Nazione
di Rosario Romeo
Nazione
sommario: 1. Nazioni e nazionalismi alla prova della seconda guerra mondiale. 2. Il dopoguerra: a) vincitori e vinti; b) la divisione della Germania e il problema della ‛colpa' dei Tedeschi. La Ostpolitik e il declino dei valori nazionali; c) il tramonto dei sogni di grandezza in Italia; d) ‟les Franåais n'ont plus d'ambition nationale"; e) l'Inghilterra: la progressiva rinuncia alle responsabilità mondiali; f) natura e limiti dell'egemonia americana; g) i valori nazionali nell'Unione Sovietica e nei paesi dell'Europa orientale. 3. Nazioni e nazionalità nel mondo contemporaneo. □ Bibliografia.
1. Nazioni e nazionalismi alla prova della seconda guerra mondiale
Il secondo conflitto mondiale è rimasto nella storia come l'ultimo e più tragico risultato dei principi e valori nazionali che erano stati al centro della vita europea nei centocinquant'anni seguiti alla Rivoluzione francese ed erano giunti a un culmine di estrema esaltazione dopo il 1918. Soprattutto le potenze dell'Asse avevano condotto la guerra come la prova suprema alla quale era affidato per i secoli avvenire il futuro delle nazioni. Paesi unificati di recente, in cui era ancora viva l'eco delle battaglie combattute nell'epoca del risorgimento delle nazionalità, Italia e Germania si erano date regimi che giustificavano la soppressione delle pubbliche libertà con l'urgenza di convogliare tutte le energie verso la tutela dei supremi interessi nazionali. Nonostante la tardiva adesione ai principi razzisti, il fascismo italiano aveva fatto appello a un concetto della nazione che affondava le sue radici, in primo luogo, nella cultura storicistica e idealistica; mentre l'idea che la nazione avesse la sua vera base nell'unità biologica della razza fin dall'inizio era stata messa a fondamento della propria dottrina dal nazionalsocialismo tedesco. In relazione alla maggiore modernità e al carattere più largamente popolare del movimento, oltre che alla assai maggiore gravità dei conflitti etnici e nazionali già esistenti non solo ai confini fra mondo slavo e mondo tedesco ma all'interno della stessa Germania (per effetto di una presenza ebraica assai numerosa e influente), il nazionalismo tedesco aveva subito assunto carattere assai più radicale ed eversivo, nell'intento di garantire al gruppo etnico germanico una permanente superiorità sui popoli vicini in termini non solo politici ma culturali e civili. Anche i fini di guerra erano stati individuati nei paesi dell'Asse come fini essenzialmente nazionali. Per l'Italia si trattava di conquistare l'egemonia mediterranea e uno spazio coloniale che garantisse l'avvenire economico di un paese sovrappopolato e per tanti aspetti ancora povero e arretrato. Per la Germania l'obiettivo fondamentale era invece la conquista di spazio all'Est, nei territori dell'oriente slavo, da assicurare all'espansione di un popolo tedesco destinato, nelle previsioni di Adolf Hitler, a raggiungere fra qualche secolo i 250 milioni, e a capeggiare un'estrema lotta per la sopravvivenza della civiltà europea contro la minaccia proveniente dall'Asia, con il suo miliardo e mezzo di abitanti. Da ciò lo speciale andamento assunto dalla condotta politica e militare della guerra tedesca sul fronte orientale: caratterizzata da atroci violenze nei confronti delle popolazioni, soprattutto in Polonia, in Russia e in Ucraina, dove si voleva stroncare ogni vita politica e civile di livello superiore, e porre in tal modo le premesse di un insediamento su larga scala di popolazioni tedesche in quelle regioni, quale rinnovata e più vasta edizione della spinta espansiva che nel XIII-XIV secolo aveva condotto le stirpi germaniche sino ai territori a est dell'Oder e ai paesi baltici. Equivalente interno di questa lotta per l'allargamento dello spazio ai confini del Reich, la campagna per l'annientamento della popolazione ebraica nei territori sotto controllo tedesco, che è rimasta nella coscienza del mondo civile quale simbolo ed emblema pauroso degli estremi ai quali può giungere una lotta di razze e di stirpi ormai svincolata dalle norme morali della comune umanità.
Nel nome di principî e di valori dichiaratamente superiori ai limiti nazionali, e appartenenti al patrimonio di tutta l'umanità civile, avevano invece combattuto le potenze via via confluite nella grande alleanza delle Nazioni Unite. Libertà e democrazia per i paesi occidentali, comunismo e difesa degli oppressi di tutto il mondo da parte dell'Unione Sovietica: tali erano le divise iscritte sulle bandiere degli eserciti che nel maggio 1945 unirono le loro armi sulle rovine di una Germania devastata. E tuttavia, a ben vedere, valori e interessi nazionali erano stati tutt'altro che assenti fra le ragioni di guerra dei paesi vincitori. Per la Francia si era trattato all'inizio della guerra, e si trattava ancora nel 1945, a vittoria ottenuta, di stroncare alle radici quella potenza tedesca che fin dalla sua nascita aveva relegato in secondo piano le pretese francesi al primato europeo; per la Gran Bretagna la battaglia per la democrazia e la libertà del mondo si identificava anche adesso, come tante volte in passato, con la lotta per la difesa di un ordine internazionale di cui la potenza inglese doveva essere uno dei pilastri fondamentali; per gli Stati Uniti la sconfitta tedesca coincideva con la conquista di un illimitato predominio politico, economico, culturale e tecnico-scientifico sul mondo occidentale. Si può discutere se questo predominio fosse stato dagli Stati Uniti consapevolmente voluto o se piuttosto non fosse loro caduto sulle braccia per effetto di una guerra combattuta, come già nel 1917-1918, all'insegna del mito di un'America il cui ‛destino manifesto' era quello di garantire la libertà del mondo; come si può discutere in che misura calcolo spregiudicato degli interessi nazionali e illusioni in buona fede si intrecciassero nella calvinistica persuasione con la quale gli Inglesi identificavano ancora una volta la causa della Gran Bretagna con quella dei valori supremi della moralità e dell'ordine internazionale; mentre appare innegabile l'accento nazionalistico dell'asserita identità tra la causa della Francia e quella della libertà di tutti i paesi, di cui il capo della Francia in lotta si farà ancora testimone a più di vent'anni dalla fine della guerra. Anche più evidente l'identificazione della causa universale del comunismo con quella nazionale russa nella grande lotta sostenuta dall'Unione Sovietica, subito battezzata e propagandata da Stalin come guerra patriottica, illuminata e sostenuta, oltre che dai valori recenti della rivoluzione, da quelli più antichi dello Stato nazionale russo unificato dagli Zar. Che la lotta fosse sentita nell'Unione Sovietica come diretta non solo contro il fascismo tedesco ma contro la Germania e il popolo tedesco come tale, è documentato dalla uguale e contraria violenza e crudeltà opposta dai combattenti russi alla violenza e crudeltà degli invasori, è rivelato da documenti famosi come il proclama lanciato all'Armata rossa nel momento in cui essa varcava i confini tedeschi, ed è alla base delle pretese territoriali avanzate da parte russa ancora prima della conclusione del conflitto. L'annessione al territorio russo di Königsberg, antica sede dell'Ordine teutonico e dei re di Prussia, voleva essere una tardiva ma solenne vendetta di antiche e recenti sconfitte, mentre le vaste annessioni di territori nel Baltico, in Polonia, Cecoslovacchia e Romania, e la creazione di una ancora più vasta serie di Stati cuscinetto, venivano giustificate con l'esigenza di garantire la sicurezza russa da nuovi attacchi da parte tedesca: giustificazione di cui l'evidente pretestuosità, specie nella situazione europea determinatasi dopo la guerra, rivela l'ispirazione imperialistica e nazionalistica.
Per converso, anche i nazionalismi dei paesi dell'Asse, sia pure con un'accentuazione diversamente distribuita, si giustificavano con motivazioni di tipo ideologico e universalistico. Nell'ingenua retorica che accompagnava il velleitario espansionismo italiano si faceva riferimento alle memorie della grandezza imperiale di Roma quale ispiratrice della nuova missione di civiltà che si voleva spettasse all'Italia, e si proclamava una vocazione africana e mediterranea della penisola, che non mancava peraltro di antecedenti risorgimentali e romantici; come più tardi s'invocherà, negli anni tragici della Repubblica Sociale Italiana, la matrice mazziniana del moderno sentimento italiano di patria e nazionalità. A sua volta, l'hitlerismo ricercava le ragioni ultime della lotta per la vita o la morte alla quale era chiamato il popolo tedesco nel supremo pericolo che incombeva sulla civiltà europea - che era poi, in quel contesto intellettuale, la sola e vera civiltà umana. L'Europa rischiava di essere espulsa dalla storia dall'incalzare delle grandi potenze extraeuropee e dai germi interni di dissoluzione simboleggiati dall'ebraismo: solo la mobilitazione di tutte le energie della razza nordica, unica e vera creatrice di storia, poteva essere una risposta adeguata all'entità del pericolo che minacciava, con la Germania, l'intera Europa e la civiltà. In tal modo, si è giustamente osservato (v. Lemberg, 1964), anche questa forma estrema di nazionalismo finiva per incrinare il quadro nazionale della sua impostazione originaria, nella misura in cui l'elemento razziale nordico, quale prese forma durante la seconda fase della guerra nelle formazioni internazionali delle SS, superava i confini della nazione tedesca, e si contrapponeva, all'interno della stessa Germania, agli elementi della comunità nazionale più inquinati da antiche commistioni razziali. Ma, sia da parte delle potenze dell'Asse che da parte delle Nazioni Unite, l'intreccio degli egoismi e delle ambizioni nazionali con motivazioni universalistiche che pretendevano a un'assoluta validità etica induceva a configurare gli avversari non già come esponenti di interessi contrapposti e dotati ciascuno di una propria legittimità, ma come fautori di una causa che si collocava al di fuori della comunità civile, e dunque privi dei diritti che la tradizione dell'Europa illuministica e cristiana riconosceva agli avversari in qualche modo legittimati dalla fedeltà al proprio paese o ai propri ideali. La guerra venne dunque ad assumere carattere, come allora si disse (Croce), di guerra civile o di religione, nella quale amici e avversari si cercavano e riconoscevano nell'identità degli ideali al di là delle frontiere nazionali. Da ciò la nuova configurazione assunta dall'antica questione del ‛tradimento', avvertita adesso, da uomini di spirito certo non volgare, in termini e modi che nulla avevano più a che fare con l'im- postazione dominante nell'era in cui la nazione era stata supremo principio e valore etico e politico. Da ciò, anche, la tendenza al totale annientamento dell'avversario, addirittura relegato dal nazismo in una sfera biologicamente inferiore, e dagli alleati identificato con la causa del Male e dell'Errore. Che erano atteggiamenti scomparsi da secoli nella coscienza dell'Europa civile, anche se in passato se n'erano avute, specie nei paesi anglosassoni, manifestazioni significative, ispirate alla calvinistica tendenza a ve- dere le lotte dei popoli e degli Stati in termini di lotte fra reprobi ed eletti: come era accaduto al tempo della guerra contro Napoleone o durante la prima guerra mondiale, quando uomini come John Dewey e George Santayana avevano dichiarato responsabile della ‟perversità della Germania" il soggettivismo e apriorismo della sua tradizione filosofica, mentre a livello popolare era risuonato sempre più spesso lo slogan ‟hang the Kaiser".
Ma adesso tutto ciò accadeva su scala ben più vasta e universale, con l'identificazione, da parte tedesca, dell'e- braismo con il male del mondo, e, da parte alleata, con i propositi di vendetta e di ‛punizione' dell'intero popolo tedesco. L'integrale politicizzazione della società moderna seguita alla Rivoluzione francese maturava in tal modo alcuni dei suoi frutti peggiori: ed essi concorsero in larga misura a determinare alcuni degli aspetti più atroci del conflitto, dalla ‛soluzione finale' del problema ebraico al disumano governo instaurato dai commissariati del Reich nei territori orientali occupati, ai bombardamenti terroristici effettuati dagli alleati in Germania (e, su scala assai minore, in Italia e altrove), alla deportazione in Germania di milioni di lavoratori stranieri, alla generalizzazione di una indiscriminata guerriglia antitedesca, all'efferatezza delle contrapposte rappresaglie.
2. Il dopoguerra
a) Vincitori e vinti
Che ai soccombenti in una simile guerra dovesse essere riservato un trattamento di eccezionale rigore era inevitabile, ed evidente già alla coscienza dei contemporanei e protagonisti. A questa sorte si sottrassero in buona parte gli Italiani, subito apparsi militarmente avversari di poco momento, e solleciti, dopo i primi insuccessi sui fronti di guerra, a sostituire il loro rumoroso consenso al fascismo con una sempre più diffusa ostilità, culminata, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e il tentativo del governo di Roma di sottrarsi alle conseguenze della disfatta passando nel campo alleato, in un'estesa resistenza popolare contro il regime fascista repubblicano e le forze tedesche in Italia. Uniti all'influenza che il vasto elettorato italo-americano esercitava sulla politica del presidente Roosevelt, questi fatti valsero a creare, specialmente negli Stati Uniti, un'atmosfera filoitaliana che contribuì ad attenuare sensibilmente le condizioni di pace imposte al nuovo regime democratico instauratosi nella penisola, anche se la sconfitta costò ugualmente all'Italia la perdita dei domini coloniali e dei territori dalmati e istriani, abbandonati, dopo il 1945, da alcune decine di migliaia di abitanti di origine italiana. Per di più, il movimento di resistenza, impostato dalle forze antifasciste italiane come movimento di liberazione nazionale contro l'invasione tedesca, in contrapposizione al nazionalismo dei fascisti restati fedeli all'alleanza germanica, consentì in certa misura di saldare anche quella vicenda al passato risorgimentale del paese, e di salvaguardare in tal modo la coscienza di una ininterrotta continuità fra l'Italia antifascista e la tradizione nazionale, che doveva rivelarsi preziosa nella ricostruzione morale del dopoguerra.
Assai diversa la situazione della Germania. La stessa energia di cui aveva dato prova durante il conflitto, e che le aveva consentito di fronteggiare per cinque anni la coalizione che aveva unito contro di essa gran parte del mondo, rafforzava nei paesi alleati la decisione di ridurla per sempre all'impotenza. Nessuno si sentiva più di riesumare il programma wilsoniano di una pace senza vinti né vincitori, e tutti invece concordavano nel proposito di stroncare in modo definitivo il pericolo rappresentato dalla Germania, da cui per due volte a distanza di vent'anni era partita l'aggressione e la scintilla della guerra. Si aggiunga l'indignazione suscitata in tutto il mondo, proprio alla fine del conflitto, dalla scoperta agghiacciante dei campi di annientamento, dei quali alcuni settori della comunità ebraica internazionale, assai influente nei paesi occidentali, e di cui faceva parte un'importante componente intellettuale di ebrei tedeschi, chiedevano riparazione e vendetta. Propositi estremi contro il mondo germanico, aggressore e fascista, avanzavano poi sulla scia dell'Armata rossa nei paesi della Europa orientale, dove con maggiore violenza si era esplicata la dottrina nazista dell'inferiorità razziale e storica dei popoli slavi; e a questi risentimenti popolari e diffusi in tutti i paesi di quella parte d'Europa si univa poi l'interesse politico dell'Unione Sovietica, risoluta anch'essa a stroncare per sempre un avversario contro il quale aveva combattuto e vinto la più grande guerra della storia, con perdite enormi di vite umane e di ricchezze, e che ancora in avvenire avrebbe potuto rappresentare il più valido baluardo contro i suoi propositi di egemonia europea. E fu proprio in questa regione che si ebbe, subito dopo la fine del conflitto, la prima e più sanguinosa amputazione del corpo nazionale tedesco, con l'espulsione di tutta la popolazione germanica non solo da paesi non tedeschi dove per secoli aveva svolto una funzione di minoranza all'avanguardia del progresso culturale e civile (dalla Polonia all'Ungheria alla Romania), ma anche da zone in grandissima maggioranza o quasi esclusivamente tedesche come la regione dei Sudeti in Cecoslovacchia e, all'interno dei confini di quello che era stato il Reich tedesco, la Prussia orientale, la Pomerania, parte del Brandeburgo, la Slesia. V'era, all'origine di queste misure che cancellavano i risultati della medievale espansione tedesca ad Oriente, la coscienza, comune a tutti i nazionalismi dell'Oriente slavo, che con la vittoria dell'Armata rossa si concludeva, a favore degli Slavi, la lotta secolare - che poi in realtà era stata inframmezzata da vastissimi e duraturi fenomeni di feconda collaborazione culturale e civile - fra slavismo e germanesimo. Vi era l'esigenza di vendicare le gravissime offese e le perdite subite da parte di popoli che avevano atrocemente sofferto sotto l'occupazione tedesca, come il polacco, e l'antico e nuovo rancore di altri che, come i Cechi, erano stati in confronto assai meno colpiti. E vi era soprattutto l'interesse politico dell'Unione Sovietica di creare in tal modo un fossato incolmabile specialmente fra Tedeschi e Polacchi, per i quali diventava dopo di allora irrinunciabile la garanzia degli acquisti fatti da parte dei Sovietici, che nel tempo stesso confermavano con questo mezzo le conquiste effettuate ai danni della stessa Polonia in seguito all'accordo russo-tedesco del 1939. Nelle regioni a est della linea Oder-Neisse assegnate alla Polonia furono infatti insediati gli abitanti polacchi delle regioni orientali del paese annesse all'Unione Sovietica; mentre si può calcolare che circa 12 milioni di tedeschi venissero espulsi dalla Germania orientale e dai Sudeti, nel corso del trasferimento in massa di quelle popolazioni approvato a Potsdam nella primavera del 1945, e continuato nei due anni successivi con metodi che si calcola siano costati la vita a 1,3 milioni di persone, in gran parte vecchi, donne e bambini. La Germania perdeva in tal modo un quarto del territorio prebellico (nei confini del 1937, anteriori alle conquiste hitleriane), equivalente all'intero est tedesco, e città che avevano avuto una parte importante nella vita e nella cultura europea - da Königsberg a Danzica, Stettino, Breslau - venivano cancellate dalla carta d'Europa e sostituite da comunità polacche di tutt'altra tradizione e civiltà. Il popolo che aveva iniziato la guerra per la conquista di ‟un più grande spazio vitale" veniva così respinto su un territorio ristrettissimo, dove nel 1975 si contavano rispettivamente 249 abitanti per km2 nella parte compresa nella Repubblica Federale e 155 nella parte inclusa nella Repubblica Democratica, contro i 109 della Polonia. Nessuna grande nazione europea aveva mai subito, nella propria consistenza etnico-territoriale, mutilazioni così gravi come quelle che in tal modo venivano inflitte alla Germania.
Dopo eventi come questi riesce impossibile, anche alla storia, tenere una giusta bilancia dei torti e delle offese re- ciprocamente inflitti e ricevuti da Slavi e Tedeschi. Ma è un fatto che se enormi e atroci erano state le violenze hitleriane contro Russi e Polacchi, di stile e contenuto non diverso fu la risposta che a esse diede la soluzione staliniana del conflitto: la quale, sanzionando la violenza perpetrata dall'Unione Sovietica ai danni della Polonia, si tradusse, con la brutalità delle successive espulsioni e annessioni ai danni della Germania, in nuove e gravissime perdite per il patrimonio della comune civiltà europea. Da parte loro, è probabile che, anche se avessero voluto, non molto gli alleati occidentali avrebbero potuto fare per impedire tutto ciò, in considerazione dei rapporti di forza politico-militari creatisi nel 1945 nell'Europa orientale. Ma è indicativo di quanto la guerra avesse attenuato il sentimento della comune cultura e civiltà europea che un uomo come Churchill (per non parlare di Roosevelt, legato a premesse e valori culturali diversi), pur assai preoccupato già allora dell'espansione sovietica in Europa, non avvertisse se non in termini politici o vagamente umanitari la gravità del problema. Gli Alleati si limitarono dunque a raccomandare che le espulsioni degli abitanti di lingua tedesca venissero effettuate nella misura del possibile con criteri umanitari ed evitando inutili sofferenze, senza peraltro che nulla di concreto seguisse a queste raccomandazioni; e per il resto si accontentarono di dichiarare che il trasferimento dalle zone così lasciate alla Polonia e aperte all'insediamento di popolazione polacca doveva considerarsi provvisorio sino alla definitiva conclusione della pace. Era una riserva così trasparente da non ingannare nessuno, a cominciare dai suoi stessi autori. In tal modo uno dei risultati più importanti della seconda guerra mondiale, dal punto di vista politico e civile, finiva col sanzionare il peso che le motivazioni nazionali e nazionalistiche avevano avuto anche nel campo delle Nazioni Unite, e che erano destinate ad avere ancora nel mondo del dopoguerra, in un indissolubile intreccio con le altre motivazioni, di carattere ideologico e morale, che occupavano il primo piano nella propaganda e nelle giustificazioni ufficiali.
Non che fosse solo propaganda. Nell'Europa devastata del dopoguerra e fra popolazioni deluse e affamate, l'aspirazione alla pace e alla sicurezza, in un ordine mondiale ed europeo che mettesse al bando la guerra e l'aggressione, era un sentimento largamente diffuso in tutti gli strati sociali e in tutti i paesi: e basti ricordare l'ondata emotiva dovunque suscitata, e sia pure con l'ausilio dei mezzi di comunicazione americani, da gesti come quello dello statunitense J. Davis che, stracciato il proprio passaporto, si proclamò cittadino del mondo. Su un piano più propriamente politico, la tesi che l'origine delle guerre fosse da attribuire al sistema degli Stati nazionali europei, incapaci di adeguarsi alle dimensioni richieste dallo sviluppo della tecnologia e dell'economia moderna e anzi non più in grado, ormai, di adempiere alle funzioni elementari della difesa e della sicurezza esterna, si era già manifestata durante il conflitto nelle rinnovate posizioni europeiste e federaliste di alcuni gruppi della Resistenza europea (v. europeismo). Sembrava evidente, agli europeisti, che solo l'Europa unita avrebbe potuto tutelare gli interessi del continente di fronte alla strapotenza americana e sovietica, e consentire agli Europei di avere ancora una voce autonoma nella politica mondiale. Questi progetti si collegavano ai disegni, diffusi negli ambienti delle Nazioni Unite, di smembramento della Germania, che in tal modo sarebbe stata privata delle sue potenzialità aggressive e recuperata tuttavia all'Europa nella forma federale. Ma ogni proposito di tal genere s'infranse contro la risoluta ostilità del governo di Mosca a ogni iniziativa mirante a sottrarre l'Europa del dopoguerra all'egemonia sovietica.
Già nella conferenza dei ministri degli esteri tenuta a Mosca nell'ottobre 1943, alla proposta di Eden che gli Stati dell'area danubiana, ivi compresi la Baviera, il Württemberg, il Baden e il Palatinato, staccati dalla Germania, venissero riuniti in confederazione, Molotov replicò che ciò sarebbe apparso ai Sovietici come un tentativo di ricostituire il ‛cordone sanitario' del primo dopoguerra; e a Eden non rimase che prendere atto del rifiuto. In realtà, ogni sbocco alle aspirazioni verso un'Europa soprannazionale venne chiuso per allora dalla decisione americana, e del presidente Roosevelt in particolare, di sostenere nella misura del possibile, in questa materia delicatissima, tutte le posizioni sovietiche. A spingere Roosevelt in questa direzione contribuivano le previsioni sulla schiacciante superiorità militare che la guerra avrebbe assicurato in Europa all'Unione Sovietica, e le simpatie, assai diffuse nella sinistra democratica americana, verso il primo paese socialista. Venne in tal modo delineandosi la concezione rooseveltiana delle quattro grandi potenze, Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina e Gran Bretagna, come i quattro ‛poliziotti' incaricati di garantire la pace e la sicurezza nel mondo: nella quale nessuna reale autonomia internazionale era riservata ai piccoli Stati, e dunque all'Europa, destinata a ritornare alle antiche e separate sovranità. In tal modo le armate alleate avanzanti vennero via via affidando l'amministrazione dei territori liberati ai singoli governi nazionali, secondo una linea vigorosamente appoggiata anche dai governi di Londra e di Parigi. La Gran Bretagna usciva infatti con onore, come Stato nazionale, dalle prove del conflitto; e quanto alla Francia, il superamento della sconfitta del 1940 costituiva il primo punto del programma gollista, che su quest'esigenza riuniva intorno a sé il consenso di tutto il paese, unanime nella volontà di stroncare l'egemonia tedesca e di aprirsi in tal modo la strada, come da molti ancora si credeva, a una rinnovata supremazia continentale. Accanto a propositi di annessione della Val d'Aosta e di altri distretti alpini italiani, a Parigi si ventilò anche l'idea di riportare la frontiera al Reno o di giungere almeno all'internazionalizzazione della Ruhr e della Renania: ma nessuno pensò seriamente a espulsioni in massa degli abitanti della regione, con una differenza, rispetto a quanto si fece in Oriente, che è di per sé indicativa di tutta una diversa atmosfera, benché non vada dimenticato che la Francia aveva sofferto dell'occupazione tedesca assai meno della Polonia e dei paesi slavi in genere.
b) La divisione della Germania e il problema della ‛colpa' dei Tedeschi. La Ostpolitik e il declino dei valori nazionali
Nella generale restaurazione degli Stati nazionali europei che in tal modo veniva realizzandosi restava incerto solo il destino da riservare alla Germania sconfitta. Disegni di smembramento dello Stato unitario tedesco e di ‛agrarizzazione' della Germania, con lo smantellamento del suo apparato industriale, circolavano negli ambienti alleati fin dal 1941, e avevano avuto una formulazione assai nota nel piano Morgenthau (settembre 1944). Questi propositi estremi cominciarono tuttavia a cadere quando alle armate e ai governi alleati si posero concretamente i problemi dell'amministrazione e della sopravvivenza fisica di centinaia di milioni di abitanti del continente, affamati e bisognosi di tutto, che rendevano impensabile la distruzione di una componente essenziale dell'economia europea qual era l'industria tedesca. A Jalta e a Potsdam venne dunque sanzionata la divisione della Germania (a eccezione dei territori ceduti all'amministrazione polacca) in quattro zone di occupazione, affidate a ciascuna delle quattro grandi potenze vincitrici, rinviandosi la soluzione definitiva del problema tedesco alla futura conferenza della pace. Si temeva, da alcuni, che la distruzione dell'unità tedesca potesse dare l'avvio a una nuova ripresa del nazionalismo germanico, com'era accaduto nel primo dopoguerra dopo il Diktat di Versailles. Ma così profondi erano i sentimenti antitedeschi in tutti i paesi alleati, e così schiacciante la superiorità delle due grandi potenze mondiali da far accantonare senza troppi timori preoccupazioni siffatte; e non è impossibile che ai propositi estremi maturati durante il conflitto si sarebbe tornati nel dopoguerra, se la solidarietà fra Stati Uniti e Unione Sovietica non avesse cominciato assai presto a incrinarsi, e ad avviarsi verso la contrapposizione della guerra fredda. Su questo sfondo di potenziale concorrenza dei due ex alleati per attirare al proprio fianco le forze ancora ingenti della Germania si spiega come la dichiarazione staliniana che ‟Hitler passa ma il popolo tedesco resta" bastasse a far seppellire definitivamente ogni progetto di smembramento della Germania in campo occidentale. Per di più, le difficoltà economiche gravissime che i governi militari alleati dovevano fronteggiare in Germania spingevano all'unificazione delle zone di occupazione occidentali, che fu presto attuata nonostante le resistenze del governo francese, rimasto fino all'ultimo ostile a ogni misura, politica ed economica, che tendesse alla ricostituzione dell'unità tedesca. Venivano così poste le premesse per la nascita di quella che il 24 maggio 1949 doveva diventare la Repubblica Federale Tedesca, nel quadro della ormai netta contrapposizione tra Est e Ovest. Non mancarono, allora, specialmente da parte della socialdemocrazia di K. Schumacher, denunce del pericolo che in tal modo si perpetuasse la divisione della Germania, e tentativi di realizzare la riunificazione di una Germania neutrale e disarmata. Ma la spartizione dell'Europa nelle due sfere d'influenza delle grandi potenze, e il carattere totale della contrapposizione tra mondo libero e comunismo, collocavano questi tentativi fuori della realtà. Nella divisione del mondo fra i due blocchi i temi ideologici della lotta fra liberaldemocrazia e comunismo venivano a prevalere sui motivi nazionali, così come venivano riprendendo quota, nello spazio che in tal modo si apriva, i temi e i motivi europeisti. La creazione, nella zona d'occupazione sovietica, della Repubblica Democratica Tedesca (30 maggio 1949) veniva a irrigidire il confine fra le due Germanie; e quando l'emigrazione dalla Germania Orientale verso Occidente assunse dimensioni rilevanti, raggiungendo i tre milioni di persone, l'ultimo varco rimasto aperto fra i due Stati venne chiuso con la costruzione del muro di Berlino (13 agosto 1961), lungo il quale si allinearono a centinaia le croci indicanti le vittime rimaste uccise nel tentativo di fuggire comunque dall'universo comunista. Nel cuore dell'Europa venne dunque consolidandosi una situazione che raggiungeva il suo estremo nella tragica città divisa di Berlino, a testimonianza di quanto le soluzioni di forza imposte dall'interesse sovietico (le ‟realtà uscite dalla seconda guerra mondiale", nel linguaggio della diplomazia moscovita), fossero destinate a prevalere su valori e concetti per secoli considerati intangibili dalla coscienza e dalla cultura europea.
Che, comunque, la divisione della Germania dovesse avere carattere provvisorio, nel riconoscimento dell'unità della nazione tedesca, fu tuttavia un principio per oltre un ventennio accolto nelle convenzioni della diplomazia internazionale, a Est come a Ovest, e sancito nelle carte costituzionali dei due Stati tedeschi. Ma in realtà la prospettiva di una Germania nuovamente unificata e potente nel cuore dell'Europa non era accettata se non a mezza voce negli stessi paesi occidentali, per non parlare dell'Unione Sovietica, decisa a non permettere la rinascita del solo Stato che avrebbe potuto dare un contributo effettivo alla ricostituzione di un reale equilibrio di potenza in Europa. La stessa vitalità di cui il paese dava prova con la sua prodigiosa ripresa economica, nella RFT dapprima e poi anche nella RDT, finiva per confermare questi timori. In Occidente la rinascita dell'unità tedesca incontrava particolare ostilità in Francia, donde parimenti partirono le più tenaci resistenze a tutti i propositi di una più stretta integrazione politica e militare dell'Europa, che avrebbe dovuto necessariamente riconoscere il posto dominante che alla Germania, pur mutilata e divisa, assicurava la sua forza demografica, economica e militare. La politica estera francese, soprattutto nella sua versione gollista, ma anche nelle tendenze espresse da un radicale come Mendès-France e persino dai comunisti (seppure, in questo caso, soprattutto in funzione di obbedienza sovietica), finiva dunque per riprendere antiche direttive di egemonia continentale in funzione antitedesca, senza avvedersi di quanto esse fossero ormai prive di concretezza, davanti alla realtà imponente della egemonia sovietica in Europa, di cui le posizioni francesi finivano per essere oggettivamente alleate e fiancheggiatrici.
È questo un rilievo che si può muovere a proposito di tutti i ricorrenti allarmi sul rinnovato pericolo tedesco, periodicamente lanciati dai German-haters nel mondo occidentale. Ma per intenderne le ragioni e il significato occorre riportarsi al dibattito sulla natura e i caratteri della nazione tedesca che l'Occidente, dopo tanti odi e così violente ostilità, si accingeva ad accogliere come alleata; e di cui ai Tedeschi usciti dall'esperienza nazista si prospettava la ricostituzione a Stato nazionale. Per anni, la Germania era stata identificata con il male del mondo; e la scoperta dei campi di concentramento aveva dato a quella nozione un'eco duratura nella coscienza mondiale. Se un paese come questo doveva essere riammesso nella comunità dei paesi ‛amanti della pace', bisognava dunque che dapprima venisse sottoposto a un processo di ‛rieducazione' profonda; e questo processo, nelle circostanze politiche e culturali del secondo dopoguerra, finì per tradursi nel più straordinario tentativo che si sia mai registrato di sopprimere una grande nazione moderna (in quanto tradizione politica e culturale, valori, costumi e attitudini sue proprie), e di sostituirla con una comunità (o con una serie di comunità) giustificata solo in termini di democrazia e di sviluppo economico, al di fuori di ogni riferimento propriamente nazionale.
A un'operazione di questo tipo la situazione tedesca dopo il 1945 offriva premesse singolarmente favorevoli. Nelle città devastate dai bombardamenti la distruzione quasi totale dell'antico volto urbano e dei maggiori monumenti (restaurati o ricostruiti solo nel corso di vari anni) aveva cancellato gran parte delle testimonianze più efficaci, e più evidenti agli occhi di tutti, dei vincoli che legano il presente di un popolo al suo passato e che danno un senso vivente alla tradizione. La brutale interruzione dei contatti fra le diverse zone di occupazione (destinata a perpetuarsi fra Germania Occidentale e Orientale) e lo sconvolgimento demografico dovuto all'afflusso delle enormi masse dei profughi e degli sbandati avevano alterato profondamente l'antica fisionomia degli insediamenti e degli agglomerati urbani. La fame, il freddo, la mancanza di alloggi nelle città invase dai profughi e dai reduci (Roosevelt aveva dichiarato di non veder nulla di male nel fatto che la Germania fosse ridotta per alcuni anni alla ‟minestra del povero") impegnavano gran parte degli abitanti nella lotta elementare per la sopravvivenza, togliendo ogni spazio alla ricerca di un punto di orientamento nel caos e nella distruzione. D'altra parte, già la mancanza di libri di testo, una volta eliminati quelli dell'epoca nazista, provocò nel- le scuole per alcuni anni una sorta di sospensione dell'in- segnamento della storia politica e culturale degli ultimi cento o centocinquant'anni, aprendo in tal modo una cesura ulteriore fra presente e passato. Si era temuto da molti, come si è ricordato, che un trattamento troppo duro avrebbe alimentato una rinascita di sentimenti nazionalisti in Germania ma la coscienza della schiacciante e definitiva superiorità di forze della coalizione vincitrice, che aveva già tolto ogni prospettiva a un eventuale movimento di resistenza clandestina, faceva apparire anche ai Tedeschi impraticabile, per molti anni ancora, ogni politica di rinascita nazionale che si scostasse dalle direttive dei vincitori. Su questa situazione materiale e psicologica del paese si esercitò la campagna di ‛rieducazione', svolta con particolare impegno da parte americana. Accanto ai processi intentati ai criminali di guerra e agli esponenti del partito nazionalsocialista, essa fece perno sulla distribuzione di questionari nei quali tutti i Tedeschi venivano invitati a dar conto delle proprie attività e responsabilità nel periodo nazista. Costruiti su moduli psicologici assai grossolani, tali questionari finivano per presentare del nazionalsocialismo un'immagine così artificiosa e convenzionale da raggiungere il risultato opposto a quello che si proponevano, contribuendo a persuadere la gran massa dei Tedeschi, dopo breve volgere di tempo, di non aver mai avuto personalmente a che fare col nazismo così inteso. Non maggiori i risultati ‛rieducativi' dei processi ai dirigenti ed esponenti nazionalsocialisti: alle cui sentenze, pur fondate assai spesso su fatti e colpe gravissimi, tolse credito e autorità morale l'essere state pronunciate da tribunali di soli vincitori e senza neppure la partecipazione di neutrali, così da dar loro, agli occhi dell'opinione pubblica tedesca, aspetto più di vendetta che di vera giustizia. Impressione profonda fece la condanna di militari per l'esecuzione di ordini ricevuti o per fatti compiuti da loro subordinati anche quando risultò provato al di fuori di ogni dubbio (come accadde, in Estremo Oriente, nel caso del maresciallo giapponese Yamashita) che essi non avevano potuto averne cognizione. Quelle sentenze non mancarono di sollevare reazioni negative anche tra esponenti illustri dell'antifascismo (per es. B. Croce, che parlò di tribunali ‟senza fondamento di legge"). Che, tuttavia, dirigenti politici e militari potessero essere condannati per fatti compiuti nell'esercizio delle loro funzioni fu una novità destinata a inserirsi profondamente nella coscienza del mondo civile qual era uscito dalla guerra: e, incrinando profondamente uno degli aspetti più importanti dell'etica nazionalitaria, come il dovere militare di adesione incondizionata alla causa del proprio paese in guerra, essa doveva poi avere efficacia negli stessi paesi vincitori, contribuendo a modificare anche in alcuni di essi aspetti fondamentali della coscienza politica e morale.
Ma, al di là del fallimento immediato delle iniziative di rieducazione, occorre guardare all'efficacia che alla lunga ebbero i temi ad esse sottostanti, e che si riassumevano nella tesi fondamentale della colpa collettiva dei Tedeschi come nazione e come popolo nei confronti dei crimini del nazismo. Checché se ne sia detto, la grande maggioranza dei Tedeschi era rimasta ignara ed estranea ai fatti più atroci come il genocidio degli Ebrei e i campi di concentramento: e la reazione dei più all'accusa di colpa collettiva fu dunque in buona parte di sbigottimento ma anche di indignata negazione delle accuse, accompagnata da polemici richiami al terrorismo dei bombardamenti alleati, alla crudeltà della guerra sul fronte orientale, alle violenze che avevano accompagnato l'irruzione sovietica in Germania e l'espulsione dei Tedeschi dai territori dell'Est. La situazione venne però mutando con gli anni: le delusioni seguite a così grandi sacrifici e tante promesse di vittoria, le insistenti e documentate rivelazioni sulle atrocità del regime hitleriano, i successi della ricostruzione nel nuovo quadro democratico tendevano a obliterare le nostalgie del passato anche in coloro che avevano vissuto in prima persona l'esperienza nazionalsocialista. Ma in realtà la questione della colpa collettiva poneva problemi anche più ampi, che comportavano un giudizio di fondo sulla storia e sul carattere nazionale del popolo tedesco, e che come tali potevano essere risolti solo a livello dei gruppi culturali e politici che erano i depositari più consapevoli della coscienza nazionale e dai quali dipendeva, in definitiva, l'orientamento che sarebbe prevalso nel resto del paese. E a quel livello il dibattito andò ben oltre la campagna di rieducazione, coinvolgendo in maniera per certi aspetti permanente settori importanti della cultura mondiale, in Germania e fuori della Germania.
Fuori della Germania, nel campo delle Nazioni Unite, già durante la guerra si erano avanzate spiegazioni che coinvolgevano, ben al di là di Hitler, la storia e la cultura tedesca, dal romanticismo e anzi da Lutero in poi, vista, nel suo insieme, solo come prologo al brutale nazionalismo razzista e ai campi di concentramento; e il discorso venne ampiamente sviluppato negli anni successivi. La giustificazione religiosa che Lutero aveva dato dell'autorità dei principi venne resa responsabile dell'inclinazione tedesca allo Stato di autorità; il militarismo fridericiano fu indicato come progenitore diretto delle aggressioni perpetrate dalla Germania nei secoli successivi; il romanticismo e lo storicismo vennero identificati con le spinte irrazionalistiche che avevano avuto tanta parte nel nazismo. La costruzione bismarckiana venne bollata come frutto di aggressione e di violenza, e giudicata intrinsecamente contraddittoria, imposta con la forza dalla Prussia al resto del paese, distruttiva dell'equilibrio e della pace europea. Eretta la storia dei paesi occidentali a modello dello sviluppo storico ‛normale' dei paesi destinati a partecipare all'esperienza della moderna democrazia industriale, quella tedesca fu giudicata patologica, ‛ritardata' o distorta nella misura e negli aspetti in cui si discostava o addirittura contrastava con quel modello. Nel tradizionale culto tedesco dell'autorità e della disciplina furono visti i segni rivelatori della ‛personalità autoritaria', dominata da frustrazioni profonde e volta alla ricerca di false integrazioni attraverso la dedizione ai miti ingannevoli della forza e dello Stato. Insomma si ebbe, a opera della cultura occidentale, ben oltre il 1945, una sorta di ‛criminalizzazione' dell'intera storia tedesca, quasi risultante di un'estensione della guerra combattuta contro la generazione dell'epoca di Hitler alle generazioni tedesche vissute nei secoli precedenti.
La grande autorità internazionale conquistata nel dopoguerra dalla cultura anglosassone e soprattutto americana, e l'impegno su questi temi dell'influente emigrazione intellettuale ebraica di origine tedesca, hanno conferito un grande peso culturale, e anche politico, alle posizioni di questo tipo. Ma la parola decisiva non poteva non spettare alla cultura tedesca. Scomparsa dalla scena quella parte non trascurabile di essa che aveva aderito al nazionalsocialismo, il compito di difendere la validità della tradizione nazionale, negando che la millenaria storia tedesca potesse essere intesa solo come prologo al dodicennio nazista, spettò alla grande cultura di stampo liberale. Uomini come Fr. Meinecke e G. Ritter cercarono di mettere in rilievo ciò che di positivo per il destino del paese aveva rappresentato l'unificazione sotto la guida prussiana, contrapponendo questo tronco vitale alle degenerazioni maturate nel clima esasperato del Novecento. Ancora una volta la Germania della grande cultura classica e il Reich bismarckiano, la resistenza opposta all'eversione nazista dai più autentici rappresentanti della tradizione furono oggetto di alte e partecipi rievocazioni. Ma posizioni come queste erano tuttavia impotenti a indicare, nella sempre più rigida divisione dell'Europa del dopoguerra, prospettive che consentissero di sperare in una vitale ripresa di quel passato. E che ad esso non solo non si potesse ma non si dovesse più tornare asserivano invece altri settori della cultura tedesca. Una funzione di battistrada in questo senso ebbe K. Jaspers, che già nella Heidelberg del 1946-1947, popolata di studenti per gran parte reduci di guerra, laceri e affamati, iniziò il suo atto di accusa contro la Germania, colpevole di aver subito il governo hitleriano responsabile dell'aggressione, e priva, dopo la resa incondizionata, di ogni diritto nei confronti degli Alleati che non derivasse dalla loro clemenza, da attendere con animo modesto e pentito, e rinunciando per sempre a ogni velleità di rivincita. Trasferitosi, qualche anno dopo, a Basilea, il filosofo continuò instancabile negli anni successivi a denunciare ogni richiamo nazionale come minacciosa rinascita nazista, pericolosa per la stabilità e l'avvenire della fragile democrazia tedesca. Sulla sua scia si mossero poi altri, storici e politologi come F. Fischer, H.U. Wehler, R. Dahrendorf, K. Bracher, mentre la denuncia del passato si faceva strada, anche nella vita letteraria, a opera degli scrittori di maggior prestigio, da H. Böll a G. Grass, dopo che già nel 1945 il Doktor Faustus di Th. Mann aveva evocato il giudizio di Dio che in quell'anno si abbatteva sulla Germania.
Particolarmente pericolosi parevano, agli scrittori di quest'indirizzo, i fermenti nazionali o nazionalistici legati all'idea della Wiedervereinigung, della riunificazione, posta ufficialmente dai governi della Repubblica Federale al centro dei propri obiettivi politici, e alimentata dalle manifestazioni promosse dai profughi dall'Est, ma che di fatto veniva rivelandosi sempre più remota e lontana dalla realtà. Contro queste aspirazioni si faceva valere, da molti, il tema europeo: e per parecchi anni la Germania Occidentale - nonostante dissensi rumorosi come quelli espressi dal movimento Ohne uns, contrario al riarmo e all'adesione all'alleanza occidentale - fu probabilmente il paese in cui l'ideale europeistico fu più vivo specie nella gioventù, animata dalla speranza che l'Europa consentisse di riconquistare quell'autonomia dalle due grandi potenze mondiali e quell'autorità politica e civile che appariva ormai impossibile nel quadro nazionale. Massima espressione di questi atteggiamenti l'europeismo di K. Adenauer, mirante a inserire definitivamente la Germania nell'Europa occidentale nel nome delle tradizioni culturali e religiose comuni alle grandi nazioni del continente. Veniva poi diffondendosi la tendenza a simboleggiare nella tradizione tedesco-prussiana l'avversario emblematico di tutte le posizioni più rumorose della cultura contemporanea, quale espressione tipica dei valori repressivi di autorità, disciplina, senso del dovere e dello Stato, opposti all'autenticità dell'istinto e all'immediatezza delle sensazioni. Sotto l'azione convergente di tanti motivi intellettuali e del consolidarsi dello status quo uscito dalla guerra, venne a poco a poco maturando nelle coscienze quel ‛congedo dalla storia tedesca' che i più pensosi rappresentanti della tradizione nazionale avevano temuto, paventando le conseguenze che sull'avvenire del paese poteva avere la perdita di ogni senso di continuità col passato e della fiducia in se stessi che solo può nascere da quella continuità. Ma ormai l'opinione dominante nei circoli intellettuali era che il popolo tedesco non aveva nulla da rintracciare nelle memorie dello Stato unitario, burocratico e militarista, e che il fondamento morale della nuova vita politica doveva essere riposto nell'impegno per la costruzione di una collettività democratica (Bracher): al di fuori, cioè, di ogni elemento e valore nazionale. Bastò, anzi, che un uomo politico di rilievo come Fr.-J. Strauss si facesse interprete del disagio derivante dalla posizione contraddittoria di ‟gigante economico e nano politico" alla quale era inchiodata la Repubblica Federale, e protestasse contro l'andazzo di ‟sputare su tutto ciò che è tedesco", perché su di lui si stendesse un'ombra permanente di filonazionalismo e quasi di nazismo.
Furono queste, nella Germania Federale, le premesse ideologiche della Ostpolitik del cancelliere Brandt. Che dopo la svolta determinata dalla ‛distensione' tra Est e Ovest la divisione dell'Europa tendesse a perpetuarsi, e con essa le modificazioni territoriali determinatesi a vantaggio dell'Unione Sovietica e dei suoi satelliti, mentre si consolidava, d'altro canto, lo status della Germania divisa, priva di un trattato di pace, e dunque sottoposta, a decenni dalla fine della guerra, a particolari limitazioni della sua sovranità, era un fatto di cui avevano cominciato a prendere coscienza anche i governi democristiani tedeschi e più tardi quello espresso dalla ‛grande coalizione': ma spettò al governo socialdemocratico-liberale di Brandt di compiere i passi decisivi, in relazione (finora peraltro non chiarita in tutti i suoi aspetti) con la politica kissingeriana di stabilizzazione delle sfere di potenza esistenti. Per di più, il peso della Germania nell'alleanza atlantica era assai scaduto, nonostante il ‛miracolo economico', dopo lo sviluppo da parte americana di un sistema di difesa fondato essenzialmente sui missili nucleari e i bombardieri strategici con base negli Stati Uniti, e quindi del tutto indipendente dal contributo dell'esercito tedesco, che pure restava il più forte dell'Europa occidentale. Poté così svilupparsi tra il 1969 e il 1972-1973 una politica che nella sostanza comportava l'abbandono di tutti i principali obiettivi che la politica occidentale aveva perseguito o dichiarato di voler perseguire in Europa nel dopoguerra, con il riconoscimento senza corrispettivo della frontiera dell'Oder-Neisse e della divisione della Germania, il mantenimento del muro di Berlino e la rinuncia all'elezione del cancelliere federale nella ex capitale, che equivaleva di fatto alla rinuncia alla rivendicazione ideale di una Germania unificata. Per la verità, fra le giustificazioni della Ostpolitik si era dato grande rilievo a motivi specificamente nazionali, asserendosi che il riconoscimento delle frontiere avrebbe facilitato i contatti umani fra le due parti del paese e così agevolato una futura riunificazione, da ottenere nel quadro di un generale superamento della divisione dell'Europa in due blocchi, di cui la Germania doveva essere antesignana. Ma queste argomentazioni, già assai fragili nella formulazione teorica, furono subito smentite dai fatti.
Il governo della Germania Orientale che, come quello polacco, aveva sempre dichiarato di non dare alcun peso alle riserve unilaterali avanzate da parte della RFT circa la futura riunificazione, rispose alle speranze di parte occi- dentale intensificando la guerra ideologica; e, mentre da ogni parte si moltiplicavano adesso i riconoscimenti della RDT come Stato sovrano, una revisione costituzionale eliminò dalla carta fondamentale di quel paese ogni riferimento all'unità della nazione tedesca. Si moltiplicarono, da parte degli ideologi e della propaganda tedesco-orientale, le affermazioni secondo le quali non aveva più senso parlare di una sola Germania, essendo nata, col regime socialista, una nuova e distinta nazione nella RDT. Si pro- poneva in tal modo la tesi che dall'azione dello Stato tedesco-orientale era nata, come altre volte nel passato, una nuova realtà nazionale, da concepire come terzo Stato tedesco, accanto alla Germania Occidentale e all'Austria; anche se si continuava ad ammettere che unica restava la nazionalità di questi paesi, da intendere tuttavia come fatto meramente etnico, e dunque subordinato al concetto socialmente più largo e più articolato di ‛nazione'. E anche da parte occidentale si cominciò ad ammettere con sempre maggiore frequenza che la lunga separazione, i progressi materiali realizzati dopo l'erezione del muro di Berlino anche nella Germania Orientale, il fatto che le nuove generazioni, a est e a ovest del confine, non avessero mai conosciuto la Germania unita, costituivano le premesse di una duratura divisione del paese, non superabile in un avvenire prevedibile. Inchieste sociologiche segnalavano che sempre più difficilmente si trovava, fra i giovani, chi si dichiarasse ‛tipicamente tedesco'; i giornali e gli osservatori stranieri constatavano con soddisfazione che in Germania uno stile di vita legato al crescente benessere economico e materiale sembrava aver preso il posto del Deutschland über Alles; appositi sondaggi di opinione indicavano che dell'unità nazionale ci si preoccupava sempre meno, a est come a ovest della cortina di ferro. In questa chiave furono concepiti anche molti degli scritti apparsi in occasione del centenario del 1871, che, quando non si esaurirono in una rinnovata polemica contro la soluzione bismarckiana, raggiunta col sangue e col ferro, furono tuttavia orientati nella maggioranza a richiamare i Tedeschi al particolarismo caratteristico della loro storia, piuttosto che alla breve esperienza unitaria, durata appena settantacinque anni. E certamente uno dei risultati più importanti, anche se meno visibili, della Ostpolitik fu di allentare la tensione ideale che fino agli anni sessanta si era mantenuta intorno al tema della riunificazione, ormai relegata, sembra, fra le utopie che non sono più di questo mondo. È difficile, naturalmente, sapere quanto di tutto ciò corrisponda a stabili modificazioni avvenute nella coscienza delle masse popolari, e quanta disponibilità vi sia invece tuttora a un eventuale appello ai valori nazionali. ‟Pensarci sempre e non parlarne mai", che per molti anni fu probabilmente un motto rappresentativo dell'atteggiamento della maggioranza dei Tedeschi verso il tema della riunificazione, oggi lo è certo assai meno, ed è anzi da considerare per gran parte espressione di una posizione superata: anche se manifestazioni improvvise come quelle che il 19 marzo 1970 salutarono a Erfurt l'incontro fra il cancelliere Brandt e il primo ministro tedesco-orientale W. Stoph possono indicare che ancora qualche anno fa certi fuochi erano vivi sotto la cenere.
In genere, si può dire che l'opinione pubblica mondiale, compresa quella occidentale, ormai giudica in termini positivi l'accettazione, da parte tedesca, della divisione del paese, come un passo che, qualunque ne sia il costo, elimina certamente uno dei pericoli più gravi per la pace in Europa e nel mondo. E il costo, che solo l'avvenire potrà misurare, consiste nell'abbandono, da parte di una grande comunità etnica e culturale europea, dell'aspirazione allo Stato nazionale, cioè a un risultato del proprio sviluppo storico fino a ieri considerato irrinunciabile: che è fatto senza precedenti in Europa. Se la Germania Orientale, nonostante i progressi economici, resta tuttora sotto il peso dell'ignominia che su di essa gettano la cortina di ferro e il muro di Berlino con i suoi morti, la Repubblica Federale Tedesca, così stabile e ordinata fra tanto squilibrio degli altri Stati dell'Occidente, viene sempre più spesso citata a modello di bene ordinata democrazia, come Musterstaat. È uno Stato modello nato dall'abbandono degli abitanti della Germania Orientale al loro destino, dall'accettazione di situazioni tragiche come quella di Berlino e dalla soggezione a uno status giuridico internazionale sensibilmente minorato. Taluno ha dunque parlato del Musterstaat come di un ‛supermercato'. Divergenza di giudizi nella quale si esprime il problema assai grave di quale possa essere il livello della vita collettiva in un paese che ha di fatto rinunciato a decidere in modo autonomo dei propri destini, limitando la propria realtà essenzialmente alla buona amministrazione e alla corretta gestione dell'economia, e rinviando invece ad altre potenze, di altro rango e statura internazionale, le decisioni relative ai grandi problemi della sicurezza e della pace nel contesto mondiale. Senza contare, poi, i rischi di destabilizzazione culturale e politica che derivano dall'insistenza sulle costanti negative della storia nazionale, invocate dalla sinistra estrema per giustificare richieste sempre rinnovate di ‛democratizzazione' senza fine di tutte le strutture, dello Stato e della società. Nello sforzo di rendere razionalmente accettabile una realtà che i rapporti di forza esistenti vietano di modificare, sembra anzi che buona parte della cultura tedesca tenda a ignorare le conseguenze che la rassegnazione a una così grave cesura nella propria storia può avere per la vita spirituale del paese. Un fatto, peraltro, sembra indiscutibile: la crisi dello Stato nazionale ha coinciso, in Germania, con un drastico abbassamento della vita culturale tedesca. Alla potenza e alla prosperità crescenti della Germania unita si era accompagnata, dopo il 1870, una sempre maggiore autorità e prestigio della cultura tedesca, cresciuta, con i suoi Mommsen e Wilamowitz e con i suoi Einstein e Planck, a un rango dominante su scala mondiale in fatto di dottrina e di scienza, nelle discipline morali e in quelle naturalistiche. La Germania divisa non ha più ritrovato la stessa autorità e la stessa forza di penetrazione, e neppure la creatività che aveva caratterizzato la cultura dell'età classica nella Germania del particolarismo. Anche per questa parte il bilancio dell'Europa e della civiltà deve segnare, accanto alle partite attive che sono sotto gli occhi di tutti, una grossa posta al passivo, che spesso si tende a dimenticare. E le passività di questa natura sono specialmente gravi in un'epoca come la nostra, nella quale sono così diffuse e presenti nella cultura di tutto il mondo le tentazioni, e i rischi, di una concezione e di uno stile di vita tutto risolto nel presente, e non più in grado di conferire all'esistenza degli uomini quel senso e significato che viene dalle grandi concezioni storiche e religiose. Che sono; come vedremo, problemi comuni a tutti i paesi dell'Europa occidentale, ma che in Germania si presentano tuttora, per la particolare situazione politico-morale e internazionale del paese, nei termini più evidenti e drammatici.
c) Il tramonto dei sogni di grandezza in Italia
Ciò risulta confermato anche dalle tensioni assai minori che hanno accompagnato l'analogo declino dei valori nazionali in Italia. Già il fatto che qui l'unità nazionale non venne mai messa in discussione, e che il totalitarismo fascista era sempre rimasto lontano dagli estremi del regime nazionalsocialista, tolse subito al problema molte delle sue punte più drammatiche. Per di più la Resistenza, valorizzata nei termini di un sia pure ipotetico ‛secondo Risorgimento', consentiva, come si è detto, di stabilire solidi collegamenti con la più prestigiosa tradizione nazionale. In tal modo i conti col passato fascista furono fatti in Italia assai rapidamente, con il generale oblio di tutte le responsabilità e di tutte le colpe, presto e universalmente assolte come veniali. Ma restava, immodificabile da ogni retorica e da tutte le indulgenze, la realtà della catastrofica sconfitta e della sminuita posizione internazionale del paese, inesorabilmente relegato, dopo tanti sogni di grandezza, al ruolo di potenza di second'ordine. I governi democratici riuscirono bensì assai presto a far riammettere l'Italia nella comunità internazionale e a inserirla nel Patto atlantico: ma la coscienza che gli Italiani avevano sino allora avuto di sè e del proprio paese aveva subito una scossa decisiva e il processo così iniziato era destinato ad approfondirsi negli anni successivi. Si diffuse la convinzione che, se la distanza fra le ambizioni nutrite in passato e la realtà si era rivelata così grande da portare l'Italia a una sconfitta penosa non solo per la sua gravità ma per i molti aspetti indecorosi e persino grotteschi che l'avevano caratterizzata, le ragioni ne andavano ricercate negli indirizzi illusori e radicalmente errati a cui si era ispirata fino allora la vita nazionale: non solo nel ventennio fascista ma, come andava suggerendo una critica di sinistra assai vivace e autorevole, rafforzata dalla presenza del più grande partito comunista dell'Europa occidentale, anche nella precedente fase liberale. Un paese arretrato e retorico si era proposto obiettivi di grandezza che erano un segno del suo provincialismo. Altre e più modeste dovevano essere le mete che da ora in poi si doveva proporre la società italiana, mete di progresso economico e civile, nello sforzo di superare la distanza ancora grandissima che la divideva dai paesi più avanzati; lasciando alle potenze maggiori la cura dei grandi affari internazionali.
Era la rinuncia all'obiettivo di portare l'Italia al livello dei grandi paesi d'Occidente che aveva ispirato tanta parte del Risorgimento e della successiva storia unitaria: e nella misura in cui si trattava di una presa di coscienza della realtà già duramente rivelata dalla guerra, e induceva il paese a porsi e risolvere problemi veri e assai gravi, quella rinuncia costituiva un indubbio progresso politico e civile. Ma a questa presa di coscienza si accompagnava una vena di più profonda e segreta sfiducia nella generale capacità dell'Italia di poter raggiungere il livello dei paesi più avanzati: per colpa, suggeriva la critica di stampo marxista, di una struttura sociale distorta, che solo la rivoluzione avrebbe potuto rovesciare o, come si leggeva tra le righe di certe posizioni radicaleggianti, per l'invincibile immaturità e arretratezza che caratterizza, in modo praticamente immodificabile, gli Italiani come tali. In quest'ultima direzione spingevano anche i giudizi che dal mondo occidentale, e anglosassone in particolare, giungevano sull'Italia e sulla sua storia, che anch'essi ruotavano intorno a quella esemplarità del modello occidentale di cui si è già detto a proposito della storiografia anglosassone o francese sulla Germania. In questo senso è da considerare estremamente significativo che il libro di storia di maggior successo nell'Italia del dopoguerra sia stato probabilmente la Storia d'Italia di D. Mack Smith: un libro, cioè, che praticamente nega agli Italiani come popolo ogni attitudine a una vita politica modernamente organizzata. Non sono pochi gli Italiani, specie nei ceti colti e borghesi, che in quel quadro e in quel giudizio hanno creduto di riconoscersi. D'altra parte, i gravissimi problemi interni derivanti dagli squilibri economici, territoriali e culturali del paese, non superati neppure dai rapidi progressi anche qui realizzati sul piano economico, hanno dato in Italia un rilievo particolarmente accentuato alle contrapposizioni di ordine sociale e ideologico, nell'universale accettazione di un ruolo nettamente secondario del paese sul piano internazionale. A oltre trent'anni dalla fine della seconda guerra mondiale si può dire che nel paese che aveva conosciuto l'esaltazione nazionalistica del fascismo non vi sono più correnti nazionalistiche di dimensioni apprezzabili, e che i valori nazionali occupano un posto sempre minore e più sbiadito tra i criteri direttivi della vita collettiva.
d) ‟Les Franåais n'ont plus d'ambition nationale"
Assai diversa, invece, la posizione politica e morale in cui la Francia era uscita dalla guerra. Qui la Resistenza, guidata da una personalità d'eccezionale statura e prestigio come Charles De Gaulle, aveva davvero riunito dietro di sé tutte le forze vive del paese, di destra e di sinistra, senza assumere i caratteri di guerra civile, come era accaduto in Italia: perché, almeno a partire dal 1942, nessuno aveva potuto dubitare dove fosse la Francia. Nonostante la grave e non dimenticata sconfitta del 1940, l'indebolimento della Germania apriva al governo di Parigi nuove prospettive di supremazia europea, almeno nei limiti, assai più ristretti di quanto non si volesse ammettere, concessi dalla determinante presenza sovietica: e la direzione antitedesca di queste prospettive assicurava loro il sostegno delle sinistre filosovietiche. In tal modo la Francia divenne, sul continente, il maggiore bastione delle posizioni contrarie alla federazione europea; fece fallire, con una tipica convergenza di destre e sinistre nazionalistiche, il tentativo più audace di costruzione europea, avanzato con la proposta della Comunità Europea di Difesa (1953); perseguì una politica di autonomia nucleare e militare, giungendo, con la Quinta Repubblica, a ridurre grandemente i propri legami con la NATO; cercò, nella misura del possibile, di opporsi alla penetrazione economica americana in Europa e alla supremazia del dollaro; promosse una politica di ravvicinamento franco-tedesco, fondata però sulla premessa della divisione della Germania; si oppose all'ingresso dell'Inghilterra nel Mercato Comune, a condizioni che parevano al governo di Parigi troppo subordinate agli interessi britannici.
Specialmente durante la decennale presidenza del generale De Gaulle (1958-1969) questa politica venne attuata con grande prestigio e autorità, in un tentativo di sintesi nazionale in cui sembravano confluire i motivi della Francia nazionalista e cattolica e quelli della tradizione rivoluzionaria e democratica. Quella ‟certa idea della Francia" che De Gaulle aveva proclamato, e che poi era in buona parte l'idea di un nazionalismo intinto di messianismo democratico, sembrò allora assai vicina a realizzarsi. Ma il paese tendeva, di fatto, verso tutt'altra direzione. Le divisioni interne e il rifiuto di impegnarsi a sostegno della potenza e del prestigio nazionale, che avevano già avuto tanta parte nella sconfitta subita nella guerra d'Indocina (combattuta praticamente da sole forze volontarie), tornarono a lacerare il paese durante la guerra d'Algeria, e finirono per imporsi allo stesso De Gaulle (da esse ricondotto al potere), che dovette rassegnarsi alla perdita dei territori nordafricani e all'espulsione dei Francesi che da oltre un secolo vi erano insediati. E soprattutto, il rifiuto dei Francesi di riconoscersi negli obiettivi di grandezza nazionale ad essi proposti dal gollismo, e di sacrificarvi le particolari esigenze delle diverse forze sociali e delle opposte correnti ideologiche, apparve in tutta la sua forza nei fatti del maggio 1968, con le agitazioni studentesche e lo sciopero più esteso e duraturo mai verificatosi nella storia del movimento operaio internazionale. Da quella prova De Gaulle, momentaneamente vincitore, fu tuttavia travolto; ed egli non tardò a prenderne atto, lasciando alla prima occasione il potere. Si era dovuto rassegnare ad ammettere che ‟les Franåais n'ont plus d'ambition nationale. Ils ne veulent plus rien faire pour la France". Anche qui il divario fra ambizioni di grandezza e realtà del paese, non più adeguata a sostenerle, aveva finito per imporsi. L'illusoria grandeur gollista non poteva superare la distanza, politica, tecnologica e militare, che divideva la Francia dai veri grandi del XX secolo; e nel tessuto sociale e morale del paese le esigenze dei gruppi particolari, la sfiducia nello Stato come organizzatore di tutta la vita nazionale, la pressione di ideologie che rompevano ogni quadro tradizionale, avevano ormai un posto troppo grande perché potesse bastare a mediarle la sola idea dell'interesse collettivo e nazionale.
e) L'inghilterra: la progressiva rinuncia alle responsabilità mondiali
‟Même les Anglais n'ont plus d'ambition nationale", aveva constatato De Gaulle al termine della sua esperienza politica. E questo, nonostante che la Gran Bretagna fosse uscita dal conflitto con il prestigio della sua ostinata resistenza alle potenze dell'Asse negli anni drammatici 1940-1941. Ma dopo di allora la condotta della guerra da parte del governo britannico diede l'impressione che nell'insieme si volessero evitare affrontamenti diretti e troppo sanguinosi, come quelli micidiali che avevano caratterizzato la prima guerra mondiale, e che avevano suscitato tante proteste nel parlamento e nell'opinione pubblica; e la caduta di Churchill, vincitore del conflitto, nel momento del successo, conferma che anche durante la guerra aveva continuato a operare nella società inglese quel contrasto fra le disraeliane two nations che costituisce il motivo di fondo della storia inglese nel XX secolo. Il dopoguerra fu dunque dominato, in Gran Bretagna, dalla rivoluzione laburista: che, traducendosi in costosissime riforme interne, in aggiunta all'enorme dispendio di risorse provocato dalle due guerre mondiali, assorbì praticamente i mezzi indispensabili alla conservazione dell'impero. Gli ultimi decenni sono stati dunque caratterizzati dalla ‛lunga ritirata' britannica dalle antiche posizioni imperiali: con un processo in fondo meno lacerante di quanto non si dica, trattandosi di temi rimasti estranei, nonostante tutto, alle grandi masse popolari, sì che, ad es., nel 1948 tre quarti della popolazione non conosceva la differenza tra una colonia e un dominion, e metà non era in grado di indicare il nome di una sola colonia inglese. Un ridimensionamento psicologico, analogo a quello che i Francesi avevano cominciato a sperimentare colla sconfitta del 1940, fu operato negli Inglesi dalla vicenda di Suez del 1956; e l'aspetto più rilevante di esso fu probabilmente la graduale scomparsa di quell'idea della responsabilità inglese per gli interessi mondiali nel loro insieme che era stata tanta parte della coscienza politica britannica negli ultimi due secoli. Esigenze economiche indifferibili finirono anche per vincere le resistenze assai diffuse all'ingresso nel Mercato Comune, sia pure attraverso un esplicito pronunciamento popolare che non era stato necessario nei maggiori paesi continentali. Dopo la fine dell'esperienza imperiale la Gran Bretagna ha conosciuto movimenti nazionalisti rivolti contro gli immigrati di colore e spinte regionalistiche (nel Galles e in Scozia, oltre che nell'Irlanda del Nord), che sono cosa nuova nella recente storia britannica. Tuttavia, resta nel fondo della cultura politica inglese la coscienza che la storia britannica si caratterizza nell'insieme per una somma di successi che ha pochi riscontri nel mondo; e la continuità delle istituzioni assicura anche al sentimento nazionale britannico una misura di sopravvivenza superiore a quella che si registra nei paesi europei del continente. Singolarità, questa, accentuata dalla speciale posizione che la Gran Bretagna tuttora conserva fra l'Europa e le comunità anglosassoni al di là dei mari.
f) Natura e limiti dell'egemonia americana
Il posto centrale tra queste comunità è stato tuttavia preso da tempo dalla grande Repubblica nordamericana. Nazione particolarissima, senza nessuna omogeneità etnica e nata anzi intorno a un'ideologia di speranza e di riscatto dei miseri e degli esclusi di tutto il mondo, in questo dopoguerra essa parve più che mai vicina a tradurre nella realtà i suoi principî ispiratori. Grazie a uno sviluppo economico e a un livello scientifico-tecnologico senza riscontri nel mondo, gli Stati Uniti si eressero a protettori del troncone d'Europa rimasto al di fuori dell'orbe sovietico, e si vennero sostituendo alle posizioni imperiali che Francia e Inghilterra venivano abbandonando negli altri continenti. Ma tutto ciò avveniva all'insegna di un ideale di libertà e di giustizia in nome del quale soltanto gli Stati Uniti proclamavano di accettare le loro nuove responsabilità internazionali, così lontane dalla tradizione isolazionista. Questa congiunzione di ideologia messianica e di politica di potenza americana raggiunse il vertice negli anni della presidenza Kennedy. Allora, i ‛best and brightest' in America disegnarono un quadro di sviluppo democratico all'interno e all'estero in cui la funzione di polizia internazionale attribuitasi dagli Stati Uniti raggiunse la sua giustificazione più consapevole. Allora, il presidente Kennedy proclamò che non v'era causa di libertà e di giustizia per la quale gli Americani non fossero pronti a combattere in ogni angolo del mondo. Ma gli anni sessanta dovevano dimostrare che l'impegno eccedeva di gran lunga non tanto le forze materiali quanto le risorse morali degli Stati Uniti. All'interno, la politica di riforme democratiche, proseguita con vigore ed efficacia assai maggiore dall'amministrazione Johnson, mise in moto processi i quali rivelarono che le rivendicazioni delle comunità particolari e specialmente di quelle etniche, a cominciare dalla numerosissima e crescente minoranza negra, difficilmente potevano essere contenute nel quadro di un'ordinata convivenza: e alla luce di queste esperienze apparve chiaro che, nell'insieme, il melting pot aveva funzionato assai meno di quanto si fosse creduto, a decenni dalla fine delle grandi ondate migratorie.
All'estero, la guerra del Vietnam mostrò quali e quanti fossero i limiti entro i quali la società americana era disposta ad assumersi il ruolo di scudo della libertà nel mondo. Forse allo scopo di non metter troppo alla prova questa disponibilità, le amministrazioni democratiche avevano creduto di poter attuare contemporaneamente i programmi di sviluppo sociale all'interno e di impegno militare in Indocina; ma come risultato esse si imbarcarono in una guerra non dichiarata che costrinse il governo a espedienti poco onorevoli ed espose senza difesa (proprio per l'inesistenza legale di uno stato di guerra) il fronte interno americano alla propaganda avversaria: con conseguenze rovinose. La sfiducia nel governo alimentò nella gioventù americana un moto estesissimo di opposizione alla guerra che i mezzi di comunicazione di massa, dominati dall'intellighenzia radicale, ‛vendettero' come opposizione ‛morale', ma nella quale di fatto si esprimeva, assai più prosaicamente, il rifiuto dei più, e specialmente dei giovani delle classi medie e superiori, a correre i pericoli di una guerra nata da ideali di solidarietà democratica per i quali gli Americani non erano disposti a pagare prezzi così elevati. Che di questo si trattasse, e non, come si volle far credere, di una generale rivolta contro l'alienazione della società capitalistica, è dimostrato dal rientro di tutti i più vistosi fenomeni di protesta dopo l'umiliante sconfitta. Tuttavia, il Vietnam ha rivelato l'esistenza, nella società americana, di fenomeni estesissimi di emarginazione etnica, sociale e psicologica, che sia pure in forma meno clamorosa continuano ad allargarsi, e che rendono legittimi gli interrogativi moltiplicatisi da più parti sulla capacità morale degli Stati Uniti di far fronte alle proprie responsabilità mondiali. Durante il conflitto, la scoperta delle atrocità compiute da un reparto americano nel villaggio vietnamita di My Lay suscitò su tutti i giornali e le reti televisive statunitensi la richiesta che presidenti e generali americani venissero processati e condannati sulla base degli stessi principî fatti valere a suo tempo a Norimberga: richieste subito dimenticate e dunque nel fondo poco serie, ma che tuttavia mostrano come alla lunga i criteri nel cui nome si era combattuta la guerra contro il nazismo abbiano finito per rimbalzare sulla stessa vita politica e morale dei paesi vincitori, contribuendo anche qui a incrinare l'assoluta sovranità dei valori nazionali. Tuttavia, la superiorità economica e tecnologica che gli Stati Uniti vantano nel mondo occidentale resta così grande da renderne tuttora indiscussa e indiscutibile l'egemonia, e da costringere gli alleati a subire anche la prova, ch'essi hanno dato nel Vietnam, di non essere in grado di far fronte ai propri impegni internazionali. Sembra dunque delinearsi il singolare fenomeno di un paese capace di esercitare funzioni egemoniche su scala mondiale grazie a una élite politico-intellettuale ristretta ma di straordinaria efficienza e dotata di eccezionali risorse tecniche e militari, mentre il resto del paese è investito da una crisi culturale e psicologico-sociale di enormi dimensioni, che rende problematico discernere che cosa sia rimasto dell'antica ideologia di missione nazionale e democratica nel quadro presente della unstable America.
g) I valori nazionali nell'Unione Sovietica e nei paesi dell'Europa orientale
Panorama profondamente diverso, quello che si offre a est della cortina di ferro. Qui la grande vittoria ottenuta nella sanguinosissima guerra contro il formidabile avversario tedesco ha stimolato e consolidato una coscienza nazionale russa che l'ideologia tende a estendere a coscienza nazionale sovietica. In realtà, le tensioni sociali ereditate dalla Rivoluzione, e in particolare dall'ancora recente collettivizzazione della terra, avevano avviato durante il conflitto estesi fenomeni di collaborazione con i Tedeschi, che avevano anche assunto coloriture nazionali tra i popoli non russi dell'Unione: ma il carattere di lotta di stirpi impresso da Hitler alla guerra aveva impedito agli invasori una seria utilizzazione politica di questi movimenti, e le brutalità degli occupanti avevano contribuito a cementare intorno all'Armata rossa le forze di tutto il paese. Per alcuni anni, subito dopo la guerra, parve anzi che l'unione di nazionalismo russo e di universalismo comunista tendesse a riportare Mosca più vicina di quanto fosse mai stata alla funzione di una ‛terza Roma' di nuovo conio. E questa coscienza nazionale sembra saldamente sopravvissuta anche dopo la crisi dello stalinismo, che ha avviato un processo di visibile depoliticizzazione della vita collettiva in Unione Sovietica. Ma non è detto neppure in quest'ambito che il nazionalismo operi in funzione ausiliaria del regime: e una parte rilevante del fenomeno del dissenso, quale si esprime nella voce profetica di Solženicyn, si è sviluppata invece in funzione antisovietica, intorno al richiamo nazionale e religioso alla vecchia Russia. Si aggiunga poi la graduale mobilitazione della congerie di nazionalità non russe presenti nei confini dell'Unione, nelle quali la politica staliniana di sviluppo delle particolari tradizioni culturali e linguistiche ha agito come stimolo e sollecitazione a una presa di coscienza anche politica: in Ucraina e nei paesi baltici in modo più evidente, ma anche in non poche delle stesse repubbliche asiatiche. Una spinta in senso nazionale dei più che cento milioni di non-russi compresi nello Stato sovietico porrebbe al regime problemi indomabili. Ma non va trascurato che la forza istituzionale, sociale e ideologica del regime sovietico è ancora grandissima: sì che nell'insieme esso appare tuttora in grado di controllare senza troppe difficoltà le spinte di questo tipo, e di utilizzarne anzi non poche componenti in funzione positiva ai fini della propria compattezza politico-statale.
Duplice e in parte contraddittoria si può dire, analogamente, la funzione dei nazionalismi assai vivi nell'Europa orientale, che costituiscono il tratto forse più importante della fisionomia politica della regione. I ricordi della guerra, l'annessione di territori tedeschi e l'espulsione della popolazione germanica non solo dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia, ma anche, su scala assai minore, dall'Ungheria e dalla Romania, hanno creato un fronte di ostilità antitedesca accuratamente coltivato dai partiti comunisti e dall'Unione Sovietica. Emblematico, a questo proposito, il caso polacco, dove il regime comunista mena vanto di aver restituito al paese le frontiere esistenti al tempo dell'origine dello Stato, nel sec. X: che sono frutto in realtà della sola vittoria sovietica. A sostegno di queste tesi una storiografia ispirata al più chiuso nazionalismo si sforza di far accettare un quadro della storia polacca in cui anche le vicende della Slesia e della Pomerania, per secoli appartenenti allo spazio tedesco, vengono presentate come storia polacca, affiancandosi, in tal modo, alle tesi non meno pretestuose del governo di Varsavia sul piano del diritto internazionale. La Ostpolitik del cancelliere Brandt, accettando lo stato di fatto, ha ancora rafforzato questa tendenza a giustificarlo in qualunque maniera, senza realmente attenuare la diffidenza antitedesca dei regimi comunisti; e la penosa vicenda del costoso ‛riscatto' dei forse 250.000 Tedeschi rimasti in Polonia ne dà un'ulteriore conferma. Nei rapporti fra Germania e Cecoslovacchia, a nessun risultato hanno portato sinora le trattative condotte dai governi di Bonn e di Praga sugli effetti giuridici del trattato di Monaco. Ma le ostilità nazionali sopravvivono largamente anche nei rapporti fra i paesi del blocco orientale. Minoranze ungheresi assai consistenti esistono tuttora in Romania, Slovacchia, Jugoslavia; non sempre facili appaiono i rapporti fra Cechi e Slovacchi; la Jugoslavia comprende nel proprio seno non meno di quindici nazionalità, e le tensioni con la Bulgaria a proposito della Macedonia non sono affatto infrequenti. Il ritorno alle frontiere del 1938 è stato risentito con particolare vivacità in Ungheria, che con la prima guerra mondiale aveva perduto i due terzi del suo territorio storico, e che è stata perciò all'origine delle proposte più significative di ritorno a una qualche collaborazione fra i popoli danubiani. Ma dopo il 1956 il regime comunista ungherese, definitivamente compromesso in senso filosovietico, ha potuto giovarsi assai poco dell'ondata di nazionalismo che in tutti i paesi ha fatto seguito alla fase di livellamento e di russificazione del 1946-1953. Riallacciandosi alle specifiche tradizioni nazionali i governi comunisti hanno infatti cercato di allargare la propria base di consenso all'interno con manifestazioni indipendentistiche di cui gli esempi più noti sono quello jugoslavo e romeno.
Ma di fatto i valori nazionali hanno agito essenzialmente quale principio unificatore dell'opposizione antisovietica. Le gravi difficoltà economiche, in parte attribuite alla subordinazione dei sistemi economici nazionali agli interessi sovietici, le brutali violazioni dei diritti umani, la nostalgia di tradizioni sconvolte dalla rivoluzione sociale imposta per gran parte dalle baionette sovietiche, hanno suscitato tensioni manifestatesi in una serie di esplosioni sanguinose, da Berlino (giugno 1953) a Poznań (giugno 1956), Budapest (ottobre-novembre 1956), Praga (primavera 1968), Danzica, Gdynia, Stettino (dicembre 1970). Sempre repressi facilmente dalle schiaccianti forze sovietiche o dalle forze di sicurezza comuniste locali, moti di questo genere testimoniano la sopravvivenza e anzi la ripresa, nell'Europa orientale, di sentimenti patriottico-nazionali di tipo ottocentesco ormai ignoti in Occidente: anche in paesi come la Polonia, che pur devono tanto alla protezione sovietica. Le tensioni nazionali sono state anzi così forti da indurre l'Unione Sovietica a sensibili concessioni, almeno in materia economica, ai paesi satelliti, al fine di consolidare i regimi comunisti locali: com'è apparso con evidenza in Ungheria, dove le condizioni materiali sono sensibilmente migliorate dopo la fallita rivolta del 1956. È innegabile, insomma, che i regimi comunisti, specie dopo il 1956, abbiano fatto sforzi sensibili per recuperare l'eredità nazionale-borghese ottocentesca, facendo, a tal fine, grosse concessioni anche alle chiese locali e specialmente a quella cattolica che, dopo la fiera resistenza dei primi anni, sembra avviata dovunque alla convivenza con i nuovi regimi, specialmente vistosa in Polonia e in Ungheria: ma non v'è dubbio che la ripresa nazionalistica in Europa orientale svolga prevalentemente una funzione anticomunista e antisovietica.
3. Nazioni e nazionalità nel mondo contemporaneo
La dottrina delle nazionalità - quando non si risolve, come pure è accaduto, in una triviale negazione delle realtà nazionali, raffigurate come artificiose falsificazioni - ha da tempo messo in rilievo la varietà di elementi che di volta in volta hanno avuto una funzione determinante (quasi mai esclusiva) nella nascita di quelle aggregazioni dotate della coscienza di una propria specifica individualità, nettamente delimitata verso l'esterno, che la tradizione culturale europea chiama nazioni. A seconda delle circostanze lo Stato, gli interessi economici, un comune retaggio linguistico o una tradizione culturale comune, almeno a livello dei ceti intellettuali e dirigenti, più di rado la religione, hanno svolto una funzione unificatrice delle minori collettività locali nei più vasti nessi nazionali. All'interno di questa varietà di origini è possibile tracciare distinzioni importanti: fra le ‛nazioni' prerivoluzionarie, identificabili con gruppi aristocratici e di élite, titolari di determinati diritti e autonomie, e per ciò stesso costituiti in corpi separati dal resto della popolazione, e le nazioni moderne, postrivoluzionarie, nelle quali la nazionalità è vista, rousseauianamente, come una manifestazione indispensabile a integrare la sovranità popolare, e dunque estesa a tutti i membri della comunità; ovvero fra il concetto più politico di nazione prevalente nell'Europa occidentale e quello più culturale e linguistico che è proprio dell'Europa centrorientale. Nell'ambito di questo concetto di nazione culturale è anzi opportuna una distinzione ulteriore, fra le nazioni esistite per secoli nella coscienza di una comune eredità culturale diffusa nei ceti dirigenti, come la Germania e l'Italia, e le nazioni maturate sulla base dell'assunzione a livello culturale di dialetti e tradizioni vissute per secoli a livello popolare, come è accaduto in molti paesi slavi nel corso del XIX secolo. Essenziale all'esistenza della realtà nazionale moderna, postrivoluzionaria, sembra però la volontà o l'aspirazione a condurre un'autonoma esistenza politica comune, sia nell'ambito di un proprio Stato nazionale, sia in quello di una più vasta federazione nella quale il singolo Stato nazionale partecipi all'esercizio della sovranità a parità di livello e di diritti con gli altri Stati membri, espressione di diverse nazionalità. L'esperienza ha tuttavia mostrato che anche nelle nazioni postrivoluzionarie la comune partecipazione di tutti i cittadini ai valori nazionali è stata piuttosto un postulato teorico e una meta ideale che non una concreta realtà. Portatori dei valori nazionali, anche dopo il 1789, sono stati, principalmente, i ceti superiori e più colti, capaci di tradurre in attuale volontà politica le premesse culturali e astratte su cui riposa ogni idea di nazione. L'integrazione delle masse nello Stato, lo sforzo, cioè, di fare dei valori nazionali un patrimonio di tutti e di ciascuno, è stato quindi uno dei compiti fondamentali degli Stati nazionali moderni, e ad esso hanno mirato anche i regimi totalitari di massa del Novecento. Questo processo si è in parte identificato con la politicizzazione delle masse che ha caratterizzato tanta parte della storia contemporanea; e ciò spiega anche la funzione che in tal senso hanno avuto, e hanno, nonostante le diverse origini dottrinali e le iniziali contrapposizioni ai nazionalismi borghesi, gli odierni regimi nazionalcomunisti, che nella più parte dei paesi dell'Europa orientale hanno raggiunto questo obiettivo solo in misura assai modesta, ma che hanno invece avuto una funzione di primo piano nella mobilitazione dei popoli extraeuropei da cui è derivata la spinta alla decolonizzazione degli ultimi decenni.
Nei paesi in cui esso è di acquisizione recente, spesso importato dalle stesse culture dominanti contro le quali si è indirizzata la rivolta nazionale (come è accaduto nel sec. XIX anche in molti paesi dell'Europa centrorientale e meridionale), il nazionalismo ha dunque dimostrato di essere ancor oggi una delle grandi forze che determinano la realtà del mondo contemporaneo (v. terzo mondo; v. panarabismo). Movimenti come il sionismo, che solo in questo secolo ha acquisito caratteri propriamente politico-nazionali (v. sionismo), hanno dato la prova che temi di questo tipo possono essere tuttora all'origine di iniziative politiche che non molto differiscono, nella spregiudicatezza dei metodi e nella natura degli obiettivi, dagli schemi tipici dei nazionalismi tradizionali, e hanno provocato drammatiche contrapposizioni con i movimenti di riscossa nazionale del mondo arabo e in genere dei popoli del Terzo Mondo. Ma a questa vivacità dei temi nazionali nei paesi e nelle culture dove essi solo da pochi decenni sono entrati a far parte del patrimonio etico-politico dei gruppi dirigenti si contrappone il netto declino dei valori nazionali nei paesi in cui essi ebbero origine, e dunque, in primo luogo, nell'Europa occidentale. Soprattutto in Italia e in Germania, dove il nazionalismo conobbe le sue forme estreme, il declino dei valori di questo tipo è più netto, e ogni appello che ad essi si richiami cade subito sotto il sospetto di totalitarismo e di fascismo: al punto da condurre, in Germania, a un esempio, forse unico nel mondo, di consapevole rinuncia allo Stato nazionale a suo tempo conquistato, e forse alla creazione di una nuova nazionalità di lingua tedesca nella RDT, attraverso l'azione del regime politico e sociale ivi instaurato all'inizio da forze straniere. Ma anche in Francia e in Inghilterra, dove i rispettivi governi si sono a lungo sforzati di conservare e tuttora conservano taluni vantaggi politico-militari ed economici (visibili, questi ultimi, nei settori della produzione aeronautica e delle tecnologie nucleari ed elettroniche) connessi alla loro posizione di paesi vincitori della seconda guerra mondiale, il processo è nettamente visibile. Anche in questi paesi il richiamo ai valori nazionali si è mostrato più volte inadeguato a mobilitare su scala sufficientemente estesa le energie della collettività, e a contrastare le richieste e le pretese avanzate di fronte ad essa dai particolari interessi e gruppi di pressione economici, sociali e culturali. Finanche gli sparuti movimenti e partiti che nei vari paesi più apertamente si richiamano a matrici nazionaliste (Movimento Sociale in Italia, Partito Nazionaldemocratico in Germania, movimento ‛Occidente' e suoi successori in Francia), fanno oggi leva su richiami alla ‛Nazione Europa' piuttosto che alle diverse nazionalità europee, in tal modo riconoscendo anch'essi l'inadeguatezza dei vecchi quadri nazionali alle dimensioni odierne della vita collettiva.
E in effetti, anche sul piano delle realtà tecniche ed eco- nomiche, le grandi potenze continentali sono le sole che ormai riescano a tenere il passo con gli sviluppi strutturali della produzione moderna. Se, nelle prime fasi della rivoluzione industriale, la tendenza all'unificazione del mercato mondiale si era accompagnata con lo stimolo a formare quei minori ambiti economici che poi divennero gli Stati nazionali, questo stimolo è oggi nettamente perdente in confronto alle grandi spinte verso la mobilitazione e l'utilizzazione coordinata delle risorse su una scala che trascende ogni paese europeo. A questo indebolimento dei nessi nazionali ottocenteschi si è accompagnata la rinascita di taluni movimenti regionalisti e particolaristi che spesso rivendicano le loro origini da nazionalità ‛storiche' preesistenti allo Stato nazionale postrivoluzionario: così in Sicilia, nel Paese Basco, in Fiandra, in Bretagna, in Corsica, in Scozia, nel Galles e nell'Irlanda del Nord, o in movimenti a caratterizzazione culturale e linguistica più che regionale, come sono ad es. le rivendicazioni occitaniche nella Francia meridionale. A eccezione però dell'Irlanda del Nord, dove il movimento nazionalista ha strette relazioni con l'eredità ottocentesca, nessuno di questi movimenti delle subnazionalità (come talora sono state, impropriamente, denominate) ha davvero mobilitato energie rilevanti, e si è piuttosto tradotto in una delle tante rivendicazioni particolaristiche che si affollano nelle collettività democratiche moderne. In tal senso essi concorrono, in misura peraltro modesta, a determinare questo aspetto essenziale della nostra società, e nella stessa direzione si muovono le esigenze di autonomia e partecipazione che hanno condotto anche Stati di antica tradizione centralista come l'Italia e la Francia a profonde modifiche dei propri ordinamenti interni in senso regionale.
Si tratta, insomma, di rivendicazioni che rimangono esse stesse a un livello subpolitico, nella misura in cui non pongono specifici problemi di sovranità dello Stato e di autonomia internazionale. E questo slittamento a un livello sub-politico sembra in realtà comune a tutti gli Stati nei quali si è venuta smarrendo la base nazionale di tipo ottocentesco, e dunque, in primo luogo, agli Stati dell'Europa occidentale. Che non significa totale scomparsa e svuotamento di ogni contenuto nazionale: ma piuttosto una sorta di ritorno a ciò che le nazionalità erano state prima del 1789, realtà culturali e (non sempre) linguistiche, legate a forme specifiche di autonomia locale ma prive di rilevanza politica. Nei paesi europei a ovest della cortina di ferro la vita collettiva si svolge infatti essenzialmente intorno a questioni di buona amministrazione e di sana gestione dell'economia, in vista del raggiungimento di migliori equilibri sociali: restando le grandi questioni della pace, della sicurezza e dell'equilibrio internazionale delegate alle superpotenze che sole possono intervenire seriamente su questo terreno. Ma, come sempre accade, i due settori, della politica estera e interna, restano legati da nessi assai stretti. La divisione dell'Europa in sfere d'influenza esercita di fatto un influsso determinante - anche se in Occidente meno brutalmente dichiarata di come non sia avvenuto in Oriente con la dottrina della ‛sovranità limitata' - anche sui regimi interni esistenti nelle due zone; e d'altra parte la coscienza dei limiti nei quali soltanto alla vita degli Stati minori è concessa una reale autonomia ha riflessi evidenti anche sul tono e sul livello della vita politica e della cultura di questi paesi. È praticamente impossibile, nell'Europa occidentale, che parlamenti e opinione pubblica ammettano di destinare a finalità strettamente politiche - per es. le spese militari - risorse altrimenti utilizzabili a scopi sociali o a consumi privati in misura paragonabile a quella accettata dalle superpotenze. Per di più, la coscienza che le grandi decisioni sono sottratte allo Stato nazionale - anche come soggetto di politica internazionale - induce nella vita politica dei paesi ‛europei un senso diffuso di irresponsabilità che va a tutto vantaggio degli estremismi ideologici e verbali ed è anche all'origine di un netto scadimento nella vita intellettuale e nella cultura. Così come, infatti, la ricerca scientifica negli Stati minori è condannata a una permanente inferiorità dalla mancanza degli apporti, indiretti ma fondamentali, che derivano dalla ricerca militare avanzata promossa dalle grandi potenze, così il pensiero politico e le discipline umanistiche risentono sensibilmente del fatto che i grandi fenomeni della vita e della società moderna possono essere meglio colti e approfonditi solo nei paesi che sono teatro delle loro manifestazioni più avanzate e significative. Quanto ciò sia vero appare evidente, per contrasto, dal grande slancio e dal livello raggiunto dalla cultura americana in relazione al crescere degli Stati Uniti sino alle massime responsabilità mondiali nel secondo dopoguerra. E una testimonianza analoga viene offerta dal livello che il dibattito sulla libertà e il socialismo ha raggiunto nell'ambito del dissenso sovietico. Sembra insomma evidente che, nel quadro dei paesi industriali avanzati, solo le grandi potenze, nelle quali interessi e finalità nazionali ricevono nuovo significato e vigore dall'identificazione con principi e ideologie universali, sono riuscite a elaborare un quadro politico atto a vivere pienamente la realtà del mondo contemporaneo e a reggere saldamente anche alle sue tensioni estreme e più drammatiche: riuscendo nell'Unione Sovietica a controllare saldamente il fenomeno imponente del dissenso e negli Stati Uniti a conservare livelli elevatissimi di efficienza politico-militare anche in presenza di processi di emarginazione culturale e sociale spinti fino agli estremi della disperazione. Nulla di analogo ci si può invece attendere dai vecchi Stati nazionali europei, in larga parte ridotti a fossili privi di vero contenuto morale e politico. La soluzione atta a ridare tono e livello alla vita politica europea - se pure riuscirà mai a emergere - va ricercata in tutt'altra direzione: in direzione, cioè, di quella unità europea alla quale si sono volte tante e sia pur discontinue speranze, e sul cui cammino si ergono tanti e così temibili ostacoli.
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