nobilta
La condizione e il fatto di appartenere alla classe dei nobili, di avere le distinzioni, le prerogative, i privilegi che sono (o erano) connessi a tale appartenenza.
Sarebbe di scarsa utilità ricercare l’esistenza di una n. in senso stretto nelle grandi monarchie dell’Asia anteriore o attraverso i millenni della storia dell’Egitto faraonico, o in Grecia, dove il termine aristocrazia, destinato ad assumere un valore spiccatamente etico-culturale con i filosofi, servì in origine a designare precisamente la n. degli eupatridi o «ben nati». La n. che qui interessa definire storicamente è quella che si forma nella civiltà europea: essa non solo trae il nome dalla nobilitas romana, ma anche dal punto di vista concettuale è in rapporto di continuità storica con quest’ultima. A Roma, infatti, con il progressivo livellamento tra patrizi e plebei (secc. 5°-4° a.C.) venne formandosi anche tra i secondi un’aristocrazia plebea che, fusa con gli antichi patrizi, finì per costituire una classe nuova di «ottimati» o «notabili» (nobilitas, da nosco «conosco»). Questa ebbe come origine e criterio di appartenenza l’esercizio di una carica curule da parte di un antenato (chi aspirava a tali cariche senza appartenere alla nobilitas era detto homo novus e, a sua volta, nobilitava i discendenti), tuttavia ebbe una spiccatissima tendenza a costituirsi in classe chiusa, fondata sulla nascita: tanto che prerogativa della nobilitas fu l’adozione di un cognome ereditario. Il netto predominio della nobilitas caratterizza e condiziona lo sviluppo politico di Roma nel periodo che va dalla seconda guerra punica all’età dei Gracchi e oltre. I decenni successivi vedono l’affermazione di homines novi e il costituirsi di forme di potere personale. Soppressa poi, con Augusto, l’eleggibilità di tutti i cittadini, fu determinato giuridicamente il privilegio della n. alle nomine magistratuali e al seggio in Senato con esse congiunto; e, stabilito in un milione di sesterzi il censo minimo per appartenere a questa classe (l’ordo senatorius), l’ereditarietà fu rigorosamente subordinata al mantenimento del censo, mentre i vuoti venivano colmati dall’imperatore mediante inclusioni di reclute tratte dall’ordine equestre, che finì con l’essere quasi totalmente assorbito, da Costantino in poi, nel senatorio. Ma con Costantino si intensifica il processo di dissoluzione dell’antica aristocrazia, perché le alte cariche statali vengono ormai affidate a uomini che l’imperatore sceglie fra persone di sua fiducia, appartenenti al suo seguito, i comites: termine che diventa però anche semplice titolo onorifico. Inoltre, le condizioni dell’impero rendono impossibile conservare la distinzione tra la gerarchia militare e la civile; spesso nelle mani del dux sono posti anche i poteri civili, e nell’Italia bizantina, anche dopo l’invasione longobarda, troviamo, sottoposti all’esarca di Ravenna, i duces, alcuni dei quali si renderanno indipendenti (Napoli), mentre altri ducati sono trasformati in temi, sottoposti a uno stratego, o dux, o anche patricius.
Alla n. romana, così profondamente trasformata tra l’inizio dell’impero e la dominazione bizantina, si aggiunge quella barbarica. I germani conobbero infatti, fin da tempi arcaici, una classe di nobili, adelingi, ecc., che Tacito paragona alla n. romana, e che si distinguono per un guidrigildo più elevato. Ma questa n. si era venuta assottigliando durante le guerre e le invasioni, mentre si era affermata una nuova aristocrazia uscita dal comando militare. In seguito, nei regni barbarici dell’Occidente, accanto a questa aristocrazia si affermarono anche, col rafforzarsi del potere regio, i compagni, i fedeli del re (antrustiones presso i franchi, gasindi presso i longobardi), che, legati a lui dal giuramento, diventavano gli alti ufficiali della corte e dello Stato. Sorse così una n. nuova che traeva origine dagli uffici esercitati e dalla ricchezza, ricompensa dei servigi prestati. Al livello più alto, presso i longobardi – forse per diretto influsso romano-bizantino – troviamo i duchi che corrispondono ai conti del regno franco. Inoltre, sempre per imitazione di usi romani, nei diversi regni, alte funzioni di Stato sono affidate a persone che prestano, almeno di nome e in origine, servigi personali al sovrano: presso i franchi, per es., all’antico comes stabuli («contestabile») corrisponde il maresciallo (marschalk «maniscalco»), quindi il siniscalco e così via: i maggiordomi dei Merovingi diventano la nuova dinastia reale e imperiale dei Carolingi. Sotto questi ultimi, si diffusero nell’aristocrazia, prima franca, poi di tutto l’impero carolingio, i rapporti vassallatici. Il concetto di n. nell’Alto Medioevo appare ancora non ben definito: chi lo fa consistere semplicemente nell’essere ingenuus (non avere antenati servi), chi dal possesso di un allodio, chi dall’aver saputo mantenere un certo grado di libertà di fronte ai crescenti poteri signorili, come avviene nel caso del vassallaggio militare. Qui, già con il sec. 11°, si avverte la formazione, se non ancora di una n. nel senso pieno del termine, almeno di quella che è stata definita (M. Bloch) «nobiltà di fatto», ossia una classe individuata dalla ricchezza, dalla forza delle armi, dal potere (in partic. dal possesso dei diritti signorili, i diritti di banno), oltre che da un genere di vita nobile: ciò che distingue il nobile è il possesso di una costosa armatura completa, offensiva e difensiva, e del cavallo, e la sua funzione specifica è il combattere. Contemporaneamente, andò sempre più ad affermarsi come valore nobilitante quello della discendenza, per cui il nobile era «gentile uomo», cioè ben nato. E a tale proposito, accanto ai dati messi in valore da teorie recenti, giova ricordare (pur tenendo conto della sostanziale differenza tra feudi longobardi e franchi) il ruolo importante giocato dall’ereditarietà del feudo, riconosciuto nel sec. 11° (constitutio de feudis di Corrado II il Salico, 1037), per cui ereditari diventano anche le cariche e gli oneri e i privilegi dei vassalli militari. A partire dal sec. 12°, inoltre, si cristallizzò un codice di vita ben preciso, espressione di quella che si definisce cultura cortese, la quale, resa popolare nell’aristocrazia tramite le Chansons de geste e i romanzi (si pensi a Chrétien de Troyes), condizionò e modellò i comportamenti della medesima aristocrazia militare (i milites o cavalieri), assumendo i caratteri di un vero e proprio codice nobiliare (tornei, feste). A tutto ciò va aggiunta l’azione della Chiesa – fin dai suoi lontani inizi nei concili francesi per la pace di Dio (secc. 10°-11°) – per la cristianizzazione dei costumi dei milites, ai quali, nella società cristiana, viene riservato dalla Chiesa il ruolo teorico di difensori dei deboli, delle donne e del clero e dei combattenti per la fede (crociati). L’incontro dei due elementi (cultura clericale e cultura cortese), unito anche a fattori istituzionali (come l’affermazione definitiva della signoria di banno o di castello), portò in primo piano, tra i secc. 12° e 13° – in Francia più precocemente che altrove – una nuova aristocrazia militare che si presentava ormai come cavalleria, una sorta di corporazione nella quale si entrò con una cerimonia particolare, l’adoubement; di questa cavalleria facevano parte ormai anche re e imperatori. Aperta in origine a tutti, la cavalleria tese sempre più (secc. 12°-13°) a restringersi in una classe chiusa (vi accede soltanto chi è già figlio di cavaliere), anche se la monarchia affermò il diritto di tenerne aperta, o socchiusa, la porta, in certi casi. La chiusura ereditaria della cavalleria giunse al punto che, anche senza aver passato l’adoubement, i figli dei cavalieri godevano (fine del sec. 13°) dei privilegi dei genitori. A questo punto, una simile cavalleria può essere considerata (sempre secondo lo schema proposto da M. Bloch) una vera e propria «n. di diritto». Va tenuto presente, infine, il legame stretto che collega n. e istituzioni feudali, evidente quando si esaminino la gerarchia che viene a introdursi, in condizioni variabili da Paese a Paese, nella n. stessa e i privilegi di questa: distinzioni che corrispondono generalmente a quelle del rapporto feudale (ai vassalli diretti, per es., viene, col tempo, ristretta la designazione di baroni; al titolo di conte corrisponde una così grande varietà di attribuzioni, che una definizione esatta diventa impossibile: i re di Francia lo concedono come onorifico già, al più tardi, dal 1330). Il rapporto feudale implicava anche il diritto di ciascuno a essere giudicato dai propri «pari»; col tempo, in Francia, il titolo di «pari» si restrinse a 12 grandi signori, 6 laici e 6 ecclesiastici; ma, con l’estinzione di almeno tre delle parie laiche primitive, i re ne crearono delle nuove; e la paria rimase pertanto, in Francia, onorifica. Di questi principi feudali nobiliari sono sopravvivenze il diritto dei membri della Camera dei lord in Inghilterra (e di altre «camere alte» negli Stati costituzionali) a essere giudicati dalla camera stessa, come «alta corte di giustizia» ecc.; nonché certi privilegi, quali quello dei «grandi» di Spagna, di stare a capo coperto in presenza del re. In Germania, invece, in virtù del principio che chi era socialmente superiore non potesse ricevere un feudo da un inferiore (Heerschild), la gerarchizzazione non ebbe all’inizio un carattere così strettamente fondato sul rapporto feudale, e solo col sec. 12° il titolo di «primi» (Fürsten, principes) fu riservato ai feudatari diretti del re; allora si venne anche costituendo – dopo il re stesso e i principi ecclesiastici – il terzo ordine, quello degli Elettori, in numero sempre più ristretto. La gerarchizzazione fu quindi spinta al massimo grado: ciò spiega l’ostilità, vivace soprattutto nel sec. 16°, dei nobili minori, i semplici «cavalieri» (Ritter), contro l’imperatore come contro i maggiori signori territoriali. Nel mondo tedesco, con la n. feudale finirono per confondersi anche i Dienstmänner o ministeriales (servi che prestano al signore particolari servigi, sono ricompensati con beneficia e vivono accanto a lui), che furono spesso insigniti dai re di cariche altissime fino a riconoscere loro, nonostante la nascita servile, la qualità di cavalieri: sicché erano al tempo stesso superiori e inferiori del semplice libero; i ministeriales confluirono o nella borghesia cittadina o nella n. vera e propria, benché nell’ultimo rango di essa. In Italia le cose andarono in parte diversamente perché qui alla n. feudale e militare si contrappose, fin dal principio, quella cittadina: sia d’origine feudale, sia, affermandosi già il comune, espressione di ceti mercantili e artigiani. Questa n. composita (i cui membri nel Duecento saranno definiti magnati, e che erano di solito illustrati dalla dignità cavalleresca) era percorsa da forti tensioni interne, legate alle lotte per il potere cittadino e a conflitti esterni (lotte tra guelfi e ghibellini). L’ascesa del popolo, alla fine del sec. 13°, ebbe per effetto la promulgazione di leggi antimagnatizie tese a emarginare i nobili dal governo cittadino; ma l’intreccio delle diverse classi nelle varie fazioni cittadine impedì una vera e propria esclusione dei nobili dalla lotta politica. Vicini ai membri di questa «n. magnatizia» erano i membri di certe professioni, innanzitutto i giudici. Con l’andare del tempo, poi, si affermò la potenza di quelle nuove famiglie che, con lo sviluppo precapitalistico, venivano, per la loro ricchezza e per i servigi resi a sovrani, assunte tra la n. tradizionale (i Fugger, in Germania; ma non si dimentichino, in Italia, gli stessi Medici). Allo stesso modo, le signorie italiane (secc. 14° e 15°) si trasformarono in principati, conseguendo titoli dall’imperatore o dal papa, o da entrambi (Borso d’Este); e i signori a loro volta presero sempre più l’uso d’infeudare terre e concedere titoli a privati. Similmente i re di Spagna concedevano prerogative nobiliari in ricompensa di servigi prestati o da prestare. «Fonte degli onori» era pur sempre il sovrano (e tra questi, il pontefice che concedeva ampiamente titoli non solo ai nipoti, ma anche a famiglie di prelati e dignitari). In Francia, con l’affermarsi deciso dell’assolutismo monarchico, acquistava sempre maggior forza, nel sec. 17°, la n. che derivò dall’esercizio di cariche (noblesse de robe). Le concessioni di titoli nobiliari rappresentavano, fin dal Medioevo, anche un modo, per le monarchie, di fare denaro: e i «compri onori» compensavano il difetto del sangue. L’eccellenza e le virtù conferite dal sangue erano, specie nel Medioevo, considerate reali; ma al tempo stesso, al signore che veramente le possedeva venivano contrapposti coloro «che per essere di famose e antiche generazioni e per esser discesi di padri eccellenti, credono esser nobili, n. non avendo in loro» (Conv. IV, 29); anzi la n. di sangue era cosa di cui era lecito vantarsi, quando le qualità morali che a essa corrispondevano fossero continuamente mantenute vive. Il contrasto tra i due criteri si accentua singolarmente con l’Umanesimo, che apre il dibattito sulla «vera n.», intesa come virtù civica, vita attiva spesa al servizio dello Stato. L’età barocca rivalutò il concetto della n. trasmessa ereditariamente col sangue; alle regole del codice cavalleresco relative al duello (che, nonostante i divieti, resta prerogativa della n.: «solo il gentiluomo si batte») si andarono aggiungendo, richieste da un’etica sociale sempre più esigente, le norme di un comportamento che distingueva nettamente, anche sul piano formale, l’élite nobiliare dai ceti borghese e popolare.
Nel corso del sec. 18°, nell’ambito della cultura illuministica, il contrasto si riapre e si aggrava: soprattutto appaiono assurdi i privilegi (contro cui già i sovrani riformatori hanno cominciato a lottare) che ostacolano il libero svolgimento della produzione e del commercio dei beni e il progresso della legislazione civile. La concezione individualistica e privatistica della proprietà, sviluppata soprattutto dai teorici inglesi del liberalismo, non può ammettere limiti e intralci al libero espandersi delle forze produttive. Così, in Francia, la notte del 4 ag. 1789 l’Assemblea nazionale abolì i privilegi feudali che, nella coscienza dei contemporanei, apparivano indissolubilmente legati alla n.; e nel nome della libertà, fratellanza e uguaglianza dei cittadini vennero aboliti anche i titoli. Ma contemporaneamente furono disciolti le organizzazioni corporative e il compagnonnage, unica forma di resistenza dei ceti artigianali di fronte alla pressione di proprietari e imprenditori. Con Napoleone si assistette a un fenomeno regressivo, poiché i titoli furono ristabiliti per i generali e per gli altissimi dignitari dell’impero, e la n. da lui creata venne poi riconosciuta anche da Luigi XVIII, quando ristabilì l’antica; ma senza pregiudizio dell’uguaglianza di fronte alla legge. E così, mentre negli Stati a Costituzione repubblicana i titoli di n. venivano generalmente aboliti, o almeno non se ne concedevano di nuovi, nelle monarchie si è mantenuto il diritto del sovrano di conferirne.