Neurofilosofia
Gli sviluppi conoscitivi delle basi neurobiologiche della percezione, dell'attenzione, della memoria, dell'apprendimento, del linguaggio, del sonno e della pianificazione delle azioni prefigurano per le scienze cognitive e le neuroscienze la possibilità di spiegare a livello di attività cerebrale anche la coscienza e la qualità delle esperienze soggettive. Che cosa ne sarà delle definizioni e dei concetti psicologici una volta che le relative funzioni saranno state ricondotte alle proprietà di specifiche reti di neuroni o meccanismi neurobiologici? Si tratta di una questione non banale, perché implica un giudizio di validità per quanto riguarda gli studi psicologici e di realtà in merito ai fenomeni descritti dalla psicologia. Nell'ambito delle neuroscienze l'atteggiamento epistemologico prevalente è il materialismo eliminativo, per cui concetti quali credenza, libero arbitrio e coscienza potranno e dovranno essere ridefiniti e spiegati via via che la ricerca empirica farà luce sulla natura delle funzioni cerebrali. L'approccio riduzionista basato sull'eliminazione sostiene che la spiegazione di un macrofenomeno nei termini delle sue dinamiche a livello microstrutturale non significa che il macrofenomeno stesso, come per esempio il dolore, non sia reale, né che rappresenti qualcosa di ridondante che non vale la pena di spiegare scientificamente. La strategia riduzionista implica non una spiegazione diretta dei fenomeni che accadono ai livelli superiori in termini di fenomeni che interessano i livelli organizzativi inferiori, ma progressive spiegazioni riduttive che comunque prevedono che la ricerca proceda simultaneamente a tutti i livelli.
Il materialismo eliminativo implica sul piano metodologico un approccio naturalistico, in quanto assume che nessun metodo a priori possa da solo far scoprire la natura della mente, e che sia possibile spiegare in termini di attività nervosa, di evoluzione del cervello e di interazione tra cervello e cultura anche scelte e responsabilità morali. Tale teoria accetta una nozione non mistica di emergenza, intesa come proprietà di una rete nervosa dovuta alle proprietà intrinseche dei neuroni e al loro modo di interagire.
Una proprietà emergente è una proprietà scientificamente spiegabile, non una proprietà non fisica non spiegabile dalla scienza. I sistemi nervosi presentano molti livelli di organizzazione, i quali spaziano dalla scala molecolare a quella di complessi funzionali non cellulari, come le spine dendritiche, ai neuroni, alle piccole e grandi reti, alle aree, fino ai sistemi. Sebbene si debba sempre stabilire in modo empirico quali siano i livelli funzionalmente significativi, risulta improbabile che i macroeffetti dovuti all'attività di un apparato funzionale, come per esempio la percezione del movimento, possano essere spiegati richiamando direttamente le proprietà dei livelli di organizzazione più elementari. Più verosimilmente, le prestazioni dei network di livello più elevato saranno l'effetto dell'attività dei network più piccoli, i quali a loro volta saranno l'effetto dei neuroni che vi partecipano e delle loro interconnessioni, che a loro volta dipenderanno per le loro attività dalle proprietà dei canali proteici, da quelle dei neuromodulatori e dei neurotrasmettitori (fig. 1).
Nella storia delle idee, la prima divergenza sul tema che affrontiamo è quella tra materialismo e dualismo, divergenza che già la filosofia greca aveva reso evidente. Secondo Democrito, i fenomeni mentali che si producono all'interno della testa sono soltanto esempi della complessa attività che caratterizza gli atomi in movimento nello spazio. Per Platone, invece, il sé pensante è un'entità non fisica ma sovrasensibile, con un'esistenza indipendente dalla sua incarnazione transeunte nella materia.
Nel XVII sec., questo stesso conflitto ha caratterizzato il dibattito tra Thomas Hobbes, sostenitore di quella che può considerarsi una versione rivisitata della posizione democritea, e René Descartes, difensore di una concezione molto simile a quella di Platone. Per Hobbes l'attività cognitiva non è che una forma complessa di computazione, ovvero un'attività di cui è capace anche un sistema puramente fisico. Secondo Descartes, al contrario, la conoscenza è l'attività specifica di un'entità particolare, la res cogitans, la quale è sostanza totalmente distinta dalla materia, o res extensa, il cui ambito specifico di attività è invece lo spazio nella sua estensione. Descartes ha comunque una concezione molto sofisticata della complessa realtà 'meccanica' del cervello e dell'organismo; egli tenta di spiegare i processi sensoriali e motori in termini di attività meccaniche all'interno del sistema nervoso, e arriva a ipotizzare l'esistenza di una base fisica della memoria. Tuttavia, Descartes considera l'autocoscienza e l'esercizio della ragione impossibili per la pura materia, e sostiene che questi fenomeni mentali centrali possono manifestarsi soltanto nella sostanza senza spazio e senza materia, la res cogitans. Egli non riesce però ‒ né ci riusciranno molti altri, dopo di lui ‒ a risolvere l'aporia per cui, pur essendo il sé mentale e quello fisico tanto diversi l'uno dall'altro, i desideri e la ragione causano reazioni fisiologiche.
Tale ordine di problemi ha spinto alcuni pensatori (il primo dei quali fu forse Thomas Huxley, illustre collega di Charles Darwin) a mettere da parte il dualismo cartesiano, o 'della sostanza', a favore di una concezione denominata 'dualismo della proprietà' o 'epifenomenalismo'. Questa scuola di pensiero rinuncia a intendere la mente come una sostanza non fisica, ma rimane legata all'idea che non fisica sia tutta una gamma di stati, eventi e proprietà. Nel loro insieme, tali elementi speciali (per es., le emozioni, i pensieri, le sensazioni) costituiscono una sorta di sfondo della vita mentale di ogni individuo, e sono considerati stati e proprietà non fisiche del cervello che, pur essendo generate dai suoi processi materiali, non producono a loro volta effetti causali su di essi. Gli effetti causali che dalla sfera fisica passano a quella mentale non comportano necessariamente una violazione delle leggi fisiche, cosa che avverrebbe, invece, se gli effetti causali dalla sfera mentale passassero a quella fisica. Di conseguenza, secondo l'ipotesi del dualismo della proprietà, i fenomeni mentali sarebbero del tutto reali, ma ininfluenti dal punto di vista causale. Purtroppo, però, anche questa proposta si scontra con ogni tentativo di spiegare il comportamento umano in termini di stati mentali consapevoli, e perciò è stata anch'essa abbandonata.
Un'ulteriore interpretazione del problema mente-cervello è quella delle teorie materialistiche, secondo le quali all'interno del cervello fisico gli stati e i processi mentali sono assolutamente identici ad alcuni stati e processi fisici. Questa teoria, denominata 'materialismo riduzionistico', non presenta problemi rispetto ai vincoli di natura dinamica che gravano sui sistemi dualisti: poiché gli stati e i processi mentali non sono che un sottoinsieme degli stati e dei processi fisici in genere, infatti, la loro partecipazione all'economia causale del mondo non viola alcuna legge fisica. In questo modo viene ripristinato il ruolo causale degli stati mentali e riaffermata la loro realtà. Per fare un esempio di tale meccanismo, pensiamo al fenomeno del suono. Benché la percezione cosciente del suono, attraverso l'orecchio umano e la sua coclea interna, non dia alcuna indicazione sulla vera natura di questo fenomeno oggettivo, esso corrisponde di fatto a una sequenza di onde di compressione dell'aria che viaggiano nell'atmosfera. Ne percepiamo il grado di compressione in termini di altezza e la lunghezza d'onda in termini di tono. L'esistenza e il carattere del suono sono dunque una conseguenza delle leggi naturali che governano una realtà fisica più ampia, di cui il suono stesso non rappresenta che una declinazione particolare.
Il caso della percezione del suono esemplifica ciò che i filosofi della scienza definiscono 'riduzione interteorica': si tratta dei casi in cui la spiegazione proviene dall'identificazione degli elementi di un insieme originario di fenomeni con gli elementi di un nuovo insieme, elaborato grazie a una teoria più avanzata e innovativa. Alla luce delle risorse esplicative della nuova teoria, fenomeni già noti acquistano d'un tratto un significato nuovo e maggiormente sistematico. La tesi del materialismo riduzionista è che potremo comprendere ulteriormente la sfera dei fenomeni mentali consci mano a mano che lo sviluppo delle neuroscienze ci consentirà di esaminare i processi neurofisiologici a essi connessi. Fino a oggi gli esseri umani hanno potuto avere accesso solo ad alcuni dei propri stati mentali, grazie ai meccanismi innati della consapevolezza di sé e dell'autorappresentazione. Tuttavia, non possediamo alcuna prova del fatto che tali meccanismi possano, di per sé stessi, rivelare la vera natura di quei fenomeni, così come non abbiamo neppure buone ragioni per credere (ricordiamo a questo proposito l'esempio del suono) che essi siano in grado di rivelare granché della realtà più generale.
Al materialismo riduzionista è stata mossa un'importante obiezione filosofica, che si ricollega alla nota teoria denominata 'funzionalismo'. I funzionalisti sostengono che la specificità della neurofisiologia umana non è necessariamente essenziale per produrre i fenomeni mentali. Creature con una struttura biologica diversa potrebbero giungere agli stessi risultati cognitivi con mezzi fisici diversi, e potrebbe farlo perfino un sistema non biologico, fatto per esempio di rame e silicio, se possedesse un'organizzazione interna analoga. In particolare, secondo i funzionalisti, dovremmo riconoscere che ciò che trasforma uno stato fisico in un'esperienza cosciente è l'insieme caratteristico di rapporti causali astratti che esso intrattiene con input sensoriali esterni, con altri stati mentali e con output di comportamento. Per esempio, una caratteristica della sensazione di dolore è quella di essere provocata da tensioni o lesioni che colpiscono l'organismo; a loro volta queste provocano altri stati mentali, come impazienza, sofferenza e desiderio di guarigione; generano inoltre trasalimento, pianto e attenzione alla parte lesa. A costituire l'essenza del dolore è tale profilo 'funzionale' (da cui il termine funzionalismo) e non i dettagli di un possibile substrato fisico destinato, in questa o quella creatura, a dare forma al corrispondente profilo astratto.
Esistono alcuni problemi filosofici che il materialismo non può eludere e che molti ritengono insormontabili per tale approccio. Molti sostengono che certi fenomeni problematici ed estremamente complessi non possono essere eliminati perché sono assolutamente reali. Si obietta inoltre che essi non possono essere affrontati con il metodo riduzionistico perché possiedono caratteri che rimangono inesplicabili in termini fisici. Queste obiezioni vengono generalmente avanzate dai dualisti, e ciò ci porta a prendere nuovamente in esame la prima antitesi, quella che li contrapponeva ai materialisti.
Secondo un approccio psicologico, il comportamento di ogni essere umano esprime ciò che egli desidera e crede, nonché le riflessioni indotte da tali stati interiori. Come potrebbe una teoria materialistica della mente sperare di spiegare questa dimensione fondamentale dell'attività cognitiva? Come possiamo spiegare il carattere significante, comprensivo o rappresentazionale degli stati mentali in termini puramente fisici?
È molto frequente che a questo interrogativo vengano date risposte negative. Il filosofo John R. Searle, per esempio, ha difeso strenuamente le posizioni antiriduzioniste in materia di contenuto semantico, e le sue teorie sono divenute le fondamenta di una delle critiche più note al programma di ricerca classico sull'intelligenza artificiale. Egli ha affermato che le attività puramente combinatorie dei calcolatori convenzionali non saranno mai in grado di rappresentare o produrre il fenomeno del significato, ovvero del contenuto semantico e delle rappresentazioni mentali soggettive.
La risposta riduzionista a tali obiezioni è consistita, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, in un fiorire di ricerche sulle capacità cognitive e le strategie rappresentazionali delle reti neurali artificiali. Questi modelli informatici si propongono di ricreare alcuni dei principali caratteri anatomici e fisiologici dei più importanti sottosistemi cerebrali, come per esempio le vie visive o uditive primarie. L'obiettivo è duplice: in primo luogo, addestrare la rete artificiale mediante una procedura di apprendimento che comporta la presentazione ripetuta di esempi sensoriali appropriati, in modo da ottenere un elevato livello esecutivo per alcune abilità classificatorie o per abilità cognitive a esse connesse; in secondo luogo, esplorare il profilo dell'abilità acquisita e individuare le proprietà strutturali e dinamiche che la rendono possibile.
Un esempio di modello molto efficiente è costituito dalla rete per il riconoscimento dei volti sviluppata da Garrison Cottrell (1991) e illustrata nella fig. 2. Questa rete contiene un primo ampio strato bidimensionale composto da unità simili a cellule. La funzione di tale strato è quella di registrare l'immagine sotto forma di pattern globale di attivazione dell'intera popolazione di cellule. Ogni cellula di input invia un assone, che si dirama verso le ottanta cellule del secondo strato, stabilendo con esse contatti sinaptici. Queste cellule, a loro volta, si connettono a uno strato finale di output, che è costituito soltanto da otto cellule. I livelli di attivazione delle cellule di output dovrebbero indicare, una volta compiuto l'addestramento della rete, le caratteristiche generali dell'immagine presentata allo strato di input. La fig. 3 riproduce alcune immagini del tipo utilizzato per l'addestramento, ovvero sette differenti fotografie di undici individui, maschi e femmine, più un certo numero di immagini non riproducenti volti. Ognuna di esse è stata digitalizzata in un formato pixel, adatto a essere presentato al primo strato di cellule. Lo scopo era quello di addestrare la rete a distinguere, mediante pattern di attivazione appropriati a livello dello strato di output, tre elementi: primo, se l'immagine di input rappresentasse o meno un volto; secondo, se si trattasse di un volto maschile oppure femminile; terzo, l'identità dell'individuo.
Ciò che è interessante osservare è che, anche quando degli undici individui sono state presentate sessantacinque fotografie nuove, che la rete 'vedeva' per la prima volta, essa ha risposto con un livello di precisione del 98%. Ancora più sorprendente è che perfino con immagini di individui totalmente sconosciuti essa abbia discriminato i volti dai non volti con una correttezza del 100%, e conservato un livello di precisione dell'82% nel distinguere i volti maschili da quelli femminili. Evidentemente la rete non si è limitata semplicemente a memorizzare le risposte corrette per ognuna delle cento immagini di addestramento, ma ha appreso nozioni generali relative ai volti, nonché i caratteri obiettivi che ne determinavano somiglianze e differenze. Essa è stata dunque in grado di applicare con successo le capacità di riconoscimento acquisite a nuovi esempi.
Come può una rete tanto semplice riuscire a eseguire compiti di livello così elevato? Cosa le permette di svolgere operazioni la cui complessità comporta un'attività di discriminazione tanto sottile? È difficile rispondere a queste domande quando si tratta della rete neuronale di un essere vivente, ma è facile nel caso di una rete artificiale. Poiché infatti l'intera rete è implementata all'interno di un grande computer convenzionale, siamo in grado di seguire il livello di attivazione temporaneo di ogni sua cellula in ciascuno stadio della sua attività. Possiamo leggere le dimensioni acquisite o il peso di ciascuna connessione sinaptica e perfino seguirne lo sviluppo durante la fase di apprendimento. A differenza di quanto avverrebbe per l'organismo vivente, tutti questi dettagli sono accessibili senza che si debba danneggiare il sistema o interferire con esso, e in tal modo otteniamo un quadro affascinante dell'attività di base di una rete.
All'inizio dell'addestramento, lo strato cellulare intermedio è in grado di assumere una vasta gamma di pattern di attivazione globale in tutta la sua popolazione cellulare, e questi pattern hanno tutti la stessa probabilità di entrare in funzione. Ma con il procedere delle presentazioni, la forza delle decine di migliaia di collegamenti sinaptici lentamente si allontana dai valori casuali iniziali, per avvicinarsi a valori eccitatori oppure marcatamente inibitori. Questo processo modifica gradualmente, nel secondo strato, la distribuzione delle probabilità che aveva caratterizzato la gamma iniziale di possibili modelli di attivazione globale. La rete privilegia un insieme sempre più piccolo di pattern di attivazione, che finirà per corrispondere all'insieme degli undici individui riprodotti nelle immagini di addestramento.
Questi undici pattern sono disposti, l'uno rispetto all'altro, come è illustrato nella fig. 4. A scopo illustrativo, si è cercato di riprodurre lo 'spazio' dei possibili pattern di attivazione di tre sole cellule dello strato intermedio. Ciascuno dei suoi tre assi rappresenta il livello di attivazione di una di esse. Ogni punto di questo 'spazio di attivazione' rappresenta un pattern specifico di attivazione della corrispondente popolazione cellulare. La sperimentazione condotta con la rete ha rivelato che ogni volta che viene presentata allo strato di input un'immagine non corrispondente a un volto, si produce un tipo di attivazione situato presso il punto di origine del grafico mostrato nella fig. 4. Le immagini dei volti, per contro, producono sempre un'attivazione nel volume complementare più grande, distante dall'origine. Questa 'regione dei volti' nello spazio di attivazione è stata suddivisa a sua volta in due sottovolumi, separati da un piano divisorio verticale. I volti femminili presentati allo strato di input producono (quasi) sempre un tipo di attivazione della metà che si trova al di qua del piano divisorio, mentre i volti maschili producono (quasi) sempre un'attivazione al di là. I volti il cui genere risulta ambiguo si collocano esattamente sulla superficie del piano.
Inoltre, ognuno degli undici individui utilizzati per l'addestramento è indicato in questo spazio con un sottovolume piccolo e specifico che fa parte del volume relativo al genere, così che ognuna delle sette immagini specifiche produce, nello strato intermedio, un tipo di attivazione all'interno di tale sottovolume approssimativamente sferico. Gli individui somiglianti producono nello spazio di attivazione punti vicini tra loro, mentre gli individui che non si somigliano producono punti che sono distanti l'uno dall'altro. Nel suo complesso, durante l'addestramento, lo spazio di attivazione dello strato intermedio della rete di riconoscimento dei volti si organizza in un insieme gerarchico di categorie (volti e non volti), sottocategorie (maschi e femmine), e sotto-sottocategorie (Maria, Laura, Silvia, ecc.). Questo spazio di rappresentazione contiene, inoltre, una famiglia di punti prototipo (ovvero il 'centro di gravità' di ogni sottovolume) e, su tutta la sua estensione, un gradiente di somiglianza multidimensionale che varia continuamente. Nel loro insieme, tali caratteristiche ricreano, all'interno di un modello di ispirazione biologica, il profilo cognitivo che noi conosciamo grazie alla nostra struttura concettuale. È difficile resistere alla tentazione di riconoscere, nella struttura concettuale acquisita dalla rete, un sistema di rappresentazione che, tutto sommato, non è poi così distante dal nostro.
Tale tentazione diventa ancora più forte quando si scopre che le reti neurali possiedono un'altra proprietà: spesso le rappresentazioni a livello dello strato intermedio contengono informazioni sull'individuo presentato allo strato di input che vanno oltre le informazioni contenute nell'immagine di input stessa. Il volto della fig. 5A è quello di Maria: si tratta di una delle fotografie originariamente utilizzate per l'addestramento, ma essa è stata modificata da una striscia di grigio che nasconde il 20% dell'immagine. La rete sarà ancora capace di riconoscere Maria correttamente, nonostante l'input sia stato parzialmente nascosto? Essa è effettivamente in grado di farlo. E forse non dovremmo stupircene, perché il restante 80% dell'immagine è ancora sufficientemente chiaro da permettere alla rete di distinguere Maria dalle altre 10 persone che è stata addestrata a riconoscere. Tuttavia c'è qualcosa che non può, in qualche modo, non sorprenderci: il tipo di attivazione prodotto nello strato intermedio dall'immagine parzialmente nascosta è identico a quello prodotto dall'immagine percepita, che è mostrata nella fig.5B. Ciò significa che lo strato intermedio fornisce esattamente la stessa risposta alle due immagini: di fatto, esso non le distingue l'una dall'altra. Ma il punto importante è che il pattern di attivazione corrispondente contiene informazioni che riguardano non soltanto il naso, la bocca e le altre parti visibili del volto di Maria, ma anche i suoi occhi. Il pattern non rappresenta infatti degli occhi qualsiasi, ma proprio gli occhi di Maria. Riguardiamone la fotografia originaria (fig. 3, in alto a sinistra): la somiglianza non è perfetta, ma è comunque accettabile.
Da quanto abbiamo esposto si può concludere che i fenomeni connessi alle nozioni di concetto, rappresentazione e contenuto semantico non sono, contrariamente alle tesi di Searle, necessariamente inaccessibili all'approccio della neurobiologia cognitiva. Al contrario, un'indagine teorica e sperimentale di grande interesse è già in corso, e i successi ottenuti sono tutt'altro che insignificanti.
Il cosiddetto 'problema dei qualia' consiste nel tentativo di spiegare scientificamente i caratteri qualitativi inesprimibili del sentire individuale, cui soltanto noi stessi possiamo accedere. Per usare una terminologia recente, la questione centrale per qualunque spiegazione fisica nasce dall'innegabile esistenza di qualia sensoriali e dal fatto che essi sembrano poter essere conosciuti soltanto da un punto di vista personale e introspettivo.
Le argomentazioni contro il materialismo si basano su quanto segue. Il carattere qualitativo intrinseco (o quale) di una sensazione deve essere nettamente distinto dai numerosi aspetti causali, funzionali e relazionali che lo caratterizzano. Riprendiamo l'esempio del dolore: esso è il risultato di un danno subito dall'organismo e provoca nell'individuo uno stato di infelicità e una reazione di evitamento. L'esigenza filosofica riduzionista è quella di individuare gli stati del cervello che esprimono il medesimo profilo causale e relazionale precedentemente accettato da noi come caratteristico dello stato di dolore. Se nel confronto tra questi stati del cervello che esprimono lo stesso profilo causale si rinvenissero caratteri sistematici, potremmo legittimamente affermare di avere scoperto in che cosa consiste il dolore, ovvero in uno stato cerebrale.
Nel sostenere tale tesi dovremmo confrontarci però con una difficoltà: il quale intrinseco del dolore dovrebbe essere ignorato dall'analisi, come lo sarebbe la conoscenza intima che ogni individuo ha dei qualia del proprio dolore. Si tratta di un problema di difficile risoluzione, perché il dato dell'autocoscienza non si esaurisce nella struttura di rapporti causali o di altra natura entro cui si colloca. Mentre in tutti gli altri ambiti della scienza il problema della natura essenziale dei fenomeni è affrontato in termini riduzionistici, nel caso unico dell'autocoscienza ci troviamo di fronte a un insieme di proprietà intrinseche (il colore legato a un ricordo, il profumo di una rosa e tutti gli altri qualia soggettivi che animano la nostra vita interiore) la cui essenza non può essere colta con argomenti di natura causale, funzionale, strutturale o relazionale. In altre parole, secondo le tesi antiriduzionistiche, i qualia soggettivi delle sensazioni costituiscono un qualcosa di aggiuntivo e di diverso rispetto al ruolo causale e relazionale che le sensazioni stesse svolgono nell'economia biologica e cognitiva individuale. Per quanto le nostre capacità introspettive innate ci consentano di valutare, tali sensazioni correlate al quale, per esempio di un dolore o del colore rosso, non rivelano in alcun modo elementi costitutivi o una struttura relazionale. Possiamo riconoscerle e distinguerle in modo spontaneo, certo e inequivocabile, ma non siamo in grado di dire come o su quali basi. Di conseguenza, i qualia sensoriali appaiono come delle entità intrinsecamente e assolutamente semplici; inoltre, la nostra conoscenza di essi non sembra poter essere più diretta e fondata ed essi non sembrano dunque analizzabili dalle scienze fisiche.
È tuttavia probabile che tali impressioni possiedano in realtà una base fisica, anche se la nostra capacità di esprimerle non ne implica alcuna consapevolezza. È un fatto noto e inevitabile che a livello cosciente ignoriamo i fondamenti di alcune delle nostre discriminazioni, e questi processi non esplicitati possono presentarsi a noi come 'entità semplici' quale che sia la complessità della loro natura. Non sarebbe corretto, quindi, concludere che il riconoscimento dei qualia delle nostre sensazioni rappresenti un livello 'di base', poiché la semplicità che gli attribuiamo potrebbe facilmente riflettere soltanto la nostra prevedibile ignoranza del modo in cui riusciamo a identificarli. È del tutto possibile che essi possiedano una ricca struttura interna che una neuroscienza matura un giorno scoprirà e renderà parte integrante di una ricostruzione complessiva dei fenomeni mentali in termini biologici. Nei manuali di neuroscienze più recenti, infatti, si trovano già teorie sulle basi strutturali e fisiologiche dei qualia del gusto e del colore, e tali teorie sembrano poter rivendicare un elevato livello di veridicità.
Non dobbiamo pensare che ciò vada inteso come una confutazione dello scetticismo antiriduzionistico: a questo stadio iniziale della ricerca è necessario ammettere che i qualia sensoriali potrebbero davvero essere delle entità metafisiche intrinsecamente semplici e indiscutibili, che le scienze fisiche non saranno mai in grado di avvicinare. Tuttavia, a queste argomentazioni è opportuno replicare che non siamo ancora in possesso della conoscenza necessaria a verificare tale ipotesi, che è alla ricerca che spetta determinare le caratteristiche dei qualia e che una teoria degna del massimo rispetto, derivata dalle scienze fisiche, si sta già confrontando approfonditamente con i fenomeni in questione, riportando successi tutt'altro che insignificanti.
Perché e in quale modo riusciamo a essere autocoscienti? In qualunque momento, migliaia di differenti popolazioni neuronali elaborano una vasta gamma di informazioni concernenti le condizioni del nostro corpo e del mondo circostante. Tuttavia, soltanto una piccola percentuale di queste informazioni è sempre presente a livello di coscienza. L'interrogativo cruciale è allora: che cosa distingue tale classe preferenziale di rappresentazioni (coscienti) dalla più vasta classe di rappresentazioni che non affiorano mai alla coscienza? Le conoscenze neuroanatomiche più recenti e la possibilità di analizzare sempre meglio l'attività cerebrale di organismi in stato di veglia hanno suggerito ipotesi interessanti.
L'elaborazione di reti neurali ricorrenti e l'analisi delle loro capacità di riconoscimento di insiemi di pattern costituiscono uno strumento insostituibile. Infatti, i ricercatori hanno rapidamente intuito che per i numerosi insiemi di attività nervose dotate di dimensione temporale, come le tipiche sequenze motorie e i tipici processi causali, una semplice rete feedforward (a programmazione in avanti) è inadeguata: è invece necessario elaborare reti che, oltre alle vie di connessione ascendenti, posseggano anche quelle discendenti o ricorrenti, come mostrato nella fig. 6. Queste connessioni addizionali producono una rete in cui la risposta dello strato intermedio all'input dello strato sensoriale è in parte una funzione del concomitante stato di attivazione o cognitivo del terzo strato, il quale è a sua volta la risultante di input ed elaborazione precedenti. La risposta ricorrente della rete a un determinato stimolo, quindi, non viene fissata soltanto dai caratteri strutturali della rete stessa, come si verifica nella rete feedforward, ma varia invece in funzione del precedente contesto dinamico o cognitivo in cui lo stimolo si è manifestato. Tale risposta dello strato intermedio può anche svilupparsi di continuo nel tempo, mano a mano che le sue cellule ricevono un insieme mutevole di influenze modulatorie dalla soprastante attività cognitiva mediante vie ricorrenti. In un sistema di questo tipo, la risposta dello strato intermedio si manifesta come una sequenza di vettori di attivazione, quindi più come una traiettoria nello spazio di attivazione che non come un punto.
Ciò che rende affascinanti le reti ricorrenti, al di là del fatto che anche il cervello possiede vie assonali discendenti o ricorrenti, è la possibilità di addestrarle, regolando adeguatamente i pesi e le polarità delle connessioni sinaptiche, a rispondere a vari stimoli con traiettorie di attivazione appropriate. Tali sequenze vettoriali sono in grado da un lato di rappresentare sequenze causali di particolare rilievo presenti nell'ambiente percettivo della rete e che essa è stata addestrata a riconoscere. Dall'altro, esse possono fungere da generatori per sequenze motorie ben calibrate che la rete è stata istruita a produrre. Tanto nella sfera percettiva quanto in quella motoria, quindi, le reti ricorrenti si rivelano in grado di gestire insiemi di attività neurali sia temporali che spaziali. In senso più generale, esse possiedono uno straordinario insieme di risorse teoriche che ci permettono di affrontare fenomeni come l'apprendimento, la memoria, la percezione e il controllo motorio.
I sistemi ricorrenti possono venirci in aiuto anche per affrontare il problema della coscienza. Se il nostro scopo è quello di formularne un'ipotesi esplicativa riduzionistica, allora, in questo come in ogni altro procedimento scientifico, dobbiamo cercare di ricostruire i caratteri noti dei fenomeni che intendiamo analizzare avvalendoci delle risorse che la scienza di base mette a nostra disposizione. Quali sono i caratteri della coscienza che emergono come elementi principali per questa ricostruzione? Seppure lontano dall'essere esauriente, l'elenco che segue può essere considerato adeguato alle nostre esigenze: la coscienza comporta una memoria a breve termine; non ha bisogno di input sensoriali simultanei; implica un'attenzione indirizzabile; può interpretare in modi differenti lo stesso input sensoriale; scompare durante il sonno profondo; riappare, seppure in altra forma, durante il sogno; infine, essa fa confluire gli input di differenti modalità sensoriali in un'esperienza unica e omogenea.
Le reti neurali ricorrenti sono dotate di proprietà che, in futuro, potrebbero dimostrarsi utili per lo studio di ciascuno di questi caratteri. Innanzitutto, ogni rete ricorrente rappresenta una forma di memoria a breve termine: le informazioni raccolte nel vettore di attivazione dello strato intermedio vengono elaborate nello strato successivo e quindi rinviate alla propria origine, forse in forma modificata. Tali informazioni possono muoversi più volte lungo questo anello, attenuandosi gradualmente. Nel caso di informazioni importanti, tuttavia, la rete può anche assumere una configurazione capace di conservarle senza attenuazione per molti cicli, ovvero finché il contesto cognitivo lo ritiene utile. Questo sistema fornisce dunque automaticamente una forma di memoria a breve termine con tempo di decadimento variabile.
Una rete ricorrente è altresì in grado di impegnarsi in un'attività cognitiva anche in assenza di una stimolazione in arrivo allo strato di input, perché gli impulsi che viaggiano sulle vie ricorrenti possono essere essi stessi sufficienti a mantenere il sistema in attività. Essa può modulare inoltre, per mezzo di quelle stesse vie, le modalità di reazione agli stimoli dello strato sensoriale e la salienza di taluni aspetti dell'input. Ciò rappresenta un modello grezzo sia della plasticità dell'interpretazione concettuale sia della capacità di attivare l'attenzione percettiva dell'individuo.
Inoltre, può accadere che per qualche tempo in una rete ricorrente vengano disattivate selettivamente le vie ricorrenti e che essa torni temporaneamente a essere una semplice rete feedforward, perdendo o sospendendo tutte e quattro le capacità cognitive appena descritte. Un'analoga forma altamente specializzata di 'pausa' cognitiva potrebbe essere rappresentata proprio dal sonno profondo degli esseri umani. D'altro canto, è possibile che il sogno consista nell'attività spontanea o autoguidata di una rete riccamente ricorrente che si muova ‒ lungo le traiettorie apprese che dominano la sua attività di veglia ‒ come se fosse temporaneamente priva della guida coerente degli input sensoriali provenienti da un mondo esterno stabile e come se fosse disconnessa dagli effettori motori che invece controllerebbe in stato di veglia.
Infine, una rete ricorrente può integrare le informazioni provenienti da modalità sensoriali differenti riconsegnandole, direttamente o indirettamente, a una popolazione cellulare comune e non specifica. I vettori di attivazione di tale popolazione rappresenterebbero dunque in questo caso le informazioni multimodali e potrebbero svolgere un ruolo specifico nella 'unità' della coscienza sensoriale cui abbiamo accennato in precedenza. Antonio R. Damasio ha denominato queste aree cerebrali 'zone di convergenza'.
Per quanto concerne il problema cruciale della coscienza, dunque, si potrebbe supporre che una rappresentazione entri a farne parte qualora il suo vettore di attivazione si trovi presso una particolare popolazione di cellule, all'interno di un adeguato sistema nervoso centrale ricorrente, che unifichi le numerose modalità sensoriali e che controlli il comportamento motorio. Che risponda o meno a verità, l'ipotesi riduzionistica che abbiamo formulato ci fornisce in primo luogo una possibile spiegazione fisica della natura 'intrinseca' dei qualia sensoriali, che altro non sarebbero che vettori di attivazione, e ci permette inoltre di esplorare la possibilità che tali vettori si trasformino in autocoscienza manifestandosi come parte dell'attività di rappresentazione di una rete adeguatamente strutturata. Come si è visto, lo scetticismo antiriduzionistico non poggia su basi solide e non è suffragato da una struttura teorica che funga da sostegno a una tradizione di ricerca che possa dirsi vitale. Sembra dunque auspicabile ignorarlo, per incamminarsi invece lungo la strada indicata dai recenti risultati delle neuroscienze. Se le conclusioni di natura filosofica cui la nostra riflessione ci ha permesso di giungere si dimostreranno fondate, il problema mente-cervello diventerà finalmente un problema scientifico, e come tale dovrà essere necessariamente affrontato.
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