Visconti, Nino
È il giudice Nin gentil, col quale nella valletta dei principi (Pg VIII 46-84) D. ha un affettuoso colloquio, unica ma sicura testimonianza di rapporti di amicizia che in vita lo legarono a lui.
Nato circa il 1265, Nino, che nei documenti ufficiali è menzionato col nome di Ugolino impostogli al battesimo, appartenne a potente famiglia, annoverata, secondo la tradizione, tra le sette grandi casate rimaste in Pisa dal seguito imperiale di Ottone I. Il padre Giovanni, uno dei più turbolenti capi di Parte guelfa nella sua città, aveva sposato una figlia del conte Ugolino della Gherardesca, e morendo nel 1275 trasmise al figlio ancora fanciullo, per diritto ereditario, la signoria del giudicato di Gallura. Alla vita politica il V. partecipò dagli anni giovanili, e il suo nome appare, accanto a quelli del conte Ugolino e dei suoi figli, in documenti concernenti l'alleanza stretta tra Firenze Genova e Lucca per la guerra guelfa contro Arezzo e Pisa. Tenne posizione preminente nella sua città dopo la disfatta della Meloria, ricoprendo la carica di capitano del popolo e costituendo col nonno materno, eletto podestà, un duumvirato, i cui atti salienti furono nel 1286 il Breve Communis Pisani e il Breve Populi Pisani, con i quali i due rettori sancivano il rafforzamento del loro potere personale, ponendo limitazioni all'autonomia delle Arti maggiori. Mancano notizie sui rapporti privati tra i due congiunti; è certo tuttavia che fu il V. colui che accusò preso la Santa Sede l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini dell'eccidio dei Gherardesca, dopo il quale, per il nuovo prevalere della fazione ghibellina, egli aveva dovuto prendere la via dell'esilio. Divenuto l'animatore della lega contro Pisa, rinsaldò i suoi rapporti col comune fiorentino, e fu sicuramente in quegli anni, durante i frequenti soggiorni a Firenze, che D. lo conobbe e gli si fece amico.
La sua attività militare risulta particolarmente rilevante da documenti del 1290; nel 1293, nella fase finale della guerra contro Pisa, lo troviamo poi capitano generale della Taglia di Toscana. Quando nel luglio la città ghibellina, difesa da Guido da Montefeltro, addivenne alla pace, Nino ebbe tuttavia l'amarezza di non poter rimettere piede in Pisa, tanta era l'insicurezza per lui e per la sua Parte; e qualche mese più tardi, nell'autunno, da Lucca indirizzò una lettera risentita ai Fiorentini per raccomandare ancora che i patti fissati dal trattato di pace fossero rispettati e che nelle convenzioni si facesse espressa menzione dei suoi diritti. Deluso però nelle sue aspirazioni, decise di lasciare la Toscana e riparò a Genova, che lo fece suo cittadino. Di lì si trasferì poi nel giudicato di Gallura dove, per ristabilire l'ordine, ebbe anche a contrastare col suo vicario frate Gomita (cfr. If XXII 81-87), che fece impiccare, e continuò la lotta a oltranza contro Pisa, finché la morte lo colse, nel fiore degli anni, nel 1296. In segno di tenace fedeltà alla sua Parte politica volle che il suo cuore fosse portato nella guelfa Lucca e deposto nella chiesa dei frati minori di s. Francesco.
Di nessuna di queste vicende che fecero intensa la breve vita del giudice Nino è fatta menzione nel canto VII del Purgatorio; il V. neppure con un accenno fugace rievoca il proprio passato nelle grandezze e nelle delusioni che lo accompagnarono. Tuttavia nessun altro degli spiriti espianti si sente forse legato alla vita quanto lui; ma gli affetti per i quali egli vive in un'aura di alta e malinconica poesia appartengono a quanto di più intimo è nell'anima dell'uomo, e può essere confidato soltanto al cuore di un amico fraterno.
L'incontro con D. costituisce un episodio in sé ben definito, ma non isolabile dalla compagine del canto. Esso si colloca come un intermezzo tra i due momenti della grande scena che descrive l'attesa, l'apparizione e la cacciata del serpente dalla valletta dei principi. In una situazione diversa, ma con un personaggio che portava pure una partecipazione tanto intensa agli affetti terreni da dimenticare per essi ogni altra cosa, D. aveva dato struttura non dissimile a un episodio tra i più memorabili del poema: l'apparizione di Cavalcante Cavalcanti tra i due tempi del colloquio con Farinata degli Uberti (If X 52-72). Non solo però l'episodio di Nino V. ha più ampio svolgimento, ma si lega più saldamente alla prima parte del canto.
Nella luce incerta che segna la fine del primo giorno del pellegrinaggio dantesco nel Purgatorio, l'abbandono alla malinconia del crepuscolo e la trepidazione per l'attesa del serpente tentatore creano l'atmosfera sentimentale dell'incontro col giudice Nin gentil (Pg VIII 53). Già il riconoscimento e lo scambio dei dolci saluti s'improntano, nella loro naturalezza, a un pacato raccoglimento che, senza smorzare la gioia del ritrovarsi insieme, s'intona al luogo e all'ora, e sembra il presagio della dolente confessione che il giudice farà all'amico poeta. Ben diverso era stato, al principio di quello stesso giorno, l'incontro con Casella (II 76 ss.), e basterebbe osservare il modo nel quale è descritto l'istintivo avvicinarsi dei due amici, riassunto in un verso di essenzialità disadorna (Ver' me si fece, e io ver' lui mi fei, VIII 52), la cui espressività sembra consistere tutta nella scansione in due emistichi d'identica forma sintattica e nel martellante ritmo giambico. Non un segno di grandigia trapela nel contegno del V., ma con l'epiteto gentil D. ha pur sottolineato la nobiltà del suo casato e la dignità regale che si accompagnava alla carica ereditaria di giudice in Sardegna. La gioia dell'incontro non esclude pertanto la riservatezza del contegno, anche da parte del poeta, se questi sente di dover mettere un particolare accento di umiltà nel comunicare il privilegio di trovarsi da vivo in Purgatorio e non venuto attraverso l'Oceano immenso ma per entro i luoghi tristi (v. 58). Il realismo psicologico al quale s'informa l'episodio pretende il moto di meraviglia dell'interlocutore e di Sordello a questa notizia. Ma Nino nel riconoscere come un dono della grazia il viaggio ultraterreno dell'amico, oltre che stupore, rivela un improvviso insorgere di speranze. Dopo che ha invitato Corrado Malaspina a veder che Dio per grazia volse (v. 66), nell'indirizzarsi a D. gli si raccomanda in nome di quella gratitudine che egli deve a Dio per avergli concesso, nella sua imperscrutabile volontà, un così eccezionale favore, essendo immediatamente rampollato il pensiero che anche a lui Dio possa fare la grazia di cui ha soprattutto bisogno. Così trabocca dal cuore la richiesta d'invitare la figlia giovinetta a innalzare preghiere al cielo, là dove a li 'nnocenti si risponde (v. 72). Per quest'ombra dell'Antipurgatorio gli affetti terreni sono così forti da fargli vivere come un dramma il suo stesso atto di fede. Non per caso due volte nelle sue parole torna il pensiero dell'immensa distanza che lo separa dal mondo dei vivi: le lontane acque (v. 57) e le larghe onde (v. 70) sono veramente metafore di un sentimento che non è tanto rimpianto della terra quanto accoramento per la lontananza che può rendere immemori dei trapassati anche le persone più care. Ma il dramma tutto umano di questo spirito si manifesta nel credere che se la moglie lo ha dimenticato, possa ricompensarlo l'amore della figlia. Nel possessivo mia, collocato dopo il nome Giovanna (v. 71) in posizione di rilievo a metà del verso prima della cesura, si sente un affetto esclusivo, quasi disperato per quell'unica figlia, che nel 1300 era una fanciulla di circa nove anni, una povera creatura indifesa e (come il poeta poteva sapere, fino a un certo segno, quando scrisse questi versi) destinata a vita tribolata.
Altre anime dell'Antipurgatorio hanno chiesto a D. di ricordarle perché in terra qualcuno preghi per loro; nessuna ha messo sinora nella supplica una passione intensa come quella del giudice di Gallura, nemmeno Manfredi, nemmeno Pia, nei quali con accento diverso si dà a vedere la rassegnazione al proprio destino. Ma torti e offese patiti dalle altre anime che si sono raccomandate al poeta appartengono al passato. Nino soffre invece di una pena attuale; il torto che gli è fatto brucia come una ferita viva. La sua vedova Beatrice d'Este passò a seconde nozze col figlio primogenito di Matteo Visconti, Galeazzo, proprio nell'anno in cui è collocato il viaggio ultraterreno di Dante. Anzi le nozze furono celebrate il 24 giugno 1300 a Modena, per essere poi festeggiate a Milano con una corte bandita di otto giorni che cominciò il 3 luglio. Può anche essere che D. non conoscesse o non ricordasse la data esatta dando per concluse quelle nozze nell'aprile 1300, al momento dell'immaginato incontro con l'amico. Ma è più probabile che facendo dire a Nino Non credo che la sua madre più m'ami, / poscia che trasmutò le bianche bende (vv. 73-74) non pensasse al matrimonio già celebrato, ma ai patti, stretti fino dal 1299 tra Estensi e Visconti di Milano, in seguito ai quali, se non prima, Beatrice smise gli abiti vedovili. A parte la questione storica, per la poesia importa però che, nel contrapporre sua madre a Giovanna mia, il dramma interiore di Nino resti irrisolto tra i contrastanti moti della condanna e della pietà. Non affermando recisamente che Beatrice sia del tutto immemore dell'amore che l'aveva unita a lui, ma col dire non credo che... più m'ami il V. rivela un disperato tentativo d'illudersi ancora. Come bene notava il Donadoni, egli " vuole accarezzare, nel profondo, una irragionevole speranza, non ardisce accogliere, nella sua luce invereconda, una verità troppo evidente " . D'altra parte, alludendo alle traversie che sarebbero occorse a Beatrice col secondo marito, lo spirito angosciato e gentile cede a un impulso di tenerezza per la donna che arriverà a rimpiangere la condizione vedovile, e vela con una formula vaga la cronaca degli avvilimenti che la preveggenza del futuro gli lascia intuire: certamente tra questi è da inscrivere il bando dei Visconti da Milano nel 1302 per opera dei Torriani, ma forse vi è qui anche un'allusione all'infelicità di un matrimonio dettato da convenienze politiche tra una donna di trentadue anni e un giovane di ventitré, portato per temperamento a dissipazioni e violenze.
Personalità complessa ma di grande coerenza interiore, Nino per il concetto che ha dei doveri della casta cui appartiene non può tuttavia accettare che colei che discendeva da un grande casato ed era stata sua moglie si sia comportata non da ‛ donna ' ma da femmina (cfr. Vn XIX 1). Infamia incancellabile ai suoi occhi è che Beatrice possa essere additata come esempio di quella colpa che una diffusa tradizione medievale attribuiva alla volubilità e alla sensualità femminile. Ben diversa concezione dell'amore e della femminilità egli aveva sentito professare dal poeta e dai suoi sodali proprio negli anni in cui l'aveva conosciuto a Firenze, e ora forse ripensa ai discorsi ormai lontani di D. e dei celebratori dell'amore spirituale per portarvi questa smentita, che suona particolarmente amara sulle labbra di chi può vantare una grandezza gentilizia di cui fa fede il glorioso stemma di famiglia. Nemmeno nel contrapporre alla vipera che Melanesi accampa il gallo di Gallura (vv. 80-81) c'è però un indulgere a sentimenti di orgoglio: le ultime parole di questo spirito rispecchiano con fermezza non disgiunta da malinconia quella coscienza della propria dignità che si è data subito a conoscere nel suo contegno all'incontrare il poeta amico. Tormentato dal pensiero del tradimento fatto al suo amore, Nino non intende sminuire la grandezza dei Visconti milanesi; pensa ancora quale diverso destino sarebbe toccato a lui e alla sua vedova se questa avesse saputo serbarglisi fedele, e dalla contrapposizione dei due stemmi gentilizi, come notava il Donadoni, risulta essenzialmente il loro significato simbolico: " Sulla tomba di una donna, non l'emblema della forza e della frode: troppo meglio starebbe l'emblema della solerzia mattutina e della operosa virtù " . A un'umiliazione che resta velata da parole di così composta dignità D. non può portare il conforto di una risposta; ma la sua partecipazione è ben viva, e sta nel riconoscere sul volto dell'amico l'impronta di un amore che, misto a pietà di sé e della sua donna, è pur sempre temperato dal decoro dell'abito cavalleresco, col quale, anche nella memoria del lettore, resta impressa la figura del giudice gentile.
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