NAZIONE
. Con la parola "popolo" si designa in filosofia del diritto e nella pubblicistica un elemento materiale costitutivo dello stato, accanto al territorio, materiale pur esso, e al vincolo giuridico, elemento formale. Talora la parola si usa promiscuamente con quella di "nazione" sebbene da un punto di vista scientifico siano da tenere distinte. Ove per popolo s'intende la moltitudine degl'individui componenti lo stato, in quanto collegati dal vincolo giuridico, la nazione si fonda su vincoli non giuridici, prima facie naturali, quindi morali, assai più profondi, che occorre analizzare.
Eppure, nonostante la sostanziale differenza delle nozioni, la contaminazione è antica. Durante la rivoluzione francese con il termine "nazione" si designò la riunione di tutti i ceti dello stato, con l'altro "popolo" la classe inferiore. L'art. 3 della Déclaration des droits, che precede la costituzione del 1791, pone il principio d'ogni sovranità essenzialmente "dans la nation". Solo più tardi prescindendo da ogni distinzione di ceti, si parlò di popolo senz'altro e di sovranità del popolo come base della costituzione (carte del 1793, a. III, VIII, 1852). Rispetto allo stato la totalità dei cittadini costituisce il popolo, mentre la nazione è un aggruppamento naturale, che prescinde dai presupposti giusnaturalistici d'uguaglianza o politici di democrazia o giuridici di sovranità popolare, e si pone nell'umanità come unità prima naturale quindi etica.
Tuttavia il chiarimento del concetto di "nazione" non è facile. Nel suo primo aspetto la nazione si presenta come una società che si fonda su presupposti naturali. Consanguineità, comune discendenza, sede comune, lingua, religione, costumi si appalesano suoi elementi, ma, sebbene in maggiore o minore misura cooperino a darle vita, da soli criticamente non reggono. L'unità d'origine, la consanguineità (natio quia nata) non si possono tenere fermi, se commistioni di gruppi sempre sono avvenute in antico e se le moderne nazioni sono il risultato d'un processo associativo che i vinti Romani ha unito ai barbari vincitori. Né l'unità della lingua appare decisiva, poiché le profonde differenze dialettali e talora linguistiche non impedíscono a una società di sentirsi unità nazionale (Svizzera, Belgio); e neppure la religione, che, anche se genera contrasti profondi, non ha la forza di spezzare il vincolo nazionale (Germania).
L'elemento geografico ha certo grande importanza. Perché una nazione si svolga e sia, è necessario un saldo fondamento territoriale, una patria. Un popolo nomade mai assurgerà a nazione. L'unità geografica non sempre corrisponde all'unità nazionale, per quanto ne faciliti la nascita; ma, in ogni caso, non basta da sola a generarla.
Sul territorio, per quanto senza riferimento all'unità geografica, si basa il dualismo da alcuni teorizzato (Kirchhoff, Neumann, Meinecke) tra nazioni culturali e nazioni territoriali, cioè nazioni in prevalenza fondate su un patrimonio culturale acquisito con comune sforzo e nazioni che invece si basano sulla virtù unificatrice d'una storia politica e di una legislazione comune. Si accenna al caso della nazione territoriale svizzera nel cui ambito vivono uomini di nazioni culturali diverse. Ma la distinzione, se approfondita, sembra svanire, perché nella nazione territoriale il presupposto è un sentimento d'unità politica non diverso nell'efficacia accomunativa dal sentimento culturale. Il che vuol dire che gli elementi costitutivi della nazione sono affatto spirituali.
Si è detto che ciò che costituisce la nazione, generandone l'unità, è la coscienza nazionale, vale a dire il senso stesso dell'unità spirituale, ricordo di passata comunanza di vita, credenza e fede in un comune destino. In essa si risolvono gli altri elementi: per es., la lingua, che è forse uno dei fattori di quell'unità, perché mediazione di vita sociale, che facilita i rapporti collettivi, anzi li promuove, che lega le espressioni più alte dell'arte e della letteratura dalle generazioni passate alle venture, che sublima il genio nella continuità d'una tradizione che il gruppo miticamente sente e custodisce come il più alto patrimonio ideale; per es., ancora, la religione, ove nel conflitto con altre nazioni questa sia alcunché di proprio e la società nazionale si senta protetta da un Dio della patria.
Ma ad una più profonda analisi, anche il sentimento nazionale appare evanescente, perché non pervenuto ancora alla concreta forma dello spirito che solo come volontà è creatore del mondo pratico. Possiamo dire che la nazione è veramente tale, quando il sentimento genera la volontà, quando i dispersi elementi sopra indicati ricevono la forma del volere. Nazione è dunque volontà di nazione, unità che da implicita (naturale) si rende esplicita (spirituale), e vuole attuarsi. Il principio di nazionalità in questo senso è tendenza immanente del gruppo nazionale, in quanto coscienza che esso acquista di sé e quindi volontà di realizzazione unitaria in sede politica. Quel principio, non inteso giusnaturalisticamente, come astratto diritto alla nazione, stabilita dalla natura, aspettante di costituirsi in stato, come fu inteso nell'Ottocento dalla scuola italiana di diritto internazionale e da altri autori stranieri, è pienamente vero invece ove lo si apprezzi nel processo spirituale che dalla nazione conduce allo stato. Una concreta volontà nazionale non può non concludersi nella pienezza etica dello stato. La nazione non è ma diviene, è spirito nazionale che si fa. Lo stato non inerisce alla nazione per diritto divino o naturale, ma è conquista cui la coscienza nazionale perviene in quanto nel suo processo etico supera la natura.
Durante il Risorgimento P. S. Mancini definì lo stato l'"ordinamento giuridico della nazione". A parte le osservazioni fatte, un aspetto di vero è nella formula, intesa sempre processualmente. La nazione, ove non sia stato, tende a divenirlo. La volontà unitaria che la costituisce, si completa eticamente nello stato, come volontà spiegata di vita comune. Di contro, bisogna pur dire che lo stato in questo senso è potente forza unificatrice di tutte le sottostanti guise di vita sociale che esso risolve in una più profonda vita nazionale. Se la nazione crea lo stato, lo stato crea la nazione. Termini spírituali entrambi operano in senso unitario e quindi tendono a coincidere. Certo in ciò incontrano resistenze profonde; talora l'adeguazione non si verifica, e la lotta di essi dissolve anziché unire. Ma uno stato forte nella coscienza della sua missione politica e culturale, fondato su un centro nazionale sufficientemente omogeneo, incontrando nel suo seno più piccole unità nazionali o alla periferia minoranze allogene, esercita una grande efficacia accumunativa e finisce col dissolverle. Soprattutto in antico, quando la cultura non interessava che mediocremente le masse, l'opera dello stato sulle stirpi diverse è stata energicamente operosa; oggi la nazione in massima è troppo forte perché la si possa disperdere in arbitrarî aggruppamenti politici. La storia dell'Ottocento e quella più recente fino alla guerra mondiale sono dominate dalla sua realtà, più che mai nel presente attiva e certo feconda di trasformazioni avvenire.
Bibl.: G. D. Romagnosi, La scienza delle costituzioni, Torino 1848; id., istituzioni di civile filosofia, Firenze 1839; G. Mazzini, Dell'unità italiana, in Scritti editi ed inediti, III (sulla dottrina del Mazzini, v. G. Gentile, I profeti del Risorgimento, Firenze 1923; 2ª ed., 1928); P. S. Mancini, Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti, 1851, in Diritto internazionale. Prelezioni, Napoli 1879 (v. al riguardo G. Carle, P.S. Mancini e la teoria psicologica del sentimento nazionale, estr. dalle Memorie della R. Acc. dei Lincei, cl. di sc. morali, 4ª, 6ª, Roma 1889, e F. Ruffini, Il principio di nazionalità in G. Mazzini e in P. S. Mancini, Milano 1917); T. Mamiani, Di un nuovo diritto pubblico europeo, 3ª ed., Napoli 1860; L. Taparelli d'Azeglio, Della nazionalità, Genova 1847; V. Gioberti, Della nazionalità italiana, Livorno 1847; già in Il gesuita moderno, V (Documenti), n. 30 (v. al riguardo E. Di Carlo, Una polemica tra V. Gioberti e P. L. Taparelli intorno alla nazionalità, Palermo 1919); G. Pisanelli, Lo stato e la nazionalità, Napoli 1862; F. Cavazzoni Pederzini, Studi sopra le nazioni e sopra l'Italia, Torino 1862; B. Spaventa, Della nazionalità nella filosofia, Napoli 1862; L. Palma, Del principio di nazionalità, Milano 1867. Più recenti: G. Fusinato, Il principio della scuola italiana nel diritto privato internazionale, in Archivio giuridico, XIII (1884); V. Miceli, Stato e nazione nei rapporti fra il diritto costituzionale e il diritto internazionale, Firenze 1890; A. Gemelli, Principio di nazionalità e amor di patria nella dottrina cattolica, 3ª ed., Torino 1918; V. Pareto, Il supposto principio di nazionalità, in Rivista d'Italia, XXI (1918). Per la letteratura straniera ci limitiamo a ricordare: E. Renan, Qu'est-ce qu'une nation?, Parigi 1882; E. Bail, Le principe de nationalité, Parigi 1915; R. Johannet, Le principe des nationalités. Les origines historiques, Parigi 1918; F. Meinecke, Cosmopolitismo e Stato nazionale, trad. it. di A. Oberdorfer, Perugia-Venezia 1930, voll. 2, con ampia bibl. ted.; S. Panunzio, Popolo, Nazione, Stato, Firenze 1933, con ampia bibl.
Storia del principio di nazionalità.
Le nazioni europee, nei loro tratti esteriori essenziali, si rivelano per la prima volta tra il declinare del Medioevo e gl'inizî dell'età moderna (Rinascimento e Riforma) e appunto allora si diffonde in Germania, in Francia, in Italia la parola "nazione" nella sua duplice accezione di comunanza culturale e di comunità politica: con essa, p. es., i Tedeschi esprimevano tanto l'unità di stirpe e di lingua quanto la totalità degli appartenenti all'impero. Ma il principio di nazionalità sorge soltanto quando le nazioni acquistano coscienza piena della loro irriducibile individualità storica, quando riconoscono sé stesse e tutte le altre come personalità morali da rispettare e da fare rispettare e quando pongono questo riconoscimento come cardine dei rapporti internazionali, anzi della vita stessa del genere umano. I padri del principio di nazionalità furono Rousseau e Herder. Rousseau, sostituendo all'individualismo cosmopolita dominante nel Settecento il patriottismo cosmopolita e capovolgendo il motto ubi bene, ibi patria, in quello ubi patria, ibi bene, diede la formula etica all'era delle nazionalità. Herder, riconoscendo che nella storia l'umanità s'incarnava soltanto nelle nazioni e concependo le nazioni come un tutto organico, affermava le nazioni come individualità storiche. Lo sviluppo del principio di nazionalità fu il compenetrarsi sempre più intimo di queste due dottrine, che passarono dalle idee nei fatti durante le guerre contro la rivoluzione francese e l'impero napoleonico. La Francia diede l'esempio d'un grande popolo consapevole di sé, ma per l'energica affermazione di questa consapevolezza dovette spezzare ogni legame col passato e, illudendosi così di essere non la Francia ma l'umanità, cozzò contro l'individualità degli altri popoli, che reagirono vivacemente: in modo ingenuo, irriflesso i popoli o le classi meno civili (Spagnoli, Russi, Tirolesi, contadini italiani e tedeschi), con piena consapevolezza storica invece i popoli (Inghilterra) o le classi colte dei paesi più civilï (Burke, F. Schleger, Müller, Gentz, Cuoco). E fu una riabilitazione degli elementi irrazionali della vita peculiare dei popoli, nella quale s'immortalarono i Tedeschi (lingua, letteratura, costumi, istituzioni). Ma come può costituirsi in un'unità vivente una nazione raccogliendo e fondendo insieme i molteplici elementi che preesistono nella sua natura e nella sua storia? L'unità implica un'energia unificatrice, una capacità presente di possedere e di dominare il passato, senza di che non si dànno che frammenti di vita nazionale, non nazioni. Non bastano gl'indizî di nazionalità, ci vuole la coscienza di nazionalità: questa verità comincia ad affermarsi con Fichte, che deriva da Kant e dall'illuminismo, ma che non riuscì a dominare decisamente lo storicismo reazionario tedesco. La mancata fusione di questi due elementi ritarda l'unificazione tedesca, perché lo storicismo reazionario si arena nella semplice restaurazione dei vecchi principati tedeschi, legati da un debole vincolo federale. Un altro scoglio in cui urtò e arenò il movimento nazionale tedesco furono i rapporti tra Germania ed Europa. Se oggi la Germania è ribelle all'Europa, per lungo tempo fu invece schiava dell'Europa. Gl'intellettuali tedeschi (Heeren) capivano che un fortissimo stato nel centro dell'Europa ne avrebbe violato l'equilibrio e per amore di pace si rassegnavano a una confederazione debole nell'attacco ma forte nella difesa, che garantisse la quiete europea. Per lo stesso scopo Stein chiedeva allo zar Alessandro l'indipendenza d'Italia (1812). La solidarietà europea contro Napoleone assodava questi sentimenti dei Tedeschi. Ma se nei Tedeschi le esigenze nazionali non soffocavano ancora prepotentemente quelle europee, se essi studiando lingue, letterature, storia dei popoli europei lavoravano in grande per tutti, la necessità politica e la simpatia storica non divennero mai in loro simpatia umana. Il tedesco poteva conoscere la vita spirituale delle altre nazioni più profondamente dei dotti di quelle stesse nazioni, ma restava sempre tedesco. Gli Svizzeri, invece, realizzavano con maggiore purezza il tipo del cosmopolita nazionale. Il cosmopolita del Settecento girava tutto il mondo e restava sempre sé stesso, sempre persiano; il cosmopolita dell'Ottocento invece sa essere svizzero in Svizzera, francese in Francia, tedesco in Germania, italiano in Italia. In Sismondi s'incarnò questo tipo; in Madame de Stäl giunse alla più oggettiva consapevolezza la teoria delle nazionalità: anzi ad essa propriamente si attribuisce d'avere prima usato la parola "nationalité" nel suo libro De l'Allemagne (1810). E al Sismondi e alla Staël si deve la diffusione della dottrina in Italia e in Francia.
L'opera degli Svizzeri e dei Tedeschi fu immensa per la formazione delle coscienze nazionali europee, ma fu opera essenzialmente culturale: per fare trionfare in pratica il principio ci volevano diplomatici e rivoluzionarî. Lo zar Alessandro fu il primo ad agitare l'idea della nazionalità. Sognatore russo, educato da uno svizzero (Laharpe) e consigliato da un polacco (Czartoryski), che a sua volta era stato formato da un italiano (Piattoli), non è meraviglia che lo zar Alessandro agl'inizî della sua gigantesca lotta con Napoleone meditasse un nuovo assetto d'Europa su basi nazionali da conciliare però con altre esigenze (frontiere naturali, sbocchi di popoli al mare, ecc.). Dopo l'insurrezione di Spagna, anche la diplomazia inglese appoggiò il movimento della nazionalità e Bentinck ne incarnò con maggiore slancio la tendenza. Ma per opera del Metternich il principio di nazionalità fu messo da parte da Russi e da Inglesi. Battute in breccia dai sovrani europei uniti nella Santa Alleanza, le nazionalità, combattendo contro di essi, si sentirono solidali e si mantenne quindi quell'accordo morale tra Europa e nazioni, che aveva caratterizzato il moto contro Napoleone. Persistette l'accordo tra nazionalità e libertà, perché ambedue perseguitate dalla Santa Alleanza come da Napoleone. Persistette la differenza tra moti nazionali spontanei, ingenui, in cui si ha più istinto di nazionalità espresso da poeti e da storici che coscienza di nazionalità espressa dai filosofi (Polonia, Grecia, Serbia), e movimenti nazionali pienamente consapevoli (Italia e Germania). I primi movimenti sono movimenti veramente popolari, in cui sentimento nazionale e sentimento religioso coincidono, ma in essi manca una classe media, una classe dirigente. Nei moti più evoluti, invece, manca l'adesione delle masse, perché le idee generali della classe colta non sono divenute ancora sentimento nei popoli, ma v'è una classe dirigente in formazione, matura per il governo. Le prime nazionalità che riuscirono a prendere forma di stati furono la Grecia, la Serbia e il Belgio, non perché le potenze riconoscessero il principio, ma perché consideravano la formazione dei piccoli stati come una neutralizzazione degli appetiti dei grandi: concetto che era apparso già nel Settecento, per la questione d'Italia e d'Oriente, nel grande sognatore diplomatico francese D'Argenson. E il moto di simpatia per la guerra d'indipendenza greca, il filellenismo, non era pura simpatia per le nazionalità, ma simpatia romantica (Ancillon e reazionarî tedeschi) per l'aspetto irrazionale, primitivo, barbaro di generosa barbarie del nazionalismo greco o simpatia liberale che prestava al movimento una coscienza che non aveva. Il principio di nazionalità fu imposto all'opinione pubblica europea con meravigliosa nettezza da Mazzini: con lui il principio acquista una volontà potente di realizzarsi, una fede che smuove le montagne. Perduta ogni speranza nei principi italiani e nella Francia missionaria, egli nell'esilio e nell'incontro con emigrati di tutti i popoli, sentì la solidarietà europea delle nazionalità. L'Austria è un colosso ma dai piedi di creta; se tutte le nazionalità si ribellassero contemporaneamente contro di essa, si frantumerebbe e l'Italia non solo si costituirebbe in unità, ma acquisterebbe un primato morale, come iniziatrice del movimento, presso i nuovi stati che sorgerebbero da quelle rovine. Con l'Austria, dovrebbe perire anche la Turchia. Fino allora si era considerata la questione d'Oriente come questione diplomatica europea, ma non nelle sue basi genuine, ossia come questione delle nazionalità. Mentre in Italia il Balbo parla della missione cattolica dell'Austria in Oriente come un fossile del Seicento, Mazzini profetizza la fine dell'impero ottomano e la formazione degli stati balcanici. I tentativi rivoluzionarî e la propaganda morale incessante di Mazzini fecero delle nazionalità il problema centrale d'Europa: l'opinione pubblica inglese e francese vi si appassionò e presso i nemici stessi la sua figura morale s'impose: per il Metternich e per lo zar Nicola egli era il simbolo dello spirito rivoluzionario europeo. Ma per altre vie si andava affermando il movimento nazionale: esso, sotto vesti moderate, s'insinuava e cresceva nella grande lotta che il Palmerston aveva ingaggiato contro il Metternich, proseguendo la guerra che la diplomazia inglese a sbalzi e a scatti daí tempi del Canning faceva alla Santa Alleanza. Il 1848 segnò la rivincita di Mazzini e fu il grande anno delle guerre per le nazionalità: sembrò per un istante che l'impero austriaco dovesse crollare: ribelle l'Ungheria, ribelli i paesi slavi, ribelli gl'Italiani, ma Schwarzenberg e lo zar Nicola salvarono l'impero con energia selvaggia. In Germania, la dieta di Francoforte rivelò un nuovo spirito tedesco assai diverso da quello nobilissimo della guerra di liberazione del 1813. Il principio di nazionalità fu nettamente ripudiato, la causa dell'impero austriaco fu ritenuta causa tedesca, all'Italia fu posto il veto d'invadere il Trentino e contro le velleità di costruire la Polonia, si risvegliava l'istinto dí conservazione e di potenza dello stato prussiano. "Come può - scriveva il Bismarck - un Tedesco per sentimentalità lacrimosa e per amore di teorie inattuabili fare questo sogno stravagante di creare proprio nelle vicinanze della sua patria un nemico irrequieto che si sforzerà sempre di trasformare in guerra le sue agitazioni febbrili interne e che ci piomberà sulla schiena ad ogni complicazione che avremo all'ovest? Considero quindi la nostra attuale politica in Posnania come il più lamentevole donchisciottismo che uno stato abbia intrapreso per la sua rovina". Lo stato si affermava in Germania al disopra della nazione: era la rivincita di Federico il Grande contro i sogni mistici e universalistici dei suoi successori. Alla causa delle nazionalità si mantenne invece fedele l'Italia. Uscito illeso per il principio dell'equilibrio europeo dall'impari lotta con l'impero austriaco, il piccolo Piemonte ebbe l'audacia e la forza morale non solo di conservare in un'Europa reazionaria le sue ancora fresche libertà, ma di porsi come vindice della nazionalità italiana e di fare bandire da una cattedra universitaria di Torino da un emigrato napoletano, P.S. Mancini, il principio di nazionalità come cardine del diritto internazionale (1851). L'Austria e i Borboni di Napoli protestarono, ma il Piemonte era intoccabile: se no, Palmerston sarebbe insorto. Ma se l'Italia aveva tale coraggio da proclamare in quell'epoca il principio di nazionalità, non aveva la forza materiale per farlo trionfare di fatto come diritto internazionale. Quest'ultimo passo fu compiuto grazie all'aiuto di Napoleone III. Pretendente ancora al trono aveva scritto: "J'aimerais mieux une mauvaise politique que point de politique, il y a des folies politiques qui sont de glorieuses folies". E, imperatore, compì la gloriosa follia. La guerra d'Italia del 1859 fu compiuta in nome del principio di nazionalità e la prassi dei plebisciti, con la quale si consacrarono le annessioni dell'Italia centrale e meridionale alla monarchia sabauda e di Nizza e Savoia alla Francia, fu introdotta da Napoleone III nel diritto internazionale europeo. Vittorioso in Italia, il principio di nazionalità subì una grave disfatta in Polonia. Bismarck obbligò l'Inghilterra (1862) a ritirare la nota che aveva spedita ad Alessandro II, in cui lo zar era dichiarato decaduto dai suoi diritti sulla Polonia per non avere mantenuto i suoi impegni del 1815 e di nessuna efficacia furono le proteste di Napoleone III e i generosi slanci garibaldini d'Italia (1862). Si compì invece l'unità germanica, ma per vie spirituali diverse da quelle delle altre nazioni, con una moralizzazione tipica della potenza (Droysen, Treitschke, Syhel) e con brillanti vittorie militari in pratica. Il compimento dell'unità germanica con la questione dell'Alsazia produsse l'ultima grande polemica sulle nazionalità: nei Tedeschi prese corpo la teoria storicista irrazionale inconscia delle nazioni; nei Francesi si superò finalmente l'astratto giusnaturalismo dei plebisciti e si toccò la più alta vetta della spiritualità storicista dell'Ottocento. Nella conferenza Qu'est-ce qu'une nation? (1882), Renan sosteneva che il consenso che costituisce la coscienza nazionale non si può puntualizzare in un atto istantaneo e isolato, suggerito spesso da torbide passioni o imposto da forze esterne, ma è un "plebiscito di tutti i giorni", formula che fonde felicemente in unità storia e coscienza morale d'una nazione. Il trionfo dell'unità germanica non segnò però la fine del movimento per le nazionalità; in due modi Bismarck fu costretto indirettamente a riconoscerle. Solo la forza può limitare la forza: Bismarck sprezza le piccole nazionalità, ma deve riconoscere sul terreno diplomatico le grandi potenze, che riempite di vita nuova, non sono che le grandi nazioni (sistema delle grandi potenze, che aveva trovato in Ranke la sua coscienza storica). Bismarck diplomatico è costretto a preferire, per l'equilibrio, la formazione di nazionalità come la Bulgaria allo sterminato ingrandimento di stati come la Russia. Questo meraviglioso senso d'equilibrio di Bismarck, sia pure nascosto sotto forme brutali, assicurò la pace all'Europa, ma Bismarck perì vittima del compito più drammatico che possa addossarsi un uomo di stato: soffrendo la sua stessa passione, vivendo del suo stesso ideale, dare il senso del limite a un popolo assetato d'infinito. La guerra contro l'imperialismo tedesco diede occasione all'ultima lotta delle nazionalità, nella quale però le due parti contendenti si disputarono in concorrenza il principio.
La guerra mondiale è stato il più completo trionfo del principio di nazionalità: gl'imperi plurinazionali come la Russia, l'Austria, la Turchia si sono sfasciati, gli stati nazionali hanno subito con una forza morale grandiosa le più dure prove, stato e nazione coincidono ormi in tutta Europa e perfino la Russia bolscevica è divenuta molto più Russia di quello che non fosse sotto gli zar. Nel diritto internazionale la coraggiosa utopia di Mazzini e di Mancini è diventata un dogma e i giuristi si travagliano per assicurare con la protezione delle minoranze in modo completo, esauriente, matematico, il principio di nazionalità. Ma ideale realizzato, dicevano i vecchi romantici, ideale ammazzato: per chi non si contenti dei fatti e scruti la passione e gl'ideali in formazione la nazionalità non è più un punto d'arrivo, ma un punto di partenza. Violato sostanzialmente da tutti l'organismo giuridico internazionale che doveva assicurare per l'eternità l'assetto del mondo dopo la guerra mondiale, si formano nuovi ideali (imperi, federazione d'Europa, Federation of the World) e tutti hanno per meta uno stato terminale di felicità. Il principio di nazionalità era limitato nell'Ottocento soltanto all'Europa: non solo i Tedeschi, gl'Inglesi e i Francesi, ma anche gl'Italiani, i più puri sostenitori del principio, compiono questa limitazione: Mazzini divide i paesi extraeuropei in sfere d'influenze delle nazioni europee e prova come Herder verso gli Asiatici un'avversione morale: chiamare uno stato Cina è per lui il massimo segno di sprezzo (Austria, Cina d'Europa): i popoli extraeuropei, salvo gli Americani, sono per lui popoli privi di storia di progresso, d'attività e quindi privi di forza morale. Di fronte al rivelarsi delle nazionalità extra-europee, la maggior parte degli Europei d'oggi si sente più europea che nazionalitaria integrale. Ma sia che si serri logicamente il concetto di Europa, sia che si slarghi quello di nazionalità, il concetto europeo di nazionalità così come fu sentito nell'Ottocento tende a subire una crisi profonda.
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