SALVI, Nicola (Niccolò). – Nacque a Roma il 6 dicembre 1695 da Giuseppe Andrea e da Anna Barbara Fiori «nella parrocchia di S. Biagio della Pagnotta» (Luzi, 1905, p. 161). Un imprecisato «negozio» del nonno Simone a Roma e all’Aquila (p. 162) fa ritenere l’«agiata famiglia romana, forse originaria d’Abruzzo» (Schiavo, 1956, p. 13)
La data di nascita, ritenuta «il 6 agosto 1697» (Luzi, 1905, p. 161; Schiavo, 1956, p. 13; Pascucci, 1991, p. 439), va anticipata di oltre un anno e mezzo. Ettore Luzi (1905, pp. 168 s.) risalì al 1697 detraendo i 53 anni indicati nel febbraio 1751 nel «libro dei defunti della parrocchia di S. Maria in Aquiro» («annorum 53 circiter»; Schiavo, 1956, p. 23), individuando poi il battesimo in S. Lorenzo in Damaso, cui S. Biagio afferiva per tali funzioni, di uno dei vari figli dei coniugi Salvi, con il nome però «di Gaetano Michele e non di Nicola»; la supposizione che si sarebbe imposto quest’ultimo nome (Luzi, 1905, p. 161), acquisita dalla critica, è una forzatura. Del resto, un Gaetano Salvi documentato dal quinto decennio ebbe confermati nel settimo l’«appalto delle Dogane del patrimonio» e «la Tesoreria» della «tassa di macinato» del medesimo (Gazzetta universale, n. 56, 12 luglio 1774, p. 448). Francesco Milizia (1768, p. 415) indicò il 1699, anno in cui nacque Teresa, sorella di Nicola (il 25 marzo; Luzi, 1905, p. 169); riporta «il dicembre [...] 1699» la Breve notizia biografica contenuta nell’anonimo manoscritto (tre versioni: Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat. 8235; Roma, Biblioteca nazionale, fondo Vittorio Emanuele, ms. 580; Londra, British Library, Add. ms. 8503) compilato fra il 1762 e il settembre 1772 per una pubblicazione, la quale non vide la luce, tesa a far chiarezza sulle controverse vicende della fontana di Trevi e sui meriti dell’ideatore, confutando i detrattori; la dedica a Berardo Galiani induce a ipotizzare quale autore Luigi Vanvitelli, morto nel marzo 1773, intimo amico, collaboratore ed estimatore di Salvi, seppure la Breve notizia sia stata attribuita al fratello maggiore di Nicola, Francesco (1694-1764). La plausibile data del 6 dicembre 1695 è riportata da Francesco Gabburri nelle Vite di pittori (Firenze, Biblioteca nazionale, Palatini, E.B.9.5, IV, c. 111r), in una delle postille alla nota biografica dell’architetto, di «gran spirito e di profonda intelligenza», redatta nel 1737, avendolo come probabile fonte diretta: aggiunte dovute a notizie fornite nel 1741 dal fratello minore di Nicola, Carlo (1711-1764), che l’erudito ripagò encomiandone l’«abilità nella pittura», appresa insieme al fratello Francesco presso Pietro Bianchi (ibid., II, c. 72r; ignoti i lavori pittorici dei Salvi e i ritratti di illustri «pastori» dell’Arcadia e altri dipinti chiesti a Petronilla sorella di Nicola, nata nel 1715, da Giovacchino Pizzi, custode dell’accademia fra il 1772 e il 1790; Pericoli, 1960, p. 9).
Sugli interessi di lettere latine, «di filosofia, geometria e delle mattematiche», e di anatomia, prevalse nel giovane Nicola (di carattere chiuso, imbarazzato da balbuzie e «cogitabondo», «di cuor sincero e magnanimo») l’inclinazione «alle belle arti, specialmente all’architettura», «molto stimolato» dal pittore accademico Niccolò Ricciolini e dalla «familiarità ed amicizia» con Antonio Canevari (Breve notizia..., in Architettura nel Settecento..., a cura di E. Kieven, 1991, pp. 174 s.), che «gli fece studiare Vitruvio, e disegnare i migliori monumenti antichi e moderni» ([Milizia], 1768, p. 415). Dopo la metà degli anni Dieci i fratelli Salvi entrarono nell’Accademia dell’Arcadia ([Crescimbeni], 1718; Gli Arcadi..., 1977, pp. 79, 109, 165). Parteciparono a raccolte poetiche: dapprima Eupalte Lampeo (abate Giovanni Angelo; pubblicò poesie dal 1717 e nel 1722 una commedia buffa rappresentata nel teatro del Mascherone; sottocustode nel quarto decennio), quindi Lindreno Issuntino (Nicola, ascritto nel 1717) e Diocle Siruntino (l’abate Francesco Alberto); più tardi si aggiunse Erifile Lampea (Petronilla). Probabilmente nell’Orto Salvi, «vigna» acquistata dal padre nel 1697 ai Prati della Croce di monte Mario fuori porta Angelica, i fratelli ospitarono un’«adunanza», mancando una sede prima della donazione del re Giovanni V di Portogallo, che nel 1725 consentì di fondare quella definitiva al Gianicolo. Nicola presenziò dall’8 luglio 1725 alle discussioni per i lavori del Bosco Parrasio e figurò il 9 ottobre 1725 fra i fondatori nella posa della prima pietra dell’anfiteatro. Coadiuvò l’arcade progettista Canevari (Elbasco Agroterico) e disegnò la prospettiva a volo d’uccello per l’incisione del suo progetto ([Giovardi], 1727, p. 18 e antifrontespizio), subentrandogli il 9 giugno 1727 per la sua chiamata alla corte del Portogallo (rientrato nel 1732, Canevari non riebbe il ruolo).
Curata nel 1727 l’esecuzione del ciborio per l’abbaziale di Montecassino ideato da Canevari, l’ovale battistero per S. Paolo fuori le Mura fu nel 1728 «la prima sua opera» d’architettura che «comparse al publico» (Breve notizia..., in Architettura nel Settecento..., cit., p. 174), pure progettata dal maestro, che già nel 1725 aveva eretto il portico della basilica aiutato forse da Salvi ([Kieven], 1991, p. 68). Lavoro autonomo d’esordio fu nel 1728 la macchina pirotecnica richiesta dal cardinale Marco Cornelio Bentivoglio d’Aragona, incaricato d’affari della corte spagnola, incendiata la sera del 4 luglio in piazza di Spagna. Eretta per i doppi matrimoni fra le corone reali di Spagna e Portogallo, la reggia d’Imeneo, di cui restano due incisioni di Filippo Vasconi, traduceva in un aureo Cinquecento l’enunciato barocco del chiasmo concavo-convesso di S. Agnese in Agone.
Al 1731 datano alcuni impegni tecnico-peritali. Allacciato un durevole sodalizio con Vanvitelli, Salvi collaborò nell’incarico di architetto dell’acquedotto del Vermicino. Perito del tribunale delle Strade, eseguì in luglio un primo intervento dei lavori documentati sino al 1735 su strade consolari, mentre dal 1738 al 1744 svolse ricognizioni della medesima magistratura urbana per vari privati; nel novembre del 1731 l’«architetto civile» fece una perizia per la Confraternita dell’Orazione e Morte (Pascucci, 1991, p. 439).
Al concorso bandito il 19 aprile 1732 per la facciata di S. Giovanni in Laterano, vinto in luglio da Alessandro Galilei, Nicola presentò tre progetti «a due ordini d’architettura», di cui uno parve meritevole del secondo posto «per l’imitatione dell’antico, e correttione del tutto insieme» (Schiavo, 1956, p. 45). Sul finire dell’anno fu tra i pochi invitati alla competizione indetta dai Trinitari per il progetto della chiesa della Trinità degli Spagnoli, vinta da Emanuele Rodriguez dos Santos (Deupi, 2015, p. 110).
Stabilito di ornare il «fontanone» dell’Acqua Vergine sulla facciata dell’ampliato palazzo del duca di Poli, dopo un informale concorso nel 1731 e un secondo in cui fra agosto e settembre del 1732 valutò sedici progetti di vari autori (piacque soprattutto quello di Vanvitelli), Clemente XII con chirografo del 2 ottobre 1732 avviò i lavori su «modello» di Salvi (Fea, 1832, Appendice, n. XII), iniziando con il demolire l’incompiuta mostra della fontana «che vi era con tre bocche» abbozzata al rustico da Gian Lorenzo Bernini (Valesio, 1979, V, p. 528). Frattanto, il 4 gennaio 1733 l’architetto era nominato accademico di merito di S. Luca. Finanziata con aleatori proventi del lotto, causa di varie interruzioni, l’impresa della fontana di Trevi richiese trent’anni. Predisposto un plastico ligneo in scala 1:15 (1733-35; Luzi, 1905, p. 146; Museo di Roma, inv. MR 44073), il maestoso prospetto fu eseguito senza indugi. Fra il 1735 e il 1736 venivano scolpiti in travertino e posti sull’avancorpo in forma d’arco trionfale l’arme papale, le statue delle Stagioni nell’attico, i modelli in stucco dei rilievi, delle sculture sottostanti e del gruppo muovente dal nicchione, citazione adrianea del tempio di Venere e Roma: la figura di Oceano ritta su un’aperta, gigantesca «ostrica intartariata» tirata da due cavalli marini condotti da tritoni. Salvi ingaggiò una travagliata lotta creativa ed esecutiva con la «scogliera» rocaille, determinante per la riuscita dell’opera, ma ancora irrisolta alla fine del decennio (Valesio, 1979, VI, p. 237, 23 giugno 1739). Per la visita di Benedetto XIV del 21 agosto 1743, poco meno di un anno prima dell’inaugurazione, la fontana parve «quasi terminata in tutte le sue parti, e magnificamente eretta» (Chracas, n. 4068, 24 agosto 1743, p. 13). Con gli entusiasmi degli «intendenti del buono e venerando antico gusto» (Pascoli, 1736, p. 477) crebbe la nomea del futuro «più popolare monumento del mondo» (Schiavo, 1956, p. 156), alimentando le invidie professionali e le critiche dei detrattori, culminate in quelle taglienti del più influente intellettuale della corte papale corsiniana, monsignor Giovan Gaetano Bottari (1754, pp. 123-125), a un’opera «esaltata fin sopra le stelle, più assai che se l’avesse fatta il Bonarroti». Amareggiato anche dal contenzioso provocato nel 1740 dalle divergenti idee di Giovan Battista Maini, scultore designato per il gruppo centrale (morto nel 1752, Pietro Bracci tradusse in marmo il modello fra il 1759 e il 1762), aggredito nel fisico dal progredire di un’inesorabile paralisi (nella didascalia alla macilenta figuretta a penna che lo ritrae il 15 agosto 1744, Pier Leone Ghezzi scrive che «sta molto male»; Schiavo, 1956, fig. 1), Salvi non vide il compimento dell’opera, che fu Giuseppe Pannini a curare sino al 1762 con la vistosa variante delle tre crescenti vasche ai piedi di Oceano (biasimato da Vanvitelli per l’imperizia; lettera al fratello, 1° settembre 1753, in Strazzullo, 1976, I, n. 160).
Persino un mordace critico antibarocco quale Milizia (1768, p. 416) fu affascinato dalla fontana, «superba, grandiosa, ricca, e tutta insieme d’una bellezza sorprendente», e ammise «che in Roma non si è fatta in questo secolo opera più magnifica», pur enumerando le scolastiche censure degli «intendenti». Questo «capolavoro leggiadro come una pittura di Watteau [...] risolve tutta la spazialità barocca con la levità di un disegno, e la tenerezza atmosferica di un pastello» (Brandi, 1985, p. 242), che con il mormorio delle acque soffonde nella raccolta piazza l’incanto delle favole augustee, antiche quanto l’acquedotto dell’Aqua Virginis. Non v’è discontinuità fra architettura e crosciante «scogliera». Un vitalismo neoellenistico accorda la ritmica della gerarchica facciata d’ordine colossale con le espressive dissonanze, evocando l’antico principio della simmetria dinamica. Licenze come la trabeazione invasa dai frontespizi delle finestre, la «spregiudicata soluzione dell’attico» (Portoghesi, 1966, p. 431) e le «irregolarità» d’espansione del magma plastico nel traversale declivio della piazza valgono «per adornamento di tutta l’opera», avvertiva l’autore in un’esegetica descrizione del 1740-41 per il cardinale Neri Corsini, accompagnata da disegni (Salvi, 1991, pp. 232-235).
Ancora in un contesto curato da Canevari, la basilica di S. Eustachio, l’allievo era intervenuto nel 1727, firmando disegni esecutivi per la costruzione della crociera con l’abside, attuata fra il 1728 e il 1730 da Giandomenico Navone. Titolare della chiesa dal 1738, il cardinale Neri Corsini commissionò a Salvi l’altare maggiore; nel 1739 furono riposte le spoglie del santo nell’urna trapezoidale di porfido rosso con bronzi dorati (Roma antica e moderna, 1765, I, p. 566). Protettore dei domenicani, lo stesso cardinal nepote doveva aver favorito l’incarico del rifacimento interno della chiesa di S. Maria in Gradi a Viterbo: altro capolavoro eletto a modello dai migliori architetti europei della generazione neoclassica, sin dagli splendidi disegni ([Kieven], 1991, pp. 73-75, nn. 40-41). Iniziati i lavori nel luglio del 1737, compiuti nel 1742, la chiesa fu consacrata nel 1748 (squarciate le volte da un bombardamento nel 1944 e lasciata a rudere, è ora oggetto di restauro).
Non viene meno la retorica barocca nell’esemplare opera protoneoclassica. La dispositio compositiva (enfilade di spazi concatenati) e l’elocutio morfologica classicistica creano una vitruviana gravità non magniloquente, ma introspettiva e metafisica. La esalta l’inedita restaurazione trilitica dei ritmici colonnati avvolgenti l’aula voltata a botte, di un corinzio di sintesi plastica, connesso ai setti murari delle cappelle passanti ma percepito nell’enunciato strutturale. Nucleo ornamentale è il dilatato spazio quadro scantonato su cui levita una volta a padiglione ogivale: alveare berninesco di lacunari esagoni fra sottili arconi festonati e raggianti costoloni innestati a piloni michelangioleschi. Alla sistole spaziale segue la cubica contrazione del presbiterio coperto a botte, che dischiude la luminosa atmosfera dell’assiale coro su rettangolo armonico, attraverso il trabeato diaframma termale recuperato da Palladio nell’analogo presbiterio passante del S. Giorgio Maggiore a Venezia. Segnalando alcune «parts» della chiesa e della fontana di Trevi in una lettera del 1774 a un ex allievo a Roma, William Chambers giudicava Salvi il solo architetto di valore fra i contemporanei italiani (Pinto, 1986, p. 255). Influenzò le «opere di Soufflot e di altri architetti francesi», di Chambers, Robert Adam e John Soane, con chiari riflessi «sul Vanvitelli, Piranesi», Nicola Giansimoni (allievo, come Carlo Murena, e coadiutore di Salvi) e Giuseppe Piermarini, su «Giacomo Quarenghi e sul giovane Valadier» ([Kieven], 1991, pp. 65, 74).
Nel quarto e quinto decennio si susseguirono importanti occasioni professionali. Prima della morte nel 1735 del cardinale Nicola Spinola, membro della congregazione per gli Affari polacchi e già nunzio in Polonia, risale il progetto per il collegio teatino di Leopoli per ruteni e armeni greco-cattolici, realizzato da Gaetano Chiaveri con varianti (1738-45; Kowalczyk, 1996, p. 17). Inoltre Salvi «ebbe commissione, e mandò ad Augusto II re di Polonia un disegno di teatro all’antica, con sale e stanze convenienti non solo per uso di teatro, ma anche per giuoco, musica e ballo» ([Milizia], 1768, pp. 417 s.). Nel 1735 partecipò all’ampliamento del palazzo del Monte di pietà, succedendo quale architetto di esso alla morte di Sebastiano Cipriani nel 1740. Successe ad Antonio Valeri come architetto dei Sacri Palazzi nel 1736, allorché, preso dalla «diletta fabrica» della fontana, considerata «la sua unicogenita», declinò l’invito della corte sabauda a sostituire lo scomparso Filippo Juvarra (Breve notizia..., in Architettura nel Settecento..., cit., p. 175).
Architetto dei Colonna dal 1739, fra gli interventi nei giardini del palazzo di «Monte Cavallo», oltre alla «scalinata» ascendente al «giardino segreto», la sua aggiunta nel 1749 di nuovi granai ai vecchi sui resti del tempio di Serapide fu sensibile al «rispetto delle vestigia» (Spila, in La festa delle arti, 2014, pp. 584, 586). Operando dal 1738 per l’ampliamento della villa del tesoriere papale Mario Bolognetti, Salvi spinse la ricerca creativa a una cinquecentistica sublimazione geometrizzante. L’annessa chiesa della Natività di Maria, consacrata nel settembre del 1741 (demolita nel 1902), definì una pianta di atemporale astrazione, che nell’aula quadrata avvolta da ambulacro impresse il segno escatologico del chrismon.
Su tale purismo geometrico animato da schemi pregnanti offrì una testimonianza il pittore e architetto Giannandrea Lazzarini, canonico di Pesaro, che, soggiornando a Roma fra la metà degli anni Trenta e il 1749, conobbe il «celebre e giudizioso Niccola Salvi, uno dei più grandi architetti che abbia negli ultimi tempi colle belle sue opere chiarito il mondo sul vero gusto dell’architettura». Salvi, riferendosi a un edificio improntato al «genere di ornato [...] che oggi da tutti quanti gli artisti si chiama la centina», «grande stravaganza della moda – esclamò –: quello che dovrebb’essere un muro è un panno; e questo (accennandomi le due ben distese e spianate falde del suo proprio abito), e questo che dovrebb’esser un panno è un muro. [...] I nostri saggi antichi architetti [...] non si servivano giammai di altre figure che quelle, che ai geometri son note, di quadrato, di rettangolo, di cerchio, di ovato e simili: ma il moderno gusto, gittati in un cantone e riga e compasso, si è dato a metter fuori figure di nuovo conio, non mai più viste né nominate, con cento angoli e con cento storcimenti di linee, di cui sarebbe perder il tempo il cercar la ragione» (Opere..., 1806, pp. 221 s.).
Fra il 1742 e il 1743, allorché partecipava alla commissione vaticana per il consolidamento della cupola di S. Pietro progettato da Vanvitelli, Salvi rinnovò in S. Lorenzo in Damaso la cappella di S. Nicola che l’abate commendatario cardinale Tommaso Ruffo aveva avuto in permuta dal marchese Giovan Battista Caucci di Ascoli (Chracas, n. 3840, 10 marzo 1742, pp. 8 s.). Quale accademico di S. Luca, nel 1742 elaborò con Ferdinando Fuga una dettagliata relazione critica al progetto della fabbrica del Palazzo Reale di Madrid di Giovan Battista Sacchetti sottoposto al giudizio dell’istituzione romana, cui seguì nel 1745 una controproposta progettuale per lo scalone, con la partecipazione di Vanvitelli (Sancho, 1991); fra il 1743 e il 1744 fu consultato dalla Fabbrica del duomo di Milano.
Mentre nel 1742 Giovanni Angelo Salvi dirigeva l’architetto messinese Giuseppe Doria in «alcuni lavori» per l’ambasciata romana del Portogallo (Il Settecento e l’Ottocento, 1997, p. 425), Nicola ebbe da Giovanni V l’incarico del progetto della cappella di S. Giovanni per la chiesa di S. Rocco a Lisbona, per il quale, gravemente ammalato, si avvalse di Vanvitelli: opera di eccezionale fasto compiuta a Roma nel 1747 e spedita a destinazione insieme all’altro ordine reale del 1743 di un battistero in porfido per la patriarcale di Lisbona.
Fra gli altri impegni di quegli anni, il progetto del santuario del Divino Amore a Roma fu realizzato dal 1743 in un decennio. Quello chiesto nel giugno del 1745 dalla Confraternita del Gonfalone di Viterbo per il presbiterio della chiesa omonima fu attuato fra il 1746 e il 1747, così come il progetto per l’altare maggiore della chiesa romana di S. Pantaleo (1746-47). Mentre si completava nel 1746 la facciata della cattedrale di Acquapendente, Salvi studiò tre soluzioni per quella della basilica dei Ss. Apostoli, recuperando l’antico principio del colonnato trabeato; l’anno precedente aveva progettato l’ampliamento dell’antistante palazzo Chigi per il duca Baldassarre Odescalchi, eseguito da Vanvitelli. Nel 1748, quando ebbe la nomina ad architetto dell’Acqua Vergine, ricusò l’incarico di progettare il Collegio germanico, così come quello successivo del re di Napoli per la «fabrica dell’ospizio degli Invalidi» e la reggia di Caserta (Breve notizia..., in Architettura nel Settecento..., cit., p. 175; Pascucci, 1991). Il coevo progetto a Russi (Ravenna) per la chiesa di S. Giacomo Apostolo a palazzo Rasponi (1750-74) fu rielaborato da Antonio Torreggiani e da Cosimo Morelli.
L’architetto, virtuoso al Pantheon dal 7 luglio 1745, si trasferì a quell’epoca, celibe, a palazzo Del Cinque a Montecitorio con i fratelli (Luzi, 1905, p. 167). Morì il 9 febbraio 1751 e fu tumulato in S. Maria in Aquiro.
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