CARROZ D'ARBOREA, Nicolò
Nacque in località non nota, nel 1426, da Francesco, signore della baronia di Terranova e da Beatrice de Mur-Cervellon, sorella dell'arcivescovo di Saragozza. Rimasto orfano, visse sotto la tutela di Ludovico de Aragall, governatore del "capo" di Cagliari e Gallura, e di Simone Roig, influente e ricco mercante cagliaritano, ai quali si deve l'acquisto a suo nome, quando aveva sei anni, della baronia della Fava. Nella scala dei valori sociali, la sua famiglia - originata da Giacomo Carroz, fratello di Berengario (I) - occupava il terzo posto, a grande distanza, tanto dalla casa del marchese di Oristano, che occupava il primo, quanto dal ramo consanguineo dei conti di Chirra. Governatori, capitani e viceré susseguitisi di generazione in generazione in questo ramo, vincoli matrimoniali con le case reali d'Aragona e di Castiglia, importanti servizi resi alla Corona gli avevano assicurato prestigio, potenza ed un patrimonio terriero che copriva quasi un terzo della superficie dell'isola. Né cariche né parentele illustri poteva vantare la famiglia del C.; il suo patrimonio raggiungeva a mala pena la metà di quello del ramo maggiore. L'inimicizia tra le due famiglie era antica e assai viva tra il C. e il coetaneo conte di Chirra, Giacomo, già viceré a trentadue anni. Tutto ciò dovette influire sul giovane ambizioso ed indurlo. non appena gli fu possibile, a contrastare le due più ricche casate.
Scarse sono le notizie anteriori alla sua nomina a viceré. Nel 1452 fu costretto dal viceré de Hortaffá a rilasciare alcune terre delle quali si era impossessato indebitamente; lo stesso anno, pare, sposò Brianda de Mur sua cugina. Di certo non aveva ricoperto cariche pubbliche né si era altrimenti distinto. Riesce quindi difficile comprendere le ragioni che possono aver indotto Giovanni II a nominarlo, tra l'agosto 1460 ed il maggio 1461, reggente e qualche anno dopo viceré effettivo, e a mantenerlo in carica, per quasi diciannove anni, sino alla morte. Ma nonostante l'eccezionale durata, nessun provvedimento sociale od economico di qualche interesse nobilita il suo governo, sì che esso rimane caratterizzato unicamente dal conflitto con Leonardo Alagon.
Nel 1470, morto senza eredi diretti Salvatore Cubello marchese di Oristano, il feudo fu rivendicato dal nipote Leonardo Alagon che, in attesa del consenso regio, ne prese possesso. Si oppose il viceré, asserendo che, con la morte del marchese, il feudo era tornato al re e pertanto egli doveva occuparlo. Replicò Leonardo che avrebbe trattato solo col re non col viceré, suo personale nemico. Questi, indispettito, avanzò in armi ma, affrontato nei pressi di Uras, fu sbaragliato da Leonardo che, imbaldanzito, occupò le contrade confinanti, suscitando l'entusiasmo dei Sardi che videro rinnovarsi nelle sue imprese le glorie d'Arborea. Il re, temendo una ripresa delle ribellioni, si dichiarò disposto a riconoscergli il feudo; il che in effetti fece dopo laboriose trattative (1473) sottraendo, anche, Leonardo alla giurisdizione del viceré. Questi, tuttavia, continuò a vessare il marchese e i suoi familiari fino a porre sotto sequestro i loro beni situati nel Cagliaritano e a vietar loro l'accesso al castello di Cagliari. Il marchese insorse. Il viceré si precipitò dal re e lo accusò di incitare i Sardi alla rivolta, di vantarsi di potersi fare re di Sardegna, se volesse, e di aver radunato un esercito che per qualche giorno aveva assediato il castello di Cagliari. Il sovrano iniziò un processo che si concluse con la condanna a morte di Leonardo, figli e fratelli e con la confisca dei loro beni. Truppe furono inviate in Sardegna per dare la caccia ai ribelli. Il 19 maggio 1478, i due eserciti si trovarono di fronte nei pressi di Macomer. I Sardi ebbero dapprima la meglio poi, soverchiati dal numero, furono disastrosamente sconfitti. Leonardo, tre fratelli e due figli, traditi dal comandante della nave con la quale avevano tentato di evitare la cattura, furono consegnati al re e rinchiusi, a vita, nel castello di Játiva (Valenza). Il marchesato di Oristano e la contea del Goceano vennero incorporati alla Corona.
A questo punto, la famiglia del viceré era veramente la prima del regno; l'altra, quella dei conti di Chirra, era stata già abilmente assorbita. Il 2 genn. 1469 infatti il conte Giacomo, investito la settimana prima da un'esplosione, era morto. Nel far testamento aveva nominato erede universale l'unica figlia legittima, la tredicenne e già orfana di madre Violante, e tre tutori: Martino Aymerich, Simone Roig e il viceré. I primi due si ritirarono; rimase il C. e fece da padrone: licenziò i servitori, portò la pupilla nel palazzo viceregio e la isolò dai parenti; tenne le chiavi del castello di San Michele, residenza abituale dei conti; fece fare l'inventario - per il quale fu in seguito accusato di frode per omissione -, tenendo lontani Violante e i parenti; si appropriò dei cavalli e di altri oggetti di pregio; amministrò senza mai interpellare la pupilla o i parenti, eccedendo nei poteri ed usando del ricchissimo patrimonio per continuare la sua lotta con gli Alagon. Nella settimana di Pasqua del 1469 poi annunciò il matrimonio tra Violante e il figlio Dalmazio, che in quel tempo si trovava a Valenza. La voce pubblica lo accusò di essersi approfittato della pupilla. Due anni dopo, agli ultimi di settembre, si celebrò il matrimonio. Gli sposi andarono a vivere nel palazzo viceregio e il C. continuò a tenere l'amministrazione.
Al momento del matrimonio, Dalmazio non aveva ancora vent'anni. Il padre si dava da fare per farne il suo successore nella suprema carica. Per tre volte (1472, 1474, 1476), in occasione dei suoi prolungati viaggi in Spagna, era riuscito a farsi sostituire dal figlio, ottenendo per lui il titolo di luogotenente viceregio. Ma non ebbe fortuna. Dalmazio, di ritorno dalla battaglia di Macomer, si ammalò e nel giro di due mesi - il 22 luglio, forse - morì.
Il padre, convinto che il figlio fosse stato affatturato, iniziò inchieste e persecuzioni. Ma quasi subito anche lui si ammalò e nei primi mesi del 1479 morì, lasciando alla vedova un patrimonio che ormai superava di un quarto quello della contessa di Chirra, vedova del figlio. Fu sepolto nella chiesa cagliaritana, ora distrutta, di S. Francesco fuori Mura.
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