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Tommaseo, Niccolò

di Roberto Pertici - Enciclopedia machiavelliana (2014)
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Tommaseo, Niccolò

Roberto Pertici

Nacque a Sebenico (od.Šibenik), in Dalmazia, il 9 ottobre 1802, da Girolamo e da Caterina Chevessich. Personalità di primissimo piano nella cultura romantica italiana, fu romanziere, poeta, storico, lessicografo, polemista. Si mostrò anche originale pensatore politico e le sue idee patriottiche lo costrinsero a una vita raminga: nel 1848-49 fu prima ministro dell’Istruzione e Culto del governo provvisorio della Repubblica di Venezia (22 marzo-4 luglio 1848), poi suo ambasciatore a Parigi e, infine, suo difensore sul campo contro gli austriaci. Critico del Regno d’Italia (era repubblicano, federalista e cattolico), visse gli ultimi anni a Firenze, dove morì il 1° maggio 1874.

In seno alla corrente filosofico-politica nella quale è di solito inserito, quella cattolico-liberale, T. è fra coloro che mostrano uno spiccato interesse per l’opera di M., dandone un giudizio articolato e non pregiudizialmente negativo. Così scriveva nel 1842:

Piglio ad esempio un autore del quale fu soverchiamente forse abominato l’animo, e soverchiamente ammirato l’ingegno. Il Machiavelli degli esempi che offriva il suo tempo, e non l’Italia solamente (Luigi XI non era italiano), fece massime; e, come segue a chi da pochi particolari intenda ascendere a’ generali, imputò sovente alla natura umana i vizi degli uomini depravati. Talvolta il Machiavelli non loda ma narra: narrare il male senza biasimo non è cosa lodevole certamente, pure non è consigliarlo. Ma codesta potenza del vedere ne’ fatti la verità generale, foss’anco potenza abusata, è in sé preziosissima: e, pe’ tempi che il Machiavelli ne offriva l’esempio, maravigliosa (Del come leggere autori di storia o di filosofia e leggendo correggere o ampliare le idee loro, in Dell’educazione. Osservazioni e saggi pratici, 1842, p. 382).

Era perciò necessario «le sentenze di lui vere discernere dalle false» (p. 382) e, di un tale approccio, T. intese fornire un esempio, postillando una serie di massime ricavate dai primi capitoli dei Discorsi.

In Dell’Italia libri cinque (pubblicato a Parigi nel 1835, un po’ la summa del suo pensiero politico), T. si richiama (cfr. la ristampa a cura di G. Balsamo Crivelli, 2° vol., 1920, pp. 161-63) a Discorsi III vi per ribadire la sua condanna delle sette e delle cospirazioni e sostenere, invece, la nascita e lo sviluppo di un associazionismo legale all’interno dei vari Stati italiani, che costringa in qualche modo i governi a scegliere fra la tolleranza (che favorirà la diffusione delle nuove idee) e la repressione (che sembrerà allora un’ingiustizia prepotente). Il capitolo dei Discorsi ricordava in due occasioni la condotta, giudicata politicamente disastrosa, del duca di Atene, Gualtieri di Brienne, divenuto signore di Firenze nel 1342: sia quando aveva fatto morire chi gli aveva denunciato la congiura che si stava ordendo contro di lui, «per mostrare di credere di avere la benevolenza de’ cittadini fiorentini», sia quando aveva fatto imprigionare uno dei congiurati, «il che fece subito pigliare l’armi agli altri e tòrgli lo stato».

Alla vicenda, T. si ispirò per il racconto storico Il Duca d’Atene, scritto in poco tempo nel 1836 e pubblicato a Parigi il 20 giugno 1837 presso l’editore Baudry, a cui faceva seguire un’appendice che conteneva le pagine di Giovanni Villani e delle Istorie fiorentine di M. relative ai fatti narrati. Nella seconda edizione (1858), aggiungeva un breve scritto senza titolo (pp. 225-32, poi in Tutti i racconti, a cura di G. Tellini, 1993, pp. 477-84), riguardante i caratteri e gli intenti del suo lavoro e qui veramente il confronto con il capitolo dei Discorsi era serrato, sia nel procedere analitico, sia in molte osservazioni. Ma ben diversa restava la prospettiva di fondo: M. aveva analizzate le congiure in relazione al pericolo che esse rappresentano per i governanti, T. cerca invece di individuare le condizioni in cui una pratica che pure riconosce essere, il più delle volte, inutile e pericolosa, può tuttavia avere successo (si avverte l’esperienza della rivoluzione veneziana del 1848):

Quando [...] l’ingiustizia predominante pesa tanto nella bilancia non degli uomini ma di Dio, che debba di punitrice diventare punita; allora quelli che per anni e per secoli furono intoppi, che erano intoppi un istante prima, diventano agevolezze; il muro opposto si fa scala, l’erta pendio; la rivoluzione è fatta, prima che per la mano degli uomini, negli animi e nelle cose (p. 227).

Il provvidenzialismo storico che percorre queste pagine non deve impedire di individuare gli interrogativi di fondo che T. si pone: perché in certi casi le rivoluzioni scoppiano e hanno successo? Perché i governanti talvolta si comportano pervicacemente in modo da affrettarle? Né a T., lettore attento di Giambattista Vico, sfugge che l’esito dei processi rivoluzionari è spesso assai diverso dai progetti dei promotori:

Queste cose succedono acciocché né l’uomo singolo per autorevole che paia, né i popoli per quanto si tengano grandi arroghino a sé il vanto della rovesciata ingiustizia e delle franchigie instaurate. E acciocché meglio si umiliino, segue che le trame loro stesse in uno o più punti si vengano l’una con l’altra intralciando, e che da quello che umanamente è nodo, si svolga inopinato il divino scioglimento (p. 228).

Bibliografia: Dell’Italia libri cinque, s.l., s.d. (ma Paris 1835), rist. in 2 voll. a cura di G. Balsamo Crivelli, Torino 1920; Del come leggere autori di storia o di filosofia e leggendo correggere o ampliare le idee loro, in Dell’educazione. Osservazioni e saggi pratici, Venezia 1842, pp. 382-85; Il Duca d’Atene. Narrazione di N. Tommaseo, Paris 1837, Milano 18582.

Per gli studi critici si veda: J. Fasano, Tommaseo, Machiavelli e le congiure. Postille ad una rilettura del Duca d’Atene, in Studi per Umberto Carpi. Un saluto da allievi e colleghi pisani, a cura di M. Santagata, A. Stussi, Pisa 1999, pp. 405-21.

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