistiche slovacche ha potuto essere di intelligente apertura. Il che dovrebbe egualmente far pensare a una sostanziosa stabilità del nuovo assetto.
Stabile, col definitivo riconoscimento tedesco della frontiera dell'Oder-Neisse, appare pure la situazione della Polonia con il già ricordato slittamento del suo territorio da est a ovest dopo il 1945 e con l'omogeneizzazione della popolazione (polacca ormai al 98%) ottenuta per le terribili stragi della guerra o con l'espulsione delle grandi minoranze (circa 1/3) della popolazione del 1939 (soprattutto ebrei e tedeschi), o con la perdita dei territori orientali abitati largamente da russi bianchi e ucraini. L'identità nazionale si è consolidata, poi, in maniera ancor più decisa - se mai ve ne fosse stato bisogno - sui suoi tradizionali fondamenti cattolici e culturali nel lungo periodo del regime comunista. È significativo che la polacca Solidarność abbia rappresentato il primo caso di assunzione del potere da parte di una forza non comunista prima ancora del crollo del comunismo sovietico e della sua egemonia nell'Europa orientale. E da questo punto di vista può ben dirsi che né la crisi di Solidarność, né il più o meno temporaneo ritorno al potere di un partito legato al passato comunista, né gli altri sviluppi della vita pubblica polacca negli anni novanta abbiano minimamente inficiato il dato nazionale di fondo di cui si è detto.
Uno sviluppo nello stesso senso può essere definito quello dell'Ungheria e della Romania negli anni ottanta e novanta, più sofferto in Ungheria, dove il travaglio del contrasto con il regime comunista imposto dai sovietici è stato ben altrimenti profondo che nell'altro paese danubiano. La situazione ungherese ha continuato, inoltre, a soffrire della infelicità delle frontiere fissate a Versailles, che lasciarono fuori dei confini nazionali all'incirca un quarto dei magiari. Fallita e del tutto scomparsa dall'orizzonte delle cose probabili la revisione di quelle frontiere ottenuta con l'appoggio italo-tedesco fra il 1939 e il 1941, anche l'irredentismo degli ungheresi fuori dei confini nazionali si è fortemente attenuato. La sola reviviscenza di rilievo si è avuta per la forte minoranza ungherese in Romania (oltre 1.600.000 persone, raggruppate nella Transilvania), quando negli ultimi tempi della sua dittatura Ceauşescu promosse una violenta campagna di denazionalizzazione della regione. Il crollo di Ceauşescu fece superare questo grave momento di tensione. Ma, da un lato, il fatto che la Romania postcomunista appaia più legata di altri paesi dell'area già di egemonia sovietica a vecchie dirigenze comuniste e, dall'altro lato, e soprattutto, il fatto che la così cospicua minoranza ungherese in Transilvania non abbia mai smesso di fare riferimento alla madrepatria inducono a credere che il problema transilvano continui a covare sotto le ceneri. E, del resto, a esso corrispondono altri, benché meno cospicui, problemi romeni di minoranza etnica, e in particolare quello degli zingari, che concerne circa 400.000 persone (il 2% della popolazione del paese). Ma, come nel loro millenario passato, i romeni continuano ad apparire il popolo di forte coscienza e identità etnico-culturale, che nel mare magnum delle popolazioni balcaniche e danubiane conservò la struttura e la tradizione della sua lingua latina.
b) Il problema dell'unità nazionale nell'Europa occidentale
Problemi della loro vita interna, non problemi di identità e coscienza nazionale sembrano porsi per gran parte dei paesi europei: per Bulgaria, Grecia e Albania nei Balcani; per Austria, Olanda e Danimarca intorno alla Germania; per i Paesi Scandinavi e la Finlandia; per il Portogallo nella penisola iberica; per l'Irlanda nell'arcipelago britannico; per l'Islanda nell'Atlantico settentrionale. E ciò anche se qualche problema di rivendicazione irredentista non manca nel caso della Grecia (per il conflitto con la Turchia in merito a Cipro e per la neonata Macedonia indipendente) e nel caso dell'Irlanda.
Problemi, invece, direttamente attinenti alla consistenza e alla struttura dello Stato nazionale si sono posti nei restanti paesi d'Europa. Si sono posti, invero, anche in paesi del cui fondamento statale nazionale si è sempre dubitato tanto poco da vedere nelle monarchie moderne di antico regime fiorite in essi i casi più precoci di Stato nazionale: Francia innanzitutto, Inghilterra, Spagna.
Per la Francia l'unico problema che al riguardo sembra aver assunto e mantenere un suo rilievo è quello della Corsica. Accenni che si sono avuti per la Bretagna e per l'Occitania non paiono meritevoli di particolare nota. Per la Corsica si è passati addirittura a un'attività terroristica che, dopo alcuni anni, non si è riusciti a chiudere. Ma si tratta pur sempre di fenomeni marginali. La Francia continua a essere considerata non a torto, benché non del tutto a ragione, un modello esemplare di Stato nazionale: per la sua fortissima identità culturale francofona, per la persistente saldezza della sua amministrazione, per la forte integrazione della classe dirigente nel sistema politico, per il ruolo particolare che vi esercita da secoli Parigi, per l'ampia omologazione sociale della sua cultura, per il senso prevalente di perdurante continuità della sua antica tradizione storica di grande paese e per vari altri elementi.
In Spagna gli autonomismi precorritori innanzitutto della Catalogna e poi dei Paesi Baschi hanno trovato numerose repliche e imitazioni nelle altre regioni del paese, ma sono anche rimasti i soli nei quali l'istanza autonomistica si sia trasformata in forti movimenti indipendentistici o semi-indipendentistici.
Per la Catalogna ciò risponde alla presenza di spinte che sono andate sedimentandosi fin dall'unificazione dinastica delle Corone di Castiglia e d'Aragona tra il XV e il XVI secolo e che hanno trovato ripetute espressioni dall'epoca della guerra dei Trent'anni nel XVII secolo a quella della guerra di successione spagnola agli inizi del XVIII secolo e fino alla guerra civile del 1936-1939. L'interesse degli sviluppi avutisi negli ultimi decenni del XX secolo sta, da un lato, nella dimostrazione che, anche in conseguenza della storia economica e sociale del paese nel XIX e XX secolo, l'autonomia catalana era diventata un'istanza troppo corposa per essere riassorbita o controllata con un'ordinaria politica di previdente e saggia ristrutturazione amministrativa dello Stato spagnolo; e, dall'altro lato, nel fatto che un atteggiamento di grande apertura, spinto fino all'accettazione di elementi (se non di veri e propri moduli) federalistici, poteva mantenerla nel quadro di una struttura statale nazionale spagnola ed evitarne un esito apertamente e pienamente secessionistico e indipendentistico.
Per i Paesi Baschi il problema si è posto, in effetti, in tutto il suo rilievo solo nella seconda metà del XX secolo. Per quanto, infatti, sia fin troppo facile ravvisarne precedenti per nulla trascurabili, era stato spesso proprio dai Paesi Baschi che avevano tratto origine movimenti e atteggiamenti di forte nazionalismo spagnolo. Come per la Catalogna, si trattava di una regione di grande dinamismo economico, antesignana dell'industrializzazione e della modernizzazione del paese. A differenza della Catalogna, la pur indubbia personalità culturale basca e la sua ancor più forte e singolare peculiarità linguistica (il basco, come si sa, non è né latino, né addirittura indoeuropeo) non avevano dato luogo a una tradizione così risentitamente particolaristica come quella catalana e così esplicitamente professata per un lungo corso di tempo. L'insorgere di un movimento separatista sanguinoso e violento rimane, in effetti, un problema sul quale deve ancora essere fatta molta luce perché se ne possano intendere tutti i risvolti. Nelle elezioni tenute con regolarità dopo il passaggio della Spagna dal franchismo a un regime liberal-democratico i fautori della secessione non hanno, peraltro, mostrato di raccogliere nella loro regione neppure il 20% dei voti, laddove il consenso elettorale all'autonomismo catalano è stato di gran lunga superiore. Ciò autorizza a pensare che, col tempo, possa contare anche il fatto, in via di progressivo chiarimento, che il terrorismo separatista incontra non solo adesioni sempre limitate, ma soprattutto una disapprovazione crescente negli stessi Paesi Baschi.
Se ciò possa portare a una prospettiva di soluzione del problema analoga e parallela a quella delineatasi per la Catalogna è, appunto, la grande questione che sembra porsi sull'orizzonte nazionale spagnolo alla fine del XX secolo. Già intanto si può dire, però, che l'accennato passaggio alla liberal-democrazia - con un consolidamento del nuovo regime imprevistamente largo e rapido e favorito in misura rilevantissima dal prestigio universalmente guadagnato dalla restaurata monarchia borbonica col re Juan Carlos - sembra aver dato allo Stato nazionale spagnolo una nuova e maggiore possibilità di superamento delle spinte particolaristiche contemporaneamente manifestatevisi con tanta forza, e anzi di una loro conversione in una sua nuova e vitale stagione istituzionale ed etico-politica.
Quanto all'Inghilterra, parlare di crisi dello Stato nazionale è altamente improprio. La crisi, nella misura in cui la si può riconoscere, riguarda, in effetti, il Regno Unito di Gran Bretagna (comprendente Inghilterra e Scozia) e Irlanda, che, definito istituzionalmente nel 1707 (per l'unione fra Inghilterra e Scozia) e nel 1800 (per l'unione con l'Irlanda), non aveva di fatto annullato la distinta personalità delle sue tre componenti, né aveva alcun bisogno o stimolo di farlo, data l'enorme sproporzione di forze tra l'Inghilterra e gli altri due membri del Regno. Il problema irlandese, già ridottosi a quello dell'Ulster col passaggio dell'Irlanda centro-meridionale a dominion nel 1922 e a Stato indipendente nel 1937, ha conservato un'asprezza eguagliata nell'Europa occidentale solo da quella del problema basco. Quale che ne possa essere la soluzione, di cui alla fine del XX secolo sembra intravvedersi una possibilità, non pare che, anche se ne derivasse una modificazione sostanziale della situazione in essere, ne risulterebbe un attentato di rilievo alla consistenza e alla qualità dello Stato britannico. Per la Scozia e poi anche per il Galles si è sempre parlato soltanto di un'autonomia, della quale un referendum del 1997 ha già indicato la via, decidendo l'istituzione di un parlamento e di un governo locali. Se questo fosse l'avvio a un passaggio dalla monarchia unitaria del Regno Unito a una monarchia federale, alla data del referendum non era possibile dire. I relativi traumi si prospetterebbero, comunque, di gran lunga minori che in altri casi analoghi. Sempre è rimasta viva nella tradizione del paese la distinzione fra British e English, e così pure la percezione di ciò che la denominazione di Regno Unito implicava. La lunghissima e solidissima tradizione liberale del paese, che ha consentito una liquidazione certo non indolore, ma neppure lacerante delle sue amplissime posizioni imperiali, lo ha anche assuefatto a mutamenti geopolitici e politico-istituzionali del massimo rilievo. Nella circolazione della cultura mondiale la parte della Gran Bretagna, fra le maggiori almeno dal XVII secolo in poi, si è svolta all'insegna di una sua fisionomia unitaria, per la quale si è sempre fatta poca attenzione (al di fuori del mondo accademico, e neppure sempre) alle sue inflessioni, ad esempio, scozzesi. La tradizione linguistica celtica, pur presente in zone come il Galles, può essere considerata marginale dal punto di vista dell'identità britannica generalmente riconosciuta come propria nel paese.
Difficile, dunque, parlare in senso specifico di una crisi nazionale in Gran Bretagna. Se di elementi di quest'ordine si può e si deve parlare, i relativi riferimenti vanno visti altrove: nella liquidazione dell'Impero, nella special partnership sentita nei confronti degli Stati Uniti e degli antichi dominions della Corona, nel senso concreto che ancora può essere ravvisato nel Commonwealth, nella travagliata vicenda dei rapporti da istituire con la Comunità Europea, in un certo declino della monarchia durante la seconda metà del regno di Elisabetta II, nella perdita delle posizioni ancora di primissimo rango tenute nell'economia e nella finanza mondiali fino al 1945. Un insieme, certo, cospicuo di problemi dai motivi e dagli echi profondi. A suo modo, la Gran Bretagna appare per tutto ciò più vicina alla Spagna che alla Francia, nel senso che vi si avverte in pieno corso una fase di ampia e intima ristrutturazione della sua fisionomia e identità innanzitutto istituzionale. Non vi sono, però, in Inghilterra né Paesi Baschi, né Catalogna (dell'Ulster si è detto) e il processo appare più orientato a un approfondimento che a una diversificazione della sua personalità storica.
Del resto, un tale giudizio appare ancor più persuasivo se si pensa che lo Stato ‛nazionale' quale sorse nel XIX secolo sopravvive senza consistenti alternative non solo negli altri paesi europei di cui si è parlato, ma anche nel piccolo Belgio. Qui il contrasto tra la componente fiamminga e quella vallona è passato dall'iniziale rivendicazione del bilinguismo a una conflittualità molto più aspra, particolarmente nel corso degli anni sessanta, fino a delineare una tendenza separatistica dei fiamminghi e a investire problemi politici e sociali del massimo rilievo, come le sorti della grande industria estrattiva e metallurgica dell'area vallona (la più sviluppata del paese) e l'assistenza finanziaria statale alle meno floride province fiamminghe. Alla fine, però, il Belgio ha mantenuto la sua unità trasformandosi dal 1993, con provvedimenti adottati tra il 1989 e il 1992, in uno Stato federale, in cui, oltre quelle vallona e fiamminga, è stata riconosciuta l'autonomia di una piccola minoranza (all'incirca l'1% della popolazione) che parla il tedesco.
Nella fisionomia pluralistica per lingua, cultura e nazionalità assunta a metà del XIX secolo si conserva pure la Svizzera, fornendo un modello di Stato federale pluriconfessionale e multiculturale, la cui suggestione è stata e rimane viva non solo in Europa per quanto riguarda una soluzione dei problemi di nazionalità. E anche in Svizzera le difficoltà di questo Stato e della ‛nazione elvetica' che vi vive non nascono da ciò, bensì piuttosto dalla singolarità della sua collocazione internazionale (alla neutralità istituzionale si è affiancato dopo il 1945 il rifiuto di far parte delle Nazioni Unite), dai problemi della vita economica e sociale, dal suo ruolo di grande centro bancario e finanziario, e in ultimo, e soprattutto, dall'esigenza di definire una propria posizione rispetto al processo di integrazione europea, che, quando dovesse portare a una vera e propria unione politica, prospetterebbe la Svizzera come una enclave di particolare rilievo e di non facile sopravvivenza nel corpo massiccio di un'Europa unita, con la quale da sempre i rapporti economici e culturali sono strettissimi e vitali.
c) Il caso italiano
Un'ampia ristrutturazione della fisionomia nazionale e relativa identità soprattutto nazionale appare in corso alla fine degli anni ottanta anche in Italia. Dopo l'unificazione nel 1861 - superati i contrasti dei primi anni tra federalisti e unitari, che avevano diviso tra loro sia la maggioranza al governo del paese (Ricasoli e Minghetti), sia l'opposizione repubblicana (Mazzini e Cattaneo), e represse le agitazioni legittimistiche nel Mezzogiorno - non vi erano stati nel paese movimenti separatisti e autonomisti degni di nota. Fino all'avvento del fascismo l'unità nazionale apparve, anzi, in progressivo consolidamento. Col fascismo, poi, anche i fermenti semplicemente autonomisti, che non erano mancati fin dalla costituzione dello Stato unitario, furono compressi e repressi nella logica di un regime che accoppiava strettamente totalitarismo e nazionalismo. Fu dopo la seconda guerra mondiale e il crollo del fascismo che autonomia e secessione apparvero in misura rilevante quali temi della vita politica in Italia. Tuttavia, non fu troppo difficile contenere e piegare sia l'indipendentismo siciliano (dagli equivoci legami con ambienti della malavita nell'isola), sia gli accenni separatistici in Valle d'Aosta (per un'unione alla Francia sobillata anche dall'estero), sia le rivendicazioni della popolazione sudtirolese nella provincia di Bolzano. Per quest'ultima Italia fascista e Germania nazista avevano trovato un accordo che ne fece optare la maggior parte per il trasferimento nel Reich di allora, comprendente anche l'Austria. Ma gli optanti ritornarono poi in Alto Adige dopo la sconfitta tedesca, e furono appoggiati da Vienna, tornata a sua volta all'indipendenza. Vienna promosse allora un tentativo di internazionalizzazione del problema nel momento sfavorevole per l'Italia segnato dalla conclusione del trattato di pace dopo la guerra perduta.
Nella Costituzione repubblicana entrata in vigore dal 1° gennaio 1948 erano previste larghe forme di autonomia regionale. Cinque regioni (Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Valle d'Aosta e Friuli-Venezia Giulia) finirono con l'avere uno statuto speciale, che riservava a esse una potestà legislativa e una competenza amministrativa alquanto larghe. Per il Trentino-Alto Adige, in particolare, si previde l'articolazione in due province autonome (quella, a nettissima maggioranza italiana, di Trento e quella, a maggioranza meno largamente tirolese, di Bolzano), che assunsero in pratica ciascuna i poteri dell'autonomia regionale, mentre l'organismo regionale che riuniva le due province rimaneva come un quadro più che altro formale della convivenza delle due comunità. Per la provincia di Bolzano questa sistemazione fu pure garantita mediante un accordo fra Roma e Vienna, sicché la internazionalizzazione del problema in qualche modo vi fu. Per le altre sedici regioni, tutte a statuto ordinario, il regime di autonomia non fu avviato che nel 1970.
A parte i casi delle regioni ad autonomia speciale (quelle di frontiera, in cui si erano posti problemi particolari, e le isole), l'autonomia regionale entrò nella Costituzione del 1948 non tanto sulla falsariga di istanze e rivendicazioni di articolazione politico-istituzionale del territorio nazionale di carattere etnico o nazionale o subnazionale, quanto in relazione con un'esigenza generalmente accolta di decentramento amministrativo dello Stato unitario, nel cui centralismo si ravvisavano troppe e troppo gravi remore funzionali e organiche allo sviluppo civile del paese. E ciò è così vero che a determinare l'indirizzo autonomistico della Costituzione concorsero spinte politico-culturali assai varie: vecchie tradizioni del liberalismo e della democrazia risorgimentali così come istanze di varie parti del meridionalismo laico e cattolico (da Sturzo a Dorso). Significativo poi è il fatto che le impostazioni autonomistiche della Costituzione incontrassero perplessità, se non resistenze, nella sinistra forse più che nella destra di allora. E ciò in ragione (secondo quanto apparve a molti) di una prevalenza elettorale ritenuta ancora possibile della stessa sinistra, la quale, pervenendo così al governo, non avrebbe gradito di trovarsi di fronte a governi regionali di altro indirizzo e dotati di non trascurabili poteri. Ma non meno significativo è il fatto che, svanita l'eventualità di una prevalenza della sinistra, fosse poi la maggioranza al governo a ritardare fino al 1970 l'attuazione del dettato costituzionale riguardante l'istituto regionale e fosse, invece, la sinistra a sollecitarne e a sottolinearne la realizzazione.
Il meccanismo istituzionale così posto in essere non diede luogo a inconvenienti particolari dal punto di vista trattato qui, malgrado l'ovvia tendenza delle singole regioni ad accentuare la loro individualità storica e civile sia nel quadro nazionale che le une rispetto alle altre. Del resto, la prova dell'istituto regionale riuscì, nel complesso, inferiore alle previsioni e alle attese, anche se in alcune regioni i risultati furono senz'altro migliori. Anche la possibilità di ricorrere alla Corte costituzionale contro provvedimenti e interventi del governo centrale assicurò una valvola di sfogo di grande importanza a tensioni e contrasti altrimenti più difficili a controllarsi. Solo nella provincia di Bolzano si ebbe una prosecuzione effettiva delle spinte separatiste, che venivano giustificate, tra l'altro, con un'asserita inadempienza italiana degli accennati accordi con l'Austria; e questa agitazione raggiunse più volte punte di asprezza spinte fino alla pratica di una vera e propria azione terroristica. Tuttavia, nuovi accordi con l'Austria nel 1966 e nel 1988 diedero modo al governo italiano di tenere in pugno la situazione. Il problema etnico - l'unico vero problema etnico del paese - rimase vivo, naturalmente, consolidato, per di più, dal notevole ampliamento dell'autonomia bolzanese, ormai tale da configurare una certa posizione di molteplice svantaggio per la minoranza italiana di quella provincia.
Non si può affatto dire, tuttavia, che la coscienza nazionale e il senso dello Stato mostrassero in Italia dopo il 1945 un ulteriore consolidamento. Nella già citata precedente voce nazione di questa Enciclopedia erano già notati intorno al 1970 i fattori che a ciò concorrevano. Pochi, tuttavia, avrebbero potuto prevedere anche nella seconda metà degli anni ottanta la svolta decisiva che sarebbe stata segnata dalle fortune, allora iniziate, della Lega Nord. È stato solo allora che si è potuto percepire appieno fino a qual punto identità e valori nazionali fossero stati sottovalutati e trascurati negli anni precedenti. Si percepiva, ora, la loro stanca e, più che altro, rituale amministrazione da parte dei gruppi prevalenti nella classe politica della maggioranza (fatta eccezione per le frazioni autenticamente legate alla cultura e alle tradizioni risorgimentali e per pochi altri gruppi maggiormente sensibili al problema etico-politico dello Stato). Si percepiva, altresì, la loro, in sostanza, pregiudiziale subordinazione (nel migliore dei casi) ad altri valori e la loro riduzione a oggetto di una molto discutibile ‛demistificazione' da parte della opposizione e della cultura di sinistra (basti pensare alle innumerevoli produzioni cinematografiche e televisive al riguardo). Si percepiva, infine, la loro connessione col passato fascista e monarchico del paese (inaccettabile nell'Italia repubblicana e postfascista) operate dall'opposizione di destra. Già questa sommaria e schematica descrizione, riferita allo schieramento politico, può valere a spiegare come identità e valori nazionali fossero visti nei loro aspetti negativi. Non mancarono, peraltro, nel corso degli stessi anni ottanta, atteggiamenti nuovi e imprevisti di esaltazione del sentimento nazionale. Ma che questo potesse significare una vera e propria rinascita di tale sentimento apparve subito più difficile da sostenere. È particolarmente significativo che le circostanze accendessero una fittissima discussione sulla tradizione e sulla consistenza della nazione italiana molto più ricca di dubbi e di negazioni che di certezze e di affermazioni. Altrettanto significativo è che tra le parti più impegnate a favore dell'unità nazionale fossero, in seguito, i sindacati, sempre tiepidi al riguardo fino ad allora, ma ispirati nelle loro esplicite motivazioni molto più dal senso della solidarietà sociale che da una specifica rivendicazione di italianità: come del resto accadeva, contemporaneamente, per le organizzazioni economiche del ‛padronato' sulla base di sentimenti e atteggiamenti speculari a quelli sindacali. Il fatto è che questa riviviscenza si è oggettivamente presentata come una reazione a iniziative politiche giudicate condannabili in considerazione degli interessi generali e più durevoli del paese e del popolo italiano piuttosto che come un rilancio autonomo e spontaneo dei valori nazionali. Non che dell'eclisse di questi valori non si avesse certezza già prima. Negli anni ottanta alcuni affermavano addirittura che potesse essere lo sport il campo in cui essi trovavano e vieppiù avrebbero potuto trovare rappresentazione e recuperi. Solo, però, con le fortune della Lega si ebbe, come si è detto, l'accennata ripresa dei valori nazionali.
La rivendicazione della Lega era fondata inizialmente sulla richiesta di una trasformazione dell'Italia in Stato federale. Si ipotizzavano tre repubbliche (il Nord, il Centro con la Sardegna e il Mezzogiorno) da federare in un nesso istituzionale sostanzialmente indefinito. Successivamente, a metà degli anni novanta, questa richiesta fu mutata in una rivendicazione secessionistica del Nord, battezzato come Padania, dallo Stato italiano. La Padania non poteva non apparire come un riferimento senza alcuna radice effettiva nella tradizione e nella realtà italiana. Non era mai esistito un quadro statale italiano ‛padano' da Torino a Trieste e dalle Alpi all'Appennino emiliano. Ancor più imprevedibile era che le regioni dell'Italia settentrionale accettassero di dipendere da qualcuno dei loro centri invece che da Roma. L'idea di fare di Mantova la capitale del progettato Stato padano volle, probabilmente, attenuare o dissolvere le implicazioni di questo dato di fatto evidente, così come la successiva prospettazione della futura Padania quale repubblica federale, senza, peraltro, che il problema fosse superato: tanto che, quando in ultimo si decise di istituire un sedicente ‛governo padano', se ne indicò come sede Venezia.
In realtà, le rivendicazioni della Lega non trovavano eco in una effettiva percezione di identità padana e in un relativo irredentismo. Rivelatrice è al riguardo l'insistenza sul motivo di un'acre polemica contro il Mezzogiorno e i meridionali. Questi venivano imputati di uno spregiudicato sfruttamento dello Stato e delle sue risorse a tutto danno del Nord e dei settentrionali; di appartenere a una ‛civiltà', a una cultura e a modelli di comportamento opposti a quelli moderni e avanzati dei settentrionali; di vivere di un'indebita e parassitaria rendita di posizione politica rispetto al Nord, sola area attiva e solo produttore del reddito e della ricchezza del paese. Ciò mostrava come e quando si dovesse invocare il motivo di un ‛contro' per definire un'istanza a favore della quale non militavano effettive ragioni di identità storico-culturali e sociali. Quando si volle additare una ragione al riguardo al di là di avventurose improvvisazioni sulle differenze antropologico-culturali (e perfino razziali) tra il Nord e il Sud d'Italia, si ventilò una presunta radice ‛celtica' dell'Italia del Nord, senza considerare che una tale radice non era mai stata una idea-forza determinante neppure nel paese celtico più di ogni altro nel suo passato storico, ossia in Francia; e senza prestare attenzione non diciamo alla profonda latinizzazione di quella parte d'Italia così come di ogni altra parte dell'Europa romana, bensì anche solo alla germanizzazione operata dai Longobardi, che diedero al paese padano il suo nome storico più diffuso e più noto.
In effetti, la Lega trovava la sua eco maggiore nella crisi profonda del sistema politico-economico-sociale, che nell'Italia tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta portò al tramonto, come si disse, della ‛prima Repubblica' e all'avvio della cosiddetta ‛seconda Repubblica'. Fu questa crisi (e anche molte imprevidenti strumentalizzazioni al riguardo) a dare alla Lega Nord e al suo leader Umberto Bossi il rilievo che ne ha fatto a metà degli anni novanta un grande problema nazionale. In realtà, le pur molto cospicue affermazioni elettorali dimostrano che la Lega rappresenta una netta minoranza nello stesso elettorato del Nord, dove, tranne alcune zone, l'enorme maggioranza dei consensi continua ad andare ai partiti nazionali. Quando il movimento leghista raggiunse la sua maggiore diffusione, si manifestò pure, nelle Venezie, un movimento analogo che faceva riferimento all'antica repubblica veneziana e che, se non si contrapponeva a esso, certo si distingueva volutamente da quello essenzialmente lombardo della Lega. Anche in questo caso il riferimento storico era più che discutibile. Tra Venezia e il suo dominio di terraferma non c'era mai stata una completa identificazione; e nel Veneto, come in altre parti d'Italia, il passaggio all'ordinamento regionale nel 1970 aveva visto non per caso le altre province contrapporsi più o meno esplicitamente e fortemente al capoluogo regionale. Anche in questo caso, però, il fondamento di rivendicazioni insospettate fino all'ultimo si ritrovava nella crisi del sistema nazionale anziché nel passato e in sue consistenti proiezioni nel presente. Nel presente, appunto, era possibile ravvisare le ragioni, in parte tanto innegabili quanto evidenti e cospicue, di un malessere e di una insoddisfazione alquanto al di là delle più o meno improvvisate rivendicazioni separatistiche. Nel caso veneto, anzi, ciò metteva in mostra una ripercussione di queste rivendicazioni negli intellettuali di quelle regioni più forte di quanto si sarebbe potuto pensare e di cui nel caso lombardo non si ritrovava l'analogo.
Le basi sociali della Lega, quali sempre più chiaramente si sono definite, confermano questa analisi: basi radicate soprattutto in una piccola e media borghesia e in ceti popolari senza particolari esperienze di cultura moderna; inclini, secondo una dinamica molto nota e spesso sperimentata in Europa e fuori d'Europa nel XX secolo, a ideologie e identificazioni connesse a frustrazioni, velleità e incertezze del proprio ruolo e della propria personalità specifica e collettiva; sensibili innanzitutto e soprattutto ai loro interessi economici più immediati e più ristrettamente intesi, nella scia di recenti successi e fortune esibiti con semplicistico trionfalismo e in una logica di spontaneismo e liberismo intimamente riluttante a principî di disciplina e solidarietà sociale. Motivo, quest'ultimo, che è apparso in maggiore luce nel caso del Veneto, in corrispondenza con la rapidissima intensificazione dello sviluppo economico che sotto questo aspetto ha fatto del Nord-Est italiano un polo nazionale più cospicuo di quanto fosse mai stato. Né è un caso, sempre in quest'ordine di considerazioni, che la materia fiscale sia apparsa fin da principio il punto focale della propaganda della Lega.
Le reazioni a quest'ultima e alle sue istanze da parte delle forze politiche e del governo nazionale non sono apparse adeguate alla crescente gravità del problema, che sembra, anzi, essere stata favorita dalle loro inadeguatezze. Ben presto è stata adottata, quando la Lega è passata alla professione secessionistica, una linea federalistica nella discussione contemporaneamente in corso per la riforma della Costituzione del 1948, sicché è risultato repentino il passaggio dalla linea di una ‛repubblica delle regioni' o delle autonomie a quella di una repubblica federale (da parte di alcuni si parlò pure di un ordinamento da basare, piuttosto, sulle città, secondo una tradizione certo più autenticamente italiana). Della reazione delle forze economiche e sociali si è detto. Notevole è stato, a sua volta, l'atteggiamento di decisa difesa dell'unità italiana adottato dalla gerarchia ecclesiastica dopo varie compromissioni leghiste del clero e dell'episcopato. La Chiesa rivelava con ciò una percezione dei termini oggettivi del problema (pericolosità ideologica del movimento leghista e oscurità dei suoi possibili sviluppi in caso di successo, forza sostanziale del vincolo italiano al di là delle apparenze, dannosità per tutti di una rottura dell'ormai consolidato sistema economico italiano, imprevedibilità delle eventuali reazioni di altre parti d'Italia, rischio di una balcanizzazione del paese con relativi conflitti armati) più viva di quella dello stesso mondo politico italiano, dimostrando così di avere realmente superato il condizionamento dello scontro con lo Stato nazionale ai suoi esordi nel XIX secolo. E in questa più viva percezione può essere certamente rientrata la larga possibilità di contatto con la realtà concreta della vita italiana che ci si può attendere da un grande organismo come la Chiesa, per cui si capisce pure che contro la Chiesa si siano dirette alcune delle punte polemiche più aspre della Lega, non senza note di grossolanità e di velleità inconsuete anche per i suoi leaders.
Nella concreta realtà della vita italiana l'integrazione delle componenti regionali è stata, infatti, assai forte: più forte di quanto non appaia. In quasi un secolo e mezzo di unità viaggi e affari, impieghi e servizi, migrazioni e permanenze, amicizie e matrimoni, studi e politica, lavoro e spettacolo, prassi linguistica e vita sociale, collaborazioni e compartecipazioni in ogni campo della vita civile hanno annodato relazioni strettissime, che sono molto più difficili a sciogliersi dei soli legami politico-istituzionali. È stato notato che tra i fautori stessi della Lega, e spesso tra i più decisi, sono numerosi gli immigrati meridionali nel Nord di seconda o terza generazione (il che conferma, tra l'altro, qualche aspetto della base sociale della Lega a cui si è accennato). Indubbiamente, il dualismo di fondo emblematizzato nella ‛questione meridionale' non è venuto meno. Le differenze regionali conservano, inoltre, tutto il rilievo che per l'Italia da sempre è consuetudine notare, e il paese è sempre tra i più policentrici e articolati, nella sua umanità e nelle sue realtà civili, di un'Europa in cui policentrismo e articolazioni sono ovunque un tratto profondamente caratterizzante anche rispetto ad altre parti del mondo. E, tuttavia, un ‛italiano medio' può dirsi presente e vitale alla fine del XX secolo, come tipo umano e come figura sociale, in misura di gran lunga superiore che nel 1861.
È in questi termini che nello scorcio del XX secolo il problema dell'unità nazionale sembra configurarsi in Italia, a parte altri aspetti di ordine socio-culturale e antropologico-culturale, oltre che di ordine politico, determinati da fattori (a cominciare dall'immigrazione da paesi extraeuropei ed europei) comuni anche ad altre parti d'Europa. Anche in Italia, come altrove, il problema di fondo è, in altre parole, più la tenuta dell'edificio statale, dell'organismo economico-sociale, della personalità etico-politica e culturale del paese che un problema specifico di tenuta della nazione, anche se in Italia, per molte note caratteristiche della sua storia, il problema dello Stato, del dualismo economico-sociale e di altre sue particolarità assume dimensioni più corpose.
5. Prospettive
Il - sia pur molto sommario - quadro della realtà nazionale a livello planetario che abbiamo cercato di delineare sembra confermare in pieno il giudizio sulla tanto discussa vitalità del modulo nazionale dopo i suoi fastigi nel XIX secolo e nella prima metà del XX secolo e dopo la decisa riduzione di potenza e di capacità di azione internazionale autonoma degli Stati europei susseguita alla seconda guerra mondiale (esclusa, naturalmente, l'URSS). L'opinione molto diffusa dopo il 1945, secondo la quale ‟lo Stato nazionale ha fatto il suo tempo ed è inadeguato alle esigenze dei tempi nuovi" non faceva, in effetti, che trasferire indebitamente il giusto rilievo della diminuita potenza degli Stati europei sul piano politico-istituzionale ed etico-politico, sul quale il metro da adottare non può essere quello della potenza.
D'altra parte, si è pure dimostrato che non basta la potenza a dar luogo a una nazione: malgrado il così alto livello di potenza raggiunto dall'URSS, una nazione sovietica - lo abbiamo notato - non si è mai formata. E questo riferimento è importante anche perché fornisce la possibilità di considerare, con il ruolo della potenza, quello dell'ideologia. L'ideologia del comunismo, pur sostenuta con forze non inferiori a quelle con cui fu costruita la potenza dell'URSS, e pur muovendosi su un piano ben più attinente alla vita morale e culturale, è stata egualmente inabile a forgiare una nazione sovietica. Si può estendere questa considerazione anche ad altri casi. La forte individualità cubana, che fa dell'isola caraibica una delle più nettamente ravvisabili fra le nazioni latino-americane di cui si è detto, non è debitrice di questa individualità al regime comunista instauratovi da Fidel Castro, se non nella misura in cui l'esasperato contrasto con gli Stati Uniti può aver conferito a essa qualcosa di ciò che una lunga contrapposizione internazionale conferisce sempre al sentimento dei paesi in contrasto. E, ciononostante, si sono avuti via via indizi crescenti di una larga riluttanza cubana a esaurire nella connotazione ideologica comunista tutto il senso della propria specificità ‛nazionale', e non solo nel campo dei dissidenti dal regime castrista. Ancora meno si potrebbe pensare che l'ideologia comunista abbia potuto o possa essere vista come il cemento del senso ‛nazionale' di quel grande paese che è la Cina, che ha, come si è detto, ben altro retroterra storico. Non diversa era stata, del resto, la lezione delle esperienze compiute nell'Europa del XVIII e XIX secolo, dove appartenenze dinastiche multisecolari non si mostrarono in grado di determinare realtà nazionali corrispondenti e in grado di resistere alla forza delle nuove spinte nazionali: una ‛nazione asburgica', per citare il caso più rilevante, non nacque mai, malgrado il ‛mito asburgico' costruito a posteriori da letterati, storici e politici.
L'esperienza del periodo successivo al 1945 ha, dunque, sostanzialmente confermato la forza dell'elemento nazionale nella vita dei popoli e dei paesi europei. Il processo di unione europea che essi hanno avviato già dall'inizio degli anni cinquanta non contraddice a questa osservazione. L'ipotesi di una ‛Europa delle patrie', formulata a suo tempo da De Gaulle per sottolineare la validità a suo avviso irrinunciabile degli Stati nazionali e la sua preferenza per un'Europa, tutt'al più, blandamente confederale, non ha avuto fortuna (né poteva averla, stante, fra l'altro, il disegno di comprendere in essa l'Europa ‛dall'Altantico agli Urali', e quindi anche l'Unione Sovietica, ossia una componente che allora, anche a prescindere dal contrasto ideologico fra Oriente e Occidente, avrebbe sbilanciato qualsiasi costruzione europea). Un'‛Europa delle nazioni' è, tuttavia, quella che si è andata costruendo, sulla base appunto degli Stati nazionali del continente, il cui profilo è certamente e incomparabilmente più forte, nella rispettiva specificità, degli Stati membri degli Stati Uniti o dei cantoni elvetici. Né è mancato chi si è chiesto se l'Unione Europea non postuli una ‛nazione europea' come realtà già in atto o da promuovere e realizzare, facendo sorgere, con ciò, sia una questione del tutto conforme alla migliore tradizione del pensiero nazionale europeo, sia la temuta eventualità che la ‛nazione Europa' possa arieggiare e richiamare alle dottrine etno-imperialistiche del nazionalismo europeo nei suoi svolgimenti di più disastrosa conclusione. Il problema, tuttavia, sussiste e dimostra precisamente che nel suo luogo di origine lo Stato nazionale non ha fatto ancora il suo tempo e che, anzi, la stessa costruzione europea non ne può superare e assorbire la sovranità, se non compenetrandosi in qualche modo dei caratteri fondanti del suo profilo etico-politico.
Anche fuori, però, del suo luogo di origine il modello nazionale appare, come più volte si è avuto occasione di notare, vitale e in espansione. Il colonialismo e l'imperialismo europei hanno dimostrato di aver svolto, da questo punto di vista, un ruolo notevole di acceleratori della storia, non diversamente da come nella stessa Europa accadde con la rivoluzione francese e con Napoleone. Il calco nazionale si è sviluppato negli ambiti disegnati sia dall'espansione coloniale europea, sia dalle reazioni a tali configurazioni. In alcuni casi esso sembra aver raggiunto una maturità non inferiore, se non addirittura superiore, al modello europeo. Gli Stati Uniti sono, da questo punto di vista, un'indicazione illuminante, corroborata com'è dalle ragioni della potenza e dell'ideologia. ‛Grande nazione', ‛nazione imperiale' sono qualificazioni attribuite non a caso, anche se in via talora polemica, alla nazione americana nel suo grado di massima potenza dopo la seconda guerra mondiale; e sono qualificazioni pertinenti per il ruolo che essa svolge ormai riconosciutamente sul piano internazionale. Ma le ragioni della sua fortissima proiezione esterna non debbono inficiare il senso della sua maturazione interna, che ne ha fatto alla fine del XX secolo, malgrado i non trascurabili contrasti e problemi della sua vita civile, una delle più solide realtà etico-politiche del mondo contemporaneo, al di là anche di una certa disparità di tono e di una certa diversità semantica tra l'uso europeo del termine ‛nazione' e il senso in cui negli Stati Uniti si parla correntemente di una ‛nazione americana'.
In varie parti del mondo extraeuropeo è certamente da chiedersi se lo Stato nazionale che vi appare in più o meno avanzata formazione sia opera e realtà di élites ristrette o penetri più a fondo nella esperienza e nella coscienza sociale. La questione è ben posta, ma non riguarda solo la dimensione nazionale, bensì ogni altro aspetto o momento dello Stato moderno, e in generale della stessa modernità, rispetto agli elementi più tradizionali, più specifici, più autoctoni delle singole realtà statali e politiche a cui ci si riferisce. E l'esperienza induce a sua volta a ritenere, in tali casi, che, in generale, siano solitamente le ragioni della modernità, benché, magari, alla lunga e con vari compromessi, a prevalere.
Fuori d'Europa, il modulo nazionale - come pure abbiamo osservato - ha trovato in effetti i suoi antagonisti non in alternative politico-istituzionali e ideologiche, bensì in dati di ordine culturale e religioso. La refrattarietà maggiore può sempre essere ravvisata nell'Islam, il cui senso della comunità è fondato su elementi assai difformi da quelli caratterizzanti dell'esperienza europea nel XIX e nel XX secolo. Universalismo etico-religioso, tribalismo, fondamentalismo e altri fattori concorrono tuttora a fare dell'Islam il punto di maggiore resistenza, come a tanti altri aspetti della civiltà europea, così, in particolare, a quello del modello nazionale. E, tuttavia, abbiamo pure notato che nel vastissimo ambito islamico l'articolazione in popoli e paesi non solo diversi, ma spesso irriducibili nemici fra loro, procede da sempre sulla base di elementi che non cedono alla pur profonda e forte interferenza del fattore religioso: esperienza che non differisce, peraltro, da quella del mondo cristiano. Sono gli elementi attinenti, appunto, alla tradizione storica, alla specificità culturale, alla individualità civile in generale dei singoli popoli e paesi, alle quali l'idea europea e moderna di nazione ha dato il fondamento teorico di cui parliamo. Un paese così rappresentativo dell'Islam qual è l'Egitto ne fornisce un caso esemplare, con la millenaria singolarità della sua fisionomia e delle sue esperienze nel più vasto ambito islamico. Ecco perché, nonostante il fondamentalismo e ogni altro elemento in contrario, appare difficile credere a un'alternativa islamica al modello europeo dello Stato nazionale. Sarebbe, del resto, incongruo che liberalismo e democrazia, tecnologia e capitalismo, socialismo e dialettica sociale, istituzioni e prassi europee penetrassero inarrestabilmente nel mondo islamico, e solo l'elemento nazionale restasse escluso da una tale penetrazione. È vero, piuttosto, che non solo anch'esso è penetrato in quel mondo, ma vi ha dato luogo a rapide, nonché diffuse, forme di nazionalismo oltranzistico e ha trovato, in fondo, le resistenze maggiori nei paesi a regime tradizionalistico più antiquato e nelle forti persistenze tribalistiche.
Sfide più consistenti sembrano, invero, portare al modulo nazionale la serie di elementi che caratterizza la congiuntura degli anni novanta del XX secolo: la globalizzazione dei mercati e delle relative attività economiche e finanziarie; il disegno di potenziare le Nazioni Unite come ‛governo mondiale'; la potenza imperiale americana, per cui si è parlato di ‛fine della storia'; la prevalente adozione di regimi politici su base pluralistica e rappresentativa; l'omologazione culturale del ‛villaggio globale' attraverso i grandi mezzi di comunicazione di massa con le connesse trasmissioni in tempo reale e reti informatiche; la mondializzazione dei comportamenti e dei consumi, e quindi anche delle mentalità, che deriva da alcuni di questi elementi, se non da tutti; la fioritura o rifioritura di universalismi religiosi - come quelli islamico, cattolico, buddistico - di cui si hanno vari indizi; l'internazionalizzazione inarrestabile della ricerca e della vita scientifica in generale; la progressiva affermazione dell'inglese come ‛lingua franca' dell'era della mondialità, e così via. Il complesso di questi scenari grandiosi, eppure già presenti e variamente e parzialmente sperimentati alla fine del XX secolo, sembrerebbe effettivamente delineare una prospettiva di superamento del quadro nazionale e di formazione di un universo umano i cui poli di aggregazione e di gravitazione possono essere di ordine del tutto diverso da quello dei valori nazionali, se non addirittura opposto.
Una sfida parallela appare nello stesso tempo provenire dai grandi movimenti di popolazione dai paesi meno sviluppati a quelli più sviluppati. In particolare nei paesi dell'Europa occidentale e negli Stati Uniti essi delineano la formazione (ne abbiamo accennato) di realtà civili multietniche e multiculturali alquanto diverse da quelle che maturarono nel corso del tempo l'idea e la coscienza di nazione e la propagarono nel mondo. Il calo demografico di molti paesi avanzati induce a ritenere questa prospettiva tanto più probabile in quanto l'esigenza di una manodopera numerosa e il rifiuto di determinati lavori e occupazioni da parte degli strati sociali inferiori degli stessi paesi fanno prevedere una non trascurabile intensificazione dei flussi migratori verso di essi dalle parti più povere del mondo. La stessa indicazione, inoltre, sembrano dare le difficoltà di sviluppo dei paesi più arretrati, che, insieme con la loro sempre alta vitalità demografica, costituiscono un incentivo all'emigrazione forse ancor più forte del richiamo dei paesi avanzati.
Innegabile è, però, il fatto che nello stesso tempo le ragioni della diversità non solo hanno continuato a farsi sentire, ma hanno spesso assunto maggiore rilievo nell'esperienza politica e sociale del mondo contemporaneo. Le ragioni della nazionalità si sono imposte, come si è visto, nell'Europa della fine del XX secolo con forza maggiore che rispetto agli inizi dello stesso secolo. Se l'ordinamento europeo su base nazionale stabilito a Versailles dopo la prima guerra mondiale è stato alterato, lo è stato nel senso di dare al principio nazionale una maggiore, non una minore attuazione, sciogliendo anche nazioni che Versailles a suo tempo si fece merito di aver riconosciuto, come Cecoslovacchia e Iugoslavia. Lo Stato europeo apparso sempre come il più alieno dalle esasperazioni o anche solo da una indiscreta sottolineatura del nazionalismo, ossia l'Inghilterra, si è rivelato il più tenace nel resistere agli inviti e ai richiami europeistici. Sulla prospettiva dell'Unione Europea è stato agitato fin dagli inizi lo spettro di un ‛direttorio' delle potenze maggiori (Germania e Francia), che ha sollevato sempre comprensibili resistenze ‛nazionali' da parte degli altri paesi. Dissoltasi l'URSS, è potuto sembrare che la nuova Russia possa essere uno stabile partner di questo ‛direttorio' in un quadro internazionale che trascenderebbe, quindi, quello dell'Unione Europea. Gli interessi dei popoli e dei paesi europei non cessano, inoltre, malgrado l'integrazione in corso, di mantenersi distinti e diversi, se non (come non di rado accade) opposti, sia sul piano delle loro economie che sul più specifico piano politico. Abbiamo accennato come in questioni quale quella della Iugoslavia e dell'Albania questa distinzione o diversità di interessi e, quindi, anche di comportamento diplomatico e di azione politica abbia potuto essere facilmente osservata. E, d'altra parte, il fatto che la Comunità Europea, malgrado il suo avanzato stato di integrazione (soprattutto, ma non solo economica) non sia stata in grado di agire da efficace soggetto politico internazionale unitario neppure in questioni dello stretto spazio europeo conferma la permanenza delle distinzioni o diversità di cui si è parlato. E, quanto all'Europa non comunitaria, di gran lunga più indefinita e inconsistente nel suo concreto significato operativo appare la Comunità di Stati Indipendenti in cui formalmente si è risolta l'URSS e che non si è rivelata in grado di fermare alcuno dei conflitti insorti fra gli Stati ex sovietici. A sua volta assai più significativo è, poi, il fatto che alcune delle spinte maggiori o delle pretese più appariscenti di rifiuto del quadro nazionale vigente nell'Europa della fine del XX secolo abbiano fatto perno sulla rivendicazione di interessi economici offesi più che su quella di elementi culturali o propriamente ‛nazionali'. Così è accaduto in Italia, con la campagna contro i più o meno presunti storni del prelievo fiscale a danno delle regioni che sono le maggiori produttrici del reddito nazionale (e sulla stessa base è sostanzialmente proceduta - sia detto per inciso - la rivendicazione separatistica del Québec nel Canada).
Se si esce fuori del quadro europeo e ci si ferma in particolare negli ambiti del cosiddetto Terzo Mondo, le indicazioni in tal senso sono ancora più stringenti. A misura che ci si allontana dal passato coloniale o semi-coloniale, la fisionomia politica di popoli e di paesi si delinea sempre meglio, sia quando dà luogo a individualità ben definite, sia quando dà luogo a squilibri e tensioni laceranti. Le stesse opzioni linguistiche (anglofoni, francofoni, iberofoni) non hanno costituito alcun motivo di superamento effettivo dell'individualità culturale dei paesi extraeuropei che a tali opzioni sono pervenuti. Il Commonwealth britannico non ha rivelato consistenza maggiore della Comunità di Stati indipendenti nella ex URSS. Irriducibile a qualsiasi schema transnazionale si è rivelato Israele, le cui esigue dimensioni demografiche sono esattamente inverse, su scala proporzionale, al significato dell'istanza storica e dell'idea morale che esso rappresenta in connessione con l'ebraismo mondiale. Persino nello scenario da pretesa ‛fine della storia' ipotizzato per il panorama mondiale della fine del XX secolo, vari paesi appaiono - per dimensioni o per potenzialità - destinati a una parte di primo piano accanto agli Stati Uniti: Cina e India, Giappone e Brasile, Russia ed Europa unita..., con implicazioni culturali ed etico-politiche che non vanno nel senso di un livellamento indifferenziato.
Una conclusione provvisoria - anzi, piuttosto, un'ipotesi di lavoro - nella scia di tutto ciò può, quindi, essere fornita dalla considerazione che nessuno certamente può pensare a ‛nazione' e a ‛valori nazionali' come strutture definitive, insuperabili dell'esperienza umana in fatto di aggregazione e di vita etico-politica. Una chiusura della storia non è ipotizzabile neppure per questo verso. Come, però, le idee di libertà e di democrazia si sono profondamente radicate nell'esperienza del mondo occidentale dalla fine del XVIII secolo in poi e da esso si sono largamente estese, almeno nel loro disegno istituzionale formale, a tutto il resto del mondo e appaiono, alla fine del XX secolo, vincenti su un orizzonte temporale indefinito e indefinibile, altrettanto può dirsi dell'idea nazionale.
Anche una tale ipotesi vale, peraltro, in una prospettiva sempre potenzialmente molto dinamica, nel senso che nessuna delle nazioni storicamente presenti sulla scena del mondo alla fine del XX secolo può ritenere di avere per sé un futuro illimitato. Articolazioni e riarticolazioni, definizioni e ridefinizioni, declini e rinascite, ampliamenti e secessioni, moltiplicazioni e riduzioni dei singoli quadri nazionali sono sempre una potenzialità effettiva; nuove nazioni si possono formare o riformare per distacchi o aggregazioni totali o parziali degli Stati nazionali esistenti; identità nuove possono essere riconosciute o costruite e identità precedenti riprese e rilanciate. È presumibile che nel caso delle realtà nazionali di più antica tradizione e di più solido organismo (come sono, per lo più, le nazioni europee) queste potenzialità siano più esigue, mentre siano molto più consistenti per i popoli e i paesi di più recente tradizione e di meno robusto organismo politico. Ciò significa che più che mai attendibile si configura l'idea della nazione come ‛volontà nazionale', plebiscito - secondo la già citata definizione di Renan - di ogni giorno. Ma significa pure che, al pari di ogni altra realtà storica, idea e volontà nazionale non sono atti, proiezioni e sviluppi arbitrari e incondizionati. Significa anzi - ed è qui la forza vera e sostanziale della dimensione nazionale nelle sue più alte manifestazioni - che esse sono condizionate e relative a realtà effettive e non facilmente comprimibili o disconoscibili, maturate nella storia e forti del suo spessore, solide sedimentazioni di valori culturali e di interessi vari della vita civile. A questa realtà la presa di coscienza in termini di identità e di opzione nazionale dà la legittimità e la forza di una delle massime espressioni di civiltà politica sperimentate nella storia, non meno della polis ellenica in altra epoca e in altro contesto. Più di altre espressioni di civiltà politica, il modello nazionale si è dimostrato e si dimostra, inoltre, plasmabile e flessibile agli sviluppi del movimento storico. I quadri nazionali possono, come si è detto, variamente comporsi e ricomporsi. L'istanza nazionale mostra di poter essere soddisfatta sia nella forma dello Stato unitario, accentrato o autonomista, che in quella dello Stato federale o confederale. Sullo scorcio del XX secolo la congiunzione nazione-federazione sembra più in vista di altre. Ma questo appare più legato alla vicenda fenomenica contingente che alla logica e alla vitalità intrinseca del modulo nazionale (idea e fatto): vitalità e logica sulle quali, come si è detto, il sipario non appare né calato, né prossimo a calare.
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