Tommaseo, Niccolò
Niccolò Tommaseo (Sebenico 1802 - Firenze 1874) iniziò i suoi studi a Spalato, in seminario, per proseguirli a Padova, dove si laureò in legge nel 1822 e si dedicò all’approfondimento e al perfezionamento delle conoscenze nell’ambito della letteratura classica e della letteratura italiana fino ai contemporanei. Lì conobbe Antonio Rosmini, allora studente di teologia, figura fondamentale nel suo percorso di uomo, di cattolico liberale, di studioso, col quale strinse una salda amicizia. A conclusione degli studi si spostò fra Spalato, Rovereto, Padova e Venezia per poi stabilirsi a Milano con l’idea di fondare una rivista. Il progetto non si concretò.
Nel primo periodo milanese (1824-1825) l’incontro e l’amicizia con ➔ Alessandro Manzoni, testimoniata nei Colloqui col Manzoni (1855), furono determinanti nella riflessione sulla lingua. Come sottolinea Marini (1998: 900-901),
il «fare più vero e più alto» del coro del Carmagnola lo spinse a leggere le opere manzoniane «con ammirazione uguale all’affetto», legandosi a colui che fin dal primo soggiorno milanese [...] lo aiutò in quell’arte difficile quanto utile del «disimparare». E a Milano, vicino a Manzoni, Tommaseo combatté la sua personale battaglia per il Romanticismo.
Dal 1827 Tommaseo fu a Firenze come collaboratore dell’«Antologia» di Giovan Pietro Vieusseux (cfr. Volpi 2000) e vi rimase fino al 1833, quando la rivista fu chiusa per un suo scritto antiaustriaco. Fece seguito il «volontario esilio» in Francia (1834-1838), prima a Parigi, poi a Nîmes e in Corsica. Rientrò in Italia e partecipò al breve governo della Repubblica Veneziana (1848-49); rifugiatosi a Corfù, si trasferì poi a Torino e diede inizio, con la collaborazione editoriale di Pomba, alla sua maggiore opera lessicografica, realizzata con Bernardo Bellini (e altri collaboratori): il Dizionario della lingua italiana (Torino, 1861-1879; ➔ lessicografia). Nel 1859 tornò a Firenze, dove trascorse, malato e in ristrettezze economiche, gli ultimi anni della sua vita.
Le importanti frequentazioni, durante il primo soggiorno, e i perduranti rapporti con gli intellettuali dell’ambiente fiorentino, fra i quali Raffaello Lambruschini, Giuseppe Montanelli, Silvestro Centofanti e Gino Capponi, amico per il resto della sua vita, sono testimoniati anche dai carteggi (particolarmente importante quello col Capponi). Il periodo fiorentino fu caratterizzato da una costante ricerca di lingua, una lingua «comune» e «viva» da praticare effettivamente in ogni ambito, che Tommaseo attinge dalla letteratura popolare e dalle testimonianze di un parlato toscano degli incolti, depositari, a suo avviso, di un uso non corrotto.
Si menzionano come fonte, oltre alla popolana e sua amante Geppina Cantelli o a Beatrice di Pian degli Ontani, quanti contribuirono, in modo diretto o indiretto, alle raccolte di Tommaseo nei suoi spostamenti, le gite, nella campagna e sulle montagne della Toscana dove, a suo giudizio, «la lingua più s’era mantenuta incorrotta» (Tommaseo 1841-1842: vol 1°, 5). L’uso parlato si coniuga con quello scritto fissato nella tradizione letteraria, divergendo così dall’idea di lingua dei classicisti, dei puristi e dello stesso Manzoni, che aveva orientato il giovane Tommaseo verso la toscanità viva (cfr. Vitale 1978: 429-32).
Nel Perticari confutato da Dante (1825) si ha il nucleo del pensiero linguistico tommaseiano, ma è poi il contatto diretto col parlato toscano a dare corpo al primato dell’uso vivo combinato con la tradizione, delineato pienamente nella Nuova proposta di correzioni e di giunte al dizionario italiano (1841) e già sperimentato ed espresso nella Prefazione della prima esperienza lessicografica: il Dizionario dei Sinonimi (1830), più volte edito e ristampato (cfr. Martinelli 2000; Cartago 2004; Tremonti 2009; a proposito delle convinzioni toscaniste di Tommaseo, anche nella formazione, nelle motivazioni e nel consolidamento, si vedano: Bruni 2003: 22-24; Alfieri 2004).
Il Dizionario dei Sinonimi può fare da punto di riferimento per cogliere le sfumature semantiche di toscanismi usati dal Tommaseo romanziere: per es., ammencito non vale propriamente «grinzoso o avvizzito», ma «dice il passaggio da sodo a mencio» e non si addice necessariamente alla vecchiaia («molte giovani donne di città appajono mencie al pur vederle»); i daddoli, voce chiosata come «fiorentina», sono propri dei bambini, ma «daddolone, daddolona, è l’uomo, la donna». Nel Dizionario si leggono anche valutazioni di opportunità d’uso: continovo «continuo», emblema di toscanità marginale, è registrato perché attinto dall’uso vivo e non come «anticaglia elegante». Tuttavia Tommaseo non manca di aggiungere: «Ma veggo, che meglio sarebbe attenersi al più comune e conforme all’origine; tanto più che in tutti i luoghi continuo sta bene, non in tutti l’altro».
La consonanza dell’uso popolare con quello letterario è l’ossatura del Dizionario della lingua italiana, ma si salda con la volontà di offrire il patrimonio della tradizione, nella sua variegata ricchezza, l’esigenza di indicare un uso vivo, toscano appunto, di segnalare le voci disusate, di aprire ai ➔ modi di dire e ai ➔ proverbi e, pur con parsimonia, ai ➔ neologismi, specialmente di ambito tecnico e scientifico. Al di là del ruolo dei collaboratori e dello stesso editore, l’opera rispecchia pienamente il pensiero di Tommaseo, la cui ideologia, tra l’altro, marca nettamente i lemmi da lui stesso firmati: basti citare la voce nazione, nella cui trattazione s’intesse il rapporto con popolo, o le definizioni di ateo o di comunismo (cfr. Folena 1977; Serianni 1999: 8-11). Nel dizionario confluisce l’esperienza del contatto col popolo, della raccolta dei canti popolari, del commentatore della Commedia, del traduttore, dello scrittore, dell’uomo impegnato civilmente, il cui «obiettivo massimo [...] era di illustrare attraverso il dizionario le idee morali, civili e letterarie» (Folena 1977: 4) da consegnare alla «nazione» (cfr. Bárberi Squarotti 2000).
Anche nel suo uso scrittorio Tommaseo non prescinde dalla lingua della tradizione letteraria, alla quale attribuisce valore civile oltre che culturale, mostrandosi «sincretistico riunitore e mescolatore di purismo e di toscanismo, come dire di atelier e di plein air, per di più registratore acribe del patrimonio lessicale» (Contini 1970: 576).
Personalità complessa e originale, Tommaseo si rivela, anche attraverso i tormenti dell’anima, come uomo e come intellettuale nel Diario intimo (pubblicato postumo), che, nelle annotazioni puntuali sulla vita quotidiana, intessute di pensieri riflessioni opinioni, mostra «corpo, intelletto, cuore, vita, attributi d’una sostanza biografica indistinta (o distinta all’infinito)» (Contini 1971: 21).
Scrittore fecondo e sperimentatore, si accosta a vari generi letterari in una tensione verso l’assenza di genere che «nasce da una sorta di orgia di tutti i generi» (Contini 1971: 6). La funzione educatrice della letteratura è uno dei fili della tessitura della sua opera complessiva: dai saggi storico-politici (come il Dell’Italia, nel quale affronta i mali dell’Europa e dell’Italia e i rimedi) ai racconti storici (Il Duca di Atene, 1837; Il sacco di Lucca, 1838; L’assedio di Tortona, 1844), nei quali è centrale la sua idea di popolo, custode di valori morali e civili, dalla testimonianza di letteratura popolare (i Canti popolari, 1841-42, e le Scintille, 1841, che ne costituiscono di fatto il proemio), ai romanzi psicologici, fra i quali spicca Fede e bellezza (1840) per l’originalità e il grado di sperimentalismo (cfr. Marini 1998; Tellini 2000).
L’importanza di Fede e bellezza, non solo nel complesso degli scritti di Tommaseo ma nella narrativa del suo tempo, è dimostrata dall’attenzione degli studiosi di oggi: cfr. le introduzioni alle edizioni curate da Tellini (Tommaseo 1992), Danelon (Tommaseo 1996), Martinelli (Tommaseo 1999), e inoltre Serianni (1989: 92-96) e Marini (1998). Il romanzo fu accolto male alla sua prima uscita (in particolare da Cattaneo 1846) per l’immoralità ravvisata nell’intreccio fra peccato e redenzione, fra tensioni mistiche e sensualità (Manzoni definì Fede e bellezza «mezzo venerdì santo e mezzo sabato grasso»). I protagonisti Maria e Giovanni, poi sposi, si confidano le esperienze amorose che hanno preceduto il loro incontro. Nel romanzo si narrano gli affetti, i turbamenti, talora in modo morboso, si scandaglia la natura dell’uomo con riferimenti a un’autobiografia dell’anima.
La storia è in parte ambientata in Corsica, terra d’origine di Maria e terra d’esilio del dalmata, che vi trascorse otto mesi «in operosa e vivida malattia, ed in mestissima solitudine ma queta» (Tommaseo 1841-1842: vol. 2°, 6), sufficienti perché la conoscenza indiretta dei contrasti politici e culturali dell’isola si trasformasse in attiva promozione della sua storia (in particolare della figura di Pasquale Paoli), delle tradizioni, della lingua, dei suoi scrittori e poeti. Si stabilisce, tuttavia, un legame profondo, di intima partecipazione che meglio si apprezza, oltre che nel Diario intimo, proprio nell’affidare alla protagonista del romanzo quelle riflessioni che in altra e più articolata forma si rintracciano nella produzione di impegno politico. Sulle posizioni di Tommaseo, soprattutto per quanto riguarda il corso e l’italiano, le tradizioni, il quadro culturale dell’isola, si veda Nesi (2004 e 2006).
Il romanzo costuisce un’esperienza unica nella produzione tommaseiana: lo sperimentalismo si estrinseca nel ricorso a generi diversi (diaristico, epistolare, narrativo) e nella realizzazione linguistica della sua idea di lingua. Ne consegue una certa eterogeneità che sul piano linguistico si traduce nell’accoglimento di elementi aulici, tratti anche dall’uso in poesia, accanto ad altri ricavati dalla viva voce dei parlanti toscani (Martinelli 1983), non privi di localismo o appartenenti al ➔ registro basso. Oltre il lessico, in antitesi col toscano popolare, l’uso dei pronomi soggetto egli, ella, eglino (➔ personali, pronomi) e la presenza del ➔ dittongo dopo una palatale (figliuolo); in accordo col toscano antico, il participio breve (racconto «raccontato», porto «portato»), marginale nell’uso vivo; più estesa, rispetto alla prassi del tempo, l’➔elisione di vocale (de’ Bretoni, ma anche che sare’ io). Alcuni dei fenomeni citati si estendono a tutta la prosa di Tommaseo. Il tessuto sintattico, per quanto non manchino i costrutti latineggianti, si allontana dalla tradizione nel prediligere la coordinazione e le frasi nominali, dando al testo scorrevolezza e ritmo sostenuto.
In Scintille Tommaseo coniuga la letteratura popolare con la tradizione classica, rifondando il canone di una letteratura orientata verso la collettività e incentrandosi sulla formazione culturale delle nazioni mediterranee (Italia, Grecia, Corsica, Dalmazia e mondo illirico). Si tratta di una mistura di prosa e versi (o prosimetro) che accoglie in una cornice versi dell’autore stesso, versi di altri, poesie della tradizione popolare, traduzioni di classici. È redatto in quattro lingue (italiano, latino, francese e greco); in serbo-croato sono scritte le Iskrice (per motivi di censura edite separatamente a Zagabria nel 1844).
L’opera plurilingue e multiculturale, frutto di un pensiero politico maturato nell’esilio, richiama l’attenzione dell’Europa su quei popoli che sono al margine delle grandi potenze, ne promuove la conoscenza storica e culturale, i valori e la dignità per aprire a un dialogo che sia di reciproco arricchimento. «Libro di critica militante» e «unico nella tradizione italiana» (Bruni 2008), fin dalle prime pagine orienta verso la convivenza civile delle nazioni. Scrive infatti Tommaseo:
In questo mi pare consista d’ogni nazione la vera grandezza; conservare modestamente e fermamente l’indole propria, le altre sorelle con rispettoso affetto abbracciare [...]. Giova pertanto, quel che impedire non si può, regolare: e far che i vincoli tra popolo e popolo sieno spirituali il più che ci è dato, e stretti da nobile affetto. Meglio che trapiantare, giova sovente innestare; che per tal modo s’ha il nuovo, e non si abbatte l’antico (Tommaseo 2008: 5 seg.).
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